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Full text of "Storia dei Romani"

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STORIA   DEI  ROMANI 


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GAETANO    DE   SANCTIS 


STORIA  DEI  ROMANI 


LA  CONaUISTA  DEL  PRIMATO  IN  ITALIA 


YOLUME  II 


MILANO    TORINO     E  O  M  A 


FRATELLI     BOCCA     ED 


ITORl    '^°^ 


Depositario  per  la  Sicilia:  QitAzio  Fiorenza  -  I'alkkiio. 
Deposito  per  Napoli  e  Provincia:  Società  Commkkciai.f;  Lihrakia  -  Nai'mm 


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Proprietà  Letteraria 


Torino   -  Vincenzo  Boxa,  tipografo  di  S.  M.    (10263) 


som:m^rio 


Capo  XIII.  —  La  jìlebe  e  i  suoi  tribuni  ......         Pftff-       1 

Effetti  del  declinare  della  monarchia,  1  —  I  debiti  e   il  nexum,  2 

—  La  prima  secessione  della  plebe,  4  —  Altre  secessioni,  5  —  L'agro 
pubblico  e  le  leggi  agrarie,  7  —  Spurio  Cassio,  9  —  Altre  contese 
per  l'agro  pubblico,  13  —  Frumentazioni,  13  —  Spurio  Melio.  14  —  Le 
tribù  rustiche,  17—1  concili  tributi,  21  —  Leggi  sacrate,  28  —  Il  tri- 
bunato della  plebe,  2.5  —  I  tribuni  e  il  patriziato,  31  —  Tradiziona- 
lismo plebeo,  34  —  Gli  edili  della  plebe,  36  —  I  giudici  decemviri,  39. 

Cai'o  XIV.   —   Le  leggende  sui  decemviri  e  il  primo  codice  scritto        .         ,     41 

Storicità  del  decemvirato,  41  —  Rogazione  Terentilia,  42  —  Amba- 
sceria in  Atene,  44  —  Leggenda  di  Verginia,  45  —  Intendimenti  dei 
decemviri,  49  —  Leggi  Valerle  Grazie,  51  —  Leggi  sul  tribunato  della 
plebe,  53  —  Legge  sul  connubio,  55  —  Il  tribunato  militare,  56,  — 
La  censura,  58  —  I  plebei  nel  senato,  61  —  Autenticità  delle  dodici 
tavole,  62  —  La  famiglia  romana,  65  —  Il  diritto  di  proprietà,  69  — 
La  mancipazione,  71  —  Successione  e  testamento,  73  —  Formalismo, 
76  —  Procedura  giudiziaria,  77  —  Diritto  penale,  78  —  Sacertà,  85 

—  Elementi  greci  nelle  dodici  tavole,  87  —  I  decemviri  ed  Ham- 
murabi,  88. 

Capo  XV.  —  La  triplice  alleanza  fra  Roinaiii,  Latini  ed  Ernici  .  „      90 

La  nuova  lega  latina,  90  —  Battaglia  del  Regillo,  94  —  Trattato 
di  Cassio,  96  —  La  lista  delle  città  latine  di  Dionisio,  100  —  Soprav- 
vivenza della  lega  albana,  102  —  Gli  Ernici,  102  —  I  Volsci  e  la  di- 
struzione di  Pomezia,  104  —  Resistenza  degli  alleati,  105  —  Volsci 
Ecetrani  e  Volsci  Anziati,  106  —  Altre  terre  volsche,  108  —  Leggenda 
di  Coriolano,  109  —  Nuove   conquiste  volsche,  114  —  Gli   Equi,  115 

—  Leggenda  di  Cincinnato,  116  —  Gli  Equi  sull'Algido,  119  —  Po- 
stumio  Tuberto  e  la  battaglia  dell'Algido,  121  —  Riscossa  dei  Latini, 
122  -  I  Sabini,  123  —  Prime  guerre  coi  Veì,  125  —  I  Fabì  al  Cre- 
merà, 126  —  Base  topografica  della  leggenda;  Fidene,  128  —  Critica 
della  leggenda,  130  —  Cronologia  della  guerra  etrusca,  135  —  A.  Cor- 


VI  SOjnfAHIO 


nello  Cosso  e  la  distruzione  di  Fidene,  136  —  Assedio  e  caduta  di 
Veì,  140  —  Critica  della  tradizione,  143  —  Dono  ad  Apollo  Delfico, 
146  —  Nuove  guerre  in  Etruria,  149  —  Romani  e  Latini  sul  principio 
del  sec.  IV,  151. 

Capo  XVI.  —  Gli  Italici  in  lotta  coi  Celti  e  coi  Greci    .         .         .         Pag.   156 

Migrazioni  dei  Celti,  156  —  La  civiltà  della  Tene,  157  —  I  Celti 
in  Italia,  159  —  Tribìi  celtiche  della  Cisalpina,  161  —  Loro  prove- 
nienza, 162  —  I  Galli  contro  Chiusi  e  contro  Roma,  164  —  Brenne, 
166  —  La  rotta  dell'Allia,  167  —  Caduta  di  Roma,  171  —  La  leg- 
genda della  liberazione  di  Roma,  172  —  Manlio  e  Camillo,  174  — 
L'incendio  gallico,  176  —  Caduta  della  tirannide  in  Sicilia,  177  — 
Reazione  degl'Italici  contro  i  Greci,  178  -  Coltura  siceliota  del  sec.  V, 
179  —  Gli  Ateniesi  nell'Occidente,  182  —  Intervento  cartaginese,  185 

—  I  primordi  di  Dionisio  il  vecchio,  186  —  I  Greci  d'Italia  nel  sec.  V, 
188  —  I  Lucani  e  la  lega  italiota,  189  —  Dionisio  in  Italia,  189. 

Capo  XVII.  —  L'ordinamento  centuriato        .         .         .         .         -         .  „   191 

Accrescimento  dell'esercito,  191  —  Sedizione  di  M.  Manlio,  195  — 
Le  nuove   centurie,  196  —  Le  cinque  classi,  198  —  La  fanteria,  203 

—  La  cavalleria,  205  —  Nuove  riforme  militari,  206  —  I  comizi  cen- 
turiati,  210  —  Ammissione  dei  plebei  al  consolato,  213  —  Rogazioni 
Licinie  Sestie,  215  —  I  plebei  nelle  altre  magistrature,  217  —  Gli 
edili  curali  e  il  trasformarsi  delle  magistrature  plebee,  219  —  I  ple- 
bisciti, 220  —  La  plebe  e  i  sacerdozi,  222  —  La  secessione  del  342, 
224  —  La  dittatura  di  Publilio  Filone,  225  —  La  censura  di  Appio 
Claudio  Ceco,  226  —  Le  divulgazioni  di  Cn.  Flavio,  230  —  L'ultima 
secessione,  231  —  Il  regime  senatorio,  232  —  I  magistrati,  235. 

Capo  XVIII.  —  La  dissoluzione  della  lega  latina  .         .         .         .         „   241 

I  Latini  dopo  l'invasione  gallica,  241  —  La  leggenda  di  Philotis, 
242  ~  Tivoli,  243  —  Sottomissione  di  Tuscolo,  243  —  Le  città  latine 
del  mezzogiorno,  245  —  1  Volsci,  245  —  Battaglia  di  Mecio,  246  — 
Distruzione  di  Satrico,  247  —  Gli  Equi,  248  -  Preneste,  249  —  La 
nuova  lega  latina,  250  —  Il  primo  trattato  fra  Roma  e  Cartagine,  251 

—  Gli  Ernici,  253  —  Guerra  con  gli  Etruschi,  254  —  Sottomissione  di 
Cere,  255  —  Invasioni  galliche,  258  —  Nuove  guerre  di  Dionisio  I 
coi  Cartaginesi,  261  —  Sfacelo  del    suo   impero,  262  —  I  Bruzì,  263 

—  Timoleonte  in  Sicilia,  264  —  Pirati  greci  nel  Lazio,  264  —  La 
lega  romano  latina  e  gli  Aurunci,  265  —  I  Sanniti,  266  —  La  Cam- 
pania, 267  —  Prima  guerra  sannitica,  269  —  Pretesa  dedizione  di 
Capua,  270  —  Critica  dei  fatti  di  guerra,  272  —  Priverno,  272  — 
Guerra  latina,  273  —  Battaglia  di  Trifano,  277  —  Condizioni  fatte  ai 
Latini  vinti,  279  —  Le  città  volsche,  282  —  Aurunci  e  Sidicini,  283 

—  La  cittadinanza  data  ai  Campani,  285  —  Conclusione,  286. 


SOMMAKIO  VII 


Capo  XIX.  • —  La  lotta  tra  O.schi  e  Latini  jìcr  V  egemoni  a        .         .         Pag.  291 

Spedizione  di  Archidamo,  291  —  Alessandro  il  Molosso  in  Italia, 
292  —  Sanniti  e  Romani  sul  Liri,  295  —  Assedio  di  Napoli,  297  — 
Principio  della  seconda  sannitiea,  299  • —  Pace  con  Napoli,  300  — 
Napoli    0   Palopoli,  301    —  Pretesa    alleanza  romana  coi  Lucani,  303 

—  Alleanza  con  gli  Apuli,  304  —  Primi  anni  della  seconda  sanni- 
tiea, 305  —  11  disastro  di  Gaudio,  307  —  La  pace  caudina,  313  — 
Riforme  militari,  314  —  Gli  anni  seguenti  alla  pace  caudina,  315  — 
Sanniti  ed  Italioti,  317  —  Ripresa  della  guerra,  319  —  Battaglia  di 
Lautule,  320  —  Battaglia  di  Terracina,  321  —  Distruzione  degli  Au- 
runci,  322  —  Sottomissione  di  Capua,  323  —  Rivincita  romana,  324 

—  Colonie  latine,  327  —  Guerra  in  Etruria,  328  —  Il  passaggio  della 
selva  Ciminia,  330  —  Ribellioni  nell'Italia  centrale,  332  —  Pace  con 
gli  Etruschi,  332  —  Prime  relazioni  con  gli  Umbri,  334  —  Ultimi 
anni  della  seconda  sannitiea,  335  —  Fine  della  guerra,  338  —  Trat- 
tato di  pace,  340  —  Sottomissione  delle  tribìi  ribelli,  340  —  Effetti 
della  seconda  sannitiea,  342. 


Capo  XX.  —  La  conquista  d'Italia         .......         ^   344 

I  Lucani  e  i  Romani  contro  Taranto,  344  —  Cleonimo  in  Italia, 
345  —  Progressi  della  potenza  romana  nell'  Italia  centrale,  348  — 
I  Galli  in  Etruria,  350  —  Principio  della  terza  sannitiea,  351  —  Bat- 
taglia di  Sentino,  355  —  Ultimi  anni  della  terza  sannitiea,  359  — 
Ribellione  dei  Falisci,  361  —  Fine  della  guerra,  362  —  Sottomissione 
dei  Sabini,  364  —  Roma  e  i  suoi  alleati,  365  —  Agatocle  signore  di 
Siracusa,  368  —  Agatocle  in  Italia,  369  —  Fine  di  Agatocle,  372  — 
I  Mamertini,  374  —  I  Remani  nella  Magna  Grecia,  375  —  Nuova 
guerra  coi  Senoni,  375  —  Progressi  romani  nella  Magna  Grecia,  379. 


Capo  XXI.  —  La  sottomissione  degli  Italioti         ......  380 

Ostilità  fra  Roma  e  Taranto,  380  —  Pirro,  384  —  Gli  alleati  di 
Pirro  in  Italia,  385  —  Sbarco  degli  Epiroti,  389  —  Battaglia  di 
Eraclea,  392  —  Efietti  della  vittoria  di  Pirro,  395  —  Pirro  nell'Italia 
centrale,  396  —  Pace  tra  Romani  ed  Etruschi,  398  —  Battaglia  di 
Ascoli,  399  —  Negoziati  di  pace,  403  —  Trattato  fra  Cartagine  e 
Roma,  404  —  La  Sicilia  dopo  la  morte  d' Agatocle,  405  —  Pirro  in 
Sicilia,  408  —  I  Romani  contro  gli  alleati  di  Pirro,  411  —  Ritorno 
di  Pirro  in  Italia,  412  —  Battaglia  di  Benevento,  413  —  Partenza  di 
Pirro,  413  —  Sua  morte,  416  —  Pirro  e  le  sue  imprese,  416  —  Resa 
di  Taranto,  418  —  Fine  della  guerra  coi  Sanniti,  Lucani  e  Bruzì,  420 

—  Punizione  dei  Campani  di  Regio,  421  —  Guerra   coi  Picenti,  422 

—  Guerra  coi  Calabri,  424  —  Guerra  con  Volsini,  424  —  Relazioni  tra 
Romani  e  Greci,  426. 


vili  SO^IMARTO 


Capo  XXII.  —  Il  Comune  e  lo  Stato  neW Italia  unita      .         .         .         Pag.  430 

Lo  Stato  antichissimo,  430  —  I  primi  Comuni  dello  Stato  romano, 
431  —  Municipi,  434  —  Varie  categorie  dei  municipi,  436  —  Statuti 
municipali,  437  —  Commercio  e  connubio,  439  —  Istituzioni  sacre. 
439  —  Finanze  comunali,  440  —  Milizia,  441  —  Tavole  dei  Ceriti, 
442  — -  Magistrati  municipali,  448  —  Prefetti,  443  —  Comuni  con  di- 
ritto di  suffragio,  445  —  Comuni  e  tribìi,  446  —  Colonie  cittadine, 
447  —  Fori  e  conciliaboli,  450  —  Gli  alleati  italici,  451  —  I  Latini, 
457  —  Le  colonie  latine,  458  —  Leghe,  461  —  Formola  dei  togati, 
462  -  Nazionalità,  463. 

Capo  XXIII.  —  Condizioni  sociali  ed  economiche  .....  „   465 

Agi'icoltura  e  pastorizia,  465  —  Espropriazioni  e  colonie,  469  — 
Industria,  471  —  Commercio,  472  —  Numerazioni,  473  —  Misure  di 
lunghezza,  475  —  Misure  di  superficie,  477  —  Pesi,  477  —  Misure 
di  capacità,  478  —  Misura  del  valore,  478  —  Aes  rude,  479  —  Aes 
signatum,  479  —  Origine  della  moneta,  481  —  La  moneta  in  Occi- 
dente, 482  —  Aes  grave,  485  —  Moneta  romano-campana,  486  —  Ri- 
duzioni dell'asse,  488  —  Il  saggio  dell'interesse,  490  —  Progresso  eco- 
nomico, 492  —  Centri  di  popolazione,  493. 

Capo  XXIV.  —   Coltura  e  religione        .......,,   496 

Origine  dell'alfabeto,  496  —  Alfabeti  italici,  497  —  Documenti  la- 
tini antichissimi,  498  —  Poesia  primitiva,  500  —  Verso  saturnio,  500 

—  Carmi  sacri  ed  epopea  popolare,  501  —  Nenie  e  carmi  trionfali, 
503  —  Versi  fescennini,  503  —  La  satura  e  l'atellana,  504  —  Lauda- 
zioni,  506  —  Appio  Claudio  Ceco,  606  —  La  prosa  latina,  507  —  Mu- 
sica, 508  —  Danza,  509  —  Pittura,  510  —  Scoltura,  511  —  Architet- 
tura, 512  —  Inizi  della  scienza,  515  —  Calendario,  516  —  Introduzione 
di  divinità  greche,  523  —  Ercole,  523  —  Vesta,  524  —  Apollo  e  gli 
oracoli  sibillini,  525  —  Castore  e  Polluce,  527  —  Cerere,  527  —  Escu- 
lapio,  528  —  Dite,  529  —  Divinità  etrusche  ed  italiche,  529  —  Nuovi 
dèi  certi,  531  —  Astrazioni,  532  —  Supplicazioni,  532  —   Ludi,   533 

—  Divinazione,  534  —  Morale,  536. 

Indick  alfabetico    ............   539 


^°~  y°\.    /•°v  ^°\    ^°\    y°\    /»°v  x°v  /-"v  /'°\    ^°\    ■'°\    ^°\    ^°\    ^°v  ■'°\    y°\    j'°\    rtv  y°\    ^°v  ^°\    ^°\    'fs 


CAPO  xni. 

La  plebe  e  i  suoi  tribuni. 


Il  declinare  della  monarcliia  peggiorò  la  condizione  della  plebe 
romana.  Finché  i  re  conservavano  qualche  autorità  debbono  aver 
tentato  di  reagire  alla  prepotenza  aristocratica.  Nessuna  protezione 
trovò  invece  la  plebe  contro  i  consoli,  patrizi  essi  stessi  ed  eletti 
in  un'assemblea  ove  i  patrizi  avevano  la  prepoìideranza.  Patrizi 
erano  allora  magistrati,  sacerdoti  e  giudici;  e  il  non  aversi  un 
corpo  scritto  di  leggi  facilitava  i  soprusi  ammantati  di  legalità. 
Ma  i  nemici  crescevano  a  grado  a  grado  attorno  a  Roma  di  nu- 
mero e  di  forze.  E  però  i  Romani  vennero  costretti  ad  impegnare 
in  misura  sempre  maggiore  le  proprie  energie  nelle  lotte  intermi- 
nabili con  gli  Etruschi,  gli  Equi  ed  i  Volsci.  La  classe  patrizia, 
che  non  si  risparmiava,  ne  rimaneva  decimata;  né,  casta  chiusa 
com'era  (sopra  e.  VII),  aveva  onde  rifornirsi  d'  energie  vitali.  I 
vuoti  lasciati  dal  patriziato  negli  eserciti  romani  erano  colmati 
dalla  plebe,  classe  aperta  che  si  rinsanguava  ogni  giorno  con  la 
manumissione  e  con  l'immigi'azione  latina.  Sfruttare  a  projjrio 
profitto  le  forze  della  plebe  era  l'intendimento  del  patriziato. 
Ma  la  plebe,  quanto  più  col  sangue  e  con  gli  averi  contribuiva 
alla  lotta  di  Roma  per  l'esistenza,  tanto  più  acquistava  coscienza 
di  sé  e  de'  suoi  diritti. 

La  tradizione,  povera  nella  sua  apiparente  ricchezza,  rappresenta 
la  contesa  tra  la  plebe  ed  il  patriziato  sotto  il  triplice  aspetto  di 

Gr.  Dk  SAN-crrs,  Storm  dei  Romani,  II.  1 


CAPO   Xni  -  LA   PLEBE    E    I    SUOI   TRIBUNI 


lotta  economica,  lotta  pei  diritti  civili  e  lotta  pei  diritti  politici.  La 
guerra  economica  si  combatte,  secondo  vien  narrato,  intorno  a  tre 
punti  :  riduzione  dei  debiti,  assegnazione  di  terre,  distribuzione  di 
frumento.  Che  i  debiti  fossero  una  delle  cause  principali  delle  dis- 
sensioni tra  la  plebe  ed  il  patriziato,  anche  se  ne  tacessero  le  fonti, 
dovremmo  argomentare  dalle  analogie  che  offre  ad  esempio  la  più 
antica  storia  ateniese.  Ciò  che  è  detto  nelle  poesie  di  Solone  sulla 
condizione  dolorosa  della  classe  popolare  ateniese  oberata  dai  de- 
biti potrebbe  entro  certi  limiti  applicarsi  ad  una  parte  della  plebe 
romana  del  sec.  V,  che  si  trovava  in  uno  stato  simile  di  coltura 
e  di  s\'iluppo  economico.  Infatti  la  rarità  della  valuta  metallica 
rendeva  quasi  impossibile  al  povero  il  risparmio.  Onde  negli  anni 
in  cui  il  raccolto  era  scarso  o  lo  mieteva  il  nemico,  il  piccolo 
proprietario  non  trovava  rinfranco  se  non  ricorrendo  al  più  ricco, 
che  aveva  potuto  salvare  qualche  poco  del  suo  molto;  ed  essendo 
ristretto  il  commercio  e  la  domanda  assai  maggiore  dell'offerta, 
il  ricco  proprietario  o  l'incettatore  di  grano  potevano,  con  l'imporre 
patti  iniqui  o  anche  solo  col  chiedere  un  interesse  proporzionato 
al  risico,  togliere  ai  bisognosi  ogni  speranza  di  rialzarsi.  Questa 
dipendenza  economica  si  rispecchiava  nella  condizione  giuridica 
del  debitore  verso  il  creditore.  L'antico  diritto  civile  ad  Atene 
come  a  Roma  metteva  la  persona  del  debitore  insolvibile  in  potere 
del  creditore  (1).  Chi  s'era  riconosciuto  debitore  inexiis)  mediante 
solenne  contratto  (7iexum),  al  pari  di  chi,  pui'  senza  trovarsi  le- 
gato da  un  contratto,  era  stato  dichiarato  debitore  dal  tribunale 
(iudicatus),  in  caso  d'insolvibilità  veniva  arrestato  dal  creditore  (2). 


(1)  V.  HuscHKE  Ueber  das  Rechi  des  Nexum  und  das  alfe  romische  Schuldrecht 
(Leipzig  1846),  i  cui  concetti,  sia  pure  con  parecchie  varianti,  predominano 
oggi  tra  i  romanisti.  Recentemente  le  questioni  sul  nexum  si  son  di  nuovo 
dibattute  con  ardore  dopo  la  memoria  del  Mitteis  Ueher  das  Nexum  nella 
'  Zeitschrift  der  Savigny-Stiftung  '  XXII  (1901)  p.  96  segg.  Ma  m'accordo  nel 
restare  sostanzialmente  fedele,  anche  dopo  la  critica  del  Mitteis,  ai  concetti 
del  HuscHKE  col  Senn  '  Nouv.  Revue  de  droit  fran9ais  et  étranger  '  XXIX  (1905) 
p.  49  segg. 

(2)  Non  è  dubbio  che  al  nexus  si  applichi  quel  che  nelle  dodici  tavole  si 
dice  del  iudicatus,  Gell.  n.  A.  XX  1,  45.  La  sola  differenza  è  che  l'ultimo  ha 
trenta  giorni  di  tempo  per  pagare  il  debito,  mentre  l'altro  può  essere  arre- 
stato il  giorno  della  scadenza.  Il  procedimento  dell'arresto  è  per  l'uno  e  per 
l'altro  lo  stesso  :  solo  che  per  l'uno  la  manus  iniectio  è  ex  indicato,  per  l'altro 
jyrn  indicato.  Per  ambedue  è  da  ritenére  che,  almeno  sorgendo  contestazione, 
l'arresto  dovesse  venir  convalidato  dal  pretore  :  così   si  conciliano  i  passi  se- 


I   DEBITI   E    IL   NEXUM 


Per  sessanta  giorni  i  diritti  di  quest'ultimo  erano  ancora  limitati. 
Aveva  facoltà  di  mettere  in  catene  il  suo  prigioniero ,  purché  la 
catena  non  pesasse  più  di  quindici  libbre,  ma  era  tenuto  a  som- 
ministrargli giornalmente  una  libbra  di  spelta  perchè  non  morisse 
d'inedia  e  a  condurlo  nel  Comizio  per  tre  volte  in  giorno  di  mer- 
cato affinchè  qualche  parente  o  amico  potesse  muoversi  a  pietà  e 
liberarlo.  Trascorso  il  termine,  se  il  debitore  non  era  venuto  a  patti 
e  non  aveva  trovato  clii  volesse  salvarlo,  era  ormai  in  piena  balla 
del  creditore,  che  poteva  ucciderlo  o  venderlo  scliiavo,  non  però 
in  Roma  né  in  paese  latino,  ma  solo  al  di  là  del  Tevere.  Se  i  cre- 
ditori erano  i)iù,  potevano,  a  tenore  d'una  legge  a  cui  s'è  cercata 
invano  una  interxjretazione  simbolica,  dividersi  in  parti  il  corpo 
del  debitore.  E  la  legge  sanciva  perfì.no  con  una  barbarie  senza 
nome  che  le  jDarti  del  cadavere  non  era  necessario  fossero  pro^Dor- 
zionali  all'ammontare  dei  crediti  (1).  E  vero  che,  sebbene  questa 
minaccia  crudele  pendesse  sul  caj)o  del  debitore  insolvibile,  in  ge- 
nerale i  ricchi  nel  loro  stesso  interesse  dovevano  preferire  sia  di 
valersi  dell'opera  sua  a  loro  servizio,  sia  di  sottoporlo  a  maltrat- 
tamenti per  induiTe  qualche  pietoso  a  pagarne  il  riscatto,  sia,  nel 
caso  peggiore,  di  venderlo  schiavo.  Ad  ogni  modo,  se  anche  igno- 
riamo qual  parte  abbiano  aAiito  in  questo  o  quell'episodio  delle 
discordie  tra  patrizi  e  plebei,  i  patimenti  dei  debitori  son  certo 
stati  tra  gli  stimoli  più  efficaci  dei  plebei  alla  lotta;  e  si  spiega 
come  d'una  condizione  così  intollerabile  possa  -esser  durata  viva 
la  memoria  nell'anima  del  poiDolo. 


condo  cui  il  creditore  s'impadronisce  senz'altro  del  debitore,  p.  es.  Liv.  II  23. 
DioNYS.  IV  9.  V  69,  con  quelli  in  cui  interviene  anche  qui  il  pretore,  p.  es. 
Liv.  II  27. 

(1)  Gkll.  n.  A.  XX  1,  49:  si  plus  minusve  secuerunt  se  fraude  esto.  Cfr.  Quintil. 
inst.  III  6,  84.  Tertull.  apolog.  4.  L'interpretazione  letterale  è  confermata  dalla 
analogia  della  consegna  nossale  del  cadavere  o  di  parte  di  esso  di  cui  ci  ha 
dato  notizia  il  frammento  scoperto  ad  Autun  d'un'interpretazione  delle  Istitu- 
zioni di  Gaio  (v.  C.  Ferrini  e  V.  Scialoia  in  '  Bull,  dell' ist.  di  dir.  romano  ' 
XIII  1900  p.  5  segg.):  [et  non  soluni  st]  totitm  corpus  det  Uberatur,  sed  etiam  si 
pai'tem  aliquam  corporis.  denique  tr[actatur  de]  cai>ilUs  et  unguibus  an  partes 
corporis  sint:  questa  norma  pare  mirasse  in  origine  a  liberare  da  ogni  im- 
pegno verso  i  vari  danneggiati  chi  aveva  il  reo  in  manu  spartendone  tra  essi 
il  corpo;  poi  se  ne  usò  forse  per  trasformare  la  consegna  del  cadavere  in  una 
finzione  legale  consegnandone  una  ciocca  di  capelli  o  simili.  Cfr.  anche  ibid. 
p.  294  segg. 


CAPO   Xni  -  LA    I>LEBK    E    1    SL'Ol    TKIBUNI 


Con  le  sofferenze  dei  debitori  si  collega  appunto  il  primo  ri- 
cordo che  si  legge  nelle  nostre  fonti  di  contese  intestine  in  Roma. 
La  tradizione  rappresenta  falsamente  la  caduta  della  monarcliia 
come  l'inizio  d'un  breve  periodo  di  libertà  per  tutti.  Cominciate 
solo  dopo  più  d'un  decennio,  nel  J:95,  le  preiaotenze  dei  nobili  contro 
i  plebei  (1),  già  l'anno  seguente  494  i  patimenti  della  plebe  op- 
pressa dai  debiti  sarebbero  divenuti  talmente  insopportabili  da 
cagionare  la  famosa  ritirata  sul  monte  Sacro  (2).  Il  racconto  di 
questa  secessione  è  ne'  suoi  particolari  affatto  indegno  di  fede.  I 
tentativi  di  Servilio  e  di  Valerio  per  metter  pace,  narrati  con  una 
abbondanza  di  ragguagli  quale  ha  appena  riscontro  nella  storia 
interna  dell'età  graccana,  non  sono  che  oziose  invenzioni  annali- 
stiche.  Il  monte  Sacro  poi,  ove,  secondo  la  tradizione  più  recente, 
s'era  ritù'ata  la  ijlebe,  fu  collegato  con  la  secessione  solo  al  fine  di 
poter  spiegare  il  suo  nome  per  mezzo  delle  leggi  sacrate  (3);  ed 
è  degno  di  nota  che  nelle  tradizioni  meno  tarde,  accanto  al  monte 
Sacro  vien  ricordato  l'Aventino  (4),  mentre  il  solo  Aventino  è  men- 
zionato nella  relazione  più  antica  (5).  Vera  tradizione  o  almeno 
leggenda  genuina  sembra  invece  che  si  abbia  solo  su  due  punti  :  il 
ritirarsi  della  plebe  sull'Aventino  e  la  pace  ricomposta  mediante 
l'apologo  d' Agrippa  Menenio  (6).  Sarebbe  davvero  arriscliiato  af- 
fermare o  negare  che  un  Agrippa  Menenio  abbia  tentato  di  pla- 
care recitando  la  nota  f avoletta  la  plebe  tumultuante  sull'Aventino. 
Ma,  checché  ne  sia,  in  quell'apologo,  che  appartiene  ad  uno  strato 
antico  di  tradizione,  si  rispecchia  lo  sfruttamento  della  plebe  a  pro- 
fitto del  patriziato  e  la  ragione  economica  della  lotta;  e  non  importa 


(1)  Liv.  II  21  :  insignis  hic  annus  est  nuntio  Tarquinii  mortis.  eo  nuntio  erecti 
patres,  erecta  plebes;  sed  patribus  nimis  luxuriosa  ea  fuit  laetitia:  plebi  cui  ad  eam 
diem  siirnma  ope  inservitum  erat  iniuriae  a  primoribtis  fieri  coepere.  Dionys.  V 
63  segg.  fa  cominciare  le  discordie,  con  poca  differenza,  nel  498  e  mette  con 
esse  in  rapporto  la  istituzione  della  dittatura. 

(2)  Sulle  secessioni  in  generale  v.  Lewis  Untersuchungen  II  *  p.  59  segg. 
E.  Meyer  '  Hermes  '  XXX  (1895)  p.  18  segg. 

(3)  Del  solo  monte  Sacro  parlano  Cic.  'pro  Corti,  ap.  Ascon.  p.  75  Baiteb. 
Brut.  14,  54.  Liv.  II  32,  2.  Dionys.  VI  45.  Plut.  Coriol.  6.  Fest.  p.  318.  Pompon. 
dig.  I  2,  2,  20.  Cfr.  Cass.  Dio  fr.  16,  9.  Io.  Antioch.   fr.  46.  Varrò  de  l.  Z.  V  81. 

(4)  Cic.  de  re  p.  II  33,  58.  Sallust.  hist.  I  fr.  11  Kritze,  cfr.  lug.  31,  17. 

(5)  Piso  ap.  Liv.  II  32,  3. 

(6)  Dionys.  VI  83:  Kal  |Livri|Liriq  dtSioOxai  ó  Xóyo;  koì  qpépexai  èv  k^àafxxc,  jaìc, 
dpxaiciK;  laropiaic. 


LA    PRIMA    SECESSIOXK    DELLA    PLERK 


che  gli  elementi  stessi  dell'allegoria  ])ossano  essere  stati  attinti  a 
quel  patrimonio  comune  di  novelle  clie  gii  Arii  avevano  portato  seco 
dalle  loro  sedi  primitive  (1).  La  plebe  (questo  è  il  senso  che  la  fa- 
vola prende  nella  sua  applicazione  specifica)  si  lamenta  che  i  patrizi 
soltanto  ca\dno  profìtto  dalle  fatiche  e  dalle  sofferenze  del  popolo 
nella  coltivazione  dei  campi  e  nelle  guerre  col  nemico.  Or  se  è 
innegabile  che  i  patrizi  se  ne  avvantaggiano,  convien  pure  rico- 
noscere che  il  benessere  dei  patrizi  e  le  vittorie  riportate  sotto  i 
loro  auspici  ridondano  poi  a  vantaggio  dei  loro  clienti  e  di  tutto 
lo  Stato,  che  altrimenti  andrebbe  in  rovina.  Codesto  apologo  non 
ha  peraltro  alcun  nesso  organico  né  con  le  leggi  sacrate  né  con 
le  origini  del  tribunato  della  plebe,  che  il  racconto  tradizionale 
collega  con  la  secessione.  E  poiché  Menenio  non  appare  nella  leg- 
genda come  magistrato,  ma  come  semplice  privato,  la  secessione 
stessa  non  ha  cronologia.  Per  quale  ragione  sia  stata  collocata  pro- 
prio al  494  sarebbe  vano  cercare;  ma  la  scelta  d'una  data  compa- 
rativamente antica  dev'essere  stata  determinata  dal  desiderio  di 
ra\^àcinare  alle  origini  della  repubblica  i  principi  delle  magistra- 
tm-e  plebee. 

Non  è  del  resto  questa  la  sola  secessione  ricordata  dalle  nostre 
fonti:  che  anzi  si  fa  cenno  d'altre  quattro.  La  seconda,  del  449, 
che  si  collega  con  la  caduta  del  decemvirato,  é  messa  in  relazione 
anch'essa  sia  con  l'Aventino,  a  quanto  pare  anche  qui  nella  forma 
più  antica  della  tradizione  (2),  sia  col  monte  Sacro  (3).  La  terza,  su 
cui  non  abbiamo  che  un  brevissimo  accenno  (4),  sarebbe  avvenuta 
nel  445  sul  Grianicolo  sotto  la  guida  di  Canuleio,  per  far  accogliere 
la  legge  sul  connubio  tra  patrizi  e  plebei.  Nella  quarta,  che ,  se- 
condo alcuni  annalisti  noti  a  Livio,  cade  nel  342,  mentre  lo  scrittore 
cui  egli  s'attiene  narrava  invece  sotto  quell'anno  una  sollevazione 


(1)  Molto  simile  è  la  favola  esopica  197  Halm.  Per  analogie  indiane  v.  Weber 
Ueber  den  Zitsammenhang  indischer  Fabeln  mit  griechischen  (Berlin  185.5)  p.  43. 
Ribezzo  Nuovi  studi  sulla  origine  e  la  propagazione  delle  favole  iìidoelleniche 
(Napoli  1901)  p.  184  segg.  Del  resto  l'apologo  di  Agrippa  è  molto  più  chiaro 
e  più  umano  che  non  la  favola  del  Mahàbhàrata  XIV  652  segg.  sul  contrasto 
tra  le  membra  del  corpo  e  lo  spirito  vitale  (manas). 

(2)  DioD.  XII  24.  PoMP.  dig.  1,  2,  2,  24.  Cfr.  Sall.  lag.  1.  e. 

(3)  Dell'uno  e  dell'altro  pai'lano  Livio  e  Cic.  de  re  p.  II  37,  63.  Cfr.  prò  Cam. 
fr.  24. 

(4)  In  Floro  I  25,  il  quale  veramente  la  chiama  soltanto  seditio,  tumnltiis, 
ma,  come  risulta  dal  contesto,  la  riguarda  come  una  vera  secessione. 


CAPO    XIir-LA    PLKBK    E    I    SUOI    TRIBUNI 


del  presidio  romano  lasciato  in  Capua,  i  ribelli  conducendo  a  forza 
con  sé  un  G.  Manlio  si  sarebbero  ritii'ati,  non  è  detto  in  qual  di- 
rezione, al  quarto  miglio  da  Roma  (1).  La  quinta  ed  ultima  seces- 
sione infine,  pur  essa  sul  Gianicolo  e  cagionata  dai  debiti,  spetta 
all'età  storica  ed  è  del  287  circa  (e.  X\T!I).  Non  è  da  credere  però 
elle  tutte  le  secessioni  anteriori  e  segnatamente  la  prima  ripetano 
(luest'ultima  anticipandola,  poiché  vi  contraddicono  gli  elementi 
più  genuini  che  appaiono  nella  leggenda  della  prima  secessione, 
l'accenno  all'Aventino  e  l'apologo  d' Agrippa  Menenio.  E  dunque 
diffìcile  negare  che  prima  del  287  una  o  più  volte  la  plebe,  stanca 
dell'oppressione  economica  e  politica,  si  sia  raccolta  in  armi  in  atti- 
tudine minacciosa  in  qualche  punto  fuori  della  città,  quale  l'Aven- 
tino, che,  per  quanto  entro  le  mm-a  cittadine,  attribuite  a  re  Servio, 
non  faceva  parte  della  città  nel  V  secolo,  come  rimase  anche 
più  tardi  fuori  del  pomerio.  Ed  è  pm-  da  credere  che  a  questo  modo 
il  xjopolo  abbia  carpito  ai  patrizi  concessioni  ragguardevoli.  Ma 
quali  precisamente  tra  i  moventi  della  lotta  siano  stati  quelli  che 
determinarono  la  secessione  o  le  secessioni,  che  cosa  per  l'aijpunto 
si  sia  ottenuto  per  questa  via  dai  patrizi,  se  la  plebe  si  sia  ritirata 
sull'Aventino  soltanto  una  volta  o  x^iù,  quando  esattamente  ciò 
abbia  avuto  luogo,  son  quesiti  a  cui  sarebbe  pura  illusione  il 
credere  che  la  tradizione,  come  a  noi  è  pervenuta,  possa  dar  modo 
di  rispondere.  Certo  si  è  iDerò  che  se  tutte  le  secessioni  anteriori 
a  quella  del  287  fossero  apocrife,  non  potrebbero  essersi  esemplate 
che  su  questa,  L' ipotesi  moderna  che  la  secessione  del  494  sia 
ricopiata  da  un  avvenimento  di  storia  siciliana  di  cui  è  poco  nota- 
la natm-a  e  la  cronologia,  dall'accordo  cioè  tra  i  Greloi  e  i  fuorusciti 
di  G-ela  rifugiatisi  a  Mactorio,  stabilito  per  mezzo  della  religione 
di  Demeter  da  Teline,  avo  dei  Dinomenidi  (2),  è  non  solo  priva  di 
ogni  fondamento,  ma  certamente  erronea.  E  di  vero  è  assmxlo  che 
un  fatto  si  poco  importante  della  storia  siciliana  e  inoltre  sostan- 
zialmente diverso  dalle  secessioni  romane  desse  origine  ad  una 
tradizione  così  diffusa  e  cosi  antica  in  Roma;  tanto  più  che  non 
è  neppur  assodato  se  i  fuorusciti  ricondotti  da  Teline  fossero  de- 
mocratici anziché  oligarcliici. 

Cancellati  dopo  la  secessione,  come  si  pretende,  tutti  i  debiti  (3), 


(1)  Liv.  VII  42. 

(2)  Hekod.  vii  153.  Pais  '  Studi  storici  '  li  (1893)  p.  159  segg. 

(3)  DioNYs.  VI  83,  cfr.  VII  22.  30.  49.  52.  Cass.  Dio  fr.  16,  12.  Zon.  VII  14. 
CIL.  I  ^  p.  189.  Cic.  de  re  p.  II  34,  59. 


l'aCtRO  pubblico  e  le  leggi  agrarie 


di  sofferenze  della  plebe  i^er  questo  motivo  non  torna  a  parlare  la 
nostra  tradizione  se  non  dopo  la  catastrofe  gallica.  Questo  stesso 
mostra  quanto  essa  sia  artificiale  e  manclievole:  la  plebe  in  un 
anno  rovinatasi  economicamente,  Tanno  dopo,  per  ciò  clie  concerne 
i  debiti,  ha  del  tutto  rimarginato  le  sue  piaghe;  e  non  importa 
che  perdui'ino  le  stesse  cause  di  malessere  e  che  i  campi  siano  de- 
vastati sino  alle  porte  della  città  dagli  Equi  e  dai  Volsci.  In  realtà 
nonostante  la  pretesa  abolizione  dei  debiti  del  494  e  le  storiche 
leggi  proibitive  che  si  sancirono,  a  partire  dalle  dodici  tavole,  contro 
rasura,  solo  assai  lentamente  per  un  complesso  di  cause  econo- 
miche e  politiche  (v.  e.  XVTI  e  XXIII)  nel  corso  del  sec.  IV  la 
plebe,  liberandosi  a  poco  a  idoco  dal  peso  dei  debiti,  conquistò 
anche  per  questo  rispetto  l'indipendenza  dal  j)atriziato. 

Assai  più  che  di  turbolenze  pei  debiti  la  storia  tradizionale  più 
antica  della  repubblica  ribocca  d'agitazioni  agrarie  (1).  Nell'età  dei 
Grracchi  Roma  possedeva  gran  quantità  di  terreno  in  ogni  regione 
d'Italia,  pur  avendone  già  moltissimo  alienato  con  venderlo  o  di- 
stribuirlo gratuitamente  a  coloni.  Di  questo  agro  iJubblico  una 
parte  considerevole,  in  specie  se  incolta,  si  lasciava  occupare  a 
chi  volesse  ;  e  lo  occupava  naturalmente  chi  avendo  capitali  o  be- 
stiame poteva  metterlo  a  coltivazione  o  mandai-vi  a  pascolare  le 
greggie:  il  povero  non  poteva  profittarne  perchè  non  possedeva  gli 
attrezzi  ed  i  capitali  indisx^ensabili  per  ridurlo  a  coltura  e  per 
sostentarsi  prima  che  il  frutto  cominciasse  a  compensare  il  lavoro 
speso  nel  dissodamento.  Il  ijossesso  dell'agro  x>^bblico  cosi  occu- 
pato era  precario.  Lo  Stato  X30teva  discacciarne  gli  occupanti,  i 
quali,  non  possedendolo  come  proprietari  secondo  il  dùitto  dei  Qui- 
riti, non  erano  nexD]Dure  in  grado  di  difendere  le  loro  pretese  contro 
terzi  secondo  le  strette  norme  del  gim-e  civile.  Tuttavia  per  ciò 
che  concerne  lo  Stato,  i  ricchi  possessori  si    sentivano    tranquilli. 


(1)  Sull'agro  pubblico  e  le  leggi  agrarie  è  d'importanza  fondamentale  la 
trattazione  del  Niebuhr  II  146  segg.  694  segg.  Del  molto  che  si  è  scritto  dopo 
di  lui  può  consultarsi  utilmente  lo  Schwegler  II  401  segg.,  il  Weber  Rom.  Agrar- 
geschichte,  c'ne  vede  a  ragione  nella  occupatio  com'era  praticata  a  Roma  il  più 
sfacciato  trionfo  del  capitalismo  agrario  (p.  129),  ma  non  trae  da  ciò  le  con- 
seguenze evidenti,  e  la  breve,  ma  capitale  memoria  del  Niese  '  Hermes  '  XXIII 
(1898)  p.  410  segg.,  in  cui  è  dimostrato  che  non  possono  essere  storiche  le 
rogazioni  agrarie  del  V  e  del  IV  sec.  —  I  testi  più  importanti  sono  App.  b.  e. 
T  7  seg.  Plut.  Ti.  Grucch.  8.  V.  anche  lex  agraria  del  111,  CIL.  I  '  p.  75  segg. 
MoMMSEN  Ges.  Schriften  I  65  segg. 


CAPO   Xlir  -  LA    PLEBE    E    I    SUOI    TRIBUNI 


avendo  essi  appunto  in  mano  la  somma  delle  cose,  e  nei  rispetti 
dei  terzi  il  pretore  interveniva  a  favore  del  possessore,  non  tute- 
lato abbastanza  dal  diritto  civile,  mediante  il  divieto  di  tm-bare 
clii  occupasse  un  fondo  senza  lesione  dei  diritti  altrui  {inteì'dictmn 
uti  possidetis)  (1)  e  l'ordine  a  clii  s'impadronisse  con  la  forza  di 
un  fondo  posseduto  da  altri  di  restituirlo  al  possessore  {interdictmn 
linde  vi)  (2). 

Tale  era  la  condizione  delle  cose  nel  sec.  Il  quando  la  con- 
quista d'Italia  e  la  piena  vittoria  sui  ribelli  nella  guerra  annibalica 
avevano  accresciuto  smisuratamente  l'agro  pubblico  romano.  Ma 
nel  sec.  V  il  territorio  dello  Stato  romano  non  si  dilatò  che  assai 
poco;  e  le  precedenti  conquiste  dell'età  regia  secondo  la  tradizione, 
che  ci  mostra  se  non  altro  quel  che  ne  pensavano  più  tardi  i  Ro- 
mani, non  avevano  x)unto  aumentato  la  mism-a  dell'agro  pubblico, 
perchè  il  territorio  annesso  s'era  assegnato  individualmente  o  ne 
avevano  conservato  la  proprietà  gli  antichi  abitanti  ricevendo  la 
cittadinanza  (3).  Inoltre  la  popolazione  densa  del  territorio  romano, 
che  è  il  ]3resupposto  delle  vittorie  sui  bellicosi  vicini,  in  un'età  in 
cui  scarsa  è  l'industria  e  poco  florido  il  commercio,  indica  chela 
proprietà  fondiaria  era  assai  frazionata  e  che  non  dovevano  esservi 
in  generale  né  pascoli  molto  estesi  né  vaste  possessioni  coltivate 
per  mezzo  di  schiavi.  In  sostanza  se  l'occupazione  dell'agro  pub- 
blico era  argomento  di  dissidi  nel  secolo  II  e  si  cercava  con 
leggi  agrarie  di  porre  rimedio  al  male,  nel  secolo  V  la  questione 
agraria  doveva  essere  di  natura  affatto  diversa  e  procedere  come 
la  questione  agraria  nell'Attica  al  tempo  di  Solone  dal  bisogno 
dei  piccoli  proiDiietarì  oppressi  di  difendere  i  fondi  su  cui  stende- 
vano le  avide  mani  i  creditori.  Ad  alleviare  a  grado  a  grado  il 
malessere  agrario  contribuirono  col  miglioramento  generale  delle 


(1)  La  formula  di  esso  conservata  da  Festo  p.  233  s.  v.  possessio,  che  non 
è  certamente  la  più  arcaica,  suona  così:  uti  nunc  possidetis  eum  fundum  quo 
de  agitur  qiiod  nec  vi  nec  clam  nec  precario  alter  ah  altero  possidetis,  ita  possi- 
deatis,  adversus  ea  vim  fieri  z^eto.  Lo  sviluppo  che  ha  preso  nel  diritto  romano 
il  concetto  della  possessio  e  gli  stessi  interdetti  possessori  trovano  ottima  spie- 
gazione nella  difesa  degli  occupanti  dell'agro  pubblico.  In  ciò  dissento  pro- 
fondamente da  Karlowa  Rom.  Rechtsgeschichte  II  p.  313  e  da  Girard  Manuel 
de  droit  Romain  '  p.  274  seg. 

(2)  Dig.  XLVII  16. 

(3)  Cic.  de  re  p.  II  14,  26.  Dionys.  II  35  segg.  50.  Ili  49.  Niese  mem.  cit. 
p.  417  segg. 


SPURIO   CASSIO 


condizioni  le  numerose  colonie  fondate  dai  Romani  prima  di 
conserva  con  la  lega  latina  ed  ernica  e  poi  per  conto  proprio  nel 
corso  del  V  e  del  IV  secolo  e  le  assegnazioni  individuali  nei  ter- 
ritori annessi,  che  cominciarono  in  larga  misui'a  dopo  distrutta 
la  città  di  Vei.  Ma  anche  della  questione  agraria  nelFetà  più  an- 
tica non  è  dato  scrivere  la  storia:  poiché  le  agitazioni  ]3er  far  di- 
stribuire l'agro  pubblico  occupato  dai  patrizi,  che  dal  500  circa 
non  si  quetano  fino  alle  leggi  di  Licinio  Stolone,  sono  malamente 
ricopiate  su  quelle  del  sec.  II. 

Per  la  prima  volta  la  tradizione  parla  della  legge  agraria  a 
proposito  di  Sp.  Cassio  (1),  l'autore  del  trattato  d'alleanza  coi  Latini 
del  500  circa  av.  C.  (v.  e.  XV).  Al  suo  terzo  consolato  (486)  e  al- 
l'accordo con  gii  Ernici,  che  gii  viene  attribuito,  si  collega  la  sua 
legge  agraria,  il  cui  contenuto  è  esposto  assai  diversamente  dalle 
fonti  (2).  Uno  scrittore  dice  che,  tolti  agli  Ernici,  in  forza  del  trat- 
tato, i  due  terzi  del  loro  territorio,  Cassio  voleva  assegnarne  uno  ai 
Latini  ed  uno  alla  X3lebe  romana,  distribuendo  anche  la  parte  del- 
l'agro pubblico  precedentemente  occupata  dai  privati.  Ma  è  fuori 
di  dubbio  che  raccordo  per  cui  i  Romani  acquistarono  la  i)re- 
ziosa  e  fedele  alleanza  dagli  Ernici  contro  gli  Equi  ed  i  Volsci 
non  privò  gii  Ernici  neppiu'e  di  un  i)ollice  di  terreno.  Secondo 
un'altra  versione  poi,  dell'agro  pubblico  Cassio  voleva  si  faces- 
sero tre  parti,  una  pei  Latini,  una  per  gli  Ernici,  una  da  distri- 
buirsi tra  la  plebe  romana.  Ma  questo  spossessarsi  del  territorio 
proprio,  e  territorio  tutt'altro  che  vasto,  per  sovvenire  gli  alleati 
è  nel  sec.  V  a  pieno  incredibile.  S'intende  invece,  e  ne  abbiamo 
esplicita  testimonianza,  come  sul  dare  o  rifiutare  alle  città  alleate 
una  parte  dell'agro  pubblico  occupato  dai  privati  si  discutesse  nel 
sec.  n,  quando  cominciarono  quei  moti  che  dovevano  finire  con 
la  concessione  della  cittadinanza  agli  Italici.  Da  ciò  si  ricava  che 
nessuna  tradizione  fededegna  esisteva  sulla  pretesa  legge  agraria 
di  Sp.  Cassio  e  che  questa  legge  fu  collegata  col  trattato  con  gli 
Ernici  in  modo  artificiale  ed  arbitrario.  Sull'età  di  queste  inven- 
zioni ci  dà  luce,  oltre  il  contenuto  della  legge  stessa,  il  particolare 
che  Sp.  Cassio  avrebbe  invitato  i  Latini  e  gli  Ernici  ad  interve- 
nire all'assemblea  popolare  in  cui  doveva  votarsi  la  sua  legge 
agraria  e  che  per  im]jedirU)  il  suo  collega  Virginio   avrebbe   con 


(1)  Su  Cassio  V.  MoMMSKN  i2ó'w.  Forschunijen  II  p.  153  segg.  Pais  I  1,  504  segg. 

(2)  Lrv.  II  41.  DioNYs.  Vili  69. 


10  CAPO   XllI  -  LA    PLEBE    E    I   SUOI    TRIBUNI 

un  editto  espulso  tutti  i  forestieri  da  Roma  (1).  Infatti  questo 
aneddoto  pseudostorico  è  ricalcato  sopra  il  conflitto  tra  C.  Gracco 
e  quel  console  Fannio  (122)  die  intimò  ai  Latini  ed  agli  alleati 
italici  di  sgombrare  la  città  perchè  non  sostenessero  la  rogazione 
presentata  da  Gracco  in  loro  favore  (2). 

Ma  prescindendo  anche  dalle  evidenti  falsificazioni  dell'età 
graccana  e  sillana^  la  notizia  stessa  d'una  legge  agraria  proposta 
da  Sp.  Cassio  ha  un  valore  storico  assai  dubbio,  perchè,  tra  altro, 
non  è  chiaro  come  potesse  in  questa  età  conservarsi  memoria  di 
proposte  non  approvate.  E  del  resto ,  secondo  una  tradizione, 
Sp.  Cassio  fu  messo  a  morte  per  aver  dimostrato  d'aspirare  alla 
tirannide  con  questa  legge  agraria  e  con  la  i3roposta  di  resti- 
tuire il  denaro  a  quelli  che  nel  492  avevano  comperato  il  frumento 
venuto  in  dono  dalla  Sicilia  durante  una  carestia,  quel  frumento 
stesso  che  è  ricordato  nella  leggenda  di  Coriolano  (3).  Ma  di  contro 
alla  leggenda  xdìù  nota  ve  n'è  un'altra  che  narra  come  ad  istiga- 
zione di  Sp.  Cassio  nove  tribuni  della  plebe  avessero  cosj)irato  af- 
finchè ai  magistrati  in  carica  (e,  dobbiamo  supporre,  soprattutto 
al  console  Cassio)  non  fossero  dati  successori,  quando  uno  dei  tri- 
buni, il  decimo,  P.  Muoio,  bruciò  vivi  i  colleglli  e  salvò  la  libertà  (4). 
Si  dava  però  del  fatto  dei  nove  tribuni  una  seconda  versione 
stando  alla  quale  i  patrizi  con  le  loro  mene  sarebbero  riusciti  a 
farli  bruciar  vivi  dal  popolo,  concitando  cosi  la  plebe  a  cercarne 
vendetta  (5),  ed  un'altra  ancora  secondo  cui  si  trattava  di  nove 
tribuni  militari  caduti  in  battaglia  contro  i  Volsci  (6).  La  varietà 
dei  racconti  mostra  quanto  la  fantasia  popolare  ed  erudita  si  sia 
affaticata  intorno  a  quel  lastricato  di  pietra  bianca  presso  il  Cù'co 
Massimo  che  si  designava  anche  più  tardi  col  nome  di  sepoltm-a 
dei  nove  tribuni,  senza  che  in  effetto  si  sapesse  nulla  dell'origine 


(1)  DioNYs.  Vili  72. 

(2)  App.  b.  e.  I  23.  Plut.  C.  Gracch.  12.  Niki.uhk  II  190. 

(3)  Liv.  II  41,  8.  DioNYS.  Vili  70. 

(4)  Val.  Max.  VI  3,  2.  Per  un  equivoco  occasionato  appunto  da  questo  rac- 
conto Valerio  Massimo  dice  altrove  (V  8,  2)  che  Cassio  come  tribuno  della 
plebe  propose  la  sua  lej^ge  agraria.  Cfr.  Mommsen  op.  cit.  p.  168  n.  31.  È  del 
tutto  infondata  l' ipotesi  del  Pais  I  1  p.  504  che  debba  qui  vedersi  traccia 
d'una  tradizione  affatto  diversa  da  quella  rappresentata  dai  fasti,  tradizione 
che  non  si  saprebbe  per  qual  via  possa  essere  pervenuta  a  Valerio. 

(5)  Cass.  Dio  fr.  21,  1  (=  Zon.  VII  17). 

(6)  Fest.  p.  174,  dove  si  parla  anche  del  lapis  aìhtts. 


SPURIO    CASSIO  11 


di  cotesta  designazione.  Ma  questa  singolare  variante  della  leg- 
genda di  Cassio,  indipendente  al  tutto  dalla  vulgata,  conferma 
lo  scarso  valore  della  vulgata  stessa.  Si  conservava  adunque  il 
ricordo  che  Sp.  Cassio,  glorioso  per  tre  consolati  e  per  la  conclu- 
sione del  trattato  coi  Latini,  era  stato  messo  a  morte,  e  si  riteneva 
per  tradizione  o  per  induzione  la  sua  condanna  cagionata  dall' aver 
egli  aspii'ato  alla  tirannide  o  dal  sospetto  che  vi  avesse  aspirato. 
Questa  tradizione  o  induzione  che  si  limita  a  riferire  la  nostra 
fonte  più  fededegna  (1)  non  è  da  resx3Ìngersi  alla  leggera,  tanto 
più  che  tentativi  i^er  usui'pare  la  tii-annide  non  potevano  mancare 
in  Roma  prima  che  fosse  fatta  ragione  alle  richieste  della^  plebe. 
Tutto  il  resto  non  son  che  induzioni  o  invenzioni  arbitrarie  di- 
rette a  colmare  le  lacune  della  tradizione.  Ed  anche  sul  modo 
della  morte  le  versioni  son  cosi  disparate  da  mostrare  soltanto 
quanto  si  sbizzarrisse,  in  difetto  di  notizie  sicui'e,  la  fantasia  degli 
annalisti.  Secondo  una  variante,  Cassio  accusato  da  uno  o  due  que- 
stori dinanzi  al  popolo  di  avere  aspii'ato  al  regno  è  condannato 
specialmente  sulla  testimonianza  del  padi'e  (2);  secondo  un'altra 
invece  è  condannato  a  morte  dal  ]3adre  in  un  giudizio  domestico  (3). 
Le  due  varianti  convengono  in  un  sol  particolare,  che  potrebbe 
anche  essere  attinto  ad  antica  tradizione,  nel  riferire  cioè  che  alla 
condanna  di  Cassio  ebbe  parte  in  un  modo  o  nell'altro  il  x>adre 
suo  (4). 


(1)  DioD.  II  37  :  òóSat;  imQéoQm  rr)  xupavviòi  Kai  KaTaYvuuae€Ì(;  àvripéBri. 

(2)  Cic.  de  re  p.  II  30.  60  (un  questore).  Livio  e  Dionisio  parlano  di  due 
questori  e  tacciono  della  testimonianza  paterna. 

(3)  Plin.  n.  h.  XXXIV  15.  Val.  Max.  V  8,  2.  Livio  e  Dionisio  accennano  a 
questa  versione  riprovandola;  e  la  riprova  pure  il  Mommsen  per  ragioni  non 
molto  diverse  da  quelle  che  avrebbe  potuto  addurre  Livio;  ma  forse  è  la  ver- 
sione genuina. 

(4)  Il  i>osto  della  casa  distrutta  di  Cassio  si  diceva  fosse  quello  ove  più  tardi 
fu  eretto  un  tempio  di  Tellure  (Cic.  de  domo  38,  101.  Val.  Max.  VI  8,  1)  ov- 
vero si  mostrava  secondo  altri  nelle  vicinanze  di  quel  tempio  (Liv.  II  41,  12. 
DioNYS.  VIII  79,  3).  L'annalista  Pisone  fr.  37  ap.  Plin.  n.  h.  XXXIV  30  ag- 
giunge che  apnd  uedem  Telluris  esisteva  una  statua  di  Sp.  Cassio  che  fu  poi 
fatta  fondere  dai  censori.  Dionisio  e  scrittori  noti  a  Livio  parlavano  invece 
di  pivi  statue  dedicate  a  Cerere  col  denaro  ricavato  dai  beni  confiscati  di 
Cassio.  Origine  di  tutte  queste  dicerie  è  probabilmente  una  statua  dedicata 
come  dono  votivo  da  qualche  Cassio  a  Cerere  nel  recinto  sacro  di  Tellure. 
Cerere  infatti  era  venerata  insieme  con  Tellure  in  Carinis  (CIL.  I  ^  p.  336  seg. 
RiCHTER  Topographie  *  p.  323  seg.)  ;  e  solo  i  moderni,  non  gli  antichi  mettono 
due  tempi  invece  di  uno  in  relazione  con  la  fine  di  Cassio. 


12  CAPO   XIII-  LA    l'I.KBK    E    I    SUOI    TRIBUNI 

Questo  è  il  poco  che  sappiamo  della  fine  di  Cassio.  Purtroppo 
la  confusione  fatta  a  proposito  di  lui  dagli  annalisti  è  accresciuta 
dalle  congetture  infondate  di  qualche  moderno.  Uno  scrittore  che 
non  sappiamo  neppure  se  sia  mai  esistito,  citato  da  un  altro  di 
cui  è  sospetta  la  sincerità  (1),  narra  che  durante  la  guerra  la- 
tina del  340  il  giovane  Cassio  Bruto  si  propose  di  aprire  le  porte 
di  Roma  al  nemico,  e  poi,  sorpreso,  si  rifugiò  nel  tempio  di  Mi- 
nerva; ma  il  padre  Cassio  Signifero,  chiuse  le  x^orte  del  tempio, 
ve  lo  fece  morire  di  fame.  Una  critica  temperata  non  potrà  dav- 
vero far  assegnamento  su  questa  storiella  per  Tanalisi  della  leg- 
genda del  console  Cassio;  poiché  è  evidente  che  si  tratta  di  un 
aneddoto  tardo  e  senza  valore  inventato,  come  tanti  altri  di  si- 
mile provenienza,  da  un  novelliere  greco,  il  quale  ha  fuso  la  storia 
dello  spartano  Pausania  con  la  leggenda  romana  di  Cassio,  com- 
binando nel  nome  del  protagonista  quelli  dei  due  uccisori  di  Ce- 
sare. Ed  anche  meno  può  trarsi  profitto  per  lo  studio  delle  tra- 
dizioni su  S]3.  Cassio  dalle  favole  povere  e  contraddittorie  su 
Cassio  Ai'gillo  (2),  l'eponimo  delFArgileto.  Costui,  secondo  alcuni, 
avrebbe  fabbricato  o  rifatto  nell'Argileto  una  porta,  secondo  altri 
vi  sarebbe  stato  ucciso  al  tempo  della  prima  guerra  punica  come 
eccitatore  di  tm^bolenze  o  vi  avrebbe  avuto  una  casa  disfatta 
dopo  la  battaglia  di  Canne,  quando,  per  aver  consigliato  a  far 
pace  coi  Cartaginesi,  sarebbe  stato  trucidato  in  pieno  senato. 
Ora  è  chiaro  che  la  persona  d'Argillo  è  tanto  poco  storica  quanto 
quella  del  ladrone  Macello,  che  avrebbe  dato  nome  al  mercato 
aperto  dai  censori  Fulvio  ed  Emilio  nel  179  perchè  costruito  sul 
luogo  della  sua  casa  confiscata  e  demolita  (3).  L'esempio  di  Ma- 
cello ci  illumina  anche  sul  valore  della  cronologia  di  iVi'gillo.  Il 
mercato  che  portava  il  nome  di  Macello  essendo  stato  aperto 
nel  179,  allo  stesso  anno  s'è  riferita  la  condanna  del  ladrone  Macello, 
sebbene  naturalmente  nulla  potesse  trovarsi  a  tal  proposito  negli 
scrittori  di  quella  età.  E  del  pari,  per  quei  lavori  edilizi  che  si 
erano  fatti  indubitatamente  nel  III  secolo  nell'Argileto,  se  ne 
sai*à  ascritto  a  quel  tempo  l'eponimo  Argillo.  Perchè   ad  Argillo 


(1)  Clitommo  citato  nei  parali,  min.  attribuiti  falsamente  a  Plutarco  c.  10. 
Di  questo  scrittore  non  si  fa  menzione  che  al  e.  21  degli  stessi  parallela  e  al 
e.  3  del  de  fluviis  pseudoplutarcheo,  scritto  anch'esso  eiusdeni  furfuris. 

(2)  Ap.  Serv.  Aen.  Vili  34.5. 

(3)  Fkst.  epit.  48.  125.  Donat.  ad  Ter.  Eunuch.  II  2,  25. 


SPURIO    CASSIO  13 


sia  stato  attribuito  il  gentilizio  di  Cassio  non  sappiamo  ;  forse  può 
avervi  dato  appiglio  la  tradizione  che  ricordava  come  si  fosse  de- 
molita la  casa  di  Sp.  Cassio.  Ad  ogni  modo  non  è  Sp.  Cassio  un'anti- 
cipazione di  questi  pretesi  Cassi  del  IV  o  del  IH  secolo  di  cui 
nulla  di  positivo  si  sa;  ma  al  contrario  questi  sono  probabilmente, 
foggiati  a  suo  esempio.  Per  giudicare  del  valore  relativo  di  due 
tradizioni  non  vale  il  criterio  del  loro  riferirsi  a  fatti  più  recenti 
e  più  antichi,  ma  occorre  l'esame  dei  loro  elementi  e  delle  loro 
note  caratteristiche. 

Dopo  la  pretesa  rogazione  agraria  di  Cassio  abbondano  no- 
tizie su  contese  per  l'agro  pubblico  negli  anni  seguenti.  Ora  è 
un'accusa  dei  tribuni  contro  i  consoli  lierchè  hanno  avversato  la 
legge  agraria;  ora  è  la  resistenza  inflessibile  d'un  Appio  Claudio 
alle  richieste  della  plebe  ;  ora  i  tribuni  s'oppongono  alla  leva  delle 
truppe  per  strappare  ai  patrizi  l'approvazione  della  legge  agraria  ; 
ora  l'invio  d'una  colonia  in  paese  di  conquista  vien  deliberato  per 
ammansare  i  poveri  e  per  distoglierli  dalla  pretesa  di  dividersi 
l'agro  ijubblico  cacciandone  i  j)ossessori  (1).  Tutti  questi  racconti  assai 
aridi  ed  omogenei  fino  al  tedio,  che  divengono  sempre  più  scoloriti 
dopo  il  decemvirato  ossia  quanto  più  ci  accostiamo  all'età  sto- 
rica, non  meritano  fede  né  punto  nò  poco.  Di  accuse  senza  effetto, 
di  proposte  non  approvate,  di  dibattiti  nel  senato  e  nel  Foro  pel 
sec.  V,  quando  mancava  un'istoriografia  contemjjoranea  e  tanto 
poco  si  scriveva,  non  poteva  conservarsi  ricordo.  Son  tutte  inven- 
zioni dell'età  graccana  e  sillana,  su  cui,  senza  neppm-e  tentare 
un'analisi  che  nei  particolari  sarebbe  vana,  può  pronunciarsi  una 
generica  condanna.  E  degnamente  si  cliiude  questa  serie  d'in- 
venzioni con  una  ancor  più  impudente  delle  altre,  la  rogazione 
agraria  Licinia  Sestia,  la  quale,  come  vedremo  (e.  XVII),  non  è 
che  copia  anticipata  d'una  legge  del  sec.  II  a.  C.  Quanto  al  plebi- 
scito Icilio  sull'Aventino,  che  è  probabilmente  storico,  nonostante 
sia  malsicura  la  data  che  gli  è  attribuita  del  456,  esso  è  bensì  una 
legge  agraria  nel  senso  che  dispone  d'una  xjorzione  dell'agro  pub- 
blico; ma  non  ha  nulla  a  fare  con  la  questione  agraria,  avendo 
soltanto  lo  scopo  di  fornire  ai  plebei  che  ne  avessero  bisogno  area 
fabbricabile  gratuita  in  un  sito  sano  e,  per  quanto  fuori  del  po- 
merio, vicinissimo  all'abitato  cittadino. 

Secondo    la   tradizione    la   carestia   contribuì  sovento    •:[(]   ina- 


(1)  V.  i  particolari- presso  Scuwegler  li  477  segg.  Ili  162  segg. 


I-i  CAPO  Xin  -  LA  PLKBE  E    l    SUOI  TKIBUNI 

sprire  le  discordie  tra  patrizi  e  plebei  (1);  ed  era  del  resto  inevi- 
tabile, tra  le  guerre  continue  e  non  sempre  fortunate  coi  vicini, 
per  cui  il  Volsco  o  l'Equo  raccoglievano  spesso  ciò  che  il  Latino 
aveva  seminato  col  sudore  della  fronte  ;  ma  anche  per  tal  rispetto 
le  cose  dovettero  migliorare  quando  sul  termine  del  sec.  V  co- 
minciò ad  affermarsi  nel  Lazio  la  superiorità  delle  armi  romane. 
Tra  le  carestie  onde  vien  fatta  parola,  una  è  quella  del  492 
in  cui,  a  quanto  è  riferito,  si  mandò  a  fare  incetta  di  grano 
fra  i  Volsci,  che  non  vollero  dar  nulla,  a  Cuma,  dove  il  grano 
comperato  dagli  ambasciatori  romani  fu  sequestrato  dal  tiranno 
Aristodemo ,  in  Etruria,  dove  si  fecero  provviste  che  servi- 
rono ai  bisogni  più  immediati;  infine  in  Sicilia,  dove  si  potè 
avere  gran  quantità  di  granaglie  parte  per  compera  parte  per 
dono  d'un  princix3e,  che  alcuni  annalisti  chiamavano,  con  grosso- 
lano anacronismo,  Dionisio,  ossia  col  nome  del  tiranno  che  domi- 
nava nell'isola  un  secolo  dopo  (2).  Negli  stessi  paesi,  secondo  la 
tradizione,  si  cercò  il  grano  onde  sopperire  alla  carestia  del  433  (3). 
E  di  nuovo  nel  411  si  inviarono  al  medesimo  scopo  ambasciatori  in 
Etruiia,  in  Campania  e  in  Sicilia;  ed  anche  ora,  mentre  da  Capua 
e  da  Cuma  agli  ambasciatori  non  venne  fatto  d'ottener  nulla,  riu- 
scii'ono  a  fornirsi  di  granaglie  in  Etriuia  e  in  Sicilia,  dove  f m'ono 
aiutati  all'uopo  da  quei  tiranni,  che  in  realtà  nel  411  in  Sicilia  non 
potevano  trovare  (4).  Questi  racconti,  in  cui  è  evidente  la  influenza 
delle  frumentazioni  dell'età  graccana,  provano  soltanto  con  quale 
impudenza,  degna  della  loro  povertà  d' inventiva,  gli  annalisti 
tardi,  per  riempire  i  vuoti  della  tradizione,  ripetessero  a  sazietà 
gli  stessi  particolari;  e  mostrano  che  non  dobbiamo  avvisarci  di 
poter  scrivere  la  storia  dell'annona  romana  nel  sec.  Y. 

Una  menzione  speciale  richiede  del  resto  la  carestia  del  440-439, 
che  si  connette  con  la  leggenda  di  Sp.  Melio  (5).  Nei  due  anni  440 
e  439  L.  Minucio,  di  cui  un    annalista  i)oco  veridico   asserisce  di 


(1)  Per  maggiori  particolari  v.  p.  es.  Cardinali  Frumentatio  in  De  Ruggiero 
'  Dizionario  epigrafico  di  antichità  romane  '  II  p.  225  segg. 

(2)  Liv.  II  34.  DioNYs.  VII  1-2.  12.  Dionisio  cita  gli  annalisti  Licinio  e  Gellio 
che  parlavano  del  tiranno  suo  omonimo. 

(3)  Liv.  IV  25. 

(4)  Liv.  IV  52. 

(5)  ScHWEGLER  III  130  segg.  MoMMSEN  Rom.  Forschungen  II  199  f'dgg.  Pais  I 
1,  539  segg. 


SPURIO   ME  LIO  15 


aver  trovato  nei  libri  liiitei  il  nome  come  di  prefetto  deirannona  (1), 
nonostante  la  sua  buona  volontà,  non  riuscì  a  lenire  le  sofferenze 
della  plebe  affamata.  Ne  venne  invece  a  capo  un  ricco  plebeo, 
Sp.  Melio,  facendo  in  Etruria  e  Campania  incetta  di  grano,  che 
largì  gratuitamente  o  a  prezzi  miti.  Ma  ora  Melio,  insuperbito  dal, 
favore  popolare,  cominciò  ad  aspii^are  alla  tirannide.  Il  senato, 
messo  sull'avviso  da  Minucio,  provvide  in  fretta  a  far  nominare 
dittatore  il  veccliio  Cincinnato,  che  scelse  a  maestro  de'  cavalieri 
C.  Servili o  Ahala.  Tosto  Melio,  citato  al  tribunale  del  dittatore  e 
riluttante  ad  ubbidii'e,  fu  ucciso  da  Servilio.  Questa  è  la  tradizione 
più  divulgata,  che  mira  evidentemente  ad  attenuare  e  giustificare 
Tomicidio  perpetrato  da  Servilio  (2).  Un'altra  versione  data  da  an- 
tichi annalisti,  che  sembra  appunto  la  versione  originaria,  igno- 
rando la  dittatura  di  Cincinnato,  narrava  che  Servilio  pugnalò,  ad 
instigazione  del  senato,  Melio,  asx3Ìrante  alla  tirannide  (3).  Quest'ul- 
timo racconto  evidentemente  non  è  che  un  mito  etimologico  desti- 
nato a  spiiegare  il  cognome  di  Ahala  od  Axilla,  ascella,  in  uso  presso 
i  Servili,  dal  pugnale  che,  secondo  un  uso  greco-romano,  Servilio 
avi^ebbe  portato  sotto  l'ascella  (4)  quando  s'avventò  su  Sp.  Melio. 
Con  gli  elementi  essenziali  del  racconto  cadono  anche  gli  altri, 
che  del  resto  peccano  essi  pure  d'inverisimiglianza.  Non  solo  è  da 
escludere  che  un  plebeo  prima  di  raggiungere  qualsiasi  magistra- 
tiura,  e  sia  pure  il  tribunato  della  plebe ,  aspirasse  alla  tirannide  ; 
ma  una  storiella  simile  non  poteva  inventarsi  che  quando,  parificata 
la  plebe  nei  duitti  al  patriziato,  s'era  dimenticato  l'abisso  che  se- 
parava nel  V  secolo  patrizi  e  plebei.  Come  si  formasse  la  leggenda 
di  Melio  dice  chiaro  la  tradizione  stessa  narrando  che  ucciso  Melio 
fu  distrutta  la  sua  casa,  onde  il  sito  ove  sorgeva  ebbe  il  nome  di 


(1)  Ap.  Liv.  IV  1.3,  6.  L'annalista  è  secondo  ogni  verisimiglianza  Licinio 
Macro.  'ETtapxoq  (Tf]<;  àxopàq)  e  detto  Minucio  anche  in  Dionys.  XII  1.  Secondo 
altri  sarebbe  stato  cooptato  come  undecimo  tribuno  della  plebe  (Plin.  n.  h. 
XVIII  15,  off.  Liv.  IV  16,  3),  il  che  è  anche  meno  credibile. 

(2)  La  più  antica  testimonianza  di  questa  versione  è  in  Cic.  Caio  16,  56. 
Pel  resto  v.  Liv.  IV  13  segg.  Dionys.  XII  1  segg.  Auct.  de  vir.  ili.  17,  5.  Zon. 
VII  20,  e  moltissimi  accenni  in  tutta  la  letteratura  latina.  —  Dico.  XII  37 
ha  soltanto:  Z-rrópioe;  MaiXi0(;  èin6é|U€vo<;  Tupavviòi  àvripéGr).  Ignoriamo  se  questa 
dittatura  di  Cincinnato  fosse  registrata  nei  fasti. 

(3)  CiNCio  Alimento  e  Calpubnio  Pisone  ap.  Dionys.  XII  4.  È  arbitrario  alte- 
rare il  testo  come  propone  Mommsen  Rum.  Forschungen  II  199  n.  98. 

(4)  V.  specialmente  Cass.  Dio  XLIV  34.  Mommsen  op.  cit.  TI  201  n.  105. 


16  CAPO    Xlir-  LA    IM.EBE    E    I    SUOI    TKIBUNI 

Equimelio  dalla  casa  eli  Melio  adegnata  al  suolo  (1);  e  però  Melio 
non  è  che  l'eponimo  deirEquimelio.  Il  suo  prenome  di  Spuiio  è 
dovuto  alla  efficacia  della  tradizione  più  antica  e  più  fondata 
su  Sp.  Cassio,  conforme  alla  quale  fu  anche  motivato  T  atterra- 
mento della  casa  con  Taver  ambito  la  tirannide.  Eliminata  del 
resto  la  pretesa  dittatura  di  Cincinnato,  la  leggenda  di  Melio  ri- 
mane anche  senza  cronologia,  iDerchè  il  nome  di  Melio  non  ricorre 
nei  fasti,  mentre  nei  fasti  stessi  il  cognome  di  Ahala  è  già  portato 
dal  console  Servilio  del  478,  parecchio  tempo  prima  dell'anno  a 
cui  la  tradizione  riferisce  la  uccisione  di  Melio.  Quanto  poi  a  Mi- 
nucio,  la  sua  prefettui^a  dell'annona  è  molto  sospetta,  come  tutto 
ciò  per  cui  viene  addotta  l'autorità  dei  libri  lintei,  tanto  più  che 
quella  magistratura  compare  per  la  prima  volta  nel  101  a.  C.  E 
però  anche  la  leggenda  di  Minucio  è  senza  cronologia.  La  rela- 
zione tra  le  leggende  di  Melio  e  di  Minucio  s'è  voluta  spiegare 
con  la  vicinanza  tra  l'Equimelio  e  il  portico  Minucio  frumentario 
che  serviva  per  le  distribuzioni  di  grano  alla  plebe.  Questa  avrebbe 
dato  ansa  a  favoleggiare  che  all'ambizioso  Melio,  l'eponimo  del- 
l'Equimelio,  avesse  fatto  concorrenza  con  mezzi  legittimi  un  Mi- 
nucio (2).  In  realtà  il  portico  Minucio  venne  eretto  dopo  il  110  da 
M.  Minucio  vincitore  dei  Traci  (3),  e  le  distribuzioni  di  grano  onde 
ebbe  il  nome  di  portico  frumentario  non  vi  cominciarono  che  al 
tempo  dell'imperatore  Claudio  ;  mentre  di  Minucio  in  relazione  con 
Melio  già  parlavano  annalisti  anteriori  al  110  (4).  Quindi  una  critica 
prudente  dovi'à  limitarsi  a  riconoscere  che  si  conservava  verisi- 
milmente  ricordo  d'un  Minucio  benefattore  del  popolo  in  tempo 
di  carestia  e  che  la  leggenda  collegando  Minucio  e  Melio  volle 
associare  e  contrapporre  l'onesto  filantropo  al  benefattore  interes- 
sato della  plebe  (5). 


(1)  Varrò  de  l.  l.  V  157  :  Aequimelium  quod  aequata  Maeli  dontus  publìco  (sic) 
qiiod  regntim  occupare  voluit  is.  Cic.  de  domo  38,  101.  Dionts.  Xn4,  6.  Forse  da 
un'altra  ortografia  di  Aequimelium  che  usava  una  e  in  luogo  del  dittongo  è 
derivata  la  notizia  data  da  Livio  e  Dionisio  che  Melio  fosse    cavaliere,  eques. 

(2)  Pais  1  1,  p.  543;  ma  vedi  le  giuste  osservazioni  del  Cardinali  mem.  cit. 
p.  227. 

(8)  Vell.  II  8,  3. 

(4)  Come  Cincio  Alimento  citato  sopra  a  p.  15  n.  3. 

(5)  Fuori  della  porta  Trigemina  sorgeva  una  colonna  sormontata  da  una 
statua  che  si  riteneva  rappresentasse  Minucio  :  Plin.  n.  h.  XVIII 15.  XXXIV  21. 
DioNYS.  XII  4,  6.  V.  il  denaro  di  C.  Minucio  Augurino  (Babelon  Monnaies  de  la 


MINUCIO.    LE    TRIBÙ   RUSTICHE  17 

Nel  tutto  insieme  ciò  che  la  tradizione  ci  riferisce  sulle  contese 
pel  miglioramento  economico  della  plebe  è  poco  degno  di  fede. 
Una  qualche  notizia  s'era  trasmessa  delle  sofferenze  dei  plebei  per 
effetto  dei  debiti  e  forse  anche  del  malessere  agrario  e  di  gravi 
carestie  ;  ma  deirandamento  della  lotta  e  di  quel  che  ne  determinò 
l'esito  era  smarrito  ogni  ricordo.  Pochi  fatti  di  cui  il  significato 
non  sempre  è  chiaro,  come  la  condanna  di  Cassio,  la  secessione 
della  plebe  sull'Aventino,  forse  le  larghezze  di  Minucio  (se  pur 
queste  son  qualcosa  più  d'una  semplice  induzione  dall'esistenza  di 
una  statua  a  lui  attribuita),  sono  stati  coperti  da  un  tal  viluppo 
di  congetture,  di  falsificazioni  e  di  leggende  di  carattere  secondario 
e  i^osteriore  da  renderli  quasi  irriconoscibili.  Disgraziatamente 
come  è  alterato  il  quadro  delle  contese  economico-sociali  tra  plebe 
e  patriziato,  cosi  è  alterato  quello  delle  lotte  pei  diritti  politici  e 
per  l'eguaglianza  civile.  Ma  in  questi  due  camx)i  ci  danno  qualche 
luce  maggiore  i  risultamenti  ottenuti.  E  da  essi  convien  prendere 
le  mosse. 

Per  resistere  efficacemente  al  mal  governo  aristocratico,  i  cax)i 
della  plebe  riuscirono  a  darle  ordini  suoi  propri  e  a  formarne  come 
uno  Stato  entro  lo  Stato  (1).  Agevolò  l'opera  loro  la  istituzione 
delle  nuove  tribù  territoriali  (2).  Le  vecchie  tribù  dei  Ramnensi, 
Tiziensi  e  Luceri,  di  cui  s'era  andata  disgregando  la  compagine 
locale,  non  erano  i)iù  distretti  di  leva  acconci  se  si  voleva  con  l;i 


rép-  Romaine  II  229)  e  quello  di  suo  figlio  Tiberio  (II  230),  dove  è  rappresen- 
tata la  colonna  con  la  statua,  che  appare  armata  di  lancia.  In  Livio  IV  16 
si  legge:  L.  Minucius  bove  aurato  (un  bue  con  le  corna  dorate,  dono  che  ha 
analogia  p.  es.  in  Liv.  VII  37)  extra  portam  Trigeminam  est  donatus,  dove  già 
NiEBUHR  vide  che  dopo  aurato  dev'essere  caduto  et  statua.  Cfr.  De  Rossi  '  Ann. 
deirinst.  '  1885  p.  226.  Qualche  critico  (Pais  I  1,  545  segg.)  pel  fatto  solo  che 
fuori  della  porta  Trigemina  era  anche  un  sacrario  d'Ercole  pretende  che  Mi- 
nucio, l'autore  della  denuncia  dunvuoiq)  a  carico  di  Melio,  non  sia  altro  che 
Ercole  rivelatore  (inrivuTric;).  Ma  questa  ipotesi  non  può  citarsi  che  a  titolo  di 
curiosità. 

(1)  Questa  frase  che  esprime  esattamente  la  posizione  della  plebe  in  Roma 
nel  sec.  V  è  stata  coniata,  credo,  dal  Lange  I  ^  593  segg.  Meno  esatto  è  con 
Liv.  II  44,  cfr.  IV  45,  parlare  di  duas  civitates  ex  una  factas,  specialmente 
quando  vi  si  voglia  sottintendere  la  esclusione  della  plebe  dal  populus  (cfr. 
I  p.  224  n.  2). 

(2)  MoMMSEN  Die  rom.  Tribus  in  administrat.  Beziehung  (Altona  1844).  Ku- 
BiTsciiEK  De  Romanarum  tribuum  origine  ac  propagatione  ('  Abhandl.  des  archàol.- 
epigr.  Seminares  zu  Wien  '  III  1882). 

G.  De  Sasctis,  Storia  dei  Romani,  II.  2 


18  CAPO    XIII  -  LA    PLEBE    E    I    SUOI    TKTBUNI 

somma  delle  forze  assicurare  la  vittoria.  Non  era  più  il  tempo  in 
cui  da  pochi  guerrieri  patrizi,  prodi  e  bene  armati,  dipendeva  l'esito 
delle  battaglie,  mentre  la  folla  indisciplinata  e  male  armata  dei 
clienti,  buona  solo  a  saccheggiare  e  a  trar  d'arco,  era  pronta  a 
fugghe  quando  quelli  avevano  la  peggio.  Già  durante  l'età  regia 
gli  ordinamenti  militari  si  eran  venuti  trasformando,  e  più  che 
il  valore  individuale  contava  il  tener  fermo  delle  schiere  di  sol- 
dati forniti  d'armatura  pesante.  Per  questo  e  perchè  non  dimi- 
nuisse la  forza  dell'esercito  col  ridursi  dei  patrizi,  era  indispensa- 
bile chiamar  regolarmente  alle  armi  la  plebe  rullale,  creando  nuovi 
distretti  territoriali  di  leva  (1).  Con  la  leva  diveniva  più  facile  me- 
diante i  nuovi  distretti  anche  la  riscossione  del  tributo  essendo 
agevole  stendere  distretto  per  distretto  le  liste  dei  proprietari. 

n  territorio  dello  Stato  romano,  come  in  generale  d'ogni  Stato 
italico,  era  distribuito  in  tanti  pagi,  che  potevano  in  parte  essere 
anteriori  persino  alle  origini  di  Roma,  i  cui  abitanti  si  trovavano 
stretti  insieme  da  vincoli  economici  e  religiosi.  E  possibile  che  per 
designare  i  pagi  si  adoperasse  già  anticamente  la  parola  tribù  che 
anche  più  tardi  era  viva  nell'uso  in  questo  significato  (2).  Ad  ogni 
modo,  quando  si  riformarono  gli  ordinamenti  militari,  di  codesti 
pagi  si  servi  lo  Stato  come  distretti  di  leva,  e  allora  presero,  se 
non  lo  portavano  prima,  il  nome  degli  antichi  distretti  di  leva,  le 
tribù.  S'intende  che  nel  dare  alla  distribuzione  del  territorio  in  pagi 
una  importanza  e  un  ufficio  che  prima  non  aveva,  convenne  fis- 
sarla in  modo  definitivo,  determinando  con  la  dovuta  esattezza 
i  confini,  riunendo,  se  n'era  il  caso,  due  o  più  pagi  minori,  divi- 
dendo in  due  il  territorio  d'uno  maggiore,  a  fine  di  correggerne, 
almeno  in  X3arte,  le  irregolarità.  Iscritto  ciascuno  in  quella  tribù 
dove  era  proprietario  di  stabili  secondo  il  diritto  dei  Quiriti, 
venne  cosi  divisa  la  cittadinanza  nelle  diciassette  tribù  che  poi  in 
opposizione  alle  m-bane  furono  chiamate  rustiche  (3).  I  loro  nomi 


(1)  Come  procedesse  la  leva  per  tribù  nel  sec.  li  si  vede  da  Polyb.  VI 
19  seg.,  con  le  osservazioni  di  J.  J.  Muellek  '  Philologus  '  XXXIV  (1878) 
p.  104  segg. 

(2)  P.  es.  Cato  fr.  44  Peter  ap.  Plin.  u.  h.  Ili  116:  Boi  quorum  tribus  CXII 
fuisse  auctor  est  Cato.  Sul  significato  del  vocabolo  tribìi  v.  I  p.  249  n.  2  e  3. 

(3)  Sulla  recenziorità  delle  tribìi  urbane  e  la  loro  natura,  v.  oltre  e.  XVII. 
L'opinione  del  Niiìbuhr  I  464  segg.  che  le  tribìi  in  origine  comprendessero  sol- 
tanto i  plebei  e  non  vi  avessero  adito  i  patrizi  prima  del  decemvirato  manca 
di  qualsiasi  prova,  contrasta    col    fatto    che    la   divisione  del  tei-ritorio  e  dei 


LE    TRIBÙ   RUSTICHE  19 


avevano  tutti,  eccetto  uno,  quello  della  tribù  Clustumina,  carattere 
gentilizio  e  provenivano  in  parte  da  genti  che  esistevano  tuttora 
in  età  storica,  cioè  le  genti  Emilia,  Claudia,  Cornelia,  Fabia,  Grazia, 
Menenia,  Papiria,  Romilia,  Sergia,  Voturia,  e  in  parte  da  genti 
estinte,  la  Camilla,  la  Galeria,  la  Lemonia,  la  Follia,  la  Fupinia  e. 
la  Voltinia.  Queste  denominazioni  però  non  furono  prese  diretta- 
mente dalle  genti,  ma,  come  è  jDrobabile,  dai  pagi,  i  quali  alla  loro 
volta  avevano  tolto  nome  dalla  gente  clie  vi  era  più  cospicua  (1).  Né 
dai  nomi  si  deve  arguire  clie  la  divisione  in  tribù  sia  stata  imma- 
ginata nell'interesse  delle  genti  nobili.  Essa  deve  in  massima  aver 
adottato  i  nomi  esistenti,  i  quali  per  buona  parte  derivavano  da 
genti  allora  estinte  :  al  modo  stesso  die  distene  nella  divisione  in 
demi  dell'Attica  non  esitò  ad  assumere  qua  e  là  denominazioni 
gentilizie  quando  erano  suggerite  dalF  uso  locale.  Ed  è  naturale 
elle  ancor  idìù  di  distene  largheggiassero  neiradottare  denomina- 
zioni siffatte  i  consoli  o  i  commissari  patrizi  incaricati  di  questa 
divisione  del  territorio  dal  governo  aristocratico  di  Roma. 

Nulla  sapevano  gli  antichi  sulla  origine  delle  tribù  rustiche:  e 
appunto  per  ciò  Fattribuivano  al  legislatore  leggendario,  Servio 
Tullio.  Lo  scarso  valore  della  tradizione  costituzionale  si  palesa 
anche  qui,  poiché  vi  erano  alcuni  che  ascrivevano  a  Servio  non 
le  sole  tribù  rustiche  iiiù  antiche,  ma  tutte  e  trentuna  (2),  com- 
prese persino  quelle  che  furono  istituite  in  piena  età  storica,  sulla 
fine  della  prima  guerra  jjuiiica;  ed  altri  riducendo,  ma  in  modo 
insufficiente,  quel  numero,  parlavano  di  ventisei  tribù  rustiche  ser- 
viane  (3).  Lasciando  da  parte    queste    pseudotradizioni    di    nessun 


cittadini  in  tribù  è  stata  sempre  curata  dallo  Stato  e  non  dalla  plebe  e  final- 
mente è  inconciliabile  senza  sottigliezze  coi  nomi  gentilizi  che  portano  le  tribù 
più  antiche.  La  ipotesi  del  Mommsen  Staaisrecht  III  168  seg.  che  la  istituzione 
delle  tribù  rustiche  coincida  con  la  origine  della  proprietà  privata  nel  terri- 
torio romano  non  ha  altro  fondamento  che  quello  della  pretesa  proprietà  col- 
lettiva gentilizia,  su  cui  v.  al  e.  seg. 

(1)  Cfr.  Fest.  epit.  p.  11-5:  Lemonia  trihus  a  payo  Lemonio  apjyellata  est  qui  est 
a  2)orta  Capena  via  Latina. 

(2)  Vennon.  ap.  DiONYS.  IV  1-5. 

(3)  DiONYs.  IV  1.5:  bieìXc  bè  Kal  xriv  xiupav  cJTtaaav,  ubq  \xiv  <X>à^\òc,  qpr|oiv,  eìq 
|ioipa(;  ?E  Te  Kai  etKoaiv  he,  koì  aiiTàc,  KoXeì  qpuXd;.  Non  è  il  caso  di  mettere  in 
dubbio  quindi  che  Fabio  abbia  voluto  parlare  realmente  di  tribù.  Varrò  ap. 
Non.  p.  4-3:  et  extra  urbein  in  rejiones  XXVI  agros  viritim  liberis  adtrihuit 
8Ì  è  limitato  a  parlare  di  regioni  anziché  di  tribù  per  conciliare  la  notizia 
di  Fabio  con  quel  che  a  lui,  erudito  com'era,  non  poteva  essere  ignoto,  che 
cioè  le  tribù  rustiche  più  antiche  non  furono  più  di  17. 


20  CAPO   Xin  -  LA    PLEBE    E    I    SUOI    TKIBUNI 

momento,  è  fuori  di  dubbio  che  le  diciassette  più  antiche  tribù 
nistiche  sono  anteriori  al  387,  quando  se  ne  istituirono  quattro 
nuove  nel  territorio  veiente  (1),  ed  è  assai  probabile  che  siano  di 
non  poco  anteriori.  Tuttavia  certe  notizie  tradizionali  che  confer- 
merebbero questa  opinione  non  possono  esser  tenute  in  gran  conto. 
Così  la  tradizione  parla  delFaumento  del  numero  delle  tribù  già 
nel  495  (2),  probabilmente  assegnando  a  quell'anno  la  istituzione 
della  tribù  Claudia  (3)  o  della  Clustumina  o  d'ambedue.  E  non  è 
impossibile  che  queste  due  tribù  sieno  più  recenti  delle  altre,  e  par 
certo  almeno  che  più  recente  è  l'annessione  dei  territori  in  cui  ven- 
nero fondate.  Ma  se  al  495  si  è  riferita  l'origine  della  tribù  Clu- 
stumina, questa  è  una  induzione  basata  sul  ritenersi  a\^^ennta 
nella  regione  clustumina  la  secessione  del  494;  e  se  a  quell'anno 
s'è  riferita  l'origine  della  Claudia,  ciò  si  collega  con  la  leggenda  che 
narra  intorno  a  quel  tempo  Timmigrazione  della  gente  Claudia 
co'  suoi  clienti  nel  territorio  romano;  ed  abbiamo  visto  (I  p.  221)  lo 
scarso  valore  di  questa  leggenda  ed  il  suo  difetto  di  cronologia. 
Son  da  aver  parimente  sospette  le  notizie  più  antiche  sui  concili 
tributi  della  plebe.  La  prima  menzione  di  essi  è  al  471,  quando,  a 
quel  che  si  narra,  su  proi^osta  del  tribuno  A^olerone  Pubblio,  venne 
stabilito  che  i  magistrati  della  plebe  fossero  eletti  in  assemblee 
ordinate  per  tribù  (4)  ;  ma  Volerone  Pubblio  è  probabilmente  una 
copia  anticipata  del  dittatore  Pubblio  Filone  che  si  studiò  appunto 
con  la  sua  legge  del  339  d'allargare  i  diritti  dei  concili  tributi. 
Vedremo  più  oltre  (e.  XV)  quanto  poco  assegnamento  si  possa 
fare  sul  racconto  del  processo  di  Coriolano  dinanzi  alle  tribù.  Né 


(1)  Liv.  VI  6,  8. 

(2)  Liv.  II  21,  7  :  Romae  trihus  una  et  viginti  factae.  Probabilmente  la  fonte 
di  Livio  non  voleva  dire  che  furono  allora  istituite  le  tribù,  ma  solo  che  fu- 
rono portate  a  ventuno. 

(3)  Liv.  II  16,  5  riferisce  peraltro  la  origine  di  questa  tribvi  al  504;  ma  può 
benissimo  qualche  annalista  averne  collegato  la  istituzione  col  primo  conso- 
lato d'un  Claudio,  che  cade  appunto  nel  495.  Cfr.  Mommsen  Edm.  Forschuvgen 
I  p.  188  n.  18.  Questa  interpretazione  è  confortata  anche  à^Wa,  periocha:  Claudia 
trihus  adiecta  est,  numerus  trihuum  ampUatus  est  ut  essent  viginti  una. 

(4)  Liv.  II  56,  2:  ut  plebei  magistratus  comitiis  tributis  fierent.  Cfr.  58,  1. 
DioNTs.  IX  41.  X  4.  La  storicità  di  questa  legge  è  stata  negata  per  primo 
dal  Hkrzog  GlaubwUrdigkeit  der  Gesetze  bis  387  der  Stadt  (Tùbingen  1881)  p.  16. 
V.  NiccoLiNi  La  legge  di  Publilio  Volerone  negli  '  Ann.  della  scuola  normale 
di  Pisa  '  1895.  Pais  I  1  536  segg. 


LE    TRIBÙ    RUSTICHE  21 


maggior  fede,  come  dimostreremo  (e.  XIV),  s'ha  da  prestare  alla 
legge  Valeria  Grazia  che  dicliiarava  valevoli  per  tutto  il  pox)olo 
i  plebisciti  votati  nei  concili  tributi  della  ijlebe  (1).  Tuttavia  i  nomi 
gentilizi  delle  tribù  ne  provano  la  relativa  antichità  mostrando 
che  quando  furono  istituite  in  parte  perdurava  e  in  parte  si  ri-, 
cordava  come  cosa  recente  quel  primato  delle  genti  patrizie  nei 
pagi  che  venne  poi  a  cessare  a  grado  a  grado  con  l'estinguersi  di 
alcune  e  con  lo  spargersi  dei  possessi  d'altre  e  dei  loro  clienti  per 
tutto  il  territorio  dello  Stato.  Non  è  prudente  però  riferir  le  tribù 
ad  età  troppo  remota,  sia  per  gli  ordinamenti  militari  progrediti 
che  i3resuppongono,  sia  perchè  tra  esse  la  tribù  Papiria  desumeva 
il  suo  nome  da  una  delle  genti  minori  che  non  raggiunse  il  con- 
solato prima  della  metà  del  sec.  V.  Ma  certo  le  tribù  rustiche,  es- 
sendo il  iDresupposto  degli  ordinamenti  rivoluzionari  datisi  dalla 
plebe,  sono  anteriori  ai  triontì.  che  la  i^lebe  ottenne  in  virtù  di 
questi  ordinamenti,  quali  la  determinazione  del  diritto  vigente  per 
mezzo  del  codice  decemvirale  e  il  temporaneo  sostituirsi  del  tribu- 
nato militare  al  consolato.  E  iDerò  cormene  assegnare  l'origine  delle 
tribù  alla  prima  metà  del  sec.  V,  e  qualora  si  voglia  credere  che 
le  date  tradizionali  dell'aumento  del  numero  di  esse  nel  495,  della 
secessione  nel  494  e  dell'origine  dei  concili  tributi  nel  471,  ab- 
biano un  fondamento  di  verità,  ad  una  di  queste  si  può  ascrivere, 
senza  dilungarsi  di  molto  dal  vero,  l'origine  delle  tribù  rustiche. 
Senonchè  è  più  j)rudente  astenersi  dal  x^roporre  una  data  precisa 
sia  per  l'incertezza  di  quelle,  sia  i^er  l'imbarazzo  della  scelta 
tra  esse  (2). 

La  partizione  del  popolo  in  tribù  ebbe  effetti  gravissimi  e  im- 
preveduti a'  suoi  autori,  che  si  proponevano  non  già  il  fine  demo- 
cratico cui  mirava  p.  e.  ad  Atene  distene  istituendo  le  tribù  ter- 
ritoriali, ma  soltanto  il  migliore  ordinamento  della  leva  e  del  tributo. 
Fino  allora  nelle  assemblee  popolari  delle  curie  e  delle  centmùe 
X)revalevano  i  patrizi  (e.  XI).  Nò  il  governo  aristocratico  aveva 
alcun  interesse  a  convocare  i  cittadini  secondo  le  nuove  circoscri- . 
zioni  territoriali  in  comizi  tributi,  permettendo  così  ai  piccoli  pro- 
l)rietari  rurali,  che  formavano  la  parte    più  sana   e    [)iù    vigorosa 


(1)  Liv.  Ili  55.  DioNYS.  XI  45. 

(2)  Meno  verisimile  è  la  data  del  457  proposta  da  K.  J.  Neumann  Grund- 
herrschaft  etc.  Quanto  alla  sua  ipotesi  che  la  loro  istituzione  coincida  con  la 
liberazione  dei  contadini,  essa  manca  di  qualsiasi  fondamento.  Cfr.  1  p.  227  n.  1. 


22  CAl'O    XLIl  -   LA     IM.KIiK    K    i    .SUOI    TKIBIXI 


della  iDlebe,  di  far  sentire  eflicacemente  la  loro  voce.  Ma  vi  prov- 
vide per  conto  proprio  la  plebe  stessa.  E  da  credere  che  non  fos- 
sero mancate  anche  prima  tra  i  plebei  di  quelle  riunioni  pul)- 
bliche  per  discutere  gl'interessi  di  classe  che  ora  dicono  comizi  e 
che  i  Romani  chiamavano  concili,  riservando  il  nome  di  comizi 
alle  riunioni  dell'assemblea  popolare  (1).  Ma  in  queste  adunanze,  che 
si  saranno  veri  similmente  convocate  per  curie  (2),  riusciva  facile 
acquistare  il  predominio  sia  alla  plebe  urbana  che  v'interveniva  -pìn 
numerosa,  sia  ai  clienti  dei  patrizi  che,  d'ordine  appunto  dei  loro 
patroni,  potevano  recarvisi  compatti;  e  così  da'  suoi  concili  la  plebe 
non  s'avvantaggiava  gran  fatto.  Quando  però  si  cominciarono  a 
stendere  liste  di  cittadini  per  tribù  secondo  l'ubicazione  de'  loro 
possessi  fondiari,  i  plebei  ordinando  per  tribù  i  propri  concili  me- 
nomarono ad  un  tratto  l'autorità  della  plebe  urbana  che  poco  o 
nulla  possedeva,  e,  disciogliendo  le  clientele  dei  patrizi  che  rima- 
sero disseminate  fra  le  tribù,  assicurarono  il  predominio  dei  pic- 
coli ijroprietarì  rurali.  E  tosto,  le  forze  plebee  disgregate  fin  qui 
avendo  trovato  il  modo  di  stringersi  assieme  e  di  farsi  valere,  le 
assemblee  della  jDlebe  acquistarono  nello  Stato  un'autorità  inattesa. 
Erano  del  resto  questi  concili  tributi  della  plebe  ben  distinti  dai 
comizi  tributi  di  tutto  il  popolo  (3),  che,  -  istituiti  più  tardi  ad 
imitazione  di  quelli,  ma  con  attribuzioni  elettorali,  legislativo    o 


(1)  Lael.  Felix  ap.  Gell.  n.  A.  XV  27,  4:  is  qui  non  universum  popuhon  sed 
paHem  aliquam  adesse  iubet,  non  comitia,  sed  concilium  edicere  debet. 

(2)  Secondo  Dionys.  IX  41  (cfr.  V[  89.  X  4)  e  Cic.  prò  Coni.  fr.  28  Orelli 
i    tribuni  della  plebe   prima  d'essere  eletti   dalle    tribù    furono    eletti    dalle 

curie.  E  questa  una  semplice  induzione,  ed  errata,  perchè  i  tribuni  suppon- 
gono le  tribù  serviane;  ma  parte  dal  giusto  presupposto  che  non  debbono 
esser  mancate  riunioni  della  plebe  prima  della  sua  partizione  per  tribù  e  che 
in  quelle  riunioni  la  plebe  non  poteva  a  meno  di  votare  secondo  la  divisione 
dei  cittadini  in  curie.  Noi  dobbiamo  ripetere  l'induzione  antica;  ne  v'è  per  tal 
rispetto  alcuna  difficoltà,  superato  l'errore  della  composizione  esclusivamente 
patrizia  delle  curie  (I  p.  245  n.). 

(3)  Questa  distinzione  fu  messa  in  sodo  con  la  massima  chiarezza  dal  Mommsen 
Rom.  Forschungen  1  151  segg.  V.  anche  Berns  De  comitiorum  tributorum  et 
conciliorum  plebis  discrimine  (Wetzlar  1875  diss.);  ne  essa  rimane  infirmata 
dalle  obbiezioni  dell'IuNE  '  Rh.  Museum  '  XXVllI  (,1873)  p.  353  segg.  Quando 
siano  stati  istituiti  i  comizi  tributi  è  incerto.  Può  darsi  che  si  siano  comin- 
ciati a  convocare  nel  421  per  la  elezione  dei  questori;  ma  è  pur  possibile  che 
non  sieno  anteriori  alla  censura  d'Ap.  Claudio,  v.  e.  XVII. 


LEGGI    SACRATE  23 


o-indiziarie  di  limitata  importanza  (1),  come  la  elezione  dei  que- 
stori (2),  pare  venissero  creati  soltanto  per  abbreviare  e  sempli- 
iicare  la  procedm^a  nelle  cose  di  minor  momento. 

Tra  i  j)rimi  pensieri  della  plebe  congregata  per  tribù  fu  di  assi- 
cm'are  il  regolare  andamento  delle  proprie  assemblee,  deliberando 
di  punire  di  morte  clii  lo  turbava  (3).  Questa  dovette  essere  una 
delle  prime  leggi  sacrate.  Non  erano  tali  leggi  norme  giuridiche 
cui  desse  valore  l'autorità  dello  Stato  :  soltanto  per  esse  la  jilebe, 
giurando  di  salvaguardare  anche  con  la  violenza  i  propri  con- 
cili e  quelli  che  li  dirigevano,  costituì  di  fatto  un  tribunale  ri- 
voluzionario entro  lo  Stato,  il  quale  differiva  formalmente  dai 
tribunali  settari  od  anarchici,  non  per  la  maggiore  legalità,  ma 
solo  per  la  maggiore  pubblicità  ;  talché  le  esecuzioni  capitali  ordi- 
nate in  quelle  assemblee,  più  che  a  condanne  giudiziarie,  si  possono 
ragguagliare  a  linciamenti  (4).  E  che  si  siano  davvero,  se  non  ese- 
guite, almeno  tentate  condanne  a  morte  o  all'esilio  per  mezzo  dei 
concili  tributi,  dimostrano  non  tanto  le  narrazioni  su  Coriolano  e 
su  Cesone  Quinzio,  prive  di  valore  naturalmente  per  ciò  che  con- 
cerne i  iDarticolari  delle  questioni  di  diritto,  quanto  la  legge  delle 
dodici  tavole.  Infatti  questa,  vietando  che  si  facessero  giudizi  ca- 
pitali fuori  del  massimo  comizio  di  tutto  il  popolo,  presuppone 
che  se  ne  fossero  pronunciati  anche  in  assemblee  cui  tutto  il  po- 
polo non  partecipava,  ossia  precisamente  nei  concili  tributi  della 
plebe  (5).  Senonchè  mentre  lo  Stato  riusci  ad  impedire  che  l' as- 
semblea della  plebe  assumesse  il  diritto  di  vita  e  di  morte  sui  cit- 
tadini, non  gli  venne  fatto  di  toglierle  la  facoltà  che  s'era  arrogata 
^  di  condannare  ah  ijagamento  di  multe  e  magistrati  e  privati  (6). 


(1)  Essi  sono  i  comitia  leviora  cui  accenna  Cic.  j}ro  Piane.  3,  7,  in  cui  si 
creano  i  minores  mcifjistratus,  Gell.  n.  A.  XIII  15,  3. 

(2)  Oic.  ad  fam.  VII  30.  Così  pure  poi  quella  degli  edili  curali,  Piso  ap. 
Gell.  n.  A.  VII  9,  2.  Cic.  prò  Flanc.  20,  49.  Varrò  de  re  r.  IH  17.  1.  Liv. 
XXV  2,   7. 

(3)  Secondo  Dionys.  VII  17  (Livio  ne  tace)  questa  deliberazione  fu  approvata 
come  plebiscito  Icilio  nel  492.  Ma  nel  vero  par  Cicerone  prò  Sest.  37,  79  dove 
mostra  che  il  regolare  andamento  delle  assemblee  della  plebe  era  guarentito 
dalle  leggi  sacrate.  Cfr.  del  resto  Dionys.  VII  16  e  Mommsen  Staatsrecht  II  ^ 
p.  289  n.  1. 

(4)  Con  MoMMSF.N  R.  G.  \*  272. 

(5)  Su  ciò  giudica  rettamente  Herzog  RiJm.  Staatsverfassung  I  p.  157.    1176. 

(6)  I  processi  dinanzi  alle  tribìi  fino  al  367  sono  enumerati  dallo  Schwegler 


24  CAPO   XIII  -  LA    PLEBE    E    I    SUOI    TKIBUNI 

E  come  per  mezzo  de'  suoi  giudizi,  cosi  anclie  più  direttamente 
[)er  mezzo  delle  sue  deliberazioni,  i  plebisciti,  la  plebe  cercò  d'in- 
tìuire  nella  vita  dello  Stato.  Queste  non  avevano,  è  vero,  finché 
durò  la  lotta  tra  patrizi  e  plebei,  forza  di  leggi.  Ma  ad  imporne 
allo  Stato  Fosservanza  la  plebe  dirizzò  costantemente  la  sua  mira 
dopo  la  istituzione  delle  assemblee  tributo.  E  lo  Stato  non  poteva 
mancare  di  tener  gran  conto  di  deliberati  a  sostenere  i  quali  era 
impegnata  tutta  la  forza  materiale  e  morale  della  plebe.  Anzi  la 
tradizione  parla  già  pel  sec.  V  e  per  la  prima  metà  del  IV  di  ple- 
bisciti che  avrebbero  avuto  vigore  di  leggi,  quali  la  rogazione 
Icilia  del  456,  la  Canuleia  del  445,  le  Licinie  Sestie  del  367.  Ma 
sorgono  vari  dubbi  o  sulla  storicità  di  queste  rogazioni  o  più  ancora 
sul  modo  come  potrebbero  avere  acquistato  forza  legale.  Della 
prima  di  esse,  per  esempio,  la  Icilia  per  l'assegnazione  ai  plebei 
dei  terreni  di  proprietà  dello  Stato  sull'Aventino,  non  ^duò  aversi 
sospetta  ragionevolmente  la  realtà  storica,  esistendone  tuttora  al 
tempo  d'Augusto  il  testo  inciso  in  bronzo  nel  sacrario  di  Diana 
sull'Aventino  (1).  Ma  può  ritenersi  che  abbia  avuto  effetto  soltanto 


II  p.  530  segg.  Ili  p.  1-58  segg.  Ma  sono  tutti  casi  apocrifi  o  dubbi.  Però  di 
processi  per  multe  innanzi  al  concilio  della  plebe  si  hanno  esempì  sicuri  in 
età  storica,  enumerati  p.  es.  dal  Lange  Rom.  Alterthiimer  II  ^  p.  587  segg. 

(1)  Liv.  Ili  31,  1  al  456  non  ne  fa  che  un  brevissimo  accenno:  de  Aventino 
pnblicando  lata  léx  est;  e  solo  poco  oltre  accidentalmente  specifica  di  più, 
e.  82,  7  :  j)ostremo  '  concessum  ^^«irti«s  (sulla  composizione  del  decemvirato) 
modo  ne  lex  Icilia  de  Aventino  aliaeque  sacratae  leges  ahrogarentur.  Maggiori 
particolari  dà  Dionys.  X  32,  il  quale  ricorda  che  ó  vó|uo(;  éoTÌv  èv  arriXri  xc^'^'iì 
YeYpci|U)aévo(;  f^v  àvéSeaav  èv  tuj  Aùevxiviu  K0,uiaavTe<;  eiq  tò  t^ì,  'ApTéiaiboi;  kpóv. 
Se  ciò  che  egli  dice  intorno  alla  legge  derivi  tutto  dal  documento  è  incerto: 
certo  è  peraltro  che,  se  ne  deriva,  il  testo  è  stato  da  lui  o  dalla  sua  fonte 
in  parte  frainteso  (Schwegler  II  p.  600  n.  1).  Anche  Dionisio  del  resto  non 
ignora  che  si  tratta  di  una  legge  sacrata,  pur  ritenendo  che  si  approvasse  nei 
comizi  centuriati:  iepoqjavxùiv  re  Ttapóvxujv  koì  oìuuvoaKÓnujv  xal  iepoiroiOJv  òuotv 
Kal  TTOiriaoiuévujv  ràq  vo|a(,uou(;  eùx<i<;  te  Kai  àpàq  èv  Tf)  XoxiTibi  èKKXriaitji.  Ma  il 
nome  d'Icilio  doveva  essere  nel  documento;  e  ciò  esclude  che  si  trattasse  di 
legge  votata  nell'assemblea  delle  centurie.  È  questa  una  congettura  da  giu- 
dicare alla  stessa  stregua  di  quelle  (su  cui  v.  p.  29  n.  2)  che  hanno  fatto 
antichi  e  moderni  per  non  riconoscere  che  le  altre  leggi  sacrate  sono  fondate 
sul  vetus  iusiurandum  i)lebis.  La  data  del  plebiscito  Icilio  è  incerta.  Icilì  tri- 
buni della  plebe  son  ricordati  dalla  tradizione  fra  il  470  e  il  409,  e  del  resto 
i  fasti  tribunizi  della  plebe  son  per  quella  età  di  poco  o  nessun  valore.  I  nomi 
dei  consoli  poi  è  difficile  fossero    riportati  in  un    plebiscito.  Quindi  dobbiamo 


LECIOI    SACRATE  25 


pel  ^iurainento  della  plebe  di  difendere  concorde  chiunque  avesse 
occupato  terreno  pubblico  sulF  Aventino  a  norma  del  plescibito; 
per  modo  che  dal  punto  di  vista  dello  Stato  si  tratterebbe  non 
d'una  alienazione  legale  d'agro  pubblico,  ma  d'una  usurpazione 
tacitamente  tollerata. 

Ad  ogni  modo  era  per  l'avvenire  di  Roma  assai  pericoloso  che 
fosse  riuscita  a  costituirsi  un'assemblea  la  quale,  senza  esser  rico- 
nosciuta dallo  Stato,  si  arrogava  potestà  giudiziaria  e  legislativa. 
La  unità  di  governo  che  s'era  conservata  al  cadere  della  monarchia 
veniva  cosi  a  mancare  tra  le  discordie  civili;  e  senza  che  migliori 
ordinamenti  avessero  tolto  al  patrizio  la  possibilità  di  far  soprusi 
al  plebeo,  l'assemblea  rivoluzionaria  della  plebe  aveva  dato  a 
questa  il  modo  di  vendicarsene  per  mezzo  di  soprusi  contro  il  i3a- 
triziato.  Cosi  per  non  aver  voluto  render  giustizia  a  tempo  alle 
richieste  della  plebe  riconoscendole  queir  autorità  nello  Stato  che 
di  fatto  le  spettava  xjer  T  opera  valida  prestata  alla  comune  difesa 
e  per  la  consapevolezza  che  ormai  aveva  della  sua  forza,  i  patrizi 
si  trovavano  ora  esposti  alle  violenze  rivoluzionarie  della  i3lebe,  e 
per  rimanere  oppressori  dovevano  rassegnarsi  |ad  essere  qualche 
volta  anche  ox3pressi.  Da  tutto  ciò  la  vigoria  della  resistenza  che 
Eoma  opponeva  ai  nemici  esterni  poteva  esser  menomata  d'assai, 
di  guisa  che,  cercando  di  sopraffarsi  a  vicenda,  i  contendenti  ri- 
schiavano d'esser  sopraffatti  da  chi  non  avrebbe  avuto  pietà  ne 
degli  uni  né  degli  altri.  E  più  grave  jDersino  fu  la  lotta  che,  spal- 
leggiati da  queste  assemblee,  iniziarono  contro  la  somma' magi- 
stratura patrizia,  scalzandone  l'autorità,  i  tribuni  della  plebe. 

Il  formarsi  delle  tribù  rustiche  spiega,  oltre  l'origine  e  la  na- 
tm-a  dei  concili  tributi,  anche  questa  singolarissima  istituzione  del 
tribunato  (1).  Nella  storia  del  V  sec.  si  ricorda  spesso  l'intervento 


contentarci  di  ritenere  che  varisi inil mente  è  del  secolo  V,  avendo  dovuto  di 
qualche  tempo  precedere  la  costruzione  delle  mura  serviane.  —  Pel  plebiscito 
Canuleio  v.  oltre  e.  XIV  ;  per  le  rogazioni  Licinie-Sestie  e.  XVII.  Assai  diverso 
è  in  diritto  il  caso  delle  rogazioni  concernenti  cose  interne  della  plebe,  p.  e.  la 
rogazione  Publilia  di  Volerone  (sopra  p.  20  n.  4)  e  la  Trebonia  (p.  34  n.  1), 
checche  debba  del  resto  pensarsi  della  loro  autenticità.  —  La  questione  della 
validità  dei  plebisciti  è  trattata  largamente,  ma  in  modo  non  del  tutto  sod- 
disfacente da  SoLTAu  Die  Gultigkeit  dcr  Plebiscite  nei  '  Berliner  Studien  '  II 
(1885)  p.  1  segg. 

(1)  La  letteratura    sul    tribunato  della  plebe  è  copiosissima.  Gli  scritti  piii 
antichi,  in  buona  pai-te  ormai  inutili,  sono  enumerati  dal  Lange  Rom.  Alter- 


26  CAPO   XIII  -  LA    PLEBK    E    I    SUOI    TRIBUNI 

dei  tribuni  della  plebe  a  ijroposito  di  leva  e  di  tributo:  due  cose 
che  sono  in  relazione  stretta  con  le  tribù  (1).  Par  dunque  clie  quando 
per  tribù  si  cominciò  a  levare  le  truppe  ed  a  riscuotere  i  tributi,  i 
capi  dei  pagi,  die  allora  si  chiamarono  tribuni,  i  quali  da  tempo 
forse  facevano  da  arbitri  o  da  giudici  nelle  piccole  questioni  tra 
i  plebei  del  loro  distretto  (2),  prendessero  ad  intervenire  a  tutela 
dei  diritti  della  plebe.  Il  loro  intervento  divenne  man  mano  più 
invadente  e  allo  stesso  tempo  più  continuo,  finché  si  trasfor- 
marono in  veri  e  propri  funzionari  della  plebe  eletti  annualmente 
nelle  sue  assemblee  tribute  (3).  Solo  cosi  si  spiegano  le  singolari 
facoltà  che  jDossedevano  i  tribuni  e  che  certo  non  possono  avere 
acquistate  ad  un  tratto  (4).  La  potestà  tribunizia  non  è  creazione 


thilmer  1^  -p.  822.  I  più  recenti  sono  citati  a  .suo  luogo  nelle  note.  Può  vedersi 
inoltre  F.  Stella  Maranca  II  tribunato  della  plebe  dalla  lex  Hortensia  alla  lex 
Cornelia  (Lanciano  1901),  accurato  ma  poco  originale  e  dominato  da  precon- 
cetti antiquati. 

(1)  Così  Liv.  IV  11.  30.  53.  60. 

(2)  Cfr.  Ltd.  de  mag.  I  38  :  bOo  iiXfjGof;  npoexeipiffaTo  òr|udpxouc;  oiore  aÒTOtt; 
òiaiTòv  TOTe;  òriiuÓT«i^.  V.  anche  Zonar.  VII  15  e  Dionys.  VI  90,  secondo  cui  era 
ufficio  dejrli  edili  òiko^  Se;  èTTiTpéviJiJUvTai  èKeìvoi  (ci  bi^uapxoi)  Kpiveiv. 

(3)  Non,  in  origine,  magistrati  dello  Stato.  Di  ciò  hanno  notizia  (per  tradi- 
zione 0  per  induzione)  anche  le  nostre  fonti  :  Liv.  II  56  :  (tribuntim)  privatum 
esse  clamitans  (Ap.  Claudius)  sine  imperio,  sine  magistratu.  Zon.  VII  15:  tò 
■fàp  TUJv  àpxóvTUJv  óvoiua  oùk  ^axov  eù9ù<;  (oi  òr)|uapxoi).  Cfr.  Plut.  q.  R.  81.  Nep- 
pure potevano  originariamente  dirsi  a  rigore  magistrati  della  plebe  perchè 
non  avevano  autorità  positiva  di  fare  o  di  imporre  checchessia,  v.  Herzog 
Rijin.  Staatsverfassung  I  p.   1146. 

(4)  Che  il  tribunato  della  plebe,  checche  pretenda  la  tradizione,  non  possa 
aver  avuto  origine  a  un  ti'atto  dalla  secessione  avevano  già  intuito  Niebuhr 
I  464  segg.  e  Schwegler  II  256  segg.  Del  resto  la  tradizione  non  era  unanime 
nel  riferire  il  tribunato  al  494,  cfr.  Dxod.  XI  68  (ad  a.  471):  èv  xr)  'P\ii\x\\ 
TTpiijTUJt;  KOTeOTaOrioav  bruuapxoi  xérrape^,  Tdioq  ZiKÌviO(;  xaì  AeuKioc;  N6|U6Tiupio<;, 
Tipòe;  bè  toutok;  MàpKOc;  AouiXXioi;  kuì  Zirópioc;  'AKfXiot;  (corr.  "kiXiot;).  11  confronto 
con  la  lista  data  da  Pisone  ap.  Liv.  Il  58  per  lo  stesso  anno  (che  ne  comprende 
cinque,  aggiuntovi  un  L.  Mecilio)  e  con  l'altra  dei  dieci  tribuni  del  449  (Liv. 
Ili  54)  mostra  che  le  ultime  sono  ampliamento  di  quella,  e  se  si  tien  conto 
delle  oscillazioni  e  contraddizioni  sui  tribuni  eletti  nel  494  (v.  p.  31  n.  1  e 
p.  34  n.  2)  si  deve  concludere  col  Niese  De  annalibus  Romanis  observationes 
(I),  Marburg  1886,  p.  7  segg.  che  la  tradizione  sui  tribuni  del  471  è  assai 
migliore  e  piii  antica.  Da  questo  e  dalla  frase  stessa  di  Diodoro  risulta  che 
egli  (o  la  sua  fonte)  ha  voluto  riferire  al  471  le  origini  del  tribunato.  Dal 
che  non  segue  del  resto  la  storicità  dei  tribuni  del  471,  su  cui  v.  sotto  p.  35. 


IL   TEIBUNATO    DELLA    PLEBE  27 

cosciente  del  genio  politico  romano  (1),  ma  s'è  invece  svolta  spon- 
taneamente in  forza  delle  circostanze  tra  cui  si  combatteva  la  lotta 
delia  i3lebe  col  patriziato.  Il  nòcciolo  di  quella  potestà  è  nel  di- 
ritto di  ausilio,  ossia  nella  facoltà  di  venire  al  soccorso  dei  plebei 
oppressi  (2)  ;  ma  questo  ausilio  si  esplica  negativamente,  cioè  nel 
diritto  d'intercessione  per  cui  i  tribuni  possono  col  loro  intervento 
sospendere  i  decreti  dei  magistrati,  opporsi  alla  votazione  di  ])ro- 
poste  di  legge  nei  comizi  di  tutto  il  popolo  e  perfino  impedire  al 
senato  di  deliberare  (3).  Tali  diritti  dei  tribuni,  che  si  svolsero 
lentamente  dalla  difesa  degli  interessi  plebei  nella  occasione  di 
chiamata  sotto  le  armi  o  d'imposizione  di  tributi,  erano  guarentiti 
dall'amplissima  loro  potestà  coercitiva  (4).  E  anche  la  tradizione 
conserva  chiaro  ricordo  che  solo  passo  passo  acquistarono  i  tribuni 
tutti  quei  diritti  (5)  col  procedere,  inviolabili  essi  stessi,  contro 
chiunque  offendeva  la  plebe ,  ne  turbava  le  assemblee ,  non  ot- 
temx^erava  ai  loro  divieti,  ledeva  le  loro  prerogative,  alla  imme- 
diata repressione,  carcerando,  multando  (6)   e  persino  mettendo  a 


(1)  Come  la  riteneva  p.  e.  Machiavelli  Discorsi  I  e.  3-4. 

(2)  Su  questo  punto  giudicano  rettamente  anche  gli  antichi,  Liv.  II  33  :  ut 
plebi  sui  mayistratus  essent  sacrosancti  quibus  auxllii  latio  adversus  consules 
tsset.  DioNYs.  VI  87  :  apxovrac;  .,.-.  oiTiveq  fiXXou  |uèv  oùòevòc;  ^acvrai  KÙpioi,  TOtq 
ò'àòiKOU|uévoiq  f)  KaxiaxuoinévoK;  tuùv  òr||LiOTUJv  poriGriooDOi  Kai  où  irepióvjJOVTai  TiJJv 
biKaiojv  àiToaTepoùiLigvov  oùGéva. 

(3)  Della  natura  della  intercessione  tribunizia  e  de'  suoi  successivi  amplia- 
menti giudica  assai  più  rettamente  il  Herzog  I  p.  1146  segg.  1155  segg.  di 
quel  che  il  Mommsen  che  la  costruisce  a  priori  in  base  al  suo  concetto,  del 
resto  probabilmente  in  parte  errato  (v.  I  p.  416  seg.),  della  intercessione  in 
generale.  Tuttavia  il  Herzog  ha  torto  nel  ritenere  che  questi  successivi  incre- 
menti siano  avvenuti  per  mezzo  di  leggi  piuttosto  che  d'uso  o  d'abuso.  —  Il 
termine  di  veto  adoperato  rispetto  all'intercessione  tribunizia  non  prova  che 
essa  equivalga  ad  un  vero  e  proprio  diritto  di  divieto.  Cfr.  pel  senso  lato  di 
questa  parola  Cic.  prò  Cluent.  43,  122.  Lange  Rom.  Alterthilmer  I -^  p.  838  n.  7. 

(4)  Gell.  n.  A.  XIII  12,  9:  tribuni  qui  haherent  summam  coercendi  potcstutem. 

(5)  I  progressivi  ampliamenti  della  potestà  tribunizia  sono  descritti  accura- 
tamente da  Cass.  Dio  (Zon.  VII  15);  s'intende  che  per  molta  parte  si  tratta  di 
pure  induzioni.  Cfr.  anche  Gkll.  n.  A.  XIII  12.  Dei  moderni  può  vedersi 
ScHWEGLEK  II  260  segg. 

(6)  Sui  processi  per  multe  innanzi  alle  tril)ìi,  presieduti  dai  tribuni  della 
plebe,  V.  sopra  p.  23  n.  6.  I  tribuni  avranno  in  generale  concesso  l'appello 
quando  le  loro  multe  superavano  (come  del  resto  doveva  esser  sempre  o  quasi) 
i  limiti  estremi  ammessi  per  le  multe  applicate  di  propria  autorità  dagli  altri 


28  CAl'O    XIII  -  LA    PLKBK    K    J    SIOI    TRIBUNI 

morte,  senza  concedere,  almeno  nei  casi  x^iù  gravi,  nepi3ure  l'appello 
al  popolo  (1).  Senoncliè  il  fondamento  della  intercessione  tribunizia 
e  della  coercizione  die  ne  assicura  l'efficacia  non  è  una  legge  dello 
Stato.  La  potestà  tribunizia,  come  riconoscevano  gli  stessi  antichi, 
non  è  legittima,  ma  è  sacrosanta:  come  l'autorità  dei  concili  della 
plebe,  cosi  quella  dei  tribuni  è  d'origine  rivoluzionaria  e  fondata 
sulle  leggi  sacrate  giurate  dalla  plebe,  per  cui  essa  s'impegnava  a 
sostenere  ad  ogni  costo,  anche  con  la  violenza,  le  prerogative  de' 
suoi  tribuni  (2).  Il  contenuto  d"una  di  queste  leggi  sacrate  ci  vien 
tramandato  da  Livio  tra  le  leggi  Valerie-Orazie  del  449  (3),  con 
evidente  controsenso,  perchè  se  la  potestà  tribunizia  era  guarentita 


magistrati.  Ma  è  errore  ritenere  col  Lange  II  ^  620  seg.  sul  fondamento  delle 
parole  dette  in  materia  da  Dionys.  (X  50  :  'iva  Tal;  àpxatq  èEf)  TxAoaic,  roùq 
ÒKoaiuoOvTac;  i)  irapavoiuoOvTac;  eie;  xiiv  éaurOùv  eEouoiav  ZiriiaioOv)  che  la  legge 
Aternia  Tarpeia  del  454  abbia  riconosciuto  e  regolato  la  facoltà  dei  tribuni 
d'imporre  multe  che  s'esplicava  specialmente  a  danno  dei  magistrati  e  che 
differisce  sostanzialmente  dalla  facoltà  di  multare  propria  degli  altri  magi- 
strati, cfr.  Heezog  I  p.  1150. 

(1)  Questo  è  dimostrato  dal  caso  indubitatamente  storico  di  C.  Atinio  Labeone 
che  nel  131  voleva  precipitar  senz'altro  dalla  rupe  Tarpea  il  censore  Q.  Me- 
tello Macedonico:  Plin.  n.  h.  VII  142.  Liv.  epit.  59.  —  Il  caso  di  provocatio 
contro  le  minacele  tribunizie  nelle  cause  capitali  è  il  solo  in  cui  i  tribuni 
della  plebe  in  età  storica  in  qualità  di  pubblici  accusatori  si  trovassero  in  rap- 
porto non  con  la  plebe  sola,  ma  con  l'assemblea  di  tutto  il  popolo  (Liv.  XXV 
3,  9.  XLIII  16,  11.  Gell.  n.  A.  VII  9,  9.  Cic.  de  har.  resp.  4,  7).  Come  procedes- 
sero per  tal  rispetto  le  cose  prima  che  i  tribuni  fossero  considerati  come 
magistrati  dello  Stato  non  è  facile  dire.  Prima  del  decemvirato  sembra  che  i 
concili  tributi  della  plebe  si  arrogassero  il  diritto  di  giudicare  anche  nelle 
cause  capitali  (v.  sopra  p.  23  n.  5). 

(2)  I  giuristi  dell'età  augustea  riconoscevano  trihunos  vetere  iure  nirando 
j)lehis  cum  primum  enm  potestatem  creavit  sacrosanctos  esse  (Liv.  Ili  51,  10)  e 
asserivano  che,  prima  essendo  solo  religione  inviolati,  divennero  anche  lege  in- 
violati per  le  leggi  Valerie-Orazie  del  449.  Cfr.  Fest.  jj.  318:  sacrosanctum 
dicitur  quod  iure  turando  interposito  est  institutum  si  quis  id  violaret  ut  morte 
poenas  penderei  :  cuiiis  generis  siint  tribuni  plehis  aedilesque  eitisdem  ordinis.  V. 
anche  Dionys.  VI  89.  VII  22.  Plut.  Ti.  Gracch.  15.  App.  b.  e.  II  108.  IV  17.  Tra 
i  moderni  il  Mommsen  Staatsrecht  II  '^  286  seg.  mette  in  chiaro  meglio  d'ogni 
altro  il  concetto  della  sacrosancta  potestas  e  la  sua  netta  distinzione  dalla 
potestas  legitima. 

(3)  Liv.  Ili  55,  7:  ut  qui  trihunis  plehis  aedilibus  iudicibns  decemriris  nocuisset 
eius  caj)ut  lori  sacrum  esset  familia  ad  aedem  Cereris  Liberi  Liheraeque  veniret. 
I  giuristi  dell'età  augustea  (v.  Liv.  1.  e.)  cercavano  per  mezzo  di   sottigliezze 


IL    TRIBUNATO    DELLA    PLEBE  29 

da  una  legge  dello  Stato  al  pari  di  q^iella  delle  altre  magistra- 
ture, sarebbe  stata  legittima  e  non  soltanto  sacrosanta,  e  perchè 
lo  Stato  non  avrebbe  provveduto  solamente  a  tutelare  con  tanta 
severità  le  sole  magistrature  plebee,  ma  avrebbe  almeno  equipa- 
rato ad  esse  le  altre.  Quella  legge  sacrata  dunque  stabiliva  che 
chi  ledesse  i  tribuni  della  plebe,  gli  edili  o  i  giudici  decemviri, 
fosse  sacro  a  Giove  ossia  fosse  posto  fuori  della  legge,  e  i  suoi  beni 
fossero  venduti  presso  il  tempio  di  Cerere,  Libero  e  Libera. 
Un'altra  deliberazione  della  plebe  sanciva  che  non  era  da  consi- 
derare come  omicida  chi  uccidesse  una  persona  posta  per  quel 
motivo  fuori  della  legge  (1). 

Alcuni  antichi  e  alcuni  moderni  invece  che  nel  giuramento 
della  plebe  hanno  cercato  il  fondamento  della  potestà  tribunizia 
in  una  vera  e  propria  alleanza  ifoedus)  stretta  fra  la  plebe  da 
una  parte  e  i  rimanenti  Romani  dall'altra,  alleanza  che  si  sarebbe 
conclusa  secondo  le  norme  in  uso  nei  trattati  fra  Stato  e  Stato  per 
mezzo  di  feziali  (2).  Questo  trattato  non  è  che  una  congettura  an- 
tica i^er  spiegare  la  posizione  singolare  della  plebe  e  de'  suoi  tri- 
buni nello  Stato:  congettura  errata  in  fatto,  perchè  un  trattato 
dovendo  essere  votato  dall'assemblea  popolare,  le  concessioni  da 
esso  sancite  non  possono  essere  soltanto  sacrosante,  sì  debbono  con- 
siderarsi anche  come  legittime,  quale  era  p.  e.  il  diritto  ricono- 
sciuto per  trattato  ai  Latini  domiciliati  in  Roma  di  votare  nei  co- 
mizi romani;  e  assurda  in  diritto,  perchè  i  patrizi  non  avendo 
propria  assemblea  né  costituendo  Stato  nello  Stato  non  potevano 
concludere  trattato  alcuno,  e  molto  meno  poteva  concluderne  il 
popolo  romano,  che  sempre  comprese  e  patrizi  e  plebei,  con  una 
parte  di  sé  stesso.  Ma  inoltre  accettando  la  tradizione  che  fu  so- 


di conciliare  l'esistenza  d'una  legge  dello  Stato  di  questo  genere  col  fatto  che 
la  potestà  dei  tribuni  non  è  legittima.  Non  abbiamo  bisogno  di  ricorrere  alle 
loro  sottigliezze  non  avendo  i  loro  scrupoli  a  dubitare  della  storicità  delle 
leggi  Valerie-Oi-azie. 

(1)  Fest.  p.  318  àaìVAlex  tribunicia  prima:  si  qui  eum  qui  eo  plehiscitu  sacer 
sit  occiderit  pan-icida  ne  fiit.  Cfr.  Cic.  prò  Tuli.  5,  47  :  legem  antiquam  de  le- 
gibus  sacratis  quae  iiiheat  sanguine  occidi  eum  qui  tribunum  pi.  pulsaverit. 

(2)  DioNYs.,  che  ne  parla  largamente,  VI  89  e  altrove  e  Liv.,  che  ne  accenna 
solo  incidentalmente,  IV  6,  7.  A  buon  diritto  il  Mommsen  Staatsrecht  II  ^  p.  287 
n.  2  esclude  recisamente  il  preteso  foedus  ;  e  non  mi  paiono  concludenti  le  ob- 
biezioni del  Lange  Roni.  Alterthilmer  I  ^  590  segg.  e  De  sacrosanctae  potestntis 
trihuniciae  natura  eiusque  origine  commenfatio  (Lipsiae  1883). 


30  CAPO   XIII  --  LA    PLEIÌK    K    I    SUOI   TRIBUNI 

speso  il  tribunato  quando  si  crearono  i  decemviri,  converrebbe  am- 
mettere che  si  fosse  allora  concluso  un  nuovo  trattato  d'alleanza 
e  che  un  terzo  se  ne  fosse  stretto  nel  449:  ipotesi  del  pari  inutili 
e  infondate.  Anche  meno  accettabile  è  la  teoria  secondo  cui  la 
potestà  sacrosanta  dei  tribuni  proviene  semplicemente  da  una  legge 
dello  Stato  (1)  :  a  questo  modo,  pel  iDreconcetto  infondato  che  negli 
ordinamenti  di  Roma  del  sec.  V  nulla  potesse  essere  di  rivolu- 
zionario o  d'illegittimo,  si  chiude  ogni  via  di  spiegare  la  forma- 
zione e  il  poco  valore  delle  tradizioni  sulle  origini  del  tribunato 
e  d'intendere  storicamente  la  evoluzione  costituzionale  romana  e 
il  i)rocesso  della  emancipazione  xjlebea. 

Il  tribunato  pertanto  ha  nelle  condizioni  della  plebe  romana 
del  sec.  V  la  sua  p)iena  spiegazione;  ed  è  arbitraria  ed  oziosa  l'ipo- 
tesi che  sia  stato  ricopiato  sulle  istituzioni  di  qualche  città  greca 
e  in  particolare  di  Siracusa  (2);  tanto  più  che  le  analogie  citate 
sono  assai  imperfette.  Li  vero  i  prostati  del  popolo  a  Siracusa, 
del  pari  che  ad  Atene,  non  sono  come  i  tribuni  della  j)lebe  fun- 
zionari annui  ed  elettivi,  ma  capi  del  partito  democratico,  la  cui 
posizione,  che  non  ha  nulla  di  ufficiale,  dipende  unicamente  dal- 
l'aura popolare.  Né  per  comparare  gli  ordinamenti  della  plebe 
romana  con  quelli  del  demo  di  Siracusa  può  trarsi  argomento 
dalla  speciale  importanza  che  ha  per  la  plebe  il  culto  di  Cerere, 
Libero  e  Libera;  poiché  qualunque  sia  la  ragione  di  ciò,  non  può 
affatto  dimostrarsi  che  abbia  in  Grecia  nulla  di  specificamente 
democratico  il  culto  di  Demeter,  Persefone  e  lacco  su  cui  quello 
é  ricopiato  (v.  I  p.  278)  (3). 

Data  l'origine  indigena  e  il  lento  formarsi  della  potestà  tribu- 
nizia, si  spiega  anche  il  x^oco  o  niun  valore  della  tradizione  sulle 
origini  del  tribunato  (4).  Come  é  noto,  si  dice  che  esso  venne  isti- 
tuito in  conseguenza  della  prima  secessione,  e  vedemmo  (p.  45) 
quanto  questa  notizia  sia  sospetta.  Non  meno  sospetti  sono  i  nomi 


(1)  Herzog  '  Jahrbb.  f.  Phil.  '  CXIII  (1876)  p.  139  segg.  Roni.  Staatsverfasstmg 
1  p.  146. 

(2)  Pais  '  Studi  Storici  '  II  (1893)  p.  180  segg. 

(3)  Non  provano  certo  nulla  in  questo  senso  passi  come  Plut.  Timol.  8  e 
DioD.  XIX  5,  4. 

(4)  Le  notizie  che  si  hanno  sui  tribuni  della  plebe  dell'età  repubblicana  sono 
raccolte  dal  Niccolini  Fasti  tribunorum  plehis  in  '  Studi  Storici  '  IV  (1895)  e 
V  (1896);  anche  a  parte  con  giunte  e  correzioni  (Pisa  1898). 


DISCORDIE    CIVILI  31 


dei  tribuni  eletti  nel  494  (1),  tra  cui  un  Sicinio  che  ricorre  fra  i 
tribuni  del  471  e  del  449  e  cke  è  in  stretta  relazione  con  l'eroe 
popolare  Siccio,  l'Achille  plebeo,  dopo  tante  prodezze  fatto  perire 
a  tradimento  dai  deceniviii,  ed  un  Griunio  Bruto,  evidente  redu- 
plicazione del  leggendario  fondatore  della  repubblica  trasformato 
in  liberatore  della  plebe.  E  può  darsi  che  i  principi  del  tribunato 
siano  stati  avvicinati  di  tempo  alle  origini  della  repubblica  per 
accrescerne  la  veneranda  antichità.  V'ha  persino  una  tradizione 
che  sembra  considerare  le  leggi  sacrate  del  494  come  il  rinnova- 
mento di  norme  vigenti  prima  della  caduta  della  monarchia,  pro- 
babilmente al  tempo  del  buon  re  Servio  Tullio  (2).  Prescindendo 
pertanto  dalla  tradizione,  possiamo  dire  che  il  tribunato  della, 
plebe  cominciò  da  oscmi  e  modesti  principi  dopo  istituite  le  tribù 
rustiche  e  quindi  non  prima  del  sec.  V;  e  che  già  verso  la  metà 
di  quel  secolo  doveva  aver  acquistato  buona  parte  di  quelle  fa- 
coltà d"intercessione  e  di  coercizione  che  possedeva  in  età  storica; 
poiché  ^sse  sono  state  conquistate  lottando  contro  i  supremi  magi- 
strati patrizi,  non  contro  i  tribuni  militari  con  autorità  consolare, 
che  potevano  essere  patrizi  e  plebei. 

I  patrizi  non  possono  essersi  piegati  pacificamente  a  ricono- 
scerci diritti  tribunizi  che  minavano  nelle  sue  basi  lo  Stato  ari- 
stocratico. E  senza  spargimento  di  sangue  cittadino  non  si  son 
certo  acconciati  i  consoli,  essi  creati  per  non  ubbidire  a  nessuno, 
ai  divieti  dei  tribuni;  ne  chi  poteva  contare  sull'appoggio  di  clienti 
si  è  lasciato  senza  resistenza  tradurre  in  carcere  dai  primi  tribuni 
che  tanto  hanno  osato.  Ma  il  bisogno  sempre  maggiore  che  i  ma- 
gistrati patrizi  avevano  della  plebe  nelle  guerre  spiega  il  costante 
incremento  dei  poteri  tribunizi,  perchè  le  concessioni  fatte  una 
volta  a  fine  d'indurre  i  plebei  a  iDrestare  il  giuramento  militare 
rappresentavano  pei  tribuni  diritti  acquisiti  onde  movevano,  come 
da  posizioni  vinte,  alla  conquista  di  altri  diritti.  Gli'  annalisti  si 
sono  compiaciuti  nel  dipingere  in  vario  modo  contese  fra  tribuni  e 


(1)  In  AscoN.  p.  75  Baiter  i  primi  tribuni  sono  L.  Sicinio  e  L.  Albinio,  in 
Liv.  II  58  C.  Licinio  e  C.  Albinio,  in  Dionys.  VI  89  L.  Giunio  Bruto  e*C.  Si- 
cinio, che  fin  qui  avevano  guidato  la  plebe  (cfr.  Plut.  Cortei.  7),  C.  e  P.  Li- 
cinio, C.  Viscellio.  In  tutti  questi  Licinì  può  sospettarsi  la  mano  di  Licinio 
Macro. 

(2)  Cic.  2>f'o  Corn.  fr.  23  Okelli  ap.  A.scon.  1.  e.  :  tanta  igitur  in  illis  virtus 
fuit  ut  anno  XVI  post  reges  exactos  secederent,  leges  sacratas  ipsi  sibi  restitue- 
rent,  duos  tribunos  ci'earent. 


32  CAPO    Xlll  -  LA    PLKBE    K    I    SCOI    TRIBUNI 

consoli  o  fra  tribuni  e  dittatori  nel  corso  del  sec.  V  e  del  IV  ;  m;i 
la  fantasia,  la  tendenza  a  ricopiar  lotte  assai  più  tarde,  la  specula- 
zione giimdica  hanno  avuto  assai  maggior  parte  che  non  la  vera 
0  propria  tradizione  nei  loro  racconti,  dei  quali  un'analisi  minuta 
non  condurrebbe  a  conclusioni  sicui^e.  Ma  possiamo  ben  figurarci 
le  dramatiche  lotte  tra  le  vecchie  autorità  legittime  e  la  nuova  ri- 
voluzionaria e  le  momentanee  tregue,  quando  il  fumo  dei  campi 
devastati  annunciava  il  nemico.  E  la  violenza  di  queste  contese 
si  esprime  efficacemente  nella  leggenda  di  Coriolano,  certamente 
antica  e  cantata  dall'epopea  popolare.  In  essa  Coriolano,  il  tipo 
del  patrizio  tanto  prode  quanto  superbo,  volge  le  spalle  irato  alla 
patria  che  non  lo  protegge  contro  la  plebaglia  da  lui  sprezzata  per 
tornarvi  con  le  armi  in  mano,  aiutato  dai  nemici  del  nome  latino. 
Anche  degna  di  nota  è  la  leggenda,  attinta,  a  quel  che  pare,  a 
tradizioni  della  gente  Quinzia,  alterate  e  rimaneggiate,  s'intende, 
con  la  consueta  libertà  dagli  annalisti,  di  Cesene  Quinzio.  Essa 
narra  che  Cesone,  figlio  del  valoroso  Cincinnato,  accusato  dai  tri- 
buni e  gravato  dalla  testimonianza  d'un  tal  Volscio,  dovette  ab- 
bandonare la  patria,  non  senza  che  i  suoi  gentili  prendessero  poi 
a  tempo  opportuno  vendetta  di  Volscio  facendolo  condannare  per 
falsa  testimonianza  (1).  E  pur  caratteristica  è  l'altra  leggenda  della 
occupazione  del  Campidoglio  fatta  per  sorpresa,  nella  speranza 
che  gli  oppressi  insorgessero  contro  l'ordine  esistente,  dal  sabino 
ApxDio  Erdonio  ;  al  quale  se  non  venne  fatto  di  raggiungere  l'in- 
tento, le  discordie  intestine  permisero  almeno  di  rimanere  per 
qualche  tempo  indisturbato  sul  colle  sacro,  prima  che  si  cercasse 
di  riconquistarlo  (2).  Questo  racconto  non  fu  certo  inventato  dagli 
annalisti  quando  Roma,  invece  di  correr  pericolo  di  sorprese  tra  i 
suoi  sette  colli,  dominava  il  mondo  conosciuto,  e  quindi  deve  con- 
siderarsi come  attinto,  nelle  linee  principali,  all'epopea  popolare. 
Ma  come  è  assai  difficile  che  là  fantasia  popolare  inventasse  una 
occupazione  nemica  del  Cami3Ìdoglio,  né  è  verisimile  che  debba 
trattarsi  d'una  ripetizione  della  conquista  di  quel  colle  compiuta 


(1)  Liv.  Ili  11-13.  DioNTs.  X  5-8.  Una  versione  singolare  del  fatto  presso 
l'AucT.  de  vir  ili.    17.    —    Sulla  condanna  di  Volscio  Liv.  Ili  24,    3,  cfr.  Dio- 

NYS.    X    8. 

(2)  Liv.  Ili  15-18.  DioNYS.  X  14.  Che  il  racconto  di  Erdonio  '  venne  in  ori- 
gine concepito  sotto  l'efficacia  di  fatti  non  anteriori  al  sec.  IV  '  afferma,  ma 
non  pi'ova  in  alcun  modo  il  Pais  I  1,  531. 


DISCORDIE    CIVILI  33 


da  Tazio,  convieii  ritenere  che  quelle  linee  essenziali  non  siano 
disformi  dal  vero.  Da  ciò  si  vede  quali  pericoli  corresse  Roma  da 
quando,  ordinatasi  la  plebe  a  Stato  entro  lo  Stato,  la  lotta  civile 
divenne  il  contenuto  permanente  e  usuale  della  vita  cittadina. 

La  potestà  dei  consoli  in  città  declinò  precipitosamente  dal  mo- 
mento elle  ogni  loro  decreto,  ogni  loro  atto  potè  essere  impugnato 
od  impedito  dai  tribuni  (1).  Tuttavia  la  continuità  d'indirizzo  data 
dal  senato,  a  cui  i  consoli  dovevano  tanto  più  stringersi  quanto  più 
da  soli  si  sentivano  deboli,  e  la  intangibilità  dell'imperio  militare 
assicurata  e  dalla  forza  della  tradizione  e  dalle  evidenti  esigenze 
delle  continue  lotte  coi  vicini  salvò  lo  Stato  romano  dalla  disgre- 
gazione del  potere  centrale  e  dall'anarchia.  Ma  soltanto  dopo  l'am- 
missione dei  plebei  al  consolato  la  nuova  nobiltà  patrizio-plebea 
trovò  il  modo  d'ammansare  e  quasi  d'addomesticare  il  tribunato. 
Prima  d'allora  avevano  i  patrizi  nelle  lotte  con  i  tribuni  l'estremo 
rimedio  della  dittatm-a,  dinanzi  al  cui  supremo  potere  veniva  meno 
0  doveva  venir  meno  anche  l'intercessione  tribunizia  (2).  Ma  il 
rimedio  era  pericoloso  in  sé,  e  la  sua  efficacia  del  resto  nasceva 
dalla  sua  rarità.  Se  troppo  allo  scoperto  e  troppo  frequentemente 
si  fosse  usato  della  dittatm-a  per  combattere  la  j)lebe,  si  rischiava 
di  indurre  i  tribuni  a  fare  delle  prerogative  dittatorie  lo  stesso 
conto  che  avevano  fatto  delle  prerogative  consolari  o  di  precipitai^e 
la  città  nelle  guerre  civili  (3). 


(1)  Per  cui  DioD.  XII  25,  2  potè  dire  che  i  tribuni  possedevano  [lefiaraq 
èEouaia^  tOjv  kotò  xiriv  iróXiv  àpxóvxujv.  Se  da  ciò  il  Mommsen  Staatsrecht  I  ' 
p.  26  n.  1  vuol  ricavare  che  il  tribunato  aveva  in  stretto  senso  giuridico  una 
maior  potestas  di  fronte  al  console,  mostra  soltanto  che  le  rigide  formole  giu- 
ridiche non  sempre  si  attagliano  alla  realtà,  la  quale  non  è  poggiata  su  di 
esse,  ma  ad  esse  anteriore.  Di  ciò  giudica  rettamente  Lange  1  ^  p.  689.  833. 
E  del  resto  la  teoria  del  Mommsen  male  si  concilia  con  Cicerone,  che  se  enuncia 
il  diritto  del  console  tit  ei  reliqui  magistratus  omnes  pareant  con  la  limitazione 
excepto  tribuno  {de  leg.  Ili  7,  16),  esclude  al  tempo  stesso  che  nello  Stato  esista 
alcuna  potestà  ordinaria  superiore  a  quella  del  console,  ibid.  Ili  8,  8  :  regio 
imperio  duo  sunto...  nemini  parento. 

(2)  Ciò  è  detto  dalle  fonti  e  in  astratto  e  in  concreto,  sia  pure  a  proposito 
di  casi  apocrifi.  Zon.  VII  13,cfr.  e.  15.  Liv.  Ili  29.  VIII  35.  81.  Il  primo  esempio 
sicuro  di  dittatore  che  ceda  alla  intercessione  tribunizia  è  del  209  :  Liv. 
XXVII  6.  Ma  i  dittatori  della  seconda  punica  non  erano  piìi  creati  optimo 
iure.  Cfr.  I  p.  420  n.  2  e  Mommsen  Staatsr.  I  ^  165  seg. 

(3)  Un  tentativo  di  sottoporre  la  dittatura  alla  intercessione  (impedendo  la 
nomina  di  dittatori  optimo  iure)  deve  vedersi  secondo  la  tradizione  nel  plebi- 

Gr.  De  Sanctis,  Storia  dei  Romani,  II.  3 


34  CAPO   XUI  -  LA    PLEBE    E    I    SUOI   TRIBUNI 

Ritardò  del  resto  la  vittoria  dei  plebei  lo  spirito  di  rigido  tradi- 
zionalismo proprio  di  tutti  i  Romani,  onde  gli  stessi  plebei  non 
si  seppero  liberare.  Una  prova  singolare  n"è  la  cura  posta  dai 
plebei  nel  ricalcare  le  loro  assemblee  e  le  loro  magistrature  sulle 
assemblee  e  le  magistratui^e  dello  Stato.  Caratteristica  specialis- 
sima delle  assemblee  del  popolo  romano  è  che  i  cittadini  non  vo- 
tano ciascuno  di  per  sé  e  non  si  confrontano  senz'altro  i  loro 
voti;  ma  ciascuno  vota  nel  gruppo  cui  è  iscritto  e  si  paragonano 
i  voti  di  questi  gruppi.  Anche  l'assemblea  tributa  della  plebe  si 
attenne  per  tal  rispetto  all' esempio  dei  comizi  cm-iati  e  centu- 
riati.  E  del  resto  ciò  fu  certo  vantaggioso;  poiché  conferi  a  rendere 
l'assemblea  tributa  interprete  vera  della  volontà  del  poiDolo  impe- 
dendo che  i  rappresentanti  d'un  distretto  intervenuti  accidental- 
mente in  poco  numero  fossero  sopraffatti  dal  voto  dei  rappresentanti 
dun  altro  distretto  intervenuti  per  caso  o  intenzionalmente  in  nu- 
mero maggiore.  Ma  l'imitazione  delle  altre  assemblee  danneggiò 
e  diminuì  il  libero  esplicarsi  della  sovranità  popolare  nel  difetto 
d'iniziativa  dei  privati,  onde  è  assai  limitata  la  libertà  di  parola, 
e  solo  il  magistrato  può  far  proposte  di  leggi.  Anche  jìiii  dannosa 
agli  interessi  della  plebe  fu  l'applicazione  del  princiino  della  col- 
legialità ai  tribuni  della  plebe.  E  ciò  tanto  più  in  quanto  i  tribuni 
erano  in  età  storica  non  meno  di  dieci,  e  anzi  la  tradizione  è  con- 
corde neir affermare  che  il  collegio  era  così  composto  fin  dalla 
metà  del  sec.  V  (1).  Li  origine,  secondo  i  più,  sarebbero  stati  due  (2), 
che  poi  dal  471  si  sarebbero  portati  a  quattro  o  cinque  (3),  prima 


scito  Duillio  del  449,  Liv.  Ili  55,  14  :  ut  qui  magistratum  sitie  provocatione 
creasset  tergo  ac  capite  puniretur.  Ma  il  plebiscito  è  probabilmente  apocrifo 
(tra  altro  la  sanzione  che  si  aspetterebbe  è  la  consecraiio  capitis  et  honorum)^ 
e  se  pure  è  storico,  è  in  ogni  caso  rimasto  verisimilmente  inefficace.  Anche 
minor  conto  è  da  fare  della  analoga  rogazione  Valeria-Orazia,  v.  cap.  seg. 

(1)  Dal  457  pel  plebiscito  Terentilio  (Liv.  Ili  30.  Dionys.  X  30.  Zon.  Vili  17, 
cfr.  Cass.  Dio  fr.  21)  confermato  poi  dal  Trebonio  del  448  (Liv.  Ili  65),  ut 
qui  plebem  Romanam  tribunos  plehis  rogaret,  is  usque  eo  rogaret  dum  decetn  tri- 
bunos  plebei  faceret.  Una  forma  della  leggenda  dei  nove  tribuni  bruciati  (sopra 
p.  10)  suppone  che  fossero  dieci  già  al  tempo  del  console  Cassio  :  ma  natu- 
ralmente non  è  notizia  su  cui  possa  farsi  assegnamento. 

(2)  Cic.  prò  Cam.  fr.  23  Orelli  ap.  Ascon.  p.  75.  de  re  p.  II  84,  59.  Piso  ap. 
Liv.  II  58.  Attic.  ap.  Ascon.  1.  e.  Altri  parlavano  di  cinque  (Dionys.  VI  89. 
AscoN.  1.  e);  ma  Tuditano  (ap.  Ascon.  1.  e.)  e  Liv.  II  33  ne  fanno  eleggere 
prima  due  e  poi  altri  tre  (cfr.  anche  Zon.  VII  15),  conciliando  le  due  versioni. 

(3)  Piso  1.  e.  Cfr.  il  passo  citato  di  Diod.  sopra  p.  26  n.  4. 


TRADIZIONALISMO   PLEBEO  35 

di  salire  nel  457  a  dieci.  Ma  queste  notizie  paiono  di  dubbio  va- 
lore. Certo  è  che  la  lista  dei  tribuni  del  -471  s'è  costituita  coi  nomi 
di  quattro  eroi  popolari  celebrati  dalla  tradizione,  vSicinio,  Numitorio, 
Duillio  ed  Icilio,  di  cui  forse  non  è  da  negare  l'esistenza,  ma  sembra 
artificiale  il  collegamento.  Ciò  posto  pnò  ben  darsi  che  i  due  tribuni 
originari  siano  stati  suggeriti  dai  due  consoli,  i  quattro  o  cinque 
successivi  dalle  quattro  tribù  urbane  (1)  o  dalle  cinque  classi  ser- 
viane  (2).  Sarebbero,  almeno  le  ultime,  induzioni  errate,  perchè  le 
tribù  ui'bane  e  le  classi  ascritte  a  re  Servio  sono,  come  vedremo, 
di  xJarecchio  iDOsteriori  alle  origini  del  tribunato  ;  e  del  resto,  fos- 
sero anche  anteriori,  queste  non  ebbero  certo  nulla  a  fare  coi  tri- 
buni e  coi  concili  tributi,  quelle  non  comj)rendevano  che  i  plebei 
privi  di  proprietà  fondiaria,  ossia  i  più  dipendenti  dalle  famiglie 
nobili  e  i  meno  atti  ad  iniziare  la  lotta  per  l'affrancamento  della 
plebe.  Ad  ogni  modo  quelle  norme  ch'erano  il  semplice  effetto 
della  dualità  della  suprema  magistratm^a  (I  p.  416)  fiu"ono  applicate 
solo  per  gretto  tradizionalismo  agli  altri  collegi  di  magistrati  man 
mano  che  si  istituirono  e  cosi  pure  ai  tribuni  della  plebe,  per 
quanto  probabilmente  non  siano  stati  mai  due.  Era  sufficiente 
quindi  nel  collegio  dei  quattro,  cinque  o  dieci  tribuni  che  s'oppo- 
nesse uno  per  mandare  a  vuoto  non  Fazione  negativa  del  divieto 
a  cui  bastava  un  solo  tribuno  contro  nove,  ma  qualsiasi  azione 
positiva  dei  colleghi,  si  trattasse  di  proposte  o  di  coercizione.  Questo 
tornava  in  pratica  a  danno  degli  interessi  della  plebe  ;  perchè  non 
era  impossibile  che  un  tribuno  fosse  comi^erato  o  in  qualsiasi  modo 
guadagnato  dai  patrizi.  Se  tuttavia  la  plebe  riportò  tanti  trionfi, 
ciò  mostra  che  l'imperfezione  dei  mezzi  non  basta  a  togliere  effi- 


(1)  È  possibile  che  questa  congettura  fosse  già  fatta  in  antico,  come  l'ha 
proposta  tra  i  moderni  E.  Meyer  (mem.  cit.  a  p.  4  n.  2).  Ma  il  Meyer  non 
s'avvede  che  il  suo  punto  di  partenza,  la  notizia  di  Diodoro  sui  quattro  tribuni 
creati  nel  471,  non  riposa  su  tradizione,  ma  su  congettura.  Se  anche  chi  ha 
riferito  l'origine  del  tribunato  al  471  (p.  26  n.  4)  lo  ha  fatto  in  relazione 
colla  pretesa  legge  Publilia  che  stabiliva  l'elezione  dei  tribuni  nell'assemblea 
tributa,  la  congettura  non  aumenta  per  questo  di  valore. 

(2)  AscoN.  1.  e.  :  quidam  non  duo  tr.  pi.  ut  Cicero  dicit  sed  quinque  tradunt 
creatos  tum  (494)  esse  singulos  ex  singuUs  classihus.  Liv.  Ili  30  :  tricesimo  sexto 
anno  a  primis  tribuni  plebis  (457)  decem  creati  sunt,  bini  ex  singulis  classibus  ; 
itaque  cautum  est  ut  postea  crearentur.  Che  ai  tribuni  si  sia  attribuito  il  nu- 
mero di  cinque  perchè  tanti  erano  gli  efori  è  infondata  congettura  del  Pais 
'  St.  Storici  '  III  (1894)  p.  352. 


36  CAPO   XITI  -   LA    PLEBE    E    I    SUOI    TRIBUNI 

cacia  ai  grandi  fattori  politici  ed  economici;  e  dà  inoltre  a  vedere 
che  la  plebe  mosse  compatta  all'assalto  dei  privilegi  patrizi,  in 
modo  elle  fu  difficile  trovare  disertori  dalla  causa  comune  finché 
non  si  ottenne  l'eguaglianza  politica  tra  le  due  classi.  Ma  quando 
la  formazione  della  nobiltà  plebea  ebbe  spezzato  la  solidarietà  tra 
la  plebe,  il  tribunato  divenne  im^jotente  a  tutelare  gl'interessi  della 
democrazia. 

Accanto  ai  tribuni  troviamo  fin  dal  sec.  V  altri  funzionari  plebei 
di  minore  importanza,  e  prima  di  tutto  gli  edili  (1).  In  età  storica 
gli  edili  si  occupavano  del  lastricato  delle  vie  di  Roma,  della  net- 
tezza ui'bana,  delle  pompe  funebri,  della  sicurezza  del  transito 
{cura  urbis  et  operum  publicorum)^  della  polizia  del  mercato  col 
carico  di  vegliare  affinchè  il  popolo  non  avesse  a  soffrire  la  carestia 
{cura  annonae)  e  infine  della  celebrazione  dei  giuochi  sacri  {cura 
ludorum  sollemnium).  Questi  uffici  son  però  in  buona  parte  re- 
centi. Recente  è  anzitutto  la  cura  dei  ludi,  come  prova  la  presidenza 
dei  consoli  nei  più  antichi  di  essi,  i  ludi  Romani,  conservata  anche 
quando  la  du'ezione  effettiva  ne  passò  agli  edili  (2).  E  quanto  agli 
altri  uffici,  non  si  vede  come  potessero  essere  attribuiti  agli  edili 
nell'interesse  di  tutti  i  cittadini,  quando  non  erano  magistrati  legit- 
timi dello  Stato,  ma  semjjlici  funzionari  della  xDlebe  (3).  Del  resto 
tutti  questi  incarichi  non  spiegano  neppui'e  il  nome  degli  edili, 
perchè  non  par  ijrobabile  che  provenga  dalla  loro  facoltà,  compresa 
nella  polizia  urbana  ad  essi  affidata,  d'impedii'e  che  si  costruisse 


(1)  W.  SoLTAu  Die  urspriingliche  Bedeutung  und  Competenz  der  aediles  plebis 
in  '  Historisclie  Untersuchungen  A.  Schaefer  gewidmet  '  (Bonn  1882). 

(2)  Liv.  XLV  1,  6.  Veramente  secondo  Liv.  VI  42,  13  (questo  sembra  nonostante 
le  obbiezioni  del  Soltau  il  senso  del  passo)  gli  aediles  plehis  avrebbero  avuto 
fino  al  367  la  cura  dei  ludi  macrimi;  ma  pare  si  tratti  di  una  errata  con- 
gettura costituzionale.  I  primi  ludi  spettanti  agli  aediles  plebis  e  i  soli  che 
rimanessero  ad  essi  sul  chiudersi  dell'età  repubblicana  erano  i  ludi  plebei 
creati  intorno  al  220  (Liv.  XXIII  30.  XXV  2.  XXVII  6  etc). 

(3)  La  prima  menzione  della  cura  annonae  edilizia  è  del  299,  Liv.  X  11,  9, 
a  proposito  dell'edile  curule  Q.  Fabio  Massimo.  Plin.  n.  h.  XVIII  15  ricorda,  è 
vero,  le  frumentazioni  di  M'.  Marcio  edile  della  plebe,  che  sarebbe  stato  ante- 
riore a  Minucio  (sopra  p.  16);  ma  questa  notizia  merita  poca  fede.  Non  può 
invece  respingersi  con  la  sicurezza  del  Pais  I  p.  543  n.  1  la  notizia  eh'  egli  dà, 
ivi  XVIII  16,  su  Seio,  edile  fra  il  439  e  il  250,  pur  non  escludendo  del  tutto 
la  vaga  possibilità  che  si  tratti  di  un  mitico  antenato  dell'edile  M.  Seio  con- 
temporaneo di  Cicerone  (Cic.  de  off.  II  17,  58.  Plin.  n.  h.  XV  2). 


CLT    EDILI  37 

in  modo  da  occupare  il  suolo  delle  vie  pubbliche  o  da  altre  simili. 
A  rintracciare  le  competenze  originarie  degli  edili  può  servire  la 
legge  sacrata  che  impone  di  vendere  i  beni  di  chi  lede  i  magistrati 
plebei  accanto  al  tempio  di  Cerere,  Libero  e  Libera  (vedi  sopra 
pag.  28  n.  3)  e  la  pretesa  deliberazione  dei  consoli  Orazio  e  Va- 
lerio secondo  cui  i  senatusconsulti  debbono  esser  consegnati  agli 
edili  della  i^lebe  nel  tempio  di  Cerere  (1).  Queste  due  norme,  le  quali 
verisimilmente  nulla  hanno  a  fare  con  quei  due  consoli,  mostrano 
che  nel  tempio  di  Cerere  era  Farchivio  e  il  tesoro  della  plebe  ro- 
mana. S'è  messa  in  dubbio  l'esistenza  d'un  tesoro  della  plebe  perchè 
la  plebe  non  essendo  persona  giuridica  era  inabile  a  possedere  (2). 
Ma  destano  meraviglia  simili  maniere  d'argomentare:  se  anche 
il  concetto  della  persona  giui'idica  fosse  stato  svolto  cosi  coeren- 
temente dai  rozzi  contadini  del  V  secolo  come  dai  giuristi  raffinati 
dell'età  classica,  la  plebe  dandosi,  come  fece,  ordinamenti  rivolu- 
zionari non  era  punto  tenuta  a  simili  sottigliezze.  Ed  è  evidente 
che  i  plebei  non  potevano  consegnare  al  governo  patrizio  le  multe 
imposte  p.  e.  ai  consoli  che  n'erano  i  rappresentanti  senza  rischiare 
di  ridmTe  le  proprie  condanne  ad  una  farsa  j)riva  di  qualsiasi  se- 
rietà ed  efficacia.  Inoltre  solo  per  mezzo  di  questo  tesoro  plebeo 
possiamo  spiegarci  le  frumentazioni  fatte  poi  per  opera  degli  edili 
e  la  cura  dell'annona  che  a  poco  a  poco  assunsero  a  complemento 
di  esse.  Ma  i  plebei  inoltre,  dal  momento  che  s'erano  ordinati  per 
tribù,  dovevano  tener  liste  degli  iscritti  a  ciascuna  tribù;  né  meno 
importava  ad  essi  di  registrare  le  deliberazioni  prese  nei  -concili 
della  plebe.  E  cosi  al  loro  tesoro  s'accompagnava  un  arcliivio  :  il 
quale  poi,  man  mano  che  i  tribuni  s'arrogarono  il  diritto  di  vigi- 
lare sugli  atti  del  senato,  s'arricchì  con  le  copie  dei  senatuscon- 
sulti (3).  Tesoro  ed  archivio  erano  nel  tempio  di  Cerere  presso  il 
Circo  Massimo,  che,  secondo  la  tradizione,  fu  votato  dal  dittatore 
Sp.  Postumio  nel  496  ed  eretto  dal  console  Sp.  Cassio  nel  493  (4). 
Ma  queste  notizie  sulla  sua  origine  sono  malsicure,  prima  perchè 
sembrano  contraddire  ai  diritti  speciali  che  la  plebe  s'arrogava  in 


(1)  Liv.  Ili  55  :  ut  senatusconsulta  in  aedem  Cereris  ad  aediles  plehis  defer- 
rentur.  Cfr.  Zon.  VII  15  e  Pompon,  dig.  I  2,  2,  25,  che  quest'uso  considerano 
addirittura  come  originario. 

(2)  SoLTAu  p.  29.  Assai  più  rettamente  giudica  lo  Schwegler  II  275  n.  3. 

(3)  SoLTAu  p.  32  seg. 

(4)  DioNYs.  VI  17.  94. 


38  CAPO   XIII-  LA    PLEBE    E    I    SUOI    TRIBCNI 

quel  tempio,  poi  perchè  F  ultima  pare  collegarsi  strettamente  col 
particolare  sospetto  della  statua  di  Cerere  eretta  col  provento 
della  confisca  dei  beni  di  Cassio.  Onde  è  più  verisimile  che  il 
tempio  di  Cerere  sia  stato  edificato  da  qualche  plebeo,  privato  o 
tribuno,  o  dalla  plebe  stessa  quando  si  diede  nel  secolo  V  il  suo 
nuovo  ordinamento.  Ad  ogni  modo,  comunque  abbia  avuto  origine 
il  santuario,  deposto  in  esso  il  tesoro  e  l'arcliivio  della  plebe,  i 
custodi  del  temi^io,  gli  edili,  dovevano  a  poco  a  poco  trasformarsi 
in  tesorieri  e  archivisti  della  plebe.  Né  vale  l'opporre  che  se  gli 
edili  avessero  avuto  in  origine  relazioni  speciali  con  un  determi- 
nato tempio,  non  sarebbero  stati  chiamati  edili  senz'  altro,  ma 
edili  di  Cerere,  anche  altri  edifici  destinati  al  culto  {aedes  sacrae) 
esistendo  già  quando  fu  costruito  il  tempio  di  Cerere,  e  anzi 
tutto  il  sacrario  di  Giove  Capitolino.  Infatti  nulla  vieta  di  -ritenere 
che  in  origine  il  nome  di  questi  magistrati  sia  stato  appunto 
quello  di  edili  di  Cerere  e  che  poi  con  l'ampliarsi  delle  loro  com- 
petenze la  seconda  parte  del  nome  sia  andata  in  disuso,  al  modo 
stesso  che  i  questori  del  i3arricidio  fm'ono  detti  col  tempo  sempli- 
cemente questori.  E  può  darsi  che  Giulio  Cesare,  creando  due  nuovi 
edili  col  nome  di  edili  ceriali,  abbia  voluto  anche  reintegrare  una 
denominazione  antica  di  cui  gli  sarà  in  qualche  modo  pervenuto 
un  ricordo.  Ija  ipotesi  invece  che  gli  edili  si  occu23assero  in  origine 
di  tutelare  la  plebe  in  occasione  delle  angherie  {munia,  corvées), 
cui  era  sottoi)osta  per  lavori  di  pubblica  utilità,  come  lastricare 
vie,  costruù'e  cloache  ed  innalzare  mura,  non  sembra  dare  una  spie- 
gazione soddisfacente  né  del  loro  nome  né  della  speciale  relazione 
in  cui  erano  col  tempio  di  Cerere.  Ed  é  facile  vedere  come  possano 
essersi  allargate  le  competenze  dei  custodi  del  tempio  di  Cerere, 
divenuti  arcliivisti  e  tesorieri  della  plebe.  Infatti  da  una  parte  in 
tal  qualità  si  trovavano  in  rapporti  permanenti  coi  capi  elettivi 
della  plebe,  i  tribuni,  e  si  capisce  come  da  questi  potessero  esser 
delegati  ad  esercitare  in  loro  vece  alcuni  altri  uffici  secondari  nel- 
l'interesse della  plebe,  come  una  limitata  gim'isdizione  (1),  da  [ìa- 


(1)  Di  qui  anzi  partono,  ma  a  torto,  gli  scrittori  antichi  discorrendo  della 
origine  dell'  edilità  :  Dionys.  VI  90  :  èb€r)0r|Oav  rfic,  pouXrìq  èiTiTpéi|/ai  aqpiaiv 
fivbpaq  6K  TÙiv  br||uoTiKOùv  bue  koG'  ^Koarov  éviauTÒv  àirobeiKvuvai  toùc;  ÙTTTipe- 
TqoovTai;  Totq  brmdpxoK;  òauiv  Sv  béuuvrai  Kal  biKaq  he,  àv  èirixpéiiJUJVTai  èKCìvoi 
KpivoOvTaq  iEpùJv  T6  Kal  briiaoaiujv  tóttuuv  koI  Tf)q  Karà  ti'iv  àyopàv  eÙ6Tr|pia(;  tn\- 

laeXrjaoiuévouq ove,  ÙTTripéraq  tOùv  briiudpxujv  koì  ouvdpxovTaq  koì  biKaoTÒc;  èKd- 

Xouv.  ZoN.  VII  15  :  kqì  dyopavóiLiou;  bOo  trpoaeiXovTo  oiov  ùirripéTaq  aqjioiv  èao)aé- 


GIUDICI    DECEMVIRI  39 


rag'onare  forse  a  quella  dei  nostri  giudici  conciliatori,  e  l'arresto 
{preìisio)  di  quelli  clie  i  tribuni,  in  forza  delle  loro  facoltà  coerci- 
tive, facevano  condurre  in  carcere  (1).  D'altro  canto  le  multe  ri- 
scosse li  mettevano  in  grado  sia  di  prov^'^edere  a  frumentazioni,  onde 
poi  assunsero  la  cura  dell'annona,  sia  di  erogare  qualche  somma  per 
altre  piccole  spese  ^  di  pubblica  utilità,  come  il  lastricare  qualche 
via,  il  migliorare  qualche  mercato,  il  solennizzare  qualche  sacra 
festicciuola  ;  onde  col  tempo  si  attribuirono  la  cura  della  città  e 
dei  ludi,  con  tanto  minor  difficoltà,  in  quanto  non  esisteva  una 
magistratm-a  dello  Stato  che  se  ne  occupasse  particolarmente.  Con 
queste  attribuzioni  gli  edili  assunsero  anche  quella  giurisdizione 
amministrativa  che  ad  esse  si  connetteva,  in  virtù  del  costante  uso 
romano  di  delegare  ad  ogni  magistrato  la  giurisdizione  concer- 
nente l'esercizio  delle  sue  ordinarie  attribuzioni.  Questo  incremento 
di  x)oteri,  usati  non  più  nell'interesse  d'una  classe,  ma  nell'interesse 
di  tutti,  spiega  i^erchè,  come  vedremo,  più  tardi  gii  edili  si  tras- 
formassero in  legittimi  magistrati  dello  Stato. 

Oltre  gli  edili  ed  i  tribuni,  la  legge  sacrata  ricorda  i  giudici 
decemviri  (2),  che  con  questo  nome  non  ricorrono  altrove,  ma  che 
son  certo  da  ragguagliare  ai  decemviri  per  giudicare  le  liti  (stli- 
tiLiis  ìudicandis)  (3).  Questi  fino  ad  Augusto,  senza  esser  legati  al 


voU(;  irpòq  TpóiufiaTa  •  irdvTa  t«P  Tà  té  irapà  tlù  irXriGei  koì  tuj  òriiuuj  Kai  TÌr)  PouXfj 
Ypaq)ó^6va  Xaiu^dvovrei;  ....  èqpuXaaaov  ■  tò  |uèv  oi!iv  dpxatov  è-rrì  toùtuj  iJipoOvro  koI 
ènì  TUJ  òiKdZleiv.  Anche  più  esplicito  è  [Theophil.]  I  2,  8  :  év  tlù  Kaipuj  Tfjc; 
òiaoxdaeuji;  oiairep  irapà  to\c,  auYKXrjTiKotq  fjv  ó  uiroTOC  òiKaioboxùJv  Kal  t6|uvijuv 
Tàc;  òiKoq.  oÙTUj  koì  uapà  toìc;  ìòiiJuTaK;  irpoùpXriGri  ti<;  6v  èòei  òéxeaGai  xàc,  irpoa- 
eXeùaeic;  tOùv  Ò60)uévujv  ^Tivòq  PoriQeiac;  6^  d-rrò  Tf\c,  -rrpoaeXeùaeujc;  adilis  djvo- 
^daGrj.Per  la  critica  di  queste  notizie  v.  Sqltau  p.  9  segg. 

(1)  L'accusa  fatta  nel  454  da  un  edile  ad  un  console  (Liv.  Ili  21.  Dionys. 
X  48),  non  è  storica,  e  chi  l'ha  inventata  ha  confuso  la  facoltà  di  accusare 
al  popolo  con  la  prensio  edilizia  ordinata  dai  tribuni,  su  cui  v.  Liv.  XXIX 
20,  11.  XXXVIll  52,  2. 

(2)  C'è  chi  vuole  che  si  separi  in  quel  testo  iudices  e  decemviri.  Ma  iudices 
nella  lingua  più  antica  è  una  denominazione  dei  consoli  ;  e  qui  non  può  certo 
trattarsi  di  magistrati  patrizi  ;  inoltre  non  può  col  solo  epiteto  decemviri  de- 
signarsi una  magistratura.  Gli  stessi  famosi  decemviri,  i  decemviri  per  eccel- 
lenza, si  designavano  come  decemviri  legibus  scìHbendis.  Supporre  poi  che  il  vo- 
cabolo decemviri  sia  una  glossa  è  ipotesi  arbitraria. 

(3)  Così  Hdschke  Die  Verfassung  des  Koniys  Serviiis  Tullius  (Heidelberg  1838) 
592  seg.  606  seg.  Secondo  Pomponio  dig.  I  2,  2,  29  i  decemviri  stlitibus  ìudi- 
candis sarebbero  stati  istituiti  nella  seconda  metà  del  sec.  III.  Ma  Pomponio 


40  CAPO  XUI  -  LA   PLEBE    E   I   SUOI   TRIBUNI 

verdetto  d'alcun  tribunale,  giudicavano  con  piena  autorità  nelle 
cause  concernenti  la  libertà  o  la  servitù.  Nella  plebe  affluivano  co- 
stantemente i  servi  manomessi;  e  spesso  i  limiti  tra  clientela  e 
servitù  non  erano  troppo  ben  definiti.  Tale  stato  di  cose  mostra 
come  fosse  indàspens abile  per  il  plebeo  avere  magistrati  suoi 
X^roprì  clie  ne  tutelassero  la  libertà.  Ma  anche  i  verdetti  di  questi 
giudici  non  avevano  in  origine  valore  legale  :  il  loro  potere  era 
rivoluzionario.  Il  plebeo  trascinato  ingiustamente  in  servitù  si  ap- 
pellava ad  essi  ;  ed  essi,  ove  riconoscessero  il  suo  buon  diritto, 
potevano  liberarlo,  non  perchè  ne  avessero  facoltà  dalle  leggi  dello 
Stato,  ma  perchè  erano  sostenuti  dalla  forza  morale  e  materiale 
della  plebe,  che  aveva  gim^ato  con  le  leggi  sacrate  di  tutelarli. 

Cosi  dunque,  profittando  della  istituzione  delle  tribù  rustiche, 
la  plebe  si  era  ordinata  per  la  lotta  contro  i  privilegi  patrizi  a 
Stato  entro  lo  Stato.  Forte  del  nuovo  ordinamento,  essa  si  apprestò 
quindi  a  conquistare  l'eguaglianza  civile  e  politica. 


commette  non  di  rado  inesattezze  cronologiche.  Così  quando  egli  aggiunge 
che  fin  dall'origine  presiedevano  il  tribunale  centumvirale,  mentre  sappiamo 
da  Svetonio  che  il  loro  ufficio  fu  solo  da  Augusto  ridotto  alla  presidenza  di 
questo  tribunale,  che  prima  era  presieduto  da  questori  {Aug.  36). 


CAPO  xrv. 


Le  leggende  sui  decemviri  e  il  primo  codice  scritto. 


La  legislazione  decemvirale  segnava  già  per  gli  storici  della 
metà  del  secolo  II  av.  C.  uno  dei  punti  più  luminosi  della  storia 
interna  della  antica  Roma  (1).  E  con  gli  storici  si  accordavano  i 
giuristi,  tra  cui  un  accurato  commentario  delle  leggi  dei  decem^dri 
aveva  dato  fin  dalla  metà  di  quel  secolo  Sesto  Elio  Peto  (2).  Quel 
medesimo  poi  che  i  giuristi  e  gli  storici  dicevano   e  la  tradizione 


(1)  Ciò  risulta  da  Cass.  Hemin.  fr.  18  ap.  Macrob.  sat.  I  13,  21,  dal  racconto 
di  DioDORO  XII  23-25,  che  risale  certo  ad  un  annalista  anteriore  all'età  sil- 
lana,  e  soprattutto  dal  passo  lacunoso  di  Polyb.  VI  11,  su  cui  v.  E.  Meyek 
'  Rh.  Museum  '  XXXVII  (1882)  p.  601  segg.  :  oxi  dirò  ■zf\c,  EepEou  biapciaetwc;  6Ì<; 
■xr\\i  'EWdba  (lacuna:  deve  supplirsi  òuc  o  una  cifra  simile;  non  una  cifra  di 
centinaia,  perchè  per  avvenimenti  del  sec.  IV  o  del  III  il  punto  di  partenza 
sarebbe  stato  la  battaglia  di  Egospotami,  la  battaglia  di  Leuttra,  il  passaggio 
di  Alessandro  in  Asia  o  simili)  koì  TpidKovra  éxeaiv  liaTepov  àirò  toùtujv  tujv 
KaipOùv  dei  xiùv  kotò  \xipoc,  irpobieuKpivoiLiévujv  rjv  (il  soggetto  è  certo  tò  'Puj- 
.uaiujv  TT0\iT6U|Lia)  Kol  KdWiaTOv  Kol  TéXeiov  èv  rote;  'AvviPiaKOìi;  Kaipot;.  Dunque 
Polibio  datava  dalle  dodici  tavole  la  ordinata  costituzione  romana. 

(2)  Questi  (console  nel  198,  censore  nel  194)  viene  ricordato  da  Cicerone  e 
per  la  sua  perizia  come  giurista  e  pei  suoi  commentari  {de  orai.  I  56,  240), 
che  son  certamente  lo  stesso  scritto  noto  a  Pomi*,  dig.  I  2,  2,  38  col  nome  di 
tripertita,  il  quale  conteneva  una  interpretazione  delle  dodici  tavole. 


42  CAPO   XIV  -  LE   LEGGENDE    SUI   DECEMVIRI,    ECC. 

popolare  e  i  documenti.  I  fasti  consolari  infatti,  sia  nelle  redazioni 
che  ci  soii  pervenute  a  mezzo  degli  annalisti  sia  in  quella  capito- 
lina, registravano  due  collegi  di  decemviri,  in  carica  circa  la  metà 
del  sec.  V,  dandone  nomi  che  in  buona  parte  per  la  stessa  oscmità 
delle  famiglie  che  li  portavano  non  possono  dalla  critica  reputarsi 
interpolati  ;  e  la  tradizione  conservava  ricordo  per  mezzo  del  carmi  ; 
poiDolare  di  Verginia,  se  non  della  legislazione,  almeno  della  stra- 
potenza decemvirale. 

La  concordia  di  questi  dati  mostra  che  in  effetto  nella  metà  del 
sec.  V  uno  o  più  collegi  di  decemvii^i  diedero  a  Roma  un  codice 
di  leggi  (1).  Dire  che  i  decemviri  legislatori  (X  viri  legibus  scri- 
bundis)  sono  stati  inventati  sulFesemxDlare  dei  giudici  decem^dri 
{X  viri  stlitìhus  iudicandis)  è  quindi  far  violenza  alle  testimo- 
nianze con  una  congettura  senza  fondamento  ;  poiché  nessuno  po- 
trebbe mai  spiegare  come  si  siano  fatti  legislatori  o  tiranni  di  quei 
modesti  giudici  che  la  plebe  aveva  istituito  a  propria  guarentia 
per  le  cause  liberali.  E  chi  giungesse  ad  asserire  che  i  nomi  dei 
decemviri  son,  più  o  meno  alterati,  quelli  dei  primi  giudici  decem- 
viri, come  questi  eran  plebei  e  quelli  per  tre  quarti  patrizi  dovrebbe 
supporre  nei  fasti  quelle  copiose  falsificazioni  di  cui  nessuno  sin 
qui  ha  provato  l'esistenza  (I  p.  11  seg.).  Ma  esclusa  codesta  con- 
gettui^a,  non  per  questo  siamo  in  chiaro  sulla  storia  e  la  natura 
del  decemvirato,  sebbene  i  particolari  non  facciano  difetto  nella 
tradizione  a  noi  giunta. 

Nel  462  (cosi  ci  ^àen  riferito)  iniziò  quelle  agitazioni  che  con- 
ckissero  alla  compilazione  del  codice  delle  dodici  tavole,  il  tribuno 
della  plebe  C.  Terentilio  Arsa  con  la  proposta  di  creare  una  com- 
missione di  cinque  plebei  incaricata  di  scriver  leggi  dirette  a  limi- 
tare l'arbitrio  dei  consoli  nell'esercizio  del  loro  imperio  (2).  Ma  dopo 
otto  anni  di  lotta,  chiarita  la  imx^ossibilità  di  raggiungere  in  tutto 
il  fine  cui  mirava  Terentilio,  si  convenne,  lasciato  cader  ciò  che 
in  quella  proposta  più  feriva  i  patrizi,  di  creare  un  collegio  di  le- 
gislatori che  componessero  un  codice  di  leggi  utili  ed  eque  per 
ogni  classe  sociale  (3).  E  per  fornire  a  quello  gli  elementi  si  no- 
minarono frattanto  tre  commissari  col  mandato  di  studiare  in  Grrecia 


(1)  Ne  ha  dubitato  per  primo  Pais  1  1    p.    558  segg.  V.  oltre  a  p.  62  n.  3. 

(2)  Liv.  Ili  9,  5:  Mi  quinqueviri  creentur  legibus  de  imperio  consulari  scribendis 
che  si  trattasse  di  plebei  è  detto  III  37,  7. 

(3)  Liv.  Ili  31,  7. 


ROCxAZlONE    TERENTILIA  43 


le  leggi  di  Soloiie  e  le  altre  legislazioni  elleniche.  Al  loro  ritorno, 
sospesi  con  gli  altri  magistrati  i  tribuni  della  plebe,  avendo  abdi- 
cato i  consoli  in  carica,  si  nominò  per  scrivere  le  leggi  e  per  gover- 
nare in  questo  mezzo  con  pieni  poteri  lo  Stato,  un  collegio  di 
decemviri  tutti  patrizi,  del  quale  fecero  parte,  coi  due  consoli 
dimissionari,  Ap.  Claudio  e  T.  Genucio,  i  tre  ambasciatori  mandati 
in  Grecia,  Sp.  Postumio  Albo,  Ser.  Sulpicio  ed  A.  Manlio,  e  cinque 
altri  patrizi,  P.  Sestio,  Sp.  Vetmio,  C.  Giulio,  P.  Guriazio  e  T.  Ro- 
milio  (1).  Tale  è  il  racconto  liviano  della  preistoria  del  decemvirato; 
della  quale  tace  affatto  la  nostra  fonte  migliore,  mentre  v'è  chi  la 
narra  assai  diversamente,  riferendo  come  sin  dal  principio  si  mirò 
ad  eleggere  una  commissione  non  di  cinque,  ma  di  dieci  e  non  di 
soli  plebei  e  non  col  solo  scopo  di  limitare  l'imperio  consolare,  ma 
con  quello  di  raccogliere  e  fissare  tutto  il  diritto  pubblico  ed  il 
privato  (2).  Or  l'ultima  versione  è  certamente  e  più  verisimile  e 
più  consona  agli  altri  fatti,  ma  par  chiaro  che  essa  è  soltanto  un'in- 
duzione fondata  sul  contenuto  delle  tavole  compilate  dai  decemviri: 
induzione  del  resto  assennata,  per  quanto  ben  x^oco  riscliiari  l'oscu- 
rità di  quei  tempi.  Altra  induzione,  fondata  sul  fatto  che  ai  decem- 
viri si  diede  imperio  consolare  e  sul  concetto  che  s'aveva  x30sterior- 
mente  delle  antiche  lotte  tra  x)atrizi  e  plebei,  è  l'asserto  della  fonte 
di  Livio  che  si  trattasse  in  origine  di  limitare  rim]3erio  consolare 
per  mezzo  d'una  commissione  di  legislatori  plebei  ;  non  atto  da  un 
lato  a  spiegare  la  integrale  collezione  delle  norme  di  diritto  per 
Oliera  dei  decemviri,  assurdo  dalFaltro  in  quanto  non  x)oteva  pen- 
sarsi ad  una  legislazione  plebea  in  uno  Stato  x)atrizio,  al  quale  nes- 
suno si  proi3oneva  allora  di  mettere  a  capo  supremi  magistrati 
esclusivamente  plebei  (3).  Queste  discrejDanze  mostrano  del  resto  che 
nulla  si  sax)eva  del  contenuto  della  rogazione  Terentilia;  e  forse 
è  da  ritenere  soltanto  come  probabile  a  tal  x)rox)Osito,  benché  sicuro 
non  possa  dirsi,  che  un  Terentilio  abbia  capitanato  il  movimento  di- 
retto ad  ottenere  un  codice  scritto  di  leggi.  La  i^ersona  evanescente 
di  quel  tribuno,  l'osciuità  del  suo  nome  che  non  è  quello  di  nessuna 
famiglia  della  i)osteriore  nobiltà  x)lebea,  nella  concordia  sull'impor- 
tanza dell'opera  sua  tra  le  fonti  che  son  discordi  poi  nel  delinearla. 


(1)  III  32-33. 

(2)  DioNYs.  X  3:  ov^fpàrpuv  vóixovc,  Onèp  àTràvroiv  tuùv    te    koivuùv    koì    tujv 
ibiuuv. 

(3)  Forse   anche  l'errore  deriva  semplicemente  dall'aver  frainteso    il    titolo 
che  i  decemviri  hanno  nei  {a^ii:  decemviri  consiliari  imperio  legibus  scribundis. 


44  CAPO  XIY  -  LE  LEGGENDE  SUI  DECEMVIRI,  ECC. 

sembra  mostrare  che  Terentilio  non  è  un  personaggio  immaginario, 
per  quanto  non  sia  agevole  additare  per  qua!  via  possa  essersi 
trasmesso  il  suo  ricordo  ai  posteri. 

Assai  meno  fededegna  è  la  notizia  sull'ambasceria  inviata  in 
Atene:  che  pare  un  mito  etiologico  diretto  a  spiegare,  esagerandoli 
di  molto,  poiché  il  sostrato  di  quel  codice  è  costituito  dal  diritto 
consuetudinario  indigeno,  gli  elementi  greci  delle  dodici  tavole  (1). 
Né  ha  grande  importanza  l'essersi  tramandati  i  nomi  degli  amba- 
sciatori; è  facile  invero  spiegare  come  quei  nomi  si  possano  essere 
ricavati  dalla  lista  stessa  dei  primi  decemviri  prendendone  quelli 
che  seguivano  immediatamente  i  due  (veri  o  presunti)  consoli  di- 
missionari. Di  contro  a  questa  tradizione  sta,  dovuta  probabilmente 
anch'essa  al  desiderio  di  risolvere  il  medesimo  problema,  occasio- 
nata forse  da  una  statua  che  sorgeva  nel  Comizio,  l'altra  che  là 
contraddice  e  la  elide  secondo  cui  i  decemviri  fm'ono  aiutati  nella 
compilazione  delle  dodici  tavole  dal  greco  Ermodoro  di  Efeso, 
l'amico  perseguitato  di  Eraclito,  che  esulava  in  Italia  (2).  Ma  l'uomo 
che  provocò  l'amara  e  feroce  invettiva  del  filosofo  contro  gli  Efesi, 
il  solo  insigne  in  una  città,  al  dir  dell'amico,  odiatrice  di  chimique 
fosse  insigne  (3),  assai  difficilmente  trovò  alla  sua  operosità  in  Roma 
quel  terreno  propizio  che  non  gii  fu  dato  rinvenire  in  patria,  sia 


(1)  BoEscH  De  XII  tahidariim  lege  a  Graecis  petita  (Gottingae  1893  diss.)  :  v. 
anche  più  sotto  p.  87.  Che  l'ambasceria  fosse  favolosa  aveva  già  riconosciuto 
G.  B.  Vico  Principi  di  scienza  nuova  (P  ed.)  lib.  II  e.  VII.  L'argomento  peraltro 
che  suole  addursi  contro  di  essa,  tratto  da  Polyb.  II  12,  7,  secondo  cui  prima 
ambasceria  romana  in  Grecia  fu  quella  che  vi  diede  conto  della  prima  guerra 
con  gì'  miri,  non  ha  molto  valore  ;  perchè  già  per  lo  innanzi  i  Romani  ne 
avevano  mandate  in  Grecia  altre,  una  almeno  delle  quali,  per  proteggere  gli 
Acarnani  dagli  Etoli,  non  può  in  alcun  modo  revocarsi  in  dubbio  (v.  al  e.  XXI). 
—  L'ambasceria  è  ricordata  da  Liv.  TU  31  segg.  e  Dionys.  X  52,  54.  La  loro 
concordia  insieme  con  vari  indizi  tratti  dai  loro  racconti  fa  ritenere  che  doveva 
già  esser  narrata  da  qualche  annalista  dell'età  sillana,  come  Valerio  Anziate; 
più  oltre  non  ci  è  dato  con  sicurezza  risalire. 

(2)  Plin.«.  h;  XXXIV  21  :  fuit  (statua)  et  Hermodori  Ephesii  in  comitio 
legum  qiias  decemviri  scribebant  interpretis.  Pompon,  dig.  I  2,  2,  4.  Strab.  XIV 
642:  boKeì  b'  outo^  ó  (ìvr)p  vóiuouq  Tivàc;  'Pu)|uaioi(;  auyTPÓH'Oii.  Dato  che  dav- 
vero nel  Comizio  si  trovasse  una  statua  con  l'epigrafe  '  Epiaóbuipoq  non  vi  sa- 
rebbe modo  di  determinare  se  era  veramente  dedicata  all'amico  di  Eraclito 
e  se  a  Roma  era  stata  innalzata  per  la  prima  volta  o  trasportatavi  da  qualche 
città  greca  conquistata,  come  Locri  o  Reggio. 

(3)  Heracl.  fr.  121  DiELS  ap.  Strah.  XIV  p.  642. 


I   SECONDI   DECEMVIRI  45 


perchè  un  mezzo  secolo  airincirca  corse  tra  il  suo  allontanarsi  eia 
Efeso  e  il  suo  preteso  riapparire  tra  i  Quiriti  (1),  sia  perchè  le  for- 
mule barbariche  e  talora  crudeli  delle  dodici  tavole  non  sembrano 
davvero  dovute  a  un  raffinato  pensatore  ionico. 

x^i  primi  decemviri,  retti,  moderati  e  coscienziosi  che  composero 
dieci  tavole  di  buone  leggi,  ne  succedettero  (cosi  la  tradizione)  altri 
molto  dissimili.  Il  solo  personaggio  autorevole  del  nuovo  collegio, 
Appio  Claudio,  che  già  aveva  fatto  i^arte  dell'antico,  gettò  ora  la 
maschera  e  diede  libero  sfogo  alla  sua  libidine  di  potere,  secondan- 
dolo, xjer  ambizione  o  per  debolezza,  i  colleghi,  per  quanto  fossero 
in  parte  uomini  della  i)lebe.  Sebbene  allo  spirare  di  questo  secondo 
anno  avessero  apx^restato  le  due  tavole  su]3X3lenientari,  i  decemviri 
non  deposero  la  loro  autorità.  Ormai  lo  Stato  romano  era  in  potere 
d'usurx3atori  ;  ne,  soppresso  il  tribunato  della  x)lebe  e  destituiti  d'i- 
niziativa secondo  le  leggi  e  gli  ordini  vigenti  e  il  senato  e  il  po- 
polo, v'era  alcuna  via  legale  per  contrastare  all'usurpazione.  Ma 
frattanto  i  Sabini  e  gii  Equi  avevano  invaso  il  territorio  romano. 
E  i  decemviri  si  videro  costretti  a  convocare  il  senato  che,  parte 
per  fiacchezza  d'animo,  parte  per  carità  di.  ]3atria,  non  volendo  dare 
il  segnale  delle  lotte  civili  mentre  i  nemici  devastavano  il  paese, 
permise  loro  di  far  leve.  E  cosi,  inviato  un  esercito  sotto  tre  de- 
cemviri contro  i  Sabini,  un  altro  sotto  cinque  di  essi  contro  gli 
Equi,  rimanevano  in  Roma  Ap.  Claudio  e  Sp.  Oppio.  Fra  le  truppe 
levate  contro  i  Sabini  un  prode  soldato  plebeo  che  aveva -ricevuto 
ogni  sorta  di  distinzioni  militari,  L.  Siccio  Dentato,  osava  parlare 
liberamente  contro  la  tirannide.  Onde  i  decemviri,  deliberata  la  sua 
morte,  lo  fecero  uccidere  a  tradimento.  Dopo  di  che  l'odio  contro 
i  tiranni  crebbe,  ma  in  un  silenzio  foriero  di  tempesta.  E  fu  causa 
innocente  che  la  tem^DCsta  si  scatenasse  una  fanciulla,  Verginia. 
Acceso  per  lei  di  colpevole  amore  il  decemviro  Appio  aveva  in- 
dotto un  suo  cliente  a  x^erseguitarla  come  schiava  in  giudizio.  Il 
fidanzato,  l'antico  tribuno  Icilio,  e  il  padi-e,  accorso  dall'esercito 
nelle  cui  file  militava,  si  opposero  invano  all'iniqua  trama  ;  che  al 
suo  cliente  aggiudicò  il  decemviro  come  schiava  la  fanciulla.  Al- 
lora Verginio  vedendo  un  solo  scampo  all'onore  della  figlia,  la 
uccise  di  coltello.  Il  sangue  della  vergine  innocente  fiaccò  la  tra- 
cotanza dei  tiranni,  e  incuorò  al  popolo  la  ribellione.  L'esercito  che 


(1)  Di  fatto  Eraclito  spetta  al  500  circa,  come  mostra  non  tanto  la  crono- 
lof?ia  tradizionale  assegnando  la  sua  <ÌK|uri  all'ol.  69  (504-500),  quanto  i  frammenti 
in  cui  non  hanno  lasciato  traccia   filosofi  posteriori  a  Pitagora   e  a  Senofane. 


46  CAPO   XIV  -  LE    LEGGENDE    SUI    DECEMVIRI,    ECC. 

combatteva  contro  gii  Equi,  sollevato  da  Verginio  al  suo  ritorno 
al  campo,  con  Taltro  die  ne  segui  l'esempio  occupò  militarmente 
l'Aventino.  Ma  i  decemviri,  pur  mancando  d'armi  e  di  coraggio, 
non  si  risolvevano  ad  abdicare.  Allora  i  due  eserciti,  seguiti  da 
gran  moltitudine  di  popolo,  si  ritrassero  sul  monte  Sacro.  E  ri- 
masti nella  città  deserta,  senza  sudditi,  i  tiranni  piegarono  gli 
animi  all'inevitabile.  Con  la  loro  rinuncia  e  col  ristabilimento  delle 
magistrature  precedenti,  compresi  i  tribuni  della  plebe,  si  chiuse  la 
rivoluzione.  E  principiarono  le  vendette  plebee  :  ma  il  caso  e  la 
moderazione  dei  capi  liberò  la  plebe  dal  pericolo  di  macchiare  col 
sangue  la  vittoria  ;  poiché,  arrestati  i  due  principali  colpevoli,  Appio 
Claudio  ed  02)pio,  questi  mori  in  carcere,  quegli  prevenne,  ucciden- 
dosi, il  giudizio  ;  e  gii  altri  decemviri,  senza  cimentarsi  al  pericolo 
d'accuse  e  di  condanne,  presero  la  via  dell'esilio  (1). 

La  bella  semplicità  apparente  di  questo  racconto  si  rivela  come 
una  complessità  d'elementi  mal  coordinati  all'occhio  del  critico.  La 
convocazione  del  senato  per  far  leva  di  truppe,  se  era  necessaria 
al  governo  senatorio  del  HI  o  del  II  sec.  av.  C,  non  risponde  alle 
condizioni  anteriori  in  cui  molto  più  amijio  erai  in  diritto  e  in  fatto 
l'ambito  dei  poteri  del  magistrato;  e  però  si  tratta,  evidentemente 
d'una  invenzione  annalistica.  Quanto  a  Siccio,  si  narrava  che  pochi 
anni  prima  il  console  Romilio  lo  aveva  esposto  a  tradimento  alla 
morte  senza  riuscire  ad  altro  che  a  coprirsi  d'infamia  (2)  ;  e  sembra 
chiaro,  poiché  di  tanti  particolari  non  poteva  conservarsi  memoria 
pel  sec.  V,  che  si  tratti  di  due  redazioni  diverse  d'una  stessa  leg- 
genda accordate  artificialmente  sostituendo,  com'era  inevitabile, 
nella  prima  lo  scampo  alla  morte  del  guerriero  insidiato.  Assai 
probabilmente  i  carmi  popolari  senza  cronologia  (come  senza  data 
era  l'analoga  leggenda  ebraica  di  Sansone)  celebravano  in  Siccio 
l'eroe  plebeo  che,  dopo  essere  uscito  incolume  da  tante  battaglie 
combattute  da  prode  col  nemico,  periva  vittima  del  tradimento 
patrizio;  e  poi  la  leggenda  maggiore  e  più  famosa  della  tirannide 
decemvirale  attrasse  e  incorporò  a  sé  la  leggenda  di  Siccio,  non 
senza  che  della  sua  primitiva  indipendenza  rimanesse  qualche 
traccia. 


(1)  Nel  testo  è  seguito  il  racconto  di  Liv.  Ili  33-59. 

(2)  DioNYS.  X  44-49.  Del  tradimento  dei  decemviri  discorrono  Liv.  ili  ^3. 
DioNYs.  XI  2-5  segg.  Zon.  VII  18.  —  Intorno  a  Siccio  v.  ancora  Val.  Max.  Ili 
2,  24.  Plin.  n.  /(.  VII  101.  XVI  14.  XXII  9.  Gell.  n.  A.  II  11.  Fest.  p.  190 
s.  V.  ohsidionalis. 


LEGGENDA    DI   VERGINIA  47 


Ma  la  limpida  vena  della  poesia  popolare  si  effonde  palese- 
mente nella  leggenda  di  Verginia.  Qualche  critico  ha  creduto  di 
trovarne  la  forma  genuina  in  un  cenno  conciso  d'uno  scrittore  greco 
che  tace  i  nomi  della  vergine  e  del  decemviro  (1)  :  come  se  i  nomi 
non  fossero  elemento  indisi)ensabile  non  solo  al  carme  epico,  ma 
anche  alla  leggenda  popolare  ;  o  come  se  una  leggenda  cosi  ingenua 
e  pur  cosi  espressiva  dell'antica  anima  romana  potesse  essere  in- 
venzione di  tardi  e  prosaici  annalisti.  V'hanno  si  traccio  evidenti 
nei  racconti  pervenutici  dell'attività  degli  annalisti;  ma  questi  si 
sono  aj)pagati  di  ricostruire  variamente  ne'  suoi  particolari,  per 
mezzo  di  ciò  che  sapevano  sullo  svolgersi  delle  cause  liberali,  il 
processo  di  Verginia.  Cadrebbe  in  errore  chi  di  queste,  che  son 
mere  fantasie  giuridiche,  volesse  valersi,  non  dico  per  delineare  sul 
serio,  come  pm-  s'è  tentato,  il  vero  svolgimento  del  processo  di  Ver- 
ginia, ma  anche  solo  per  ricostituù'e  l'antica  procedura  delle  cause 
liberali  (2).  Si  disconosce  cosi  infatti  la  irrazionalità  della  leggenda  ; 
irrazionalità  insanabile,  poiché  alla  efficacia  della  narrazione  poe- 
tica era  indispensabile  che  il  decemviro  aggiudicasse  senza  por 
tempo  in  mezzo  la  vergine  al  suo  cliente  :  il  che  egli  non  poteva 
fare  né  definitivamente,  perché  al  magistrato  spettava  la  sola  pro- 
cedm'a  preliminare,  mentre  l'esame  della  causa  era  affidato  ad  un 
giudice  da  lui  designato  o,  nel  caso  i3articolare,  a  dieci  giudici 
plebei,  né  provvisoriamente,  poiché  al  padre  che  asseriva  la  libertà 
della  figlia  doveva  questa  venire  assegnata,  in  forza  appunto  d'una 
legge  delle  dodici  tavole,  nell'attesa  del  giudizio  (3). 

Siffatta  irrazionalità  vieta  per  fermo  di  tradmTe  in  storia  la  leg- 
genda, anche  liberata  dalle  impurità  dei  rimaneggiamenti  ;  ma  non 
vieta  di  poterne  rintracciare  la  genesi.  La  via  da  seguire  in  tal 
ricerca  non  é  quella  di  disconoscere  ciò  che  v'ha  di  genuinamente 
popolare  nella  leggenda,  e  di  supporla  creata  tardi  dalla  riflessione 
per  esemplificare  le  norme  di  diritto  che  governano  le  magistrature 
straordinarie  o  l'opportunità  della  intercessione  tribunizia  (4).  Con- 


fi) DioD.  XII  24,  2.  Questa  opinione  erronea,  tenuta  p.  es.  dal  Niese  de  an- 
nalib.  observat.  p.  VII,  è  oppuornata  assai  bene  dal  Pais  I  1  p.  551  n.  2  e  dal 
Lambert  '  Mei.  Appleton  '  p.  544  segg. 

(2)  V.  p.  es.  PuNTSCHART  Der  Prozess  um  Verginia  (1860).  Assai  più  cauto  è 
Mascuke  Der  Freiheitsprozess  im  klassischen  Altertum,  insbesondere  der  Prozess 
um   Verginia  (Berlin  1888). 

(3)  Questo  sembra  assicurato,  nonostante  le  opposizioni  del  Maschke  p.  30  seg. 

(4)  La  prima   ipotesi    è    difesa  dal  Mommsen  StaatsrecM  li  ^  717,  la  seconda 


48  CAPO    XIV  -  l.K     I,  fc:(i(iKXDK    SI"!     DKCEilVlRI 

viene  piuttosto  prendere  in  esame  le  narrazioni  parallele.  S"è  voluto 
da  alcuni  trovare  nella  leggenda  di  Verginia  una  reduplicazione 
di  quella  della  vergine  ardeate  che,  desiderata  come  sposa  da  un 
nobile  e  da  un  plebeo,  fu  causa  involontaria  d'mia  feroce  guerra 
civile  che  provocò  l'intervento  romano  (1).  Ma  il  motivo  predomi- 
nante della  leggenda  di  Verginia  è  alieno  affatto  da  quello  della 
leggenda  ardeate  :  non  v'è  rivestita  di  poesia  una  rivalità  d'inna- 
morati, ma  il  sacrifizio  d'una  donna  che  si  salva  con  la  morte  dal 
disonore.  Onde  assai  più  che  non  la  vergine  ardeate,  a  Verginia 
è  affine  Lucrezia,  la  matrona  stuprata,  che  per  non  sopravvivere 
al  disonore  si  uccide.  Tanto  più  che  anche  la  morte  di  Lucrezia 
al  pari  di  quella  di  Verginia  segna  il  principio  d'una  rivoluzione  ; 
sicché  l'una  e  l'altra  leggenda  paiono  contener  due  varianti  d'uno 
stesso  motivo  mitico  :  la  caduta  della  tù-annide  per  effetto  dell'at- 
tentato all'onore  di  una  donna.  Del  carattere  particolare  della  va- 
riante su  Appio  e  Verginia  si  può  forse  trovare  una  spiegazione 
nell'appartenersi  ad  altri  decemviri,  i  giudici  plebei,  la  giui'isdizione 
delle  cause  liberali  ;  onde  nulla  di  più  natm-ale  che  l'oggetto  del- 
l'ultimo sopruso  dei  decemviri  legislatori  si  cercasse  nell'ambito 
delle  attribuzioni  dei  loro  omonimi.  Ma  anche  prescindendo  dai 
particolari,  vedemmo  come  sia  alterato  nella  leggenda  il  ricordo 
della  decadenza  della  monarchia  romana  (e.  XI).  Benché  assai 
meno  ci  sia  dato  di  vagliare  le  notizie  sulla  fine  del  decemvii'ato, 
quella  analogia  ci  deve  render  cauti  nel  valutare  il  sostrato  storico 
della  leggenda  di  Verginia.  Si  aggiunga  che  la  secessione  della 
l)lebe  sui  monti  Aventino  e  Sacro  nel  449,  ricorda  troppo  davvi- 
cino  quella  del  494  (v.  sopra  ]).  5)  per  non  sembrare  una  va- 
riante d'uno  stesso  racconto.  E  i^ar  soprattutto  inammissibile  che, 
se  rivoluzione  contro  i  decemviii  vi  fu,  l'abbia  iniziata  la  plebe,  che 
ora  per  la  prima  volta  aveva  visto  tre  o  forse  piuttosto  cinque 
de'  suoi  elevati  alla  suprema  magistratm-a  dello  Stato.  Inoltre,  se 
realmente  al  decemvirato  si  deve,  come  non  è  da  dubitare,  il  primo 
codice  scritto  romano,  è  fuor  d'ogni  verisimiglianza  che  i  legisla- 
tori stessi,  e  soprattutto  il  loro  capo  Ai^pio  Claudio,  siano  stati 
deposti  per  la  loro  indegna  tirannide,  mentre  il  codice  loro  non 
solo  rimaneva  in  vigore,  ma  serviva  di  fondamento  alla  ulteriore 
evoluzione  del  diritto.  E  senza  dubbio  la  mao<>iore  singolarità  della 


dal  SoLTAu  Livius   Geschichtswerk  p.    111.  Sono  ipotesi  che  ricordano  i  criteri 
preferiti  dagli  Stoici  nel  commentare  i  miti  narrati  da  Omero. 
(1)  Liv.  IV  9.  Questa  è  l'ipotesi  del  Pais  I  1,  552  segg. 


NATURA    DEL    DECEMVIRATO  49 

pseudostoria  romana  più  antica  questa  che,  mentre  sempre  e  dap- 
pertutto i  veri  o  mitici  legislatori,  Licm-go,  Solone,  Zaleuco,  Mosè, 
son  dalla  tradizione  circonfusi  da  un'am'eola  di  luce  che  li  rende 
santi  e  venerabili  agli  occhi  dei  posteri,  il  capo  dei  decemviri, 
l'autore  principale  del  veneratissimo  codice  romano  delle  dodici  ta- 
vole, sia  rappresentato  coi  colori  più  foschi.  Questo  forse  si  spiega 
in  parte  in  quanto  la  legislazione  decemvirale  è,  come  tutte  le  le- 
gislazioni arcaiche,  dm^a  e  crudele,  non  perchè  fossero  crudeli  gli 
intendimenti  dei  decemviri,  ma  perchè  cosi  portava  il  sentimento 
umanitario  poco  progredito  di  quella  età  :  onde  le  loro  leggi  solo 
per  mezzo  d'interpretazioni  artificiose  potevano  accordarsi  qualche 
secolo  dopo  con  la  civilà  progredita.  E  si  potrebbe  citare  l'analogia 
di  Draconte  che.  sebbene  abbia  cercato  di  mitigare  l'asprezza  del 
diritto  penale  primitivo,  s'è  acquistato  in  una  età  più  umana  la 
nomea  d'aver  scritto  le  sue  leggi  col  sangue.  Ma  forse  è  dato  di 
spiegare  anche  meglio  il  sorger  di  quelle  leggende  studiando  diret- 
tamente il  problema  della  natura  del  decemwato. 

Di  contro  alla  x^repotenza  x)atrizia,  ordinatasi  nel  sec.  V  la  plebe 
a  Stato  entro  lo  Stato,  due  furono  le  concessioni  che  prima  cercò 
d'ottenere:  leggi  eguali  x^er  tutti,  e  una  jDarte  jDer  tutti  i  cittadini 
nel  governo  della  rex)ubblica.  A  soddisfare  l'una  e  l'altra  richiesta 
s'accinsero  i  decemviri.  All'ammissione  dei  plebei  alla  magistratm^a 
suprema,  che  principiò  ad  avere  effetto  nel  secondo  anno  del  de- 
cem\àrato  (1),  dovevano  trovare  i  patrizi  un  compenso  nell'abolizione 
dei  tribmii  e  delle  assemblee  speciali  della  plebe,  nello  spegnersi 
insomma  di  quello  Stato  plebeo  che  s'era  formato  nel  seno  della 
rex3ubblica.  Così  il  x^otere  esecutivo,  non  x^iù  menomato  dalla  inter- 
cessione tribunizia,  si  raccoglieva  di  nuovo  nel  collegio  dei  magi- 
strati sux)remi  ;  mentre  la  raxjpresentanza  della  sovranità  popolare 
tornava  piena  ed  indiscussa  all'assemblea  patrizio-x3lebea  delle  cen- 
turie, annullato  almeno  di  fatto  il  concilio  plebeo  delle  tribù  ed 
esautorata  sempre  più  l'assemblea  delle  curie. 


(1)  Secondo  Dionys.  X  58  i  decemviri  plebei  furono  Q.  Petelio,  Cesene  Duillio, 
Sp.  Oppio.  Ma  sembra  dai  cognomi  che  fossero  plebei  anche  T.  Antonio  e 
M'.  Rabuleio.  Per  Liv.  IV  3  i  decemviri  erano  tutti  patrizi.  I  cinque  decem- 
viri plebei  spiegano  forse  il  particolare  immaginario  secondo  cui  la  primi- 
tiva rogazione  Terentilia  mirava  alla  creazione  di  cinque  legislatori  plebei.  E 
può  darsi  che,  tenendo  presenti  i  nomi  dei  secondi  decemviri,  si  sia  immagi- 
nato quell'emendamento  alla  proposta  primitiva  per  cui  ai  cinque  plebei  si 
aggiunsero  cinque  patrizi. 

G.  De  San'Ctis,  Storia  dei  Romani.  TI.  4 


50  CAPO   XIV  -  LE   LEGGENDE    SUI   DECEMVIRI,    ECC. 

Questi,  a  giudicare  dai  soli  documenti  die  abbiamo,  i  frammenti 
delle  dodici  tavole  ed  i  fasti,  erano  gl'intendimenti  di  Appio 
Claudio  (1).  Riuscendo,  il  geniale  decemviro  rimoveva  più  d'un  se- 
colo prima  di  quel  che  poi  non  succedesse  quel  fomite  perpetuo 
di  discordie  clie  era  lo  Stato  entro  lo  Stato  costituito  dalla  plebe, 
e  riduceva  a  semplicità  la  costituzione  romana,  liberandola  da 
quella  magistratm-a  che  aveva  un  ufficio  nello  Stato  solo  quando 
procedeva  in  modo  rivoluzionario  contro  le  autorità,  e  permettendo 
cosi  al  Groverno  di  raccogliere  attorno  a  se  tutte  le  energie  del  po- 
polo per  la  salute  della  patria,  ora  più  che  mai  minacciata  dagli 
Equi  e  dai  Volsci.  Ma  il  tentativo  d'Appio  Claudio  era  prematuro. 
I  i)atrizì  se  alla  richiesta  di  leggi  eguali  per  tutti  avevano  inteso 
accondiscendere,  anche  perchè,  divenendo  più  complesse  le  relazioni 
sociali  e  la  "vdta  economica,  norme  precise,  fissate  j)er  mezzo  della 
scrittura,  erano  ormai  per  tutti  indispensabili,  non  consentivano 
punto  a  dividere  coi  plebei  la  suprema  autorità  dello  Stato  che 
avevano  posseduto  integra  fino  allora.  E  per  non  aver  voluto  pie- 
garsi a  far  concessioni,  esigendone,  quando  ancora  si  poteva,  un 
adeguato  compenso,  dovettero  poi  lasciarsele  strappare  a  forza  ad 
una  ad  una,  non  valendo  più  ad  ottenerne  in  cambio  l'abolizione 
dei  magistrati  e  delle  assemblee  della  plebe.  Questa  loro  pertinacia 
spiega  perchè  cadde  Appio  e  fu  dispersa  al  vento  l'opera  sua  non 
di  legislatore,  ma  d'uomo  politico.  Sarebbe  superfluo  far  conget- 
ture sui  particolari  e  sulla  causa  occasionale  della  caduta  d'Appio 
e  dei  colleghi.  Che  fosse  violenta  crederemo  volentieri;  poiché  non 
è  verisimile  che  pacificamente  la  plebe  si  lasciasse  privare  della 
partecipazione  ottenuta  al  governo  dello  Stato,  né  che  l'ardito  no- 
vatore a  capo  del  moramente  lasciasse  senza  resistenza  annientare 
l'opera  sua:  tanto  più  che  l'esito  sfortmiato  di  tentativi  come  quello 
d'Appio  porta  con  sé  quasi  necessariamente  la  rovina  del  loro 
autore. 

Come  dalla  decadenza  della  monarchia,  cosi  dalla  caduta  del 
decemvirato  trassero  sul  momento  vantaggio  i  soli  patrizi.  E  del- 
l'una e  dell'altra  spetta  quindi  ai  patrizi  la  responsabilità.  Come 
succedute  x>er  riscossa  di  popolo  si  son  riguardate  ambedue  quando 
s'è  smarrito  il  ricordo  delle  condizioni  reali  del  VI  e  del  V  secolo, 
giudicando  dei  fatti  di  quella  età  alla  stregua  delle  posteriori  lotte 
coronate  di  vittoria  della  plebe  contro  il  patriziato.  Ma  i  fasti  dei 


(1)  La  verità  fu  già  intuita  dal  Mommsen  Boni.  Forschungen  T  p.  295  segg. 


ORAZIO    E    VALERIO  51 


quattro  anni  seguenti  che  registrano  solo  consoli  patrizi  fanno  su 
quel  punto  più  fedele  testimonianza.  E  un  indizio  del  vero  dà  per- 
fino la  leggenda  :  poicliè  la  gente  Verginia  è  patrizia  né,  fuori 
del  padre  di  Verginia  e  del  leggendario  tribuno  Verginio  accusa- 
tore di  Cesone  Quinzio,  abbiamo  menzione  per  quella  età  di  Ver-' 
ginì  plebei  (1).  Onde  solo  alterandosi  in  proceder  di  tempo  i  ricordi, 
la  fanciulla  Verginia,  patrizia  al  ])ari  della  sua  mitica  parente,  la 
matrona  Lucrezia,  si  trasformò  nella  promessa  sposa  del  plebeo 
Icilio.  Al  tempo  stesso  Appio,  che  pure  è,  secondo  la  tradizione,  il 
primo  il  quale  presiedendo  i  comizi  abbia  ardito  proclamare  eletti 
al  supremo  magistrato  uomini  della  plebe,  si  mutò  nei  ricordi  po- 
polari in  un  tiranno  odiatore,  dei  plebei.  Autorità  di  tiranno  mentre 
modificava  con  mano  si  ardita  gli  ordini  vigenti  egli  ebbe  certa- 
mente, come  il  suo  contemporaneo  Pericle.  Ma  se  nell' esercitare 
quell'autorità  o  nel  difenderla  egli  abbia  trasgredito  le  leggi  da 
lui  stesso  compilate  e  si  sia  arrogato  potere  incompatibile  con  le 
libertà  repubblicane,  non  siamo  in  grado  di  determinare  ;  né  molto 
importa  del  resto,  perché  il  tentativo  d'Appio,  se  anche  promosso 
con  intelligenza,  onestà,  energia,  doveva  fallire  per  l'odio  di  casta 
che  rendeva  i  patrizi  tanto  improvvidi  dell'avvenire  quanto  bal- 
danzosi della  loro  superiorità  presente. 

La  tradizione  attribuisce  ai  due  consoli  che  entrarono  in  carica 
dopo  spento  il  decemvirato,  L.  Valerio  e  M.  Orazio,  d'aver  fatto 
opera  di  pacificazione  tra  patrizi  e  plebei.  E  un'opera  simile  era 
certo  assai  opportuna;  perché,  ristabilito  il  governo  di  casta,  era 
per  la  plebe  interesse  vitale  ottenere  a  qualsiasi  costo  guarentie 
che  Tassicm^assero  dall'oppressione.  E  i  patrizi,  riassunto  l'esclusivo 
possesso  del  supremo  magistrato,  dovettero  concedere  alla  plebe 
di  darsi  nuovamente  tribuni  ed  assemblee  e  di  ricostituire  quello 
Stato  nello  Stato  che  i  decemviri  avevano  saputo  a  vantaggio 
commie  abolire.  Non  può  determinarsi  se  davvero  ciò  ottenessero 
i  plebei  per  mezzo  d'una  secessione  né  se  questa  secessione  sia 
l'esemplare  su  cui  s'è  foggiata  quella  del  494  o  viceversa.  Certo  è 
che,  mentre  non  s'intende  qual  motivo  avesse  la  plebe  d'insorgere 
contro  i  decemviri,  si  spiegherebbe  assai  bene  una  secessione  plebea 
a  danno  della  restaurazione  patrizia,  né  dovrebbe  stupire  l'essersi 
alterati  per  questo  rispetto  nella  leggenda  i  fatti  e  la  loro  cronologia. 

L'attività  mediatrice  dei  consoli  si  esplicò,  secondo  la  tradizione 


(1)  Liv.  Ili  11.13. 


52  CAPO   XR-  -  I.E    LEdOENDE    SUI    DECEMVIRI,    ECC. 

in  tre  proposte  ajjprovate  dall' assemblea  popolare.  Una  stabiliva 
che  non  s'avesse  più  a  creare  nessun  magistrato  senza  appello  : 
chi  lo  creasse  era  posto  fuori  della  legge  (1);  un'altra  consacrava 
agli  dèi  le  persone  ed  i  beni  di  chi  ledesse  i  magistrati  plebei,  tri- 
buni, edili  e  giudici  decemviri  (2);  una  terza  dava  forza  di  legge 
ai  plebisciti  (3).  Ma  tutte  e  tre  queste  rogazioni  son  per  molte  ra- 
gioni da  ritenere  apocrife.  La  prima,  della  quale  tanto  meno  v'era 
bisogno  in  quanto  le  dodici  tavole  stabilivano  chiaramente  che  delle 
cause  capitan  non  X30teva  sentenziarsi  se  non  nei  maggiori  comizi 
del  popolo,  pare  un'anticipazione  della  legge  Valeria  del  300  (4). 
E  per  di  più  il  divieto  di  crear  magistrati  senza  a^jpello  avrebbe 
reso  vano  il  dibattito,  cosi  vivace  nella  tradizione  e  probabilmente 
anche  nella  vita  reale,  se  il  dittatore  nominato  con  pienezza  di  po- 
teri (opfimo  iure)  avesse  facoltà  di  condannare  a  morte  senza  ap- 
pello entro  il  ijomerio  (5).  E  infine  è  verissimo  che  la  tradizione 
riguarda  i  decemviri  come  non  sottoposti  all'appello  ;  ma  è  incerto 
quanta  fede  essa  meriti  :  certo  è  invece  che  né  l'imperio  consolare, 
onde  essi  erano  forniti  secondo  i  fasti,  lo  escludeva,  né  con  l'ap- 
pello aveva  la  più  lontana  relazione  il  processo  di  Verginia  can- 
tato dall'epopea  popolare.  Apocrifa  del  pari  é  la  seconda  rogazione, 
il  cui  testo  non  può  esser  quello  di  una  legge  dello  Stato,  ma  di 
una  delle  leggi  sacrate  cui  aveva  dato  vigore  la  iDlebe  col  proprio 
gim-amento  (sopra  p.  23).  Anche  meno  delle  altre  ha  carattere  di 
antichità  la  legge  sui  plebisciti,  poiché  essa  è  un'anticipazione 
delle  leggi  Publilia  e  Ortensia  del  339  e  del  287  (su  cui  v.  e.  XVII). 
Se  fin  dalla  metà  del  sec.  V  i  plebisciti  avevano  valore  per  tutto 
il  poiDolo,  la  lotta  tra  jìatrizì  e  plebei  sarebbe  sin  d'allora  finita 
con  una  disiDosizione  che  sanciva  la  resa  a  discrezione  del  patri- 
ziato. 

Non  meno  errata,  ma  forse  d'origine  più  antica  é  la  versione 
che  sul  patto  tra  i  patrizi  e  la  plebe  nel  449  ci  dà  la  migliore  delle 
nostre   fonti  (6).  Stando  al  suo  racconto  fu  allora   convenuto  che 


(1)  Liv.  Ili  55,  5:  ne  quis  ullum  magistratum  sine  provocatione    crearet  :    qui 
ereasset  eiim  ius  fasque  esset  occidi  neve  ea  caedes  capitalis  noxa  haberetur. 

(2)  V.  sopra  p.  28  n.  3. 

(3)  Liv.  Ili  55,  3  :  legem    centuriatis   comitiis    tulere    ut    quod  tributim  plebes 
iussisset  populum  teneret. 

(4)  V.  I  p.  411  n.  3  e  più  oltre  e.  XVII. 

(5)  Cfr.  sopra  p.  33  n.  3  e  I  p.  420  n.  2. 

(6)  DioD.  XII  25,  2. 


ORAZIO    E    VALERIO  53 


s'eleggessero  annualmente  dieci  tribuni  della  plebe  quali  custodi 
della  libertà  cittadina,  e  che  dei  due  consoli  uno  dovesse  essere 
plebeo  e  potessero  esser  tali  ambedue.  Quando  i  tribuni  della  plebe 
fossero  portati  a  dieci  non  sappiamo  e  probabilmente  non  sape- 
vano gii  antichi  (v.  sopra  pag.  34):  dai  fasti  e  dalla  tradizione 
però  sappiamo  che  solo  nel  366  i  plebei  furono  ammessi  al  conso- 
lato (v.  e.  X^TI).  Donde  par  chiaro  che  si  sien  riferite  arbitraria- 
mente le  norme  che  regolavano  nel  IH  e  nel  II  secolo  la  compo- 
sizione dei  due  più  ragguardevoli  collegi  di  magistrati  a  quei  jDatti 
costituzionali  che  si  fermarono  dopo  la  caduta  del  decemvirato.  E 
questa  è  un'anticipazione  che  forse  è  tanto  errata  quanto  l'attribu- 
zione delle  trentacinque  tribù  al  buon  re  Servio  Tullio  (sojDra  p.  19)  : 
e  l'uno  e  l'altro  errore  può  spiegarsi  soltanto  chi  tenga  presente 
lo  scarso  valore  della  tradizione  costituzionale  romana.  Ma  non 
senza  ragione  la  tradizione  (emendata  poi  in  base  ai  fasti  e  fors'anche 
ad  altri  ricordi  dagli  annalisti  più  recenti)  ascriveva  tanta  impor- 
tanza alla  data  del  449;  poiché  da  quell'anno  fino  al  tempo  di  Ti- 
berio Gracco,  a  guarentia  della  plebe,  rimasero  intatte  le  pre- 
rogative dei  magistrati  plebei ,  i  tribuni ,  e  cosi  in  quell'  anno  fu 
posta  mia  j)ietra  angolare  per  l'ulteriore  sviluppo  della  costitu- 
zione romana. 

Per  questo  anche  altre  leggi  fondamentali  intorno  ai  tribuni 
della  plebe  si  riferivano  a  quell'anno  od  all'anno  seguente.  Come 
un  articolo  del  concordato  del  449  si  dava  da  alcuni  il  jjrecetto 
che  i  tribuni  dovevano  farsi  eleggere  dalla  plebe  annualmente  dieci 
successori  sotto  ]3ena  d'essere  arsi  vivi  e  il  principio  che  il  divieto 
d'un  tribuno  doveva  aver  vigore  anche  quando  gli  altri  vi  si  op- 
ponessero (1).  Ma  queste,  sia  che  fossero  sancite  con  articoli  di 
legge,  sia  che  traessero  forza  soltanto  dall'uso,  sono,  com'è  chiaro, 
norme  che  la  j^lebe  diede  a  sé  stessa  ed  a'  suoi  rappresentanti, 
non  patti  giurati  tra  i  patrizi  e  i  plebei.  Onde  più  s'accosta  al 
vpro  una  tradizione  che  discorre  d'un  plebiscito  Duillio  del  449  che 


(1)  DioD.  XII  25,  3  :  èv  òè  Taic,  ó|uoXoYÌaiq  irpoo^KeiTO  toic;  ópEaai  òriiuópxoiq 
TÒv  èviauTÒv  àvriKaGiardivai  -rràXiv  brmdpxou^  toùc;  taouq  f\  toOto  |uri  irpótEavraq 
ZuJvTaq  KaxaKauGfjvai  (questa  sanzione  si  collega  for.se  con  la  leggenda  dei 
fwvem  tribuni  combufsti,  su  cui  v.  sopra  p.  10) .  èàv  òè  oi  òriiuapxoi  \x\\  au|Liq)UJvù)ai 
TTpòs;  (ìXXriXouq,  KÙpioi  ftvai  tòv  óvà  luéoov  Kci'iuevov  ini*)  KuuXueoGai.  Qui  il  testo 
è  corrotto  o  fors'anche  Diodoro  non  ha  ben  saputo  lui  stesso  quello  che  diceva 
traducendo  la  sua  fonte.  Ma  comunque  voglia  correggersi,  deve  trattarsi  del 
noto  principio  in  re  pari  potiorem  cauaam  esse  prohihentis. 


54  CAPO  XTV  -  LE  LEGGENDE  SUI  DECEMVIRI 

condannava  ad  essere  flagellato  e  decapitato  chi  s'opponesse  alla 
elezione  dei  tribuni  della  plebe  (1)  e  d'un  plebiscito  Trebonio  del 
448  die  obbligava  clii  presiedesse  all'elezione  dei  tribuni  della  plebe 
a  non  j)orre  termine  ai  comizi  elettorali  se  non  dopo  nominati  dieci 
tribuni  (2).  Nei  particolari,  del  resto,  merita  anche  questa  tradizione 
poca  fede;  e  ci  dà  motivo  a  sospettarne  la  contraddizione  con 
l'altra  per  ciò  che  riguarda  la  penalità  contro  i  trasgressori  in 
materia  tanto  affine,  come  pure  la  cooptazione  a  tribuni  della 
plebe  di  quegli  oscim  personaggi  A.  Aternio  e  Sp.  Tarpeio  che 
compaiono  nei  fasti  in  qualità  di  consoli  al  454  (v.  I  p.  11),  la  quale 
avrebbe  dato  occasione  al  plebiscito  Trebonio. 

Con  Aternio  e  con  Tarpeio  alcune  fonti  collegano  l'altra  vit- 
toria che  la  j)lebe  ottenne  quando,  restringendo  l'autorità  coercitiva 
dei  magistrati,  s'introdusse  un  limite  massimo  per  le  multe  che 
essi  potevano  imporre  di  propria  autorità.  Senonchè  sembra  che 
tal  restrizione  non  avvenisse  con  la  legge  Aternia  Tarpeia.  la  quale 
si  riferiva  probabilmente  alla  somma  da  versare  prima  che  s'ini- 
ziassero alcune  cause  legate  a  una  determinata  procedura  ilegis 
actio  sacramento)  (3).  ma  con  quella  Menenia  Sestia  del  452  che 


(1)  Liv.  Ili  55,  14:  M.  DuilUus  deinde  tribunus  plebis  plehem  rogavit  pìeho^que 
scivit  qui  plebem  sine  tribunis  relìquisset  quique  magistratnm  sine  provocatione 
creasset  tergo  ac  ccqnte  pimiretur. 

(2)  Liv.  Ili  65,  3:  L.  Trebonius  tribunus  plebis  rogationem    tulit    ut   qui 

pìebem  Romanaui  tribunos  plebis  rogaret,  is  usque  eo  rogarci,  dum  decem  tribunos 
plebi  faceret. 

(3)  Cic.  de  re  p.  II  35,  60  :  gratamque  Ulani  legem  quarto  circiier  et  quinquage- 
simo anno  post  primos  consules  de  multae  sacramento  (così  nel  ms.)  Sp.  Tarpeius 
et  A.  Aternius  consules  comitiis  centuriatis  tuìere.  Probabilmente  è  in  errore 
tanto  DioNYs.  X  50  secondo  cui  quella  legge  avrebbe  esteso  a  tutti  i  magi- 
strati un  diritto  proprio  fino  allora  dei  soli  consoli  e  avrebbe  stabilito  la 
multa  massima  di  due  buoi  e  trenta  pecore,  quanto  Fest.  p.  287  s.  v.  peculatus 
e  Gellio  secondo  cui  la  legge  Menenia  avrebbe  ragguagliato  in  metallo  il 
valore  della  pecore  e  del  bue.  Infatti  par  chiaro  che  ogni  magistrato  nel- 
l'ambito delle  sue  attribuzioni  deve  aver  avuto  fino  ab  origine  facoltà  di  coer- 
cizione; è  errato  il  numero  di  buoi  e  di  pecore  dato  da  Dionisio  per  la  mas- 
sima multa;  e  infine  è  impossibile  che  ragguagliasse  in  metallo  il  valore  del 
bestiame  una  legge  anteriore  a  quella  che  fissò  in  bestiame  il  massimo  delle 
multe  imponibili.  Questi  errori  si  devono  in  parte  forse  ad  una  interpreta- 
zione sbagliata  delle  frasi  arcaiche  della  legge,  in  parte  certo  al  fatto  che  le 
multe  delle  dodici  tavole  essendo  sempre  in  metallo  e  non  in  bestiame,  si 
volle  attribuire  ad  una  legge  ad  esse  anteriore  il  ragguaglio  metallico  del 
valore  delle  pecore  e  dei  buoi. 


LEO  GÈ    SUL    CONNUBIO  55 


fissò  il  massimo  della  m.ulta  {multa  suprema  o  ìnaxima)  a  due 
pecore  e  trenta  buoi  (1),  ossia,  secondo  la  riduzione  in  specie  metal- 
liche sancita  non  molto  dopo  dalla  legge  Giulia  Papùia  del  430  (2). 
a  3020  libbre  di  rame. 

Le  congettm-e  che  precedono  sugli  intendimenti  dei  decemviii 
e  sul  significato  che  ebbe  la  restaurazione  del  consolato  paiono 
poco  conciliabili  con  quella  legge  delle  ultime  due  tavole  che  con- 
teneva il  divieto  di  connubio  tra  patrizi  e  plebei  (3).  Certamente 
siffatto  divieto  non  era  una  innovazione:  da  che  il  patriziato  s'è 
costituito  in  casta  chiusa  deve  aver  rifiutato  d'accogliere  nel  suo 
seno  i  nati  d'un  patrizio  e  d'una  x^lebea.  Ma  questa  regola  interna 
di  casta,  che  l'uso  come  aveva  introdotto  cosi  poteva  far  dimen- 
ticare, acquistava  assai  maggior  gravità  divenendo  legge  fonda- 
mentale dello  Stato  :  tanto  più  che,  formulata  cosi  rigidamente,  po- 
teva e  forse  anche  doveva  nella  mente  dei  suoi  autori  essere  intesa 
nel  senso  che  non  solo  i  figli  nati  dall'unione  consensuale  tra  un 
patrizio  ed  una  plebea  erano  plebei,  ma  per  di  più  erano  liberi 
dalla  patria  potestà  e  non  potevano  pretendere  alla  successione  in- 
testata. Or  ciò  era  forse  in  parte  una  novità,  perchè  è  probabile 
che  l'equità  di  giudici  coscienziosi  in  mancanza  di  norme  positive 
fissate  dalla  legge  attenuasse,  almeno  da  che  i  plebei  avevano  fatto 
conoscere  d'esser  forti,  le  conseguenze  della  seiDarazione  tra  le  due 
caste. 

Né  questa  legge  era  isolata:  perchè  un  buon  conoscitore  delle 
dodici  tavole,  che  in  genere  le  ammira  come  frutto  dell'antica  sa- 
pienza romana,  dice  che  le  due  ultime  erano  tavole  di  leggi  con- 
trarie all'equità  (4).  E  del  resto  solo  se  si  tien  presente  ciò  s'intende 
il  netto  distacco  che  la  tradizione  fa  tra  le  dieci  tavole  promulgate 
dai  primi  decemviri  e  le  altre  due:  perchè  indipendentemente  dal 
contenuto  stesso  delle  tavole  nessun  ricordo  poteva  conservarsi 
della  parte  che  vi  avevano  avuto  i  due  collegi  dei  decemviri.  Il  di- 
fetto d'equità  del  resto  delle  due  ultime  tavole  non  può  riferirsi  che 


(1)  Fest.  p.  237  s.  V.  peciilatus.  Cfr.  p.  202  s.  v.  ovihus.  epH.  p.  144  s.  v.  ma- 
ximam.  A.  Gell.  n.  A.  XI  1. 

(2)  Cic.  de  re  p.  II  35,  60.  Liv.  IV  30,  3. 

(3)  Cic.  de  re  p.  II  37,  63  (i  secondi  decemviri)  :  quae  disiunctis  populis  tribui 
solent  conubia,  Jiaec  ilU  ut  ne  plebei  rum  patribus  essent  inhtimanissima  lege  san- 
xerunt.  Cfr.  I  p.  223  n.  3. 

(4)  Cic.  de  re  p.  1.  cit.  :  duahtis  tabulis  iniquaruin  legum  additis. 


56  CAPO    XIV  -  LE    LEGGENDE    SUI    DECEMVIRI,    ECC. 

alle  relazioni  tra  patriziato  e  plebe,  die  in  quelle  dovevano  essere 
regolate  con  rigido  spirito  di  casta.  Ora  non  è  presumibile  che  il 
decemvii'ato,  il  quale  era  pervenuto  a  dare  ai  plebei  una  parte  equa 
nel  governo  impedendo  ad  essi  nel  tempo  stesso  di  costituirsi  in 
Stato  nello  Stato,  si  ponesse  per  tal  modo  in  contraddizione  coi 
propri  tini.  Ed  è  persino  assurdo  clie  leggi  eque  per  la  plebe  com- 
ponessero i  decemviri  patrizi  e  leggi  non  eque  i  decemviri  pa- 
trizio-plebei. Risolve  questa  difficoltà  la  fonte  clie  ci  lia  conservato 
la  tradizione  più  antica,  attribuendo  ai  consoli  Valerio  ed  Orazio 
le  due  ultime  tavole  (1).  E  mentre  è  da  prescindere  natm-almente 
dai  nomi,  abbiamo  ragione  di  tenere  che  la  reazione  patrizia,  spento 
il  decemvirato  e  restituiti  i  consoli,  pur  concedendo  alla  plebe  quelle 
guarentie  senza  cui  essa  non  si  sarebbe  acconciata  al  nuovo  or- 
dine di  cose,  abbia  compiuto  ispirandosi  ad  un  gretto  e  rigido  sen- 
timento di  casta  l'opera  legislativa  preparata  con  intendimenti  più 
larghi  e  generosi  dai  decem\ari. 

Ma  il  trionfo  della  reazione,  pur  limitato  dalle  gravi  conces- 
sioni fatte  ai  plebei,  non  potè  essere  che  di  breve  durata.  Dopo 
•àver  "conquistato  coi  decemviri  plebei  la  suprema  magistratura, 
non  era  più  loossibile  che  la  jjlebe  ne  lasciasse  T  esclusivo  pos- 
sesso ai  patrizi  ;  né  dopo  aver  ottenuto  un  codice  scritto  che  ri- 
conosceva in  principio  l'eguaglianza  di  tutti  davanti  alla  legge, 
era  possibile  che  tollerasse  mostruosità  come  il  divieto  di  connubio. 
Già  dopo  pochi  anni  la  plebe,  forte  del  suo  rinnovato  ordinamento 
e  guidata  alla  riscossa  da'  suoi  tribuni,  aveva  ottenuto  due  notevoli 
vittorie:  l'una  positiva,  il  riconoscimento  del  diritto  di  connubio 
tra  patrizi  e  plebei;  l'altra  negativa,  ma  feconda  di  risultati  assai 
gravi  :  la  sospensione  delle  elezioni  consolari.  Anche  per  tal  rispetto 
la  tradizione  è  manchevolissima.  Nel  445  essa  fa  cominciare  l'agi- 
tazione plebea  i^el  connubio  e  quella  per  l'ammissione  al  consolato, 
la  prima  diretta  dal  tribuno  della  plebe  C.  Canuleio,  la  seconda 
dagli  altri  nove  tribuni  (2)  ;  nello  stesso  anno  vien  raggiunto  l'ef- 


(1)  DioD.  XII  .26,  1  :  Tri;  voinoGeaiaq  òià  tì\v  axàaiv  àauvxeXéaxou  Y€vo|aévr|q, 
ol  OiraTOi  0uveTé\eaov  aÙTnv  tOùv  yòp  KaXouiuévujv  buObeKa  itivdKiuv  oi  )uèv  béKO 
ouveT€\éaer|(jav,  toù(;  b'  ùiroXeiiroiLiévoui;  bùo  àvéypaiiJav  oi  uttotoi.  Cfr.  Karlowa 
Die  formen  der  rom.  Ehe  p.  62  segg. 

(2)  Liv.  IV  1.  Che  si  trattasse  degli  altri  nove  tribuni  non  è  detto  esplicita- 
mente, ma  questo  pare  fosse  sottinteso  dalla  tradizione  primitiva.  Più  tardi 
non  volendo  privare  Canuleio  del  merito  d'aver  preso  parte  anche  a  questa 
agitazione    si    trovò  un  C.  Furnio  che   non   avrebbe    appoggiato    la   proposta 


ROGAZIONF.    CANULEIA.    IL    TRIBUNATO    MILTTARK  57 

fetto  die  la  rogazione  Canuleia  è  votata  ed  accettata  dai  patrizi 
e  che  pel  444  non  si  fanno  i)iù  eleggere  nei  comizi  i  soliti  consoli, 
ma  tre  tribuni  militari  con  potestà  consolare  clie  x30ssono  essere 
indifferentemente  patrizi  o  plebei.  In  realtà  delle  agitazioni  dei 
ijlebei  pel  consolato,  di  cui  al  solito  si  discorre  pel  445  con  lusso 
di  particolari  e  di  orazioni,  non  sappiamo  nulla,  e  certo  non  si 
tratta  di  richieste  formulate  all'improvviso  da  un  giorno  all'altro  e 
sostenute  fieramente  pel  solo  capriccio  di  nove  tribuni  gelosi  del 
collega  Canuleio  che  vedevano  guadagnare  il  favore  del  popolo  con 
la  sua  proposta  vittoriosa  sui  connubi  tra  patrizi  e  plebei.  Grli  an- 
nalisti hanno  esercitato  la  loro  invero  assai  povera  fantasia  intorno 
alle  discussioni  del  445  per  la  sola  ragione  che  all'anno  seguente 
444  i  fasti  consolari  registravano  tre  tribuni  militari  con  potestà 
consolare.  Ad  ogni  modo  l'agitazione  per  l'ammissione  dei  plebei 
al  consolato,  che  data  almeno  dalla  restaurazione  del  consolato 
stesso  nel  449,  favorita  dalla  parte  sempre  maggiore  che  i  plebei 
avevano  nella  difesa  della  città,  sostenuta  con  mezzi  (come  ora  si 
direbbe)  ostruzionistici  destinati  ad  impedire  l'elezione  dei  consoli, 
ebbe  per  effetto  che  non  a  magistrati  nuovi,  ma  agli  ufficiali  che 
da  molto  tempo  si  nominavano  annualmente  nei  comizi  centuriati 
per  comandare  i  tre  reggimenti  di  mille  uomini  onde  si  componeva 
la  legione  convenne  affidare  il  potere  ;  e  il  senato  dovette  consentire 
che  chiedessero  per  mezzo  della  legge  curiata  sull'imperio  l'auto- 
rità consolare.  Questi  ufficiali  dovevano  essere  sempre  scelti  tra  i 
militari  più  provetti  senza  badare  a  privilegi  di  casta;  e  poiché 
non  si  poteva  alterare  il  modo  della  loro  elezione,  uomini  usciti 
dalla  plebe  si  trovarono  a  capo  dello  Stato.  La  tradizione  dice  che, 
sebbene  i  tribuni  militari  potessero  appartenere  all'una  ed  all'altra 
classe,  il  primo  tribuno  plebeo  fu  eletto  solo  nel  400,  45  anni  dopo 
che  s'era  cominciata  a  conferire  ai  tribuni  la  potestà  consolare,  e 
fu  P.  Licinio  Calvo.  Ma  questo  è  un  errore  o  forse  peggio  una 
falsificazione  dell'annalista  Licinio  Macro;  poiché  stando  ai  fasti, 
il  primo  tribuno  plebeo,  L.  Atilio,  fu  eletto  nel  primo  anno  del 
tribunato,  il  445  (1);  e  i  plebei  furono  di  poi  tra  i  tribuni  militari 
in  proporzione  anche  maggiore.  Così  nel  400  in  cui  non  vi  sarebbe 


dei  colleghi:  Dionys.  XI  53.  È  singolare  che  del  plebiscito  Canuleio  abbiamo 
ricordo  solo  da  Liv.  IV  1-6  (Flor.  I  25.  Ampel.  25,  3).  Del  resto  le  fonti,  com- 
preso Dionisio,  tacciono,  tolto  un  accenno  in  Cic.  de  re  p.  II  37,  63. 
(1)  Come  osservò  già  il  Nikblhr  II  463. 


58  CAPO   XIV  -  LE   LEGGENDE    SUI  DECEMVIRI,   ECC. 

stato  fra  i  tribuni  clie  il  plebeo  Licinio  (1),  in  realtà  i  plebei  erano 
non  meno  di  tre  su  sei. 

Al  sospendersi  delle  elezioni  consolari  si  collegano  probabilmente 
le  origini  della  censura.  Compire  il  censo,  ossia  la  "  estimazione  ., 
di  quelli  che  insieme  coi  diritti  cittadini  avevano  il  dovere  di  ser- 
xìie  nell'esercito  e  di  pagare  le  contribuzioni  straordinarie  (2),  era 
da  tempo  ufficio  dei  consoli  e  prima  di  essi  dei  re:  ufficio  che  di- 
venne più  gravoso  allorché,  aumentando  la  popolazione  e  l'esten- 
sione dello  Stato  e  progredendo  gli  ordinamenti  militari,  fu  indi- 
spensabile redigere  i^er  iscritto  liste  di-  cittadini  classificati  secondo 
il  distretto  (tribù)  dove  avevano  i  loro  possessi  fondiari  e  secondo 
che  erano  o  no  in  età  di  prestar  servizio  nella  milizia  attiva.  Non 
sembra  che  questo  ufficio  si  lasciasse  mai  esercitare  dai  tribuni 
militari;  infatti  se  si  fosse  per  tal  modo  ammesso  il  principio 
che  il  censo  i)otesse  esser  compito  da  patrizi  e  da  plebei,  sarebbe 
assai  difficile  spiegare  come  si  fosse  poi  riservato  l'effettuarlo  a 
censori  eletti  esclusivamente  nella  classe  patrizia.  Perciò  non  si 
allontanavano  molto  dal  vero  gli  annali  riferendo  che  nel  443 
av,  C.  furono  nominati  i  primi  censori,  L.  Papirio  Mugillano  e 
L.  Sempronio  Atratino  (3).  Questi  nomi,  che  un  annalista  di  sin- 
cerità assai  dubbia  registrava  anche  come  quelli  dei  consoli  del- 
l'anno precedente,  non  sono  peraltro  fuori  d'ogni  sospetto  (4).  E 
forse  la  prima  coppia  di  censori  che  possa  ritenersi  storica  è 
quella  di  C.  Furio  e  M.  Geganio,  i  quali  pei  primi  nel  435  av.  C. 
avrebbero  compiuto  il  censo  nell'edifizio  sul  campo  Marzio  che 
rimase  d'allora  in  poi  destinato  a  quest'uso  (5).  Con  siffatta  data 
si  accorda  anche  approssimativamente  la  notizia  che  nel  434  una 
legge  proposta  dal  dittatore  Mamerco  Emilio  permise  ai  censori 
di  rimanere  in  carica  diciotto  mesi  (6).  E  vero  che  secondo  la  tra- 


ci)  LlV.    V    12,    9.    V.    SCHWEGLER   IH    149. 

(2)  Che  census  equivalga  ad  arhitrium  notò  già  Varrò  de  l.  l.  N  81  e  ap.  Non. 
p.  519;'ma  non  già  nel  senso  di  '  Willkur  ',  come  traduce  il  Mommsen  Staatsr. 
II  ^  p.  330,  sì  in  quello  di  giudizio  estimativo. 

(3)  Liv.  IV  8.  DioNYS.  XI  63.  Zon.  VII  19.  Cic.  ad  farti.  IX  21,  3. 

(4)  Cfr.  Liv.  1.  e:  Papirium  SemproniKmque  ut  eo  magistratu  panini  solidum 
consulatum  explerent  (ibid.  IV  7,  10)  censtii  agendo  popidus  suffragiis  praefecif. 
Per  la  critica  di  questa  tradizione  v.  Mommsen  Rom.  Chronologie  *  p.  95  segg. 

(5)  Liv.  IV  22,  7:  C.  Furhis  Pacilus  et  M.  Geganins  Macerìnus  censores  villani 
piihlicam  in  campo  Martio  probaverunt  :  ibique  primum  census  populi   est  actus. 

(6)  Liv.  IV  24,  5:  ne  plus  quam  annua  ac  semestris  censura  esset.    Cfr.    Zon. 


LA    CENSUJtA  59 


dizione  questa  legge  avi'ebbe  mirato  a  ridurre  la  durata  della 
censura  che  prima  era  quinquennale;  ma  quinquennale  non  pare  sia 
mai  stata  la  censura,  bensì  di  regola  l'intervallo  tra  l'uno  e  l'altro 
lustro  ossia  tra  le  solenni  ceremonie  espiatorie  clie  s'accompagna- 
vano alla  rassegna  con  cui  si  chiudevano  le  operazioni  del  censo  (1)  ; 
e  del  resto  se  è  naturale  che  quando  si  liberarono  i  supremi  magi- 
strati dal  carico  del  censo  si  accordasse  a  quelli  che  furono  istituiti 
all'uopo  un  lasso  di  tempo  superiore  ad  un  anno,  parrebbe  davvero 
singolare  che  la  censura,  annua  quando  spettava  ai  consoli,  dive- 
nisse poi  quinquennale  per  essere  infine  ridotta  alla  dm^ata  d'un 
anno  e  mezzo.  Onde  è  assai  verisim.ile  che  i  censori  del  443  siano 
inventati  dallo  stesso  annalista  che  inventò  i  consoli  Papirio  e 
Sempronio  del  444  e,  la  pretesa  dui'ata  quinquennale  della  cen- 
sura riducendosi  a  una  confusione  della  durata  con  l'intervallo 
tra  i  lustri,  la  legge  Emilia  sia  stata  la  legge  che  istituì  la  cen- 
sm^a  come  magistratura  indipendente.  E  ]3er  quanto  la  tradizione 
ci  sia  pervenuta  in  tale  stato  da  non  esser  i3rudente  asserir  nulla 
con  troppa  risolutezza  intorno  ai  i^articolari,  certo  l'ipotesi  che 
essa  legge  sia  stata  inventata  perchè  un  console  Emilio  nel  339 
creò  dittatore  il  plebeo  Q.  Publilio  Filone,  autore  di  leggi  demo- 
cratiche, è  assai  meno  verisimile  dell'altra  e  molto  arbitraria  (2). 
E  ad  ogni  modo,  prescindendo  dal  nome  d'Emilio  e  dalla  data 
precisa,  è  certo  che  la  censura  ebbe  origine  qualche  decennio 
prima  della  invasione  gallica  e  qualche  tempo  dopo  le  dodici  ta- 
vole decem virali,  che  non  avi^ebbero  mancato  altrimenti  di  farne 
menzione.  Ed  un  ulteriore  argomento  per  non  ritenerla  più  recente 
è  neirarcaicità  di  certi  usi  che  si  collegano  con  essa,  come  quello 
di  cominciare  la  serie  degli  appalti  fatti  nell'interesse  dello  Stato 
con  l'api^altare  il  mantenimento  delle  oche  capitoline  e  la  verni- 


VII  19:  t^pxov  bè  TÒ  ,uèv  irpilira  koì  tò  xeXeuTaìo  ènl  Trevraeriav,  èv  òè  tuj  luéotu 
Xpóvuj  è-rrl  TpeTq  éSa|ufivou^. 

(1)  Varrò  de  l.  l.  VI  11:  lustrum  nominatum   temiius   quinquennale    a    luendo 
quod    quinto    quoque    anno    vectigalia    et    ultra    tributa  per  censores  solvebantur. 

Censorin.  de  die  nat.  18,  13  :  lustrum ita  quidem  a  Ser.  Tullio  institutum  ut 

quinto  quoque  anno  censii  civium  hahito  lustrum  conderettir,  sed  non  ita  a  posteris 
servatum.  Pare  che  in  origine  la  regola  fosse  che  i  lustri  dovevano  seguirsi 
ogni  quattro  anni  (questo  è  il  senso  della  frase  latina  quinto  quoque  anno)  ; 
ma  presto  quella  norma  fu  interpretata  nel  senso  che  dovessero  succedersi 
ogni  cinque  anni.  Cfr.  Mommsen  Staatsrecht  li  ^  p.  343  segg. 

(2)  È  l'ipotesi  del  Pais  I  2  p.  34. 


60  CAPO   XIV  -  LE    LECGENDE    SUI    DECEMVIRI,    ECC. 

ciatura  della  statua  di  Griove  (1).  D'altva  parte  a  confermare  che 
la  censm-a  non  è  neppur  molto  più  antica  della  data  tradizionale 
sta  che  i  censori  non  solo  venivano  eletti  nei  comizi  centmiati  (2), 
ma  in  questi  comizi  era  votata  altresì  la  legge  che  ad  essi  con- 
feriva il  potere  (3):  dove  si  ravvisa  una  imitazione  della  legge 
curiata  che  dava  ai  consoli,  già  eletti  nei  comizi  centm-iati,  l'im- 
perio e  al  tempo  stesso  una  x^rova  evidente  che  le  curie  erano 
allora  tanto  scadute  d'autorità  da  non  volersi  più  affidare  ad  esse 
neppm^e  la  formale  conferma  del  censore  già  nominato. 

Del  resto,  sorta  da  modesti  princij)!,  la  censura  finì  con  l'acqui- 
stare imx3ortanza  gravissima  nella  vita  della  città  (4).  Se  non  da 
quando  fu  istituita,  certo  poco  dopo  ai  censori,  che  già  s'occupa- 
vano di  finanza  redigendo  le  liste  dei  contribuenti,  fu  affidata  la 
tutela  della  proprietà  dello  Stato,  l'affittare  i  beni  ad  esso  spet- 
tanti onde  poteva  trarsi  qualche  reddito,  l' appalto  dei  lavori  di 
pubblica  utilità  e  della  riscossione  delle  gabelle,  la  manutenzione 
e  il  restauro  degli  edifizì  pubblici  e  finalmente  la  facoltà  stessa 
d'iniziar  lavori  ad  utile  dello  Stato.  Certo  sul  principio  si  trattava 
di  cose  che  per  la  più  parte  non  avranno  ecceduto  di  molto  l'im- 
portanza della  verniciatura  della  statua  di  Giove;  ma  più  tardi 
quando  \d  fu  abbondanza  d'edifizi  sacri,  di  mercati,  di  ponti,  di 
vie^  d' acquedotti,  di  fortificazioni  da  accudii^e  e  da  costruire,  mentre 
cresceva  immensamente  la  mism-a  dell'agro  pubblico,  è  facile  im- 
maginare qual  somma  d'interessi  fosse  affidata  ai  censori. 

E  frattanto  anche  in  altro  modo  s'accrebbe  l'autorità  di  questi 
magistrati,  cioè  per  un  natui'ale  svolgimento  dei  poteri  che  avevano 
nel  redigere  le  liste  dei  cittadini.  Grià  questa  redazione  divenne 
di  x)er  sé  cosa  assai  delicata  e  di  molta  conseguenza  quando  i 
Romani  si  distribuirono  secondo  il  loro  avere  in  classi  (e.  XVII) 
e  quando  cominciò  ad  esservi  un  numero  ragguardevole  di  citta- 
dini senza  diritto  di  suffragio.  E  di  grande  momento  fu  la  facoltà 


(1)  Plin.  n.  h.  X  51:  cibaria  ansernm  censores  in  primis  locant.  XXXIII  112: 
a  censoribus  in  lìrimis  lovem  miniandum  locari. 

(2)  Messalla  ap.  Gell.  n.  A.  XIII  15,  4.  Cfr.  Liv.  XL  45,  8. 

(3)  Cic.  de  l.  agr.  II  11,  26.  Cfr.  I  p.  354  n.  1. 

(4)  Liv.  IV  8,  2  :  hic  annus  censurae  initium  fuit,  rei  a  parva  origine  ortae, 
quae  deinde  tanto  incremento  aucta  est  ut  morum  disciplinaeque  Romanae  penes 
eum  regimen,  in  senatu  equitumgue  centuriis  decoris  dedecorisque  discrimen  sub 
dicione  cius  magistratus,  iiis  publicorutn  priratorumque  locorum,  vectigalia  populi 
Romani  sub  nntu  atque  arbitrio  essent. 


I   PLEBEI   NEL   SENATO  GÌ 


che  più  tardi  si  diede  ai  censori  di  compilare,  oltre  le  liste  dei 
cittadini,  anche  l'albo  dei  senatori  ijectìo  senatus)  il).  Ma  ancora 
13Ìù  gravi  fui'ono  le  conseguenze  del  principio  che  al  censore  s[)etta 
il  riconoscere  chi  possieda  l'onorabilità  necessaria  per  esercitare  i 
pieni  diritti  civici.  Questo  principio,  che  non  poteva  non  essere 
ammesso  almeno  implicitamente  da  quando  ad  un  magistrato  spe- 
ciale fu  affidata  la  redazione  delle  liste  di  coloro  che  erano  in 
possesso  di  quei  diritti,  fu  il  germe  da  cui  si  svolse  a  jjoco  a  poco 
quel  sindacato  sulla  vita  e  sui  costumi  dei  cittadini  {censura 
moru?n)  che  diede  alla  censura  romana  la  sua  caratteristica  più 
spiccata.  Per  essa  i  censori  ebbero  facoltà  di  chieder  conto  a  tutti 
d'ogni  loro  azione  pubblica  o  privata  e  di  colpire  del  loro  biasimo 
(nota)  chi  a  loro  giudizio  non  si  comportava  giusta  la  legge  civile 
e  morale  registrandolo  al  teni]J0  stesso  nelle  tavole  dei  contribuenti 
privi  della  pienezza  dei  diritti  («e/Ymi).  Ma  nessuno,  nel  momento 
in  cui  la  censura  ebbe  origine,  xjrevedeva  l'altezza  cui  sarebbe 
salita;  e  per  questo  apjpunto  i  plebei  non  avi^anno  mostrato  troppa 
riluttanza  a  lasciarla  al  patriziato  (2). 

La  vittoria  plebea  del  445  diminuì  d'assai  il  primato  dei  patrizi; 
ma  perchè  esso  venisse  meno,  molti  privilegi  restavano  ancora  da 
abolire  e  molti  pregiudizi  da  distruggere.  Tuttavia  anche  le  conse- 
guenze immediate  del  fatto  fingono  d'importanza  non  lieve.  Quando 
al  posto  dei  consoli  ebbero  il  supremo  potere  i  tribuni  militari,  che 
potevano  essere  patrizi  o  plebei,  era  impossibile  che  i  questori,  i 
quali  erano  subordinati  ad  essi  come  si  erano  ridotti  a  dipendere 
dai  consoli,  dovessero  essere  sempre  patrizi.  E  perciò  la  tradizione 
è  almeno  ai)prossimativamente  nel  vero  quando  asserisce  che  nel 
421,  aumentato  il  numero  dei  questori  (cf.  I  p.  420),  si  stabili  che 
potessero  essere  scelti  anche  fra  i  plebei,  che  i30Ì  in  effetto  comin- 
ciarono dal  409  a  rivestire  la  questuila.  Ma  assai  più  grave  fu  un'altra 
conseguenza  dello  stesso  fatto.  Probabilmente  non  dal  tempo  di 
Servio  o  di  Bruto,  ma  da  quando  ebbero  a  trovarsi  a  capo  dello 
Stato  tribuni  militari  plebei  e  da  quando  essi  appunto  in  tal  qua- 
lità ebbero  l'ufficio  di  redigere  l'albo  senatorio,  uomini  usciti  dalla 
l)lebe  cominciarono  a  penetrare  in  quella  che  era  stata  la  cittadella 
del  patriziato.   Il  silenzio   della  tradizione  su  lotte  dei  plebei  per 


(1)  Con  la  legge  Ovinia  su  cui  v.  I  p.  351  n.  6  e  più  innanzi  e.  XVII. 

(2)  Sulla  censura  in  genere,  oltre  la  trattazione  fondamentale  del  Mommsen, 
può  vedersi  Dk  Ruggiero  '  Dizion.  epigrafico  '  II  p.  157  segg.  La  lista  dei  cen- 
sori noti  è  raccolta  da  C.  De  Boor  Fasti  censorii  (Berolini  1873). 


62  CAPO  XIV  -  LK  leogp:nde  sui  decemviri,  ecc. 

rammissione  al  senato  mostra  che  quest'ammissione  era  imx^licita 
in  quella  alle  dignità  supreme  dello  Stato.  La  ipotesi  del  resto 
che  in  origine  i  senatori  plebei  non  avessero  il  diritto  di  esporre 
la  propria  opinione,  ma  solo  quello  di  votare  (1)  è  destituita  di 
qualsiasi  fondamento.  Vero  è  che  i  senatori  patrizi  conservarono 
sempre  due  privilegi.  Prima  di  tutto,  se  rimaneva  vacante  la  ma- 
gistratura suprema,  finché  non  si  fosse  provveduto  alla  nomina  dei 
nuovi  titolari,  i  soli  senatori  patrizi  continuavano  a  considerarsi 
come  depositari  dei  pubblici  auspici  e  quindi  essi  soli  sceglievano 
nel  proprio  seno  gl'interré.  Ma  questo  era  un  privilegio  fonnale, 
senza  grande  importanza  pratica.  Più  ragguardevole  era  l'altro 
della  convalidazione  di  ogni  legge  per  mezzo  delFautorità  dei 
padii  (2).  Senonché  anche  quest'ultimo  diritto,  in  origine  d'impor- 
tanza capitale,  fini  poi  col  ridui'si  ad  una  semplice  formalità. 

Mentre  imprendevano  la  conquista  della  eguaglianza  politica, 
fruivano  i  plebei  della  eguaglianza  civile  guarentita  dalle  dodici 
tavole.  Senonché  prima  di  studiare  i  comuni  diritti  ci\'ili,  convien 
cercare  se  sia  fondata  la  ipotesi  moderna  che  nega  autenticità  ai  fram- 
menti pervenutici  della  legislazione  decem\drale  (3).  Non  è  a  ne- 
gare che  nella  ortografia  e  nella  flessione  questi  frammenti  delle 
dodici  tavole,  ci  siano  j)ervenuti  alquanto  rimodernati  (4)  ;  ma  ciò 


(1)  È  sostenuta  dal  Mommsen  Staatsrecht  III  p.  871  seg. 

(2)  V.  I  p.  352  n.  3. 

(3)  Messa  innanzi  dal  Pais  Storia  di  Roma  I  1  p.  558  segg.,  difesa  da 
E.  Lambert  nella  '  Nouvelle  Revue  historique  de  droit  franfais  et  étranger  ' 
XXVI  (1902)  p.  149  segg.  e  particolarmente  nello  scritto  su  L'hisfoire  tradi- 
tionelle  des  XII  tables  nei  '  Mélanges  Appleton  '  (Lyon  1908}  p.  501  segg.  e 
combattuta  tra  altri  da  P.  Girard  nella  '  Nouv.  revue  hist.  de  droit  '  XXVI 
(1902)  p.  381  segg.  V.  anche  le  mie  osservazioni  nella  '  Riv.  di  filol.  classica  ' 
XXXI  (1903)  p.  107  segg. 

(4)  Di  ciò  giudica  rettamente  il  più  accurato  editore  delle  dodici  tavole, 
R.  ScHOLL  Legis  diiodecim  tàbularum  reliquiae  (Lipsiae  1866),  il  quale  riconosce 
che  sono  state  a  poco  a  poco  rimodernate  a  segno  ut  fere  propius  absint  a  Cice- 
roniani sermonis  colore  XII  tahulae  quarti  a  Scipionum  titulis  nedum  a  carmimim 
Saliarium  et  Arvalium  horrida  vetustate;  e  bene  pure  il  Bréal,  il  quale  ha 
posto  in  evidenza  le  traccie  di  latino  arcaico  esistenti  nelle  dodici  tavole, 
■  Journal  des  savants  '  1902  p.  599  segg.  :  '  si,  par  impossible,  nous  pouvions 
retrouver  l'originai  des  Xll  tables  nous  aurions  devant  nous  un  language 
assez  différent  de  nos  plus  vieux  textes  latina,  car  rien  de  ce  qui  s'est  conserve 
ne  remonte  aussi  loin  '.  A  torto  ha  disconosciuto  una  verità  tanto  evidente 
il  GoiDANicH  nei  suoi  Studi  di  latino  arcaico  '  Studi  italiani  di  filologia  clas- 
sica '  X  (1902)  p.  266  segg. 


GNEO   FLAVIO  63 


si  spiega  facilmente  per  essere  state  quelle  tavole  non  curiosità 
d'antiquari,  ma  fonte  viva  del  diritto  cui  da  tutti  si  doveva  attin- 
gere (1).  Ed  è  pur  vero  die  talvolta  ai  decemviri  si  attribuiscono  leggi 
contraddittorie.  Ma  ciò  vuol  dire  soltanto  clie  come  gli  oratori  attici 
quando  citavano  sbadatamente  una  legge  rascrivevano,  anche  se 
recentissima,  al  legislatore  per  eccellenza,  Solone,  cosi  s'è  fatto  ri- 
spetto ai  decemviri  in  Roma;  e  non  per  questo  dobbiamo  trascu- 
rare le  citazioni  accurate,  che  abbiamo  ragione  di  credere  letterali, 
del  testo  di  esse  quale  correva  per  le  mani  dei  giuristi  dell'età  clas- 
sica. Infatti  ammessa,  come  si  deve  a  ogni  modo,  la  realtà  storica 
dei  decemvm  legislatori  (v.  sopra  p.  42),  sarel)be  tanto  singolare 
che  il  loro  codice  fosse  stato  falsificato  in  Roma  nell'età  classica 
quanto  che  in  Atene  fosse  stato  falsificato  nell'età  classica  il  codice 
di  Solone.  Che  se  poi  senza  animo  di  falsiiicai'e  qualche  giuris- 
perito avesse  raccolto  e  tramandato  gli  adagi  dell'antico  diritto  e 
questi  si  fossero  attribuiti  ai  decemvm  come  altri  adagi  simili  si 
sono  attribuiti  ai  re  (v.  I  pag.  300),  non  si  saprebbe  spiegare  in 
alcun  modo  il  nome  di  dodici  tavole  dato  alla  raccolta  di  quegli 
adagi  e  la  distribuzione  di  essi  in  dodici  gruppi  corrispondenti  alle 
tavole,  che  ne  presuppone  la  pubblicazione  su  tavole  di  legno  o  di 
bronzo  nel  Foro.  E  non  deve  fare  difficoltà  l'alternarsi  nelle  dodici 
tavole  di  disposizioni  di  carattere  arcaico  come  la  sezione  del  corpo 
del  debitore  tra  i  creditori  (v.  sopra  pag.  3)  con  altre  di  carattere 
lunano  e  moderno;  poiché  il  contrasto  non  api^are  meno  stridente 
in  altre  legislazioni  antiche  e  nuove.  Cosi  nel  codice  di  Hammu- 
rabi  accanto  a  norme  saggie  e  benefiche  specialmente  in  materia 
di  traffico,  permane  la  barbara  costumanza  semitica  che  il  figlio 
debba  in  dati  casi  esser  messo  a  morte  pel  reato  del  padre  (2).  Ciò 
dipende  dalla  natm-a  stessa  dello  sxDirito  umano  in  cui  in  un  mo- 
mento qualsiasi  soj)ravvivono  resti  d'antichi  stati  di  coscienza  sor- 
passati insieme  con  germi  di  stati  nuovi  non  ancora  raggiunti.  S'è 
osservato  altresì  che  non  potevano  esistere  dodici  tavole  di  leggi 
decemvirali  esposte  al  pubblico,  tavole  in  cui  per  di  più  era  data 
anche  la  lista  dei  giorni  fasti,  se  Livio  dice  che  Cn.  Flavio  .nel  304 
divulgò  il  diritto  civile  riposto  nei  penetrali  dei  pontefici  e  pub- 
l)licò  presso  il  Foro  la  lista  dei  giorni  fasti  in  una  tavola  imbian- 


(1)  Come  tale,  s'imparavano  a  memoria  nelle   scuole  ancora  nella   fanciul- 
lezza di  Cicerone,  v.  Ciò,  de  legib.  II  4,  9. 

(2)  V.  KoHLER  und  Peiskr  Hammurabi's  Gesetz  I  (Leipzig  1904)  p.  137  segg. 


64  CAPO  XIV  -  LE    LEGGENDE    SUI   DECEMVIRI,   ECC. 

cata  (1).  La  di\Tilgazione  di  Flavio  consistè  nell'  aver  pubblicato 
in  un  volume  accessibile  a  tutti  i  cittadini,  anche  se  dimoranti 
lontano  da  Roma,  le  regole  della  procedura  (2)  e  nell'  aver  esposto 
a  comodità  di  tutti  in  caratteri  chiari  e  moderni  la  Usta  dei  giorni 
in  cui  potevasi  ricorrere  al  pretore.  E  fu  certo  vera  e  benefica 
di^allgazione,  e  si  capisce  come  la  tradizione  ne  esagerasse  più 
tardi  l'importanza,  che  pur  fu  grandissima.  Ma  essa  non  im- 
porta punto  che  non  fossero  visibili  nel  Foro  coi  loro  arcaici  ca- 
ratteri evanidi  e  con  la  loro  ortografia  ormai  dimenticata  le  ta- 
vole decemvù-ali;  ed  è  poi  chiaro  che  i  giorni  fasti  essendo  fissi 
(né.  Flavio  aveva  facoltà  alcuna  di  fissarne,  ma  solo  di  pubblicarne 
la  lista),  essi  non  costituivano  in  verun  modo  un  segreto  dei  pon- 
tefici (3).  Questi  e  simili  argomenti  contro  Tautenticità  delle  dodici 
tavole  non  hanno  dunque  nessun  valore.  Invece,  a  prescindere  dagli 
argomenti  esterni  citati,  è  gravissimo  indizio  della  loro  autenticità 
il  carattere  agrario  della  civiltà  che  vi  si  rispecchia  (4),  il  quale 
non  è  in  relazione  con  le  condizioni  della  Roma  po]3olosa  e  com- 
merciante della  fine  del  secolo  W,  ma  con  quelle  del  piccolo  popolo 
di  contadini  che  intorno  alla  metà  del  secolo  V  contendeva  fati- 
cosamente il  Lazio  agli  Equi  ed  ai  Volsci.  E  ciò  si  parrà  anche 
più  chiaro  da  una  breve  analisi  dei  principi  di  diritto  sanciti  dalle 
dodici  tavole  (5). 


U)  Liv.  IX  46:  ceterum,  id  qiiod  hatid  discrepai,  contumacia  adversus  content- 
nentes  humilitatem  suam  nohiles  certavit  ;  civile  ius  repositum  in  penetralibus  pon- 
tificum  evulgavit  fastosque  circa  forum  in  albo  proposuit  ut  quando  lege  agi  posset 
sciretur.  Cfr.  Val.  Max.  II  5,  2.   Plin.  n.  h.  XXXIII  17  segg. 

(2)  Pompon,  dig.  I  2,  7  :  postea  cum  Appius  Claudius  propostiisset  et  ad  formam 

redegisset  has  actiones,  Gnaeus  Flavins  subreptum  Ubrum  populo  tradidit 

Me  liber  qui  actiones  continet  appellatur  ius  civile  Flavianum. 

(3)  La  tradizionale  esagerazione  dei  meriti  di  Cn.  Flavio  non  sfuggì  all'acume 
di  Attico.  Questi  faceva  notare  all'amico  Cicerone,  il  quale  senza  addarsene 
aveva  discorso  di  Flavio  in  un  tratto  perduto  del  de  re  p.,  che  conveniva  o 
supporre  Flavio  anteriore  ai  decemviri  o  ammettere  ch'egli  avesse  dato  notizia 
di  cosa  già  nota.  Cicerone  {ad  Att.  VI  1,  8)  non  disconosce  la  forza  della  ob- 
biezione; ma  visto  che  non  pochi  asserivano  Cn.  Flavium  scribam  fastos  pro- 
tulisse  actionesque  composuisse,  cerca  cavarsela  col  ripiego  :  occultatam  putant 
quodam  tempore  istam  tabulam  (dei  fasti)  ut  dies  agendi  peterentur  a  paucis. 
Cfr.  del  resto  prò  Mur.  11,  25.  12,  26.  de  orai.  I  41,  186. 

(4)  Così  ottimamente  Girakd  '  Nouv.  revue  hist.  de  droit  '  voi.  XXVI  p.  422. 

(5)  La  letteratura  sul  diritto  civile  romano  è  così    smisurata  che  non    è    il 


LA   FAMIGLIA    ROMANA  65 


La  salda  compagine  della  famiglia  fondata  nella  autorità  quasi 
regia  del  suo  capo  su  la  moglie,  i  figli,  i  clienti  e  gli  schiavi  si 
era  conservata  intatta  fino  alla  metà  del  sec.V,  sebbene  il  costume 
e  la  religione  avessero  cercato  di  porre  a  quell'autorità  dei  termini- 
E  intatta  parvero  lasciarla  in  sostanza  i  decemviri  solo  determi-, 
nando  ed  ampliando  quelle  limitazioni  nel  dare  ad  esse  vigore  di 
legge  ;  ma  p>repararono  con  ciò,  in  parte  forse  inconsapevolmente, 
ordinamenti  familiari  assai  più  umani  e  progrediti  a  confronto 
della  primitiva  barbarie  italica.  Così  l'unione  legittima  tra  l'uomo 
e  la  donna  che  ai  figli  assicurava  la  successione  paterna,  sia 
che  fosse  contratta  con  le  forme  solenni  della  confarreazione  o 
della  coenzione  (v.  I  pag.  237),  sia  che  avvenisse  per  semplice 
consenso,  non  si  scompagnava  in  generale  fino  allora  dalla  padro- 
nanza (manus)  del  marito  sulla  moglie.  I  decemviri  riconobbero 
come  legalmente  valido,  senza  che  implicasse  quella  padi'onanza, 
il  matrimonio  pm^amente  consensuale  in  cui  la  convivenza,  a  impe- 
dire la  prescrizione,  venisse  interrotta  annualmente  per  tre  notti  (1). 
Con  questa  forma  di  matrimonio,  che  presto  divenne  prevalente  e 
poi  unica,  permisero  alla  donna  di  francarsi  di  diritto  dalla  padro- 
nanza del  marito  e  di  fatto  da  quella  del  padre  e  ne  riconobbero 
praticamente  la  libera  personalità.  Ma  salvo  questa,  che  sul  prin- 
cipio fu  un'eccezione,  perdurava  il  dii'itto  di  vita  e  di  morte  del 
capo  di  famiglia  sulla  moglie  come  sui  figli  e  gli  schiavi,  sia  per 
mancanze  commesse  nella  vita  domestica  (2),  sia,  in  sostituzione 
dello  Stato,  pei  reati  di  azione  pubblica  (3),  e  non  la  legge,  ma  solo 
il  costume  prescriveva  di  raccogliere,  per  le  punizioni  più  gravi 
della  moglie  o  dei  figli,  un  consiglio  di  famiglia  (4).  Continuava 
persino  ad  essere  facoltà  del  marito  di  consegnare  la  moglie  in 
potere  d'altri,  come  consegnava  il  figlio  o  lo  schiavo  se  erano  stati 
altrui    causa  di  danni  (nocca)   ch'egli  non  volesse  in    altro  modo 


caso  neppure  di  darne  un  cenno  sommario.  Mi  limito  in  generale  a  citare  gli 
scrittori  in  cui  possono  trovarsi  meglio  svolti  i  concetti  da  me  difesi  o,  even- 
tualmente, quelli  da  me  combattuti. 

(1)  Gai.  I  111:  lege  duodecim  tahularum  caiitum  est  ut  si  qua  nollet  eo  modo 
(usu)  in  manum  mariti  convenire,  ea  quotannis  trinoctio  abesset  atque  eo  modo 
{tisum)  cuiusqiie  anni  interrumperet. 

(2)  DioNYs.  II  25.  Flut.  Rom.  22.  Val.  Max.  VI  3,  9.  Plin.  «.  h.  XIV  89. 

(3)  In  parte  quest'uso  sopravvive  anche  in  età  più  recente:  Liv.  XXXIX  18, 
6.  epit.  48.  V.  MoMMSEN  Stì'afrecht  p.  19  n.  2. 

(4)  DioNYS.  Plin.  11.  ce.  Liv.  ep.  48.  Tao.  ann.  II  50.  XIII  32.  Suet.  Tib.  35. 

G.  De  Sanctis,  Storia  dei  Romani,  li.  5 


66  CAPO  XIV  -  LE  lectCjende  sui  decemviri,  ecc. 

risarcire,  e  conforme  all'uso  primitivo  gli  era  pm'e  dato  di  cederla 
temporaneamente  a  mi  terzo  per  averne  figliuoli  (1).  Diritto  di  ri- 
pudio v'era  fino  allora  solo  per  parte  del  marito,  limitato  però,  a 
guarentia  della  moglie,  a  casi  di  constatata  indegnità  di  costei  (2) 
e  accompagnato  da  ceremonie  solenni  che  dovevano  contribuii'e  a 
renderlo  più  raro  (3).  Ma  rintrodiu\si  del  matrimonio  senza  potestà 
modificò  profondamente  questo  stato  di  cose  rendendo  libero  e  age- 
vole il  divorzio  e  dando ,  anclie  per  ciò  clie  lo  concerne,  pari  di- 
ritti alla  moglie  ed  al  marito.  Poiché  il  marito  privo  di  padi'onanza 
non  ebbe  più  modo  di  ricondurre  a  forza  la  donna  che,  assentatasi 
per  le  tre  notti  legali,  gli  dichiarava  di  non  voler  più  tornare  nel 
domicilio  coniugale  ;  e  a  lui  d'altra  X3arte,  senza  annullare  con  so- 
lenni ceremonie  religiose  e  civili  la  sua  suprema  potestà,  bastò 
richiedere  alla  moglie  in  presenza  di  testimoni  le  chiavi  di  casa  e 
dirle:  piglia  le  cose  tue  e  va,  perchè  fosse  comx3Ìuto  legalmente  il 
divorzio  e  la  donna  dovesse  tornare  alla  sua  famiglia,  cui  appunto, 
per  l'assenza  della  potestà  maritale,  aveva  continuato  ad  apparte- 
nere (4).  Or  questa  libertà  di  ripudio,  che  poi  dai  matrimoni  senza 
potestà  maritale  s'estese  a  tutti  gli  altri,  conferi  a  scomx)aginare 
la  famiglia  romana  in  un  modo  che  i  legislatori  erano  lontani  dal 
prevedere  (5).  Ma  ciò   avvenne  assai  tardi,  quando  la  licenza  del 


(1)  Se  pur  l'esempio  della  moglie  di  Catone  uticense  non  è  troppo  calzante 
(Plut.  Caio  Utic.2b.  52.  App.  b.  e.  II  99  etc),  le  analogie  messe  in  luce  dalla 
etnografia  debbono  far  accogliere  i  concetti  difesi  p.  es.  dallo  Schupfer  La 
famiglia  secondo  il  diritto  romano  I  (Padova  1876)  p.  226  segg. 

(2)  Plin.  Dionys.  Plut.  11.  ce.  a  n.  1  e  Plut.  Num.  3. 

(3)  Nei  matrimoni  per  confarreatio  era  necessaria  una  solenne  diffarreatio,  su 
cui  V.  soprattutto  Fest.  epit.  p.  47.  Plut.  q.  R.  50;  in  quelli  per  coemptio  una 
mancipatio  su  cui  v.  Gai.  instit.  1  137  «  (il  caso  qui  enunciato  della  moglie  che 
costringe  il  marito  a  manciparla  ad  altri  è  naturalmente  alieno  affatto  dal  di- 
ritto civile  primitivo). 

(4)  Cic.  Phil.  II  28,  69  :  illam  suam  sitas  res  sibi  habere  iussit,  ex  duodecim 
tabulis  claves  ademit,  exegit.  Cfr.  Gai.  d/gr.  XXIV  2,  2.  1.  Per  la  formola  v.  però 
Marquardt  Privatleben  der  Romer  V  p.  70  n.  5. 

(5)  È  noto  che  secondo  la  tradizione  il  primo  divorzio  sarebbe  stato  quello 
di  Sp.  Carvilio  Ruga  del  231  o  227  av.  Cr.:  Gell.  n.  A.  IV  3.  Val.  Max.  II  1,  4. 
Dionys.  II  25,  7.  Plut.  comp.  Thes.  et  Rom.  6.  Lyc.  et  Num.  3.  q.  R.  14.  Questa 
notizia  è  inammissibile  perchè  inconciliabile  coi  dati  raccolti  nelle  note  pi'ece- 
denti.  L.  Pulci  '  Arch.  giurid.  '  LUI  (1894)  p.  229  segg.  la  spiega  nel  senso  che 
quello  fu  il  primo  caso  in  cui  il  magistrato  ebbe  ad  occuparsi  di  determinare 
le  relazioni    economiche  tra  gli  sposi  separati.  La   congettura  è  acuta;  ma  la 


LA    FAMIGLIA    ROMANA  G7 


costume  trovò  il  suo  conto  nella  liberalità  dell'antica  legge  che 
provvedeva  ad  altri  tempi  e  ad  altri  costumi;  x^er  allora  l'effetto 
della  legge  fu  soltanto  quello  benefico  di  riconoscere  solennemente 
che  fondamento  della  vita  familiare  non  è  solo  la  fedeltà  della 
sposa  e  che  la  donna  ha  di  faccia  al  marito  non  solo  doveri  a  com- 
piere, ma  anche  diritti  a  tutelare,  E  mutarono  anche  i  rapporti 
patrimoniali  tra  i  coniugi.  Dell'antico  uso  di  comj^erarsi  la  sposa 
(v.  I  p.  81)  non  rimaneva  traccia  che  nel  nome  del  matrimonio 
per  coenzione  e  nelle  ceremonie  che  l'accompagnavano;  ma  tutto 
ciò  che  la  moglie  recava  con  sé  diveniva,  nell'atto  del  matrimonio 
con  padronanza,  proprietà  del  marito.  E.  matrimonio  invece  senza 
"mano  „  lasciò  la  moglie  proprietaria  de'  suoi  beni;  ma  non  i)otè 
diffondersi  senza  che  al  marito,  j)rivato  d'ogni  diritto  sugli  averi 
della  moglie,  in  compenso  fosse  passato  almeno  un  contributo  per 
sostenere  gli  oneri  del  matrimonio,  che  prese  il  nome  di  dote  (do- 
nativo) (1).  Per  modo  che  non  solo  la  moglie  era  resa  economica- 
mente indipendente  dal  marito  ;  ma  la  sua  posizione  morale  nella 
casa  non  poteva  che  migliorare  pel  contributo  che  recava  nella 
^dta  economica  della  famiglia. 

Di  minor  conto  assai  fm^ono  i  limiti  che  i  decemviri  posero  all'au- 
torità del  capo  di  famiglia  sui  figli,  i  clienti  e  gii  schiavi  ;  perchè 
il  senso  giuridico  e  morale  non  era  ancora  x)rogredito  abbastanza 
per  avvisare  alla  sconvenienza  di  quella  autorità  illimitata  come 
già  era  rimasto  ferito  dalla  condizione  servile  della  donna  di  faccia 
al  marito.  E  cosi  conservò  il  padre  piena  facoltà  di  condannare  i 
figli  a  lavorare  come  schiavi  nei  camj)i,  di  venderli  in  schiavitù, 
di  esiliarli  e  di  ucciderli  (2).  Ma  fu  abolita  del  tutto  la  facoltà  di 


notizia  tradizionale  (come  l'altra  p.  es.  sulla  chiusura  del  tempio  di  Giano 
dopo  la  priina  guerra  punica,  v.  I  p.  18  n.  1)  proviene  dal  fatto  che  quello  era 
uno  dei  primi  divorzi  di  cui  si  conservasse  ricordo.  Cercando  bene  però,  agli 
stessi  eruditi  antichi  non  riusciva  impossibile  trovar  notizia  di  qualche  di- 
vorzio anteriore,  cfr.  Val.  Max.  II  9,  2. 

(1)  Più  tardi  si  chiamò  abusivamente  dos  anche  la  res  uxoria  dei  matri- 
moni con  maniis,  v.  p.  es.  Cic.  top.  4,  23:  ciim  nudier  viro  in  nianuni,  convenit, 
omnia  quae  mulieris  fuerunt  viri  fìunt  dotis  nomine.  Sulla  funzione  della  dote 
dig.  XXIII  3,  76:  nisi  oneribus  matrimonii  serviat  dos  nulla  est.  Cfr.  Pktroni  La 
funzione  della  dote  romana  (Napoli  1897)  p.  39  segg. 

(2)  Gai.  I  5ó  :  in  potestate  nostra  sunt  liberi  nostri  quos  instis  nuptiis  pro- 
creavimus,  quod  ius  jyroprium  civium  Romanorum  est  :  fere  enim  nulli  alii  sunt 
homines  qui  talem   in   filios  suos  habenf  potestatem  qualem  nos  habemus.  Dionys. 


68  CAPO   XIV  -  LE   LEGGENDE    SUI   DECEMVIKI,    ECC. 


uccidere  i  neonati,  limitando  quella  d'esporli  ai  i)arti  mostruosi  e 
alle  femmine  e  imponendo  d'allevare  tutti  i  figli  maschi  e  almeno 
la  xjrimo.Q-enita  delle  femmine  (1).  E  per  porre  un  limite  all'obbro- 
brioso commercio  del  proprio  sangue  fu  stabilito  che  una  triplice 
vendita  del  figlio  privasse  il  padre  della  patria  potestà  (2),  legge 
che  ci  mostra  più  chiaro  di  qualsiasi  tradizione  le  gravi  condizioni 
dei  poveri  contadini  romani  che,  indotti  dalla  miseria  a  vendere  i 
figliuoli  per  provvedere  ai  bisogni  più  urgenti,  si  affrettavano, 
appena  lo  concedesse  un  buon  raccolto  o  un  po'  di  bottino  preso  al 
nemico,  a  riscattarli  per  venderli  di  nuovo  quando  li  stringeva  dac- 
capo la  fame.  L'efficacia  di  questa  legge  del  resto,  anche  quando 
le  condizioni  economiche  migliorate  e  il  più  elevato  sentimento 
morale  abolirono  quel  turpe  commercio,  fu  assai  maggiore  di  quel 
che  i  decem^al■i  non  i^ensassero,  perchè  diede  ai  giovani  intolle- 
ranti della  illimitata  potestà  patria  il  modo  di  farsene  liberare  per 
mezzo  d'una  triplice  finzione  di  vendita.  [Della  tutela  dei  clienti 
si  occuparono  i  decemwi  anche  meno  che  di  quella  dei  figli.  Per 
altro  consacrando  alla  vendetta  divina  il  patrono  che  fosse  venuto 
meno  a'  suoi  doveri  verso  di  essi,  riconobbero  esplicitamente  i  loro 
diritti  di  faccia  a  lui,  tuttoché  non  osassero  assicm^arne  una  effet- 
tuale sanzione  umana  (3).  Nei  rapporti  infine  tra  il  padrone  e  lo 
schiavo  non  intervennero  che  con  estrema  timidità,  e  solo  impli- 
citamente riconobbero  la  efficacia  legale  della  manumissione  testa- 
mentaria (4).  Ciò  non  solo  aveva  importanza  pratica  provvedendo 


1126,4:  ó  bè  Tuùv  'Piju|uaitjuv  vojaoOéTri';  firraaav  Ujq  eìiretv  IbuuKev  lìouaiav  iraxpì 
KoG'  uioO  Trapà  navra  tòv  toO  Pi'ou  xpóvov  èóv  Te  etpyeiv,  èdv  xe  laaffriYoOv, 
èdv  re  òéainiov  è-rrì  tójv  kot'  àfpòv  ?pYUiv  Koréxeiv,  èdv  re  óiTTOKTivvùvai  irpo- 
aipfìTai. 

(1)  Secondo  Dionys.  Il  15  questa  era  una  legge  di  Romolo  ;  ma  die  della 
cosa  si  occupassero  le  dodici  tavole  risulta  da  Cic.  de  legib.  ITI  8,  19. 

(2)  Ulp.  fr.  X  1.  Gai.  I  132  :  si  pater  filium  ter  venum  duit,  filius  a  patre 
liher  esto. 

(3)  Serv.  Aen.  VI  609  (I  p.  238  n.  1).  Così  credo  clie  vada  tradotto  il  frati- 
dem  facere  piuttosto  che  con  '  far  torto  '  o  con  '  mancare  '  al  cliente  dell'as- 
sistenza dovutagli  (in  giudizio),  come  propone  Brkal  '  N.  Revue  de  droit  ' 
XXVI  (1902)  p.  147. 

(4)  Risulta  chiaro,  p.  es.  da  Ulp.  I  9  :  j<ì  testamento  manumissi  liberi  sint 
lex  duodecim  tabularum  facit  quae  confirmat  ea  quae  testator  de  suis  rebus  dispo- 
suerit,  cfr.  dig.  L  16,  120,  che  la  legittimità  della  manumissione  testamentaria 
si  fondava  non  su  alcun  testo  preciso,  ma  solo  sull'amplissima  libertà  di  testare 
sancita  dai  decemviri. 


IL    DIRITTO    DI    PROPRIETÀ  69 

al  caso  in  cui  il  padrone,  pur  desideroso  di  liberare  lo  schiavo,  non 
intendesse  privarsi  de'  suoi  servigi  in  vita;  ma  anche  maggiore 
importanza  gimidica  perchè  per  tal  modo  si  riconosceva  nel  pa- 
drone la  facoltà  di  trasformare  gli  schiavi  in  cittadini  liberi  : 
mentre  le  altre  due  forme  di  emancipazione,  quella  dinanzi  al 
pretore  e  quella  per  via  d'iscrizione  nelle  liste  cittadine,  erano  fon- 
date sulla  finzione  legale  che  la  libertà  e  la  cittadinanza  preesi- 
stessero all'atto  con  cui  venivano  riconosciute  (1).  Ad  ogni  modo  lo 
schiavo  rimase  come  prima  abbandonato  senza  difesa  alla  sconfi- 
nata autorità  del  padrone,  sebbene  tale  autorità  trovasse  allora  mi 
limite  di  fatto  nella  scarsezza  del  numero  degli  scliiavi,  che  co- 
stringeva chi  se  ne  serviva  ad  averne  qualche  cura,  perchè  quell'età 
era  ignara  del  grande  commercio  degli  schiavi,  né  le  vittorie  ro- 
mane erano  tali  da  metterne  molti  sul  mercato.  Inoltre  la  vita 
semplice  e  frugale  di  tutti  facilitava  l'affratellamento  tra  padroni 
e  servi,  in  ispecie  se,  come  era  certo  frequente,  si  trattava  di  schiavi 
nati  in  casa;  e  n'è  mia  riprova  il  fatto  che,  nonostante  l'esiguità 
del  loro  numero,  le  manumissioni  dovevano  essere  fin  d'allora  non 
rare,  se  già  la  legge  si  occupava  delle  guarentie  onde  dovevano 
essere  circondate. 

Anche  più  assoluto  ed  illimitato  del  potere  del  padre  sulla  fa- 
miglia appare  nell" antichissimo  comune  romano  il  potere  che,  stando 
alle  dodici  tavole,  egli  ha,  secondo  il  diritto  dei  Quhiti,  sul  suo  patri- 
monio. Qualunque  cosa  di  sua  iiroprietà,  mobile  od  immobile,  egli 
può  liberamente  usare,  donare  o  vendere  in  vita  e  può  come  vuole 
disjDorne  in  morte  ;  né  la  famiglia  o  i  gentili  o  lo  Stato  hanno  fa- 
coltà d'impedirglielo,  salvo  il  caso  di  constatata  prodigalità  o  di 
follia  (2).  n  carattere  cosi  assoluto  che  assume  presso  i  Romani  in 
età  tanto  remota  il  diritto  di  proprietà  dimostra  quanto  siano  vane 
le  teorie  moderne  che  fanno  sorgere  in  Roma  la  proprietà  fondiaria 
privata  poco  innanzi  al  decemvu-ato  da  quella  collettiva  delle  genti 
coltivata  dai  ser\d  della  gleba,  teorie  le  quali  presuiDpongono  anche 
assai  a  torto  il  preesistere  delle  genti  allo  Stato  (v.  I  p.  229).  Ciò 
conferma  che  la  libera  plebe  della  età  repubblicana  non  ebbe 
punto  origine  dall' emanciparsi   dei  servi  della  gleba  col  sorgere 


(1)  Ulp.  I  6-8. 

(2)  AucT.  ad  Her.  I  13,  23  -  Cic.  de  inv.  II  50,  148.  Fest.  p.  162  s.  v.  nec: 
vi  furiosus  escit  ast  ei  custos  nec  escit  adgnatum  gentiliumque  in  eo  pectmiaque 
eius  potestas  esto.  Pel  prodigo  v.  Ulp.  dig.   XXVII  10,  1. 


70  CAPO  XIV  -  lp:  leggende  sui  decemviri,  ecc. 

della  proprietà  individuale  che  li  avrebbe  resi  x^adroni  dei  fondi 
cui  prima  erano  legati.  Ma  se  il  concetto  di  proprietà  dominante 
in  Roma  intorno  al  450  presuppone  in  ogni  caso  più  secoli  di 
proprietà  fondiaria  privata,  non  basta  ad  escludere  che  presso  i 
Romani  o  meglio  presso  gli  Italici  primitivi  possa  aver  dominato 
in  origine  il  comunismo  agrario.  E  vero  che  la  dottrina  che  questa 
sia  stata  dappertutto  la  forma  primitiva  della  proprietà  fondiaria  (1) 
non  solo  non  è  dimostrata,  ma  è  contraddetta  dal  ricorrere  talora 
anche  fra  le  tribù  agricole  più  selvaggie  la  proprietà  fondiaria  in- 
dividuale (2).  Tuttavia  qualche  traccia  di  comunismo  agrario  non 
manca  certamente  x^resso  gii  Arii;  ma  son  traccie  insufficienti 
a  dimostrare  che  tutti  gli  Arii  l'abbiano  praticato  quando  ebbero 
sedi  stabili;  e  in  particolare  prove  sicure  presso  gl'Italici  non  se 
ne  hanno  (3).  La  designazione  del  i^atrimonio  privato  coi  nomi 
di  famiglia  e  di  xDecunia  (ossia  domestici  e  bestiame)  è  forse  so- 
pravvivenza d'una  età  in  cui  predominava  il  nomadismo  e  non 
si  aveva  proprietà  fondiaria  né  individuale  né  collettiva  o  forse 
anche  d'una  età  in  cui  la  x)rox)rietà  fondiaria,  pur  essendo  indivi- 
duale, non  costituiva  oggetto  di  commercio.  E  anche  la  denomina- 
zione di  herediuni  che  si  dava  nelle  dodici  tavole,  secondo  una 
testimonianza  non  fuori  d'ogni  controversia,  all' orto  (4),  non  vuol 
dire  che  solo  l'orto' era  oggetto  di  ]3rox)rietà  privata  e  solo  ]3assava 
all'erede;  ma  probabilmente  nasce  dal  fatto  che  l'uso  di  disporre 
Kberamente  de'  propri  beni  si  venne  sviluppando  a  grado  a  grado 
e  che  l'orto  fu  la  parte  di  essi  onde  più  a  lungo  il  jjadre  di  famiglia 


(1)  Svolta  p.  es.  da  E.  de  Laveleye  De  la  propriété  et  de  ses  forines  primi- 
tives  »  fParis  1901). 

(2)  Orienta  assai  bene  sulla  questione  e  fornisce  larghe  indicazioni  biblio- 
grafiche Cathrein  Moralphilosophie  li  247  segg.  V.  anche  Blondel  nei  '  Mé- 
langes  Appleton  '  p.  41  segg. 

(3)  Varie  prove  o  indizi  di  proprietà  collettiva  gentilizia  credette  d'avere 
raccolto  il  Mommsen  R.  G.  P  36.  182  seg.  Staatsrecht  III  22  segg.  793,  combat- 
tuto validamente  dal  Poehlmann  Geschichte  des  antiken  Kommunismus  und  So- 
zùtlismus  II  (Mùnchen  1901)  p.  449  segg.  I  concetti  del  Mommsen  son  ripresi 
dal  GuiRAUD  La  propriété  primitive  à  Rome  in  '  Revue  des  études  anciennes  ' 
VI  (1903)  p.  221  segg.  Ma  in  questa  memoria  egli  muove  dalla  permanente 
confusione  tra  due  associazioni  affatto  distinte  per  natura,  origine  e  posizione 
giuridica  nello  Stato,  quali  sono  la  famiglia  e  la  gente. 

(4)  PuN.  n.  h.  XIX  50:  in  XII  tabulis  leyum  nostrarum  nusquam  nominatiir 
villa  :  semper  in  significatione  ea  hortus,  in  horti  vero  heredium.  Hortus  in  senso 
di  villa  h  anche  in  Cic.  de  off.  Ili  14,  58. 


LA    MANCIPAZIONE  71 


non  potè  disporre  se  non  a  favore  dei  propri  eredi  legittimi.  Né 
di  maggior  momento  è  la  leggenda  secondo  cui  Romolo  distribuì 
ad  ogni  cittadino  come  lierediinn  un  fondo  di  due  iugeri  (1).  Questa 
leggenda  sorse  dalle  assegnazioni  di  due  iugeri  a  coloni,  che  pare 
ricorrano  anche  in  età  più  tarda,  quando  della  esistenza  della  pro- 
prietà individuale  non  può  dubitarsi,  e  forse  anche  dal  termine 
di  centuria,  originato  appunto  da  simili  assegnazioni,  che  deno- 
tava una  misura  di  duecento  iugeri.  E  ad  ogni  modo,  per  quanto 
due  iugeri  siano  certo  insufficienti  al  mantenimento  di  una  fa- 
miglia (2),  la  distribuzione  di  cosi  piccoli  campicelli  non  suppone 
nella  leggenda  delle  origini  come  non  suppone  nelle  storiche  asse- 
gnazioni posteriori  un  terreno  coltivato  ijer  conto  della  collettività  ; 
ma  al  più  soltanto  un  comune  terreno  pascolativo.  Il  comunismo 
agrario  quindi  non  solo  non  può  aver  dominato  in  Roma  in  età 
poco  anteriore  alle  dodici  tavole,  ma  se  s'era  praticato  presso  gli 
Italici  in  età  remotissima,  il  che  non  si  può  né  affermare  né  ne- 
gare, se  n'era  i30Ì  smarrito  ogni  vestigio  (3). 

Checché  ne  sia,  oggetto  di  pienissima  proprietà  privata  erano 
nell'età  delle  dodici  tavole  la  casa,  il  campo  e  le  forze  viventi  che 
s'adoperavano  a  coltivarlo;  solo  che  per  disporre  di  questi  averi  si 
richiedevano  formalità  più  solenni  che  non  usassero  per  alienare 
gli  altri  beni  anche  se  ragguardevoli  come  le  gioie  o  il  bestiame 
ovino.  La  ragione  sta  in  questo  che  l'alienazione  degli  stabili  e 
degli  schiavi  o  degli  animali  da  soma  e  da  tiro  che  servivano  alla 
economia  rurale  pareva  mettere  in  pericolo  il  fondamento  econo- 
m.ico  della  continuità  della  famiglia.  Ora  appunto  nella  continuità 
della  famiglia  che  escludeva  "  la  confusion  delle  persone  „  vedeva 
l'innato  conservati vismo  dei  popoli  agricoli  primitivi  la  condizione 
necessaria  della  stabilità  dell'ordine  sociale  in  questa  e  d'ogni  spe- 
ranza di  bene  nell'altra  vita.  Perciò  questa  categoria  d'alienazioni, 
più  recenti  d'origine  e  meno  frequenti,  richiedevano  maggiori  gua- 
rentie  e  nell'interesse  del   compratore  e  in  quello  della  famiglia 


(1)  Varrò  de  re  r.  I  10,  2:  bina  iugera  quod  a  Roinulo  2}>'iniH)n  divisa  dice- 
hantur  viritim  qiiae  heredem  seguerentiir  fieredi u in  appellar unt  :  haec  postea  centum 
centuria.  Fest.  epit.  p.  53  :  centuriatus  ager  in  ducena  iugera  defìnitiis  quia  Ro- 
midus  centenis  civibas  ducena  iugera  tribuit.  Plin.  n.  h.  XVI li  7. 

(2)  Questo  è  evidentissimo,  per  quanto  sia  disconosciuto  da  taluni,  p.  es. 
da  M.  VoiGT  Ueber  die  bina  iugera  der  àltesten  rom.  Agrarverfassuny  '  Rh. 
Museum  '  XXIV  (1869)  p.  13  segg. 

(3)  Per  una  dimostrazione  più  compiuta  v.  Pòiilmann  1.  e. 


72  CAPO   XIV  -  LE  LEGGEXDE    SUI    DECEMVIRI,    ECC. 

del  venditore.  Il  venditore  riceveva  il  metallo  destinato  al  paga- 
mento mism-ato  sopra  mia  bilancia  da  un  pesatore  {libripens)  in 
presenza  di  cinque  testimoni  e  poi  ascoltava  in  silenzio  la  solenne 
dichiarazione  del  compratore  che,  afferrando  con  la  mano  Toggetto 
comperato  o  un  suo  simbolo,  so  ne  x>roclamava  proprietario  secondo 
il  dii'itto  dei  Quiiiti.  In  questa  formalità  delF  afferrare  con  mano  in 
segno  di  padronanza,  che  deve  essere  stata  effettiva  prima  di  di- 
venne simbolica,  non  deve  cercarsi  la  prova  che  simile  maniera  di 
alienazione  {mcnicipatio}  si  praticasse  in  origine  con  qviei  beni  mo- 
bili, come  le  armi  o  le  gioie,  che  poi  ne  tmono  esclusi  (res  nec 
mancipi).  Essa  dimostra  soltanto  che  tra  i  beni  poi  suscettibili  di 
esser  venduti  a  questo  modo  {res  mancipi)  in  origine  la  mancipa- 
zione  dovette  applicarsi  ai  soli  che  si  potessero  effettivamente  affer- 
rare per  la  mano,  pel  laccio  o  per  le  redini,  ossia  gli  scliia^d  e  gli 
animali  da  soma  o  da  tiro,  e  solo  più  tardi  divennero  alienabili 
gli  altri  beni  di  questa  classe  e  in  particolare  gli  stabili  a  cui  la 
mancipazione  non  poteva  applicarsi  che  in  maniera  simbolica.  Co- 
desta solennità  del  resto,  che  prima  era  la  stessa  vendita,  più  tardi 
quando  la  vendita  non  si  effettuò  più  in  pratica  con  cumuli  di 
bronzo  o  di  rame,  divenne  una  semplice  simulazione  di  vendita 
fatta  prima  o  dopo  l'effettuale  pagamento,  in  cui  il  metallo  desti- 
nato all'acquisto  era  sostituito  da  un  pezzo  di  rame  che  si  poneva 
nella  bilancia  (1). 

Con  le  dodici  tavole  lo  Stato  intervenne  a  tutela  della  manci- 
pazione riconoscendo  la  piena  validità  della  dichiarazione  che  fa- 
ceva in  essa  il  compratore  (2).  Ed  un  effetto  singolare  ebbe  questo 
intervento  del  legislatore  :  fu  cioè  cosi  più  tutelato  dallo  Stato  il 
commercio  dei  beni  considerati  in  origine  come  meno  alienabili  di 
quello  degli  altri  la  cui  alienazione,  essendo  più  antica  e  più  usuale 
e  più  guarentita  dal  costume,  non  rivestiva  forme  tanto  solenni. 
E  il  venditore  che  dell'oggetto  venduto  non  suscettibile  di  manci- 
pazione non  aveva  ricevuto  il  prezzo  o  il  contraccambio  pattuito 
non  ebbe  mezzo  di  costringere  il  compratore  a  risarcirlo  ;  ma  per 
impedire  che  fosse  defraudato  del  suo  non  si  trovò  altra  via  che 
quella  di  considerarlo  come  proprietario  dell'oggetto  e  quindi  di 


(1)  Ricco  di  concetti  acuti  e  nuovi,   per  quanto  in  gran  parte  non   accetta- 
bili, e  P.  BoNFANTE  Res  mancipi  e  nec  mancipi  (Roma  1888-89). 

(2)  Fest.  p.  173  s.  V.  nuncupata  :  cton  nexum  faciet  mancipiumque  ufi  lingua 
nuncujMssit  ita  ius  esto. 


IL   TESTAMENTO  73 


permettergli  un'azione  pel  suo  ricupero  finché  non  fosse  avvenuto 
il  pagamento  (1).  Al  tempo  stesso  la  tutela  die  lo  Stato  assumeva 
della  elicili ar azione  solenne  fatta  neir  atto  della  mancipazione  in- 
dusse a  dar  forma  di  mancipazione  ad  altri  atti  die  con  la  ven- 
dita avevano  solo  una  lontana  analogia  a  fine  di  metterli  per  tal 
modo  sotto  la  difesa  delle  leggi.  Cosi  ad  esempio  si  j)otè  per  mezzo 
della  mancipazione  dare  una  persona  o  uno  stabile  in  pegno  ad 
un  creditore  o  in  consegna  ad  un  amico  con  la  clausola  die,  sod- 
disfatto al  debito  o  venute  meno  le  ragioni  per  cui  aveva  avuto 
luogo  la  consegna,  dovesse  riemanciparsi  al  primitivo  proprietario. 
Ma  inoltre  (ciò  die  più  rileva)  per  mezzo  d' una  finzione  legale 
fondata  sulla  mancipazione  divenne  agevole  ad  ogni  cittadino  di 
disporre  per  testamento  de'  suoi  beni. 

L'eredità  nel  primitivo  diritto  romano  importa  la  successione  non 
solo  nel  tutt' insieme  dei  rapporti  patrimoniali,  ma  anche  nei  do- 
veri e  diritti  religiosi  concernenti  i  culti  privati  e  i  sepolcreti  fa- 
miliari, nelle  relazioni  d'ospitalità  con  stranieri  e  nel  patronato  sui 
clienti  ;  insomma  in  tutti  i  diritti  e  rapporti  aventi  carattere  con- 
tinuativo. Onde  può  dirsi  che  per  la  eredità  si  attua  giuridicamente 
la  continuazione  della  famiglia,  sia  che  la  sua  continuazione  fisica 
si  accom]iagni  o  no  con  quel  fatto  giuridico.  Ma  l'integrale  sosti- 
tuirsi dell'erede  al  defunto  non  implica  che  la  successione  sia  da 
tenere  per  una  trasmissione  di  sovranità  sulla  famiglia  considerata 
come  un  gruppo  politico  (2).  Perchè  iirima  di  tutto  della  pretesa 
funzione  politica  della  famiglia  manca  ogni  j)rova.  I  membri  della 
famiglia,  anche  quando  più  rigida  era  in  Roma  la  patria  potestà, 
esercitavano  ciascuno  di  per  sé,  indipendentemente,  i  loro  doveri 


(1)  Inst.  II  1,  41:  venditele  vero  (resj  et  traditele  non  eiUter  emptori  eidqui- 
runtur  quetm  si  is  venditori  pretium  solverit  vel  eilio  modo  satisfecerit...  qtiod 
ca retar  eiuidem  etiam  lege  duodecim  tabuleirum, 

(2)  Questo  concetto  è  difeso  dal  Bonpante  L'origine  dell'hereditas  e  dei  legati 
nel  '  Boll,  dell'ist.  di  dir.  romano  '  IV  (1891)  p.  97  segg.  L'eredità  e  il  suo 
reipporto  coi  legati  ibid.  VII  (1895)  p.  151  segg.  e  dal  Fadda  Concetti  fonda- 
mentali del  d.  ereditario  romano  I.  Il  (Napoli  1900.  1902).  Io  mi  attengo  piuttosto 
ai  concetti  svolti  dal  Costa  Corso  eli  storia  del  dir.  romano  II  (Bologna  1903) 
p.  375  segg.  con  le  riserve  accennate  nel  testo  sulla  funzione  politica  della 
famiglia.  —  Osservazioni  acute  ed  utopie  si  alternano  nello  scritto  di  E.  Lambert 
La  trad.  romeiine  sur  la  succession  des  formes  du  testament  devant  l'histoire 
comparative  (Paris  1901).  Cfr.  anche  A.  Zocco-Rosa  '  Riv.  ital.  per  le  scienze 
giuridiche  '  XXXV  (1903)  p.  302  segg. 


74  CAPO    XIV   -    LE    LKCUEKDE    SUI    DECKMVIRl,    KCC. 

e  i  loro  diritti  di  cittadini;  e  non  la  famiglia,  ma  l'individuo  era 
tenuto  a  servii-  lo  Stato  in  forza  della  legge  o  del  costume.  Lioltre 
della  trasmissione  di  sovranità,  che  non  può  non  farsi  con  forme 
solenni,  il  presupposto  primo  è  l'anteriorità  del  testamento  alla  suc- 
cessione intestata.  Or  tale  anteriorità  mal  s'accorda  con  le  analogie 
del  diritto  comparato  ;  e  del  resto  non  v'ha  dubbio  che  il  testamento 
rom.ano  in-ocede  da  quello  di  un  altro  X)opolo  affine  e  più  progre- 
dito con  cui  gl'Italici  praticarono  continuamente  dal  sec.  VITI,  cioè 
il  popolo  greco,  che  non  conobbe  il  testamento  se  non  in  età  ab- 
bastanza recente.  Inoltre  una  trasmissione  di  sovranità  richiede  il 
permanere  almeno  virtuale  dell'unità  del  gruppo  su  cui  la  so\Ta- 
nità  si  trasmette,  mentre  la  famiglia  si  scinde  con  l'aprirsi  della 
successione  in  tante  famiglie  indipendenti  quanti  sono  gli  eredi 
senza  che  sussista  nel  diritto  romano  alcun  pri\dlegio  di  primoge- 
nitui'a;  né  importa  che  talora  gli  eredi  amministrassero  in  comune 
il  x^atrimonio  paterno  come  condomini,  poiché  ciascuno  dei  coeredi 
poteva  in  qualsiasi  momento  domandarne  ed  ottenerne  la  divisione 
per  mezzo  d'una  procedm-a  determinata  appmito  dalle  dodici  ta- 
vole (net io  familiae  erciscundaé)  (1).  Infine  l'ipotesi  della  società 
familiare  sovrana  imj)lica  la  preesistenza  d'una  famiglia  bene 
ordinata  allo  Stato,  il  quale  si  sarebbe  in  certo  modo  costituito 
per  la  parziale  rinuncia  di  jjoteri  fatta  dalle  famiglie  indipendenti 
a  favore  di  esso.  Or  tale  concetto  è  erroneo  e  in  x^iena  contraddi- 
zione con  la  etnografia  comparata,  la  quale  fa  ritenere  probabile 
la  preesistenza  dell'orda  alla  ben  regolata  società  familiare  che  é 
venuta  costituendosi  nel  suo  seno  (v.  I  pag.  83);  né  può  in  alcun 
modo  accogliersi  l'assimilazione  tra  la  famiglia  e  la  gente  che  é 
presujDposta  da  quella  teoria,  x)erchè  famiglia  e  gente  son  due  as- 
sociazioni diverse  non  solo  d'estensione,  ma  anche  d'origine  e  di 
natm-a;  e  ad  ogni  modo,  ammessa  anche  la  loro  affinità,  manca 
ogni  fondamento  di  fatto  per  asserire  che  la  gente  abbia  a\aito 
in  Roma  ordinamento  monarchico. 

Perciò  è  da  ritenere  che  scopo  del  testamento  fosse  in  origine 
semx)licemente  quello  della  costituzione  di  un  erede  quando  l'erede 
naturale  mancava  o  si  voleva,  per  indegnità,  diseredare  (2);  in  altri 


(1)  Gai.  dig.  X  2,   1. 

(2)  È  in  sostanza  il  concetto  dello  Schulin  Das  griech.  Testament  verglichen 
mit  dem  romischen  (Basai  1882)  p.  50  segg.,  col  quale  del  resto  non  mi  accordo 
ne  nel  ritenere  che  il  testamento  calatis  comitiis  fosse  fatto  per  iscritto,  ipo- 


IL    TESTAMENTO  75 


termini  esso  non  mirava  che  ad  una  adozione  postuma.  Certo  l'ado- 
zione poteva  aver  luogo  anche  in  vita,  ma  forse  a  molti  non  gar- 
bava di  essere  x)reventivamente  adottati  quando  ciò  conferiva  su 
di  essi  air  adottante  il  potere  di  disporre  della  loro  vita  e  della 
morte  ;  e  a  molti  altri  forse  non  conveniva  di  avere  a  carico  proprio 
in  vita  il  figlio  adottivo.  Inoltre  all'adozione  tra  vivi  poteva  essere 
di  grave  impedimento  la  rivalità  tra  i  parenti  ])iii  prossimi  che 
avessero  aspirato  ad  ereditare  per  adozione  o  per  successione  inte- 
stata e  r  opposizione  interessata  dei  gentili  a  cui  in  mancanza 
d'agnati  ricadeva  l'eredità  (1).  Ma  l'estinguersi  giuridicamente  della 
famiglia  metteva  a  pericolo  lo  Stato  che  rischiava  di  vedersi  rac- 
cogliere in  mano  di  XDOchi  le  facoltà  di  molti  e  con  ciò  diminuire 
il  numero  de'  suoi  difensori  quando  più  v'era  d'uopo  di  difesa  ;  e 
tui'bava  l'animo  di  chi  era  privo  d'eredi  legittimi  facendogli  pre- 
vedere derelitta  e  priva  del  conforto  d'offerte  funebri  la  vita  di  ol- 
tretomba. E  però  s'introdusse  l'uso  della  presentazione  dell'erede 
ai  comizi  calati  che  eran  chiamati  a  guarentirne  con  voto  so- 
lenne la  successione,  e  quello  dell'analoga  dichiarazione  ai  commi- 
litoni in  assetto  di  guerra,  che  si  facevano  mallevadori  dell'adem- 
pimento dell'  estrema  volontà  del  loro  compagno  d' arme  (v.  I 
pag.  244).  Ma  tali  forme  di  testamento  erano  troppo  solenni  per 
essere  comuni  ;  inoltre  la  pubblicità  stessa  che  avevano,  mentre  ne 
assicm'ava  l'esecuzione,  poteva  render  più  malagevole  a  taluno  di 
risolversi  ad  usarne.  E  j)er  quanto  una  disposizione  delle  dodici 
tavole  assicui'asse  al  testatore  x)iena  libertà  (2),  frequenza  e  libertà 
piena  di  testamento  non  s'ebbe  in  effetto  se  non  quando  si  trovò 


tesi  che  muove  da  un  concetto  errato  sull'antichità  della  diffusione  della  scrit- 
tura presso  i  Romani,  ne  nel  ritenere  che  il  testamento  per  aes  et  lihram  non 
contenesse  in  origine  l'istituzione  d'un  erede,  ipotesi  che  rende  a  mio  avviso 
incomprensibile  la  storia  del  testamento  romano.  —  Del  resto  l'istituzione  d'un 
erede  è  stata  sempre  riguardata  come  la  essenza  del  testamento:  Gai.  11229: 
testamenta  vini  ex  institutione  heredis  accipiunt  et  oh  id  veliti  caput  et  fiiiuìa- 
mentiim  intellegitur  totius  testamenti  heredis  institutio. 

(1)  Secondo  il  principio  delle  dodici  tavole  :  si  intestato  moritur  cui  suus 
heres  nec  escit,  adgnatus  jJ^'oximus  familiam  habeto,  si  adgnatus  nec  escit  geiifiles 
familiam  habento,  v.  Ulp.  reg.  16,  1.   Coli.  16,  4. 

(2)  Uti  legassit  super  fainilia  tutelave  suae  rei  ita  ius  esto.  Così  Ulp.  11,  14. 
Questo  passo  è  riportato  da  molti  altri  scrittori  con  non  poche  varianti.  Qui 
legare  vuol  dir  semplicemente  legem  dicere  e  non  si  applica  punto  specifica- 
mente a  ciò  che  poi  si  designò  col  nome  di  legata. 


76  CAPO   XIV  -  LE    LEt.CENDK    SUi    DECEMVIRI,    ECC. 

il  modo  di  testare  senza  tante  solennità  con  una  finzione  di  ven- 
dita della  universalità  dei  rapporti  patrimoniali  (1).  Si  cedevano 
questi  per  mezzo  della  mancipazione  col  metallo  e  la  bilancia  ad 
un  compratore  del  patrimonio  {familiae  eniptor)^  il  quale  dichia- 
rava di  lasciarne  il  possesso  e  il  godimento  al  proprietario  fino 
alla  sua  morte  e  di  disx^orne  dopo  la  sua  morte  secondo  le  sue  in- 
tenzioni in  origine  manifestarte  verbalmente  innanzi  ai  cinque  te- 
stimoni della  mancipazione,  poi  trasmesse  all'esecutore  testamen- 
tario scritte  entro  tavolette  suggellate  (2).  Assicurata  cosi  la  piena 
libertà  di  testare,  essa  poi  trasmodò  quando  prese  a  disgregarsi  la 
famiglia,  e,  invece  di  assicurarne  la  continuazione,  servi  a  trascu- 
rare per  estranei  gli  eredi  legittimi.  L'antico  adagio  gimidico  se- 
condo cui  nessmia  successione  poteva  essere  in  parte  testamentaria 
in  parte  intestata,  fondato  sulla  presunzione  che,  costituendosi  un 
erede  per  testamento,  uno  volesse  diseredare  per  indegnità  i  suoi 
eredi  legittimi  se  ne  aveva,  ebbe  conseguenze  gravi  e  imi^revedute 
talora  allo  stesso  testatore  quando  la  i^iena  libertà  di  testare  servi 
allo  scopo,  affatto  alieno  dalla  mente  del  legislatore  clie  l'aveva 
sancita,  di  legittimare  i  lasciti  di  qualunque  natura  e  misiu^a  (3). 
Ma  questi  abusi  della  libertà  di  testare,  a  cui  convenne  poi  cer- 
care, e  non  fu  facile,  di  porre  in  qualche  modo  riparo,  furono  assai 
più  tardi;  pel  momento  le  conseguenze  di  quella  libertà,  man  mano 
che  divenne  effettiva  col  diffondersi  del  testamento  per  mancipa- 
zione, non  fui^ono  che  benefiche  :  ossia  di  porre  un  termine  airestin- 
guersi  delle  famiglie  per  la  rapacità  degli  agnati  e  dei  gentili,  e 
di  facilitare,  potendo  essa  inserirsi  nel  testamento,  la  manumissione 
degli  schiavi. 

Nel  testamento,  del  resto,  come  nella  mancipazione,  la  legge  non 
tutelava  per  sé  l'atto  esterno  in  cui  s'era  espressa  la  volontà  del 
testatore  e  dei  contraenti,  ma  lo  tutelava  soltanto  in  quanto  per 
mettersi  sotto  la  sua  protezione  aveva  rivestito  quelle  l'orme  deter- 
minate che  essa  indicava  e  in  particolare  era  stato  accompagnato 
dalle  parole  solenni  prescritte.  Lo  stesso  era  il  caso  dell'altro  con- 


(1)  Non  si  dica  che  la  frequenza  del  testamento  è  implicita  nella  clausola 
negativa  si  intestato  moritur  della  legge  riportata  sopra  a  p.  75  n.  1;  perchè 
quella  clausola  va  unita  strettamente  con  l'inciso  cui  suus  heres  nec  escit:  in 
altri  termini  prova  al  più  per  quelli  che  non  avevano  sui  heredes. 

(2)  Gai.  II  102.  103.  Ulp.  20,  9. 

(3)  Inst.  II  10,  5:  neque  enim  idem  ex  parte  testatus  ex  parte  intestatus  dece- 
dere potest. 


PROCEDUKA    GIUDIZIALE  H 


tratto  di  cui  la  legge  assumeva  nelle  dodici  tavole  la  guarentia, 
il  "  ìiexiim  „  per  cui  il  debitore  rimaneva  obbligato  con  la  persona 
al  suo  creditore  (v.  sopra  pag.  2  seg.).  E  la  formola  orale  era  pure 
di  grandissimo  momento  in  tutta  la  giurisdizione  civile.  Nessuno 
poteva  ricorrere  al  magistrato  per  tutelare  in  via  contenziosa  i 
propri  diritti  senza  fare  uso  di  formole  determinate  ;  talché  una 
richiesta  ragionevole  e  convenientemente  espressa  non  era  accolta 
se  un  vocabolo,  pm-  essendo  proprio,  non  corrispondeva  alla  lettera 
della  legge  (1).  La  ragione  di  questo  formalismo  sta  soprattutto 
neiresser  verbali  contratti  e  procedure,  il  che  induceva  ad  una  me- 
ticolosità non  necessaria  quando  tutto  si  scrive  e  la  scrittura  rimane 
a  testimoniare  il  significato  dell'atto:  in  altri  termini  nell'avere  i 
rapporti  economico-giuridici  presso  i  Romani  raggiunto  fin  dal 
V  sec,  sotto  l'influenza  de'  più  civili  Greci  ed  Etruschi,  uno  svi- 
luppo quale  in  genere  non  si  ha  presso  popoli  poco  pratici  della 
scrittura.  Inoltre  in  Roma  come  altrove  lo  Stato  non  assunse  se 
non  lentamente  la  piena  giurisdizione  civile  e  cominciò  col  co- 
stringere l'un  contendente  ad  accettare  l'intervento  del  potere 
pubblico  richiesto  dall'altro  solo  in  casi  tassativamente  determi- 
nati; si  spiega  quindi  la  maggiore  importanza  che  aveva  in  tali 
condizioni  la  formola  precisa  adoperata  dall'  attore,  la  quale  gua- 
rentiva che  il  caso  in  cui  egli  chiedeva  l'intervento  del  pretore  era 
realmente  di  quelli  avuti  di  mira  dalla  legge:  ciò  del  resto  faceva 
sì  che  a  jjoco  a  poco  una  formola  prendesse  ad  usarsi  per  analogia 
anche  dove  il  senso  proprio  della  parola  non  l'avrebbe  comportato. 
I  modi  che  le  dodici  tavole  additano  ai  cittadini  per  ottenere,  nei 
vari  casi  in  cui  son  lesi  i  loro  interessi,  il  risarcimento,  risentono 
d'assai  della  primitiva  difesa  privata.  Primo  è  il  sequestro  {pignoris 
capio)^  che  si  faceva  senza  intervento  del  magistrato  e  anche  in 
assenza  del  debitore.  Ma  questa  procedm-a,  che  metteva  a  pericolo 
la  tranquillità  pubblica  e  lasciava  libero  il  campo  all'arbitrio,  fu 
dalle  dodici  tavole  ristretta  a  pochissimi  crediti  privilegiati  (2). 
Assai  più  comune  fu  l'arresto  della  jjersona  tenuta  al  risarcimento 
(inanus  iniectio),  ma  anche   questo,   dal  caso  di  nexuni  in  fuori, 


(1)  Gai.  IV  11:  amie  eiiin  qui  de  vitibus  succisis  ita  egisset  ut  in  actione  vites 
nominaret  responsum  est  rem  jyerdidisse  cum  debuisset  arhores  nominare  eo  quod 
lex  XII  tabularum  ex  qua  de  vitihus  succisis  actio  conpeteret  generaliter  de  ar- 
boribus  succisis  loqueretur.  L'esempio,  sia  jjure  fittizio,  illustra  assai  bene  il 
formalismo  dell'antico  diritto  romano. 

(2)  Gai.  IV  26-29.  32. 


(b  CAPO   XIV  -  LE    LEOUKNDK    SUI   DKCEMYmi,    ECC. 

venne  usato  in  genere  come  procedimento  esecutivo  per  l'obbli- 
gazione nascente  da  contratto  o  da  delitto  riconosciuto  da  previo 
giudizio;  e  ad  ogni  modo  non  x)otè  più  farsi  se  non  con  forme  de- 
terminate e  dovette  essere  convalidato  dal  pretore  (1).  Vere  procedure 
giudiziali  erano  invece  due  soltanto,  quella  per  scommessa  (sacra- 
mentum)  (2)  e  quella  per  ricliiesta  d'un  giudice  {iudicis  postulatìo). 
La  prima  è  preceduta  da  un  simulacro  di  lotta  {vis  festucaria). 
sopravvivenza  dell'antica  lotta  effettiva  tra  i  contendenti  pel  pos- 
sesso dell'oggetto  su  cui  verte  la  questione  :  dopo  di  che  provocatisi 
ad  una  scommessa  sulla  giustizia  della  causa  rispettiva,  ne  depo- 
sitavano l'importare  presso  il  magistrato.  Questi  allora  nominava 
un  giudice  non  perchè  decidesse  direttamente  intorno  alla  materia 
della  lite,  ma  perchè  ne  pronunciasse  indirettamente,  dichiarando 
giusta  o  ingiusta  la  scommessa  di  ciascuna  delle  parti.  Qui  appare 
evidente  come  lo  Stato  intervenne  in  una  procedm^a  assolutamente 
privata  non  attentandosi  neppure  di  modificarne  lo  svolgimento 
in  modo  conforme  all'importanza  nuova  che  per  l'intervento  suo 
assumeva.  Certo  più  tarda,  più  semplice  e  più  corrispondente  al 
nuovo  ufficio  assunto  dallo  Stato  è  la  procedm'a  già  ammessa 
dalle  dodici  tavole  i^er  cui  l'attore  chiedeva  senz'altro  al  magistrato 
un  giudice  o  uno  o  più  arbitri  intorno  alla  cosa  di  cui  si  ccaiten- 
deva;  ma  non  conosciamo  x3urtroppo  l'ambito  in  cui  era  dato  va- 
lersi di  tal  procedura.  Certo  essa  s' applicava  a  quei  casi  in  cui, 
non  essendovi  modo  di  precisare  prima  del  processo  la  mism-a  dei 
propri  diritti,  non  poteva  farsi  una  recisa  asserzione  come  quella 
presupposta  dalla  procedura  per  scommessa  ;  ma  è  incerto  se 
potesse  farsi  richiesta  d'un  giudice  anche  nelle  cause  per  cui  il 
conservativismo  romano  aveva  voluto  che  si  serbasse  in  vigore 
l'altra  più  rozza  procedura. 

Forse  anche  j)iù  che  di  diritto  civile  si  occuparono  i  decemviri 
di  diritto  penale.  Per  qualsiasi  reato  capitale  commesso  da  un  cit- 
tadino entro  il  pomerio,  sia  di  quelli  contro  la  sicm-ezza  dello  Stato 
iperdueUio)  sia  di  quelli  che  indirettamente  la  mettevano  a  peri- 
colo macchiando  la  città  al  cospetto  degli  dèi  o  turbando  la  pace 
cittadina,  fu  data  facoltà  al  magistrato  soltanto  d'iniziare  il  pro- 
cesso e  conceduto  sempre  all'accusato  d'appellarsi  ài  popolo  ;  e  fu 


(1)  Gai.  IV  21-25.  V.  sopra  p.  2  n.  2. 

(2)  Gai.  IV  13  segg.  Varrò    de    l.  l.  V  180.  Fest.  p.  344  s.  v.   sacramento    e 
sacramentum. 


DIRITTO    PENALE  79 


sancito  elle  non  era  lecito  uccidere  alcuno  senza  condanna,  né  con- 
dannare a  morte  se  non  nei  maggiori  comizi  di  tutta  la  cittadi- 
nanza (1).  Cosi  accanto  ai  rei  di  perduellione,  i  comizi  ebbero  a 
giudicare  dei  iDarricidi,  degli  incendiari,  dei  falsi  testimoni,  di  chi 
recideva  o  faceva  pascere  di  notte  le  messi  altrui,  di  clii  cercava 
danneggiarle  con  incantesimi.  Tra  questi  reati  il  parricidio,  ossia  nel 
senso  originario  della  x)arola  l'uccisione  dell'eguale  o  del  compagno 
di  cuiia,  fu  forse  il  i3rimo  delitto  ]3rivato  per  cui  la  solidarietà 
d'interessi  tra  i  membri  d'una  curia  introdusse,  in  luogo  della 
vendetta  privata,  la  vendetta  preceduta  almeno  da  un  simulacro 
di  giudizio  di  tutta  la  curia;  e  la  vendetta  privata  fu  poi  in  tutto 
surrogata  dalla  pubblica  giustizia  quando  alla  singola  curia,  so- 
stituitasi r  assemblea  delle  cuiie,  ogni  omicidio  venne  equii)arato 
ad  un  parricidio.  Da  allora  l'omicidio  fu  x^unito  dietro  giudizio  jDro- 
nunciato  nelFassemblea  popolare,  prima  in  quella  delle  ernie,  poi 
in  quella  delle  centurie,  quando  questa  divenne  l'assemblea  mag- 
giore della  città  (2). 

Li  tutti  cotesti  reati  x)ertanto  la  legge  esclude  e  la  vendetta  e 
la  composizione  privata.  La  vendetta  privata  non  scomparve  però 
senza  lasciar  qualche  vestigio.  Uno  è  nella  facoltà,  che  in  modo  più  o 
meno  esplicito  anche  legislazioni  più  progredite  delle  dodici  tavole 
lasciano  al  padi'e  di  una  donna  o  al  marito,  di  uccidere  l'adul- 
tero colto  sul  fatto  (3).  Un  secondo  se  n'ha  da  cercare  (se  però  la 
notizia  è  degna  di  fede)  nel  non  potersi  procedere  giudizialmente 
contro  l'uccisore  del  padi'e,  perchè  a  richiesta  appunto  del  colpevole, 
che  come  figlio  era  tenuto  in  origine  alla  vendetta  del  sangue,  si  sa- 


(1)  Salvian.  de  gubern.  dei  Vili  5:  interfici...  indemnatum  quemcumque  hominem 
etiam  XII  tabularum  decreta  retuerunt.  Cic.  de  leg.  Ili  19,  54  {lex  XII  tahu- 
larum)  de  capite  civis  rogavi  nisi  maximo  comitiatti  vetat. 

(2,1  Pel  concetto  del  parricidio  (la  più  corretta  ortografia  latina  è  da  rite- 
nere ^^arictrfitiw)  V.  HuscHKE  Die  Multa  iind  das  Sacramentum  (Leipzig  1874) 
p.  183  segg.  Brunnenmeister  Das  Todtungsverhrechen  im  altromischen  Rechi 
(Leipzig  1887).  E.  Meyer  Geschichie  des  Alt.  II  p.  511  seg.  Fest.  epit.  p.  221: 
parricida  non  utique  is  qui  parentem  occidisset  dicebatur,  sed  qualemcumque  ho- 
minem indemnatum.  ita  fuisse  indicai  lex  Numae  Pompila  regis  his  composita 
verbis:  si   qui   hominem  liberum  dolo  sciens  morii  duit,  paricidas  esto. 

(3)  È  da  ritenere  che  questa  facoltà  fosse  in  origine  amplissima,  se  così 
ampia  era  anche  dopo  le  limitazioni  introdotte  dal  costume  o  dalla  legge  nel- 
l'età imperiale,  v.  Paul.  coli.  4. 


80  CAPO   XIV  -  LE    LEGGENDE    SUI   DECEMVIRI,   ECC. 


rebbe  dovuto  iniziare  il  procedimento  (1);  ed  un  terzo  forse  iieirariete 
espiatorio  clie  è  obbligato  a  consegnare  clii  lia  ucciso  involonta- 
riamente un  altro  (2).  Ma  traccie  assai  maggiori  della  difesa  e  della 
vendetta  privata  si  hanno  nel  trattamento  del  furto  e  delle  lesioni 
personali.  Il  ladro  colto  sul  fatto  poteva  di  notte  essere  senz'altro 
ucciso  (3)  e,  se  non  si  arrendeva,  anche  di  giorno  (4);  arrestato  e 
sottoposto  a  giudizio,  tolto  il  caso  che  il  danneggiato  si  iDiegasse 
spontaneamente  ad  un  accordo  con  lui,  se  non  era  libero  veniva 
condannato  a  morte  dal  tribunale,  se  libero  consegnato  alla  parte 
lesa  (5).  Del  pari  per  le  gravi  lesioni  personali,  salvo  accordo  spon- 
taneo, la  parte  lesa,  avvenuto  il  giudizio,  poteva  inferire  al  reo  le 
stesse  mutilazioni  che  ne  aveva  ricevuto  (6).  Ma  negli  altri  casi  di 
furto  non  manifesto  (7),  di  lesioni  più  leggere  o  d'altri  danni  inferti 
deliberatamente  od  esercitando  una  violenza  fisica  {iniuria)  (8), 


(1)  Plut.  Rom.  22:  t'òiov  (nelle  leggi  di  Romolo)  tò  |Lir)^fMÌ«v  òiKr|v  Y.o.ià  rra- 
rpoKTÓvujv  ópiaavxa,  TtQaav  àvbpoqpoviav  TTarpoKTOviav  irpcaenteW  (falsa  etimo- 
logia di  paricidiìiin).  E  noto  che  posteriormente  l'uccisore  del  padre  si  puniva, 
more  maiorum,  gittandolo  nel  fiume  cucito  in  un  sacco  con  una  vipera,  un 
gallo  ed  una  scimmia.  Cfr.  Mommsen  Strafrecht  922.  La  menzione  del  gallo  e 
della  scimmia  però  induce  a  non  attribuire  a  quest'uso  in  Roma  ne  soverchia 
antichità  ne  origine  indigena. 

(2)  Cic.  t02).  17,  64:  aries...  subiicitur...  si  telimi  manu  fugit  ma()is  quam  iecit. 

(3)  Macrob.  I  4,  19:  si  nox  furtum  faxsit  (codd.  factum  sit)  si  im  occisit  iure 
caesus  esto. 

(4)  Cic.  prò  Tullio  21,  50:  furem...  luce  occidi  vetant  XII  tabulae...  nisi  se  telo 
defendit. 

(5)  Gell.  n.  A.  XI  18,  8  :  ex  ceteris  autem  manifcstis  furibus  liberos  verbe- 
rari  addicique  iusserunt  et  cui  factum  furtum  esset...  servos  item  furti  manifesti 
prehensos  verberibus  affici. 

(6)  Fest.  p.  363  :  si  membrum  rupit  (cod.  rapii,  v.  l'ed.  di  Thewrewk  de  Ponor 
p.  550)  ni  cum  eo  pacit  talio  esto.  Membrum  ruptum  è  la  mutilazione,  l'aspor- 
tazione violenta  di  un  membro.  Così  si  spiega  il  trattamento  diverso  del- 
Vos  fractum,  la  rottura  o  contusione  di  un  osso.  V.  su  ciò  la  eccellente  memoria 
di  P.  Huvelin  La  notion  de  l'iniuria  dans  le  très-ancien  droit  Romain  in  '  Mé- 
langes  Appleton  '  p.  369  segg. 

(7)  Gai.  inst.  HI  190:  nec  manifesti  furti  poena  ex  lege  XII  tabular um  dupli 
inrogatur. 

(8)  Pel  concetto  deWinitiria  v,  Huvelin  1.  e.  Sulle  pene  àeWiniuria  semplice 
V.  Gell.  n.  A.  XX  1,  12:  si  iniuria  (così  è  da  l'estituii'e  coi  codd.  secondo 
Huvelin)  [alteri]  faxsit  viginti  quinque  poenae  sunto.  Cfr.  Plin.  n.  h.  XVII  7.  Gai. 
Ili  223  :  propter  os  vero  fractum  aut    conlisum    trecentorum  assium^  poena   erat 


DIETTTO   PENALE  81 


l'accordo  era  obbligatorio,  le  condizioni  di  esso  ben  determinate 
dalla  legge  e  la  procedura  prescritta  la  stessa  delle  cause  civili  ; 
onde  ad  esempio  il  ladi'o  non  colto  sul  fatto  non  era  tenuto  che  a 
risarcire  in  doppio  il  valore  dell'oggetto  rubato  e  chi  recideva  un 
albero  altrui  a  pagare  venticinque  libbre  di  rame  (1). 

Non  può  negarsi  che  in  varie  di  queste  disxDosizioni  e  in  parti- 
colare nella  disparità  fuor  d'ogni  proporzione  fra  il  trattamento  cui 
si  sottopone  il  ladro  colto  sul  fatto  e  il  ladro  che  non  si  è  potuto 
sorprendere  si  dimostri  una  grande  rozzezza  del  sentimento  etico; 
ma  si  manifesta  anche  in  modo,  per  un  popolo  in  condizioni  pri- 
mitive, sorprendente  il  conscio,  fermissimo  x3roposito  dello  Stato 
di  mantenere  l'ordine  e  ad  ogni  costo  con  severità  massima  di  re- 
pressione impedire  qualsiasi  turbamento  della  pubblica  pace.  Di 
che,  come  di  tante  altre  singolarità  della  storia  e  delle  istituzioni 
romane,  va  recata  la  cagione  alla  perenne  disperata  lotta  per  l'esi- 
stenza che  i  Romani  sostennero  e  che  insegnò  loro  la  necessità  del- 
l'ordine e  della  discii^lina  inducendoli  ad  imitare  nella  vita  civile  i 
provvedimenti  pronti  e  severi  della  vita  militare. 

Per  ciò  che  riguarda  i  tribunali  scende  dal  già  detto  che  ]ìon 
si  distingue  in  Roma  un  foro  civile  ed  un  foro  penale;  ma  piut- 
tosto uno  privato  ed  uno  pubblico  (2).  L'una  e  l'altra  giurisdizione 
era  stata  esercitata  dal  re,  in  parte  in  concorrenza  coi  comizi,  nei 
limiti  in  cui  dm'ante  l'età  regia  l'aveva  assunta  lo  Stato.  Assiso 
sul  sedile  del  suo  cocchio  (onde  alla  sedia  di  parata  dei  magistrati 
maggiori  il  nome  di  sedia  curale)  il  re  rendeva  giustizia  nel 
Foro,  forse  all'ombra  di  quel  fico  ruminale  che,  secondo  la  leggenda, 
aveva  protetto  dai  raggi  del  sole  la  cuna  dei  fondatori  di  Roma. 
Poi  la  giurisdizione  criminale  pubblica  passò  ai  duoviri  della  ^jer- 
duellione  ed   ai  questori   del  parricidio  che  l'esercitarono    j)resie- 


si  libero  os  fractum  erat;  at  si  servo  CL.  Sebbene  questa  disposizione  venga 
attribuita  anche  da  altri  alle  dodi<;i  tavole,  non  è  da  negare  che  è  alquanto 
imbarazzante  il  testo  di  Cato  fr.  81  Peter  ap.  Priscian  VI  p.  254:  si  qiiis 
membrum  ruint  aut  os  fregit  tallone  proximus  cognatus  ulciscitur. 

(1)  Pi>iv.  1.  e:  cautum  est  XII tabulis  ut  qui  iniuria  cecidisset  alienas  (arbores) 
lueret  in  singulas  aeris  XXV. 

(2)  Questa  distinzione  è  messa  assai  bene  in  chiaro  da  Dionisio,  che  l'attri- 
buisce al  buon  re  Servio  Tullio,  IV  25,  2:  bieXubv  òtto  tùjv  ìbuuTiKùv  xà  òr||uóaia, 
TiDv  |uèv  €l<;  Tò  Koivòv  qpepóvTuuv  <ìbiKr|,udTUJv  aÙTÒ<;  ètroietTO  xàq  òia^vdjaeK;,  tOliv 
b'  lòiujTiKuJv  lòidurac;  ^raEcv  elvai  hwaaxà-c,.  Come  lavoro  sintetico  è  da  citare 
P.  F.  Girard  Histoire  de  Vorganisation  judiciaire  des  Romains  I  (Paris  1903). 

G.  De  Sanctis,  Storia  dei  Romani,  II.  6 


82  CAPO   XIV  -  LE   LEGGENDE    SUI   DECEMVIRI,    ECC. 

dendo  i  comizi  (v.  I  pag.  418)  (1).  Agii  altri  magistrati  non  rimase 
in  città  elle  il  mettere  a  dovere  {in  ordinem  redìgere)  chi  si  mo- 
strasse riottoso  ai  loro  comandi  mediante  la  coercizione  entro 
limiti  che  vennero  stabiliti  sempre  più  restrittivamente  dalla 
legge  (2).  Fecero  eccezione  i  nuovi  magistrati  plebei,  i  quali  ten- 
tarono dapprima,  appoggiati  dalla  plebe,  d'assumere  una  illimitata 
potestà  coercitiva  a  tutela  della  loro  classe  (v.  sopra  pag.  27),  ma, 
almeno  dopo  il  rigoroso  divieto  delle  dodici  tavole,  di  fatto  nei 
casi  più  gravi  si  limitarono  a  traduiTe  gli  accusati  innanzi  ai 
comizi. 

Frattanto  la  giurisdizione  privata  regia  passò,  accresciuta  assai 
di  àmbito,  al  pretore,  che  fu  poi  detto  ui'bano,  il  quale  ebbe  ad  oc- 
cuparsi tanto  della  giurisdizione  contenziosa  quanto  di  quella  vo- 
lontaria, ossia  di  quella,  in  cui,  sotto  la  forma  d'un  processo,  si 
compiva  un  atto  legale  convenuto  fra  le  parti  (adozione,  emanci- 
pazione, manumissione).  Della  giurisdizione  volontaria  peraltro  si 
occuparono  anche  i  due  colleghi  superiori  in  grado  del  x^i'etore,  i 
consoli  (v.  I  pag;  414).  E  quanto  alla  giurisdizione  contenziosa 
solo  nel  caso  in  cui  si  trattasse  di  rendere  esecutiva  una  sentenza 
con  l'arresto  {manus  iniectio)  o  in  cui  una  delle  i3arti  tacesse  o 
confessasse  essere  giusta  la  richiesta  dell'altra  {in  iu?'e  cessio)  la 
procedura  si  chiudeva  con  la  sentenza  del  pretore;  altrimenti  il 
pretore,  precisato  il  punto  di  diritto  su  cui  verteva  la  questione, 
rimandava  le  parti  innanzi  a  un  giudice  (3),  che  pronunciava,  dopo 
aver  prestato  gim-amento,  la  sentenza.  Toccava  al  vincente  di  farla 
eseguii'e  ;  nel  che  lo  Stato  non  gli  forniva  se  non  l'aiuto  negativo 
di  dargli,  purché  osservasse  certe  norme,  facoltà  di  procedere  al- 
l'esecuzione sia  mettendo  le  mani  addosso  al  soccombente,  sia  im- 
padronendosi di  qualche  oggetto  di  sua  proprietà  come  pegno. 

Vertesse  il  i^rocesso  sopra  un  contratto  o  sopra  un  delitto,  il 
giudice  di  regola  era  uno;  e  l'albo  entro  cui  il  pretore  doveva 
sceglierlo  era,  in  età  storica  e  probabilmente  fin  da  tempo  assai 
remoto,  l'albo  dei  senatori  (4).  Simile  scelta  dei  gim-ati  non  era  tale 


(1)  Gli  ultimi  son  ricordati  appunto  nelle  dodici  tavole  :  Pompon,  diff.  1  2, 
2,  23. 

(2)  Sulla  coercizione  dei  magistrati  vedi  1  p.  415  n.  1. 

(3)  Era  questa  la  procedura  detta  in  iudicio  per  distinguerla  dalla  antece- 
dente in  iure.  Cfr.  I  p.  349. 

(4)  PoLYB.  VI  17  :  ìk  Tf]c,  ouykXhtou  ÓTroòiòovTai  Kpixaì  tuùv  TtXeiOTUJV  koì 
TUJv  òr||uoaiujv  Kai  tujv  ìòiujtikujv  auvaXXayiLioiTUJv,  òaa  jnéYeGoq  ^x^i  tujv  èyKXr)- 
ladxujv. 


PENE 


da  rassicurar  troppo  i  plebei,  soprattutto  finché  senatori  potevano 
essere  i  soli  patrizi.  E  ]3erciò  in  alcune  delle  cause  più  gravi,  quelle 
che  si  riferivano  alla  libertà  della  persona,  la  plebe  imj)ose  in  via 
rivoluzionaria  allo  Stato  (v.  sopra  ijag.  40)  i  giudici  decemviri  a 
cui  il  pretore  doveva  commetterne  il  giudizio  (1).  Fu  questo  uno  dei 
pochi  casi  in  cui  il  diritto  romano  piii  antico  ammise  nelle  cause 
l^rivate  un  verdetto  emanato  a  pluralità  di  voti.  Alquanto  diverso 
era  il  caso  degli  arbitri  dati  dal  pretore  dietro  un'  azione  per  ri- 
chiesta di  arbitri  che  potevano  in  certi  casi  esser  tre,  probabil- 
mente nominati  uno  da  ciascmia  delle  parti  e  il  terzo  dal  magi- 
strato (2).  E  finalmente  i  giudici  erano  più  pure  nelle  i)iccole  corti 
arbitrali  di  ricuperatori  che  si  costituivano  a  soddisfare  i  reclami 
di  stranieri  quando  sussistevano  relazioni  di  amicizia  con  gK  Stati 
di  cui  essi  erano  cittadini  (3). 

Due  pene  usa  soprattutto  l' antichissimo  diritto  criminale  ro- 
mano, la  morte  e  la  multa:  altre  non  sono  che  eccezionali.  La 
condanna  a  morte  si  eseguisce  con  la  scure,  con  la  croce  o  con  la 
forca,  col  fuoco,  con  l'annegamento,  col  precipitare  dalla  ruxDe 
Tarpea,  col  seppellir  vivo  (4);  ed  è  spesso  preceduta  dalla  flagel- 
lazione del  condannato  e  inasprita  ad  arbitrio  per  gli  schiavi  con 
pene-  accessorie.  Multa  si  chiama  propriamente  la  i^ena  pecuniaria 
imposta  a  profitto  dello  Stato  e  pena  (dal  greco  ttoivìi)  o  più  anti- 
camente danno  {damnum  da  dare)  l'ammenda  o  il  risarcimento 
offerto  alla  parte  lesa  (5).  Non  s'infliggono  mutilazioni  che  come 
taglione  {folio  da  talis)^  ossia  risarcimento  di  mutilazioni  simili  e 
a  cm^a  non  dello  Stato,  ma  della  vittima  (v.  sopra  pag.  80).  In 
schiavitù  è  ridotto  il  colpevole  non  in  forza  di  giudizio,  ma  in  al- 


(1)  Che  i  centumviri  siano  assai  più  recenti  non  dovrebbe  ormai  esser  posto 
in  dubbio,  v.  Wlassak  Rom.  Processgesetze  I  (Leipzig  1888)  131  segg. 

(2)  Fest.  p.  376  s.  V.  vindiciae.  Cfr.  Cic.  de  leg.  I  21,  25. 

(3)  Fest.  p.  274  s.  v.  recìpeì-atio:  reciperatio  est,  ut  ait  Gallus  Aelius,  cum 
inter  populum  (scil.  Romanum)  et  reges  nationesque  et  civitates  peregrinas  lex 
convenit  quomodo  per  reciperatores  reddanttir  res  reciperenturque  resque  pri- 
vatas  inter  se  persequantur. 

(4)  L'ultima  maniera  d'esecuzione  è  serbata  alle  vestali;  l'annegamento,  che 
si  usa  solo  nel  caso  di  cui  a  p.  80  n.  1,  è  posteriore  probabilmente  alle  dodici 
tavole.  V.  del  resto  Mommsen  Strafrecht  p.  911  segg. 

(5)  L'uno  e  l'altro  termine  è  adoperato  nelle  dodici  tavole  :  per  questo  v. 
Fest.  p.  876  s.  v.  vindiciae,  per  quello  sopra  p.  80  n.  8.  Cfr.  Mommsen  Strafrecht 
p.  13. 


84:  CAPO   XTY  -  LE    LEGGENDE    SUI   DECEMVIRI,    ECC. 

cuni  casi  più  gravi  di  coercizione  che  il  magistrato  esercita  contro 
i  renitenti  alla  leva  od  al  censo  in  virtù  del  suo  imperio  ;  e  in  nn 
caso  solo  il  reo  è  ceduto  come  scliiavo  dal  tribunale  alla  parte  lesa, 
quando  si  tratta  di  ladro  colto  sul  fatto  (v.  sopra  pag.  80);  ])iù 
sovente  può  esser  consegnato,  a  soddisfazione  d'un  danno  clic 
ha  recato,  da  chi  lo  detiene  come  figlio  o  come  schiavo  sotto  la 
sua  potestà  [noxae  deditio).  La  consegna  al  creditore  (addicfio) 
di  chi  per  una  obbligazione  procedente  da  contratto  o  da  delitto 
gli  è  debitore,  in  caso  di  insolvibilità,  non  è  una  pena,  ma  piut- 
tosto una  procedura  esecutiva,  e  soddisfacendo  al  suo  debito  il  con- 
segnato {addictus)  X3UÒ  sempre  ricuperare  la  libertà.  La  flagellazione 
è  pur  essa  un  mezzo  coercitivo  frequentissimo  in  campo,  ma  di 
cui  anche  in  città  fino  al  II  sec.  il  magistrato  può,  in  dati  casi, 
valersi  ad  arbitrio  a  tenore  delle  dodici  tavole  e  d'altre  leggi  (1); 
non  sembra  però  sia  stata  mai  nelle  condanne  giudiziarie  se  non 
una  consueta  aggravante  della  pena  capitale  (2).  L'esilio,  ossia,  se- 
condo il  senso  letterale  della  parola,  lo  sbalzo  oltre  i  confini,  non  è 
una  pena,  ma  il  mezzo  per  sottrarvisi  ;  la  carcere  non  è  neppur  essa 
una  i)ena,  ma  serve  o  per  assicm-are  il  reo  alla  giustizia  o  come 
mezzo  di  coercizione  al  magistrato.  Nel  tutt' insieme  il  diritto  cri- 
minale romano  è,  nelle  pene  che  applica  e  nella  frequenza  con  cui 
le  applica,  poco  mite  ;  ma  la  sua  severità  differisce  profondamente 
dalla  raffinata  e  sapiente  crudeltà  degli  Orientali.  In  un  punto 
esso  merita  poi  lode  speciale  che,  se  non  ha  al  tutto  abolito  i  tor- 
menti come  accessori  della  condanna  a  morte,  pur  contenendoli  in 
generale  entrò  limiti  abbastanza  moderati,  li  ha  esclusi  affatto  per 
gli  uomini  liberi  come  mezzo  di  prova  (3).  E  da  credere  che  l'abo- 
lizione dei  tormenti  nella  istruttoria,  fuori  che  per  gli  schiavi,  non 
essendo  mai  riferita  a  nessuna  legge  comiziale,  debba  ascriversi  ai 
decemwi.  Ma  probabilmente  questo  provA-edimento  umanitario, 
onde  Appio  Claudio  può  riguardarsi  come  un  predecessore  del  Bec- 
caria, si  deve'  all'esempio  del  iDopolo  greco  e  in  particolare  dell'ate- 
niese i^resso  cui  era  in  rapporto  con  la  mitezza  maggiore  delle 
pene,  col  carattere  stesso  più  dolce  e  meno  rigido  del  popolo  e  col 
più  elevato  livello  della  sua  coltura  (-1). 


(1)  Così  il  fanciullo  reo  delfurto  di  cui  sotto  a  p.  85  n.  1  veniva  flagellato 
con  verghe  arbitrio  praetoris,  Plin.  n.  h.  XVIII  12. 

(2)  Con  la  sola  eccezione  notata  sotto  a  p.  86. 

(3)  V.  in  particolare  Mommsen  Strafrecht  p.  405. 

(4)  Purtroppo  ci  è  ignoto    anche   il    precursore  ateniese  del  Beccaria.   Sap- 


SACERTÀ  85 


Del  primitivo  significato  sacro  ed  esx3Ìatorio  die  aveva  in  ge- 
nerale la  condanna  a  morte  per  conto  dello  Stato  (v.  I  p.  288) 
non  era  perduta  nelle  dodici  tavole  ogni  traccia.  Ad  esempio  vi  è 
prescritto  clie  chi  taglia  di  notte  le  messi  altrui  debba  essere  so- 
speso alla  forca  come  vittima  a  Cerere  (1).  In  questo  come  in  altri 
casi  in  cui  la  legge  scritta  ó  la  consuetudine  consideravano  il  col- 
pevole come  sacro  alla  divinità,  esso  veniva  condannato  a  morte 
dopo  un  regolare  processo.  Invece  in  moltissimi  altri  casi  in  cui 
era  comminata  la  sacrazione,  o  per  non  esservi  uno  che  avesse 
l'interesse  o  la  possibilità  di  intentare  l'accusa  o  perchè  riuscisse 
impossibile  di  rintracciare  il  colpevole,  il  processo  non  aveva 
luogo  ;  cosi  x3el  marito  che  vende  la  moglie ,  pel  figlio  che  batte 
il  padre,  per  la  nuora  che  maltratta  la  suocera,  iDcl  patrono  che 
manca  al  suo  dovere  verso  il  cliente  (2).  Allora  non  è  i3unto  a  cre- 
dere che  il  consacrato  fosse  fuori  della  legge  e  che  a  chiunque  fosse 
lecito  sostituirsi  alla  giustizia  divina.  Grli  dèi  fanno  da  sé  le  proprie 
vendette  ;  e  lo  Stato  si  limita  a  mettere  in  sulF  avviso  ciascuno 
perchè  non  cada  in  quelle  colpe  e  a  scindere  la  propria  resj)onsa- 
bilità  da  quella  di  chi  vi  è  incorso  ;  e  se  gli  dèi  manifestano  V  ira 
loro  contro  tutta  la  città,  i  cittadini  hanno  sempre  modo  di  i^la- 
carli  sostituendo  all'ignoto  colpevole  vittime  espiatorie  che,  quando 
son  più  terribili  le  manifestazioni  dell'ira  divina,  possono  anche 
essere  vittime  umane  (v.  I  pag.  287).  In  mezzo  tra  codeste  due  ca- 
tegorie di  leggi  sacrate  stanno  quelle  che  s'è  data  la  plebe,  con 
cui  protegge  la  inviolabilità  dei  iJropri  tribuni  e  delle  proprie  as- 
semblee (v.  sopra  pag.  23).  Con  queste  la  plebe  ha  inteso  di  gua- 
rentirsi la  facoltà  ]}m  ampia  di  difesa.  Qui  pubblica  può  essere 
l'offesa,  e  può  richiedersi  immediata  la  repressione;  e  la  consacra- 
zione non  implica  in  nessun  modo  che  il  colpevole  sia  un  empio. 


piamo  soltanto  che  il  sottoporre  ai  tormenti  i  cittadini  era  vietato  dall'  ètri 
ZKOiaavòpiou  vpriqpiaiua  (Andoc.  de  myst.  43).  L'arconte  Scamandrio  è  certo  ante- 
riore al  481/0  e  posteriore  alla  cacciata  d'Ippia;  onde  l'abolizione  della  tor- 
tura deve  in  ogni  caso  collegarsi  con  le  riforme  democratiche  iniziate  da 
distene.  Non  voglio  punto  asserire  del  resto  che  i  decemviri  avessero  cono- 
scenza diretta  della  legge  ateniese,  ma  poteva  benissimo  questa  essersi  in- 
trodotta intorno  alla  metà  del  sec.  V  a  Cuma  od  a  Napoli. 

(1)  Plin.  n.  h.  XVIII  12  (I  p.  288  n.  2). 

(2)  Plut.  Rom.  22  :  àTTobó)uevov  y^vaìKa  GueaGai  xQovioic;  0€oi<;.  Pel  figlio  e  la 
nuora  v,  Fest.  p.  230  s.  v.  plorare  (I  p.  301  n.  1).  Pel  patrono  v..  I  p.  228  n.  1. 


86  CAPO   XIV  -  LE    LEGGENDE    SUI   DECEMVIKI,    ECC. 


bensì  è  semplicemente  una  formula  per  metterlo  fuori  della  legge. 
Ma  le  assemblee  della  plebe  e  il  tribunato  e  le  leggi  sacrate  non 
sussistono  agii  occhi  dei  compilatori  delle  dodici  tavole;  per  essi 
non  v'iia  che  il  regolare  giudizio  dei  maggiori  comizi,  e  senza  giu- 
dizio non  si  danno  esecuzioni  capitali.  Se  non  che  concili  della 
plebe  e  tribuni  e  leggi  sacrate  risorsero  con  la  caduta  del  de- 
cem-virato  ;  ma  tutto  ciò  che  con  quelle  leggi  si  collega  fu  sempre 
tenuto  non  per  legittimo,  si  bene  per  rivoluzionario;  e  del  resto 
e  la  pacificazione  tra  le  classi  e  l'ossequio  alle  disposizioni  stesse 
delle  dodici  tavole  ammansò  a  poco  a  poco  le  magistrature  plebee 
e  trasformò  la  difesa  rivoluzionaria  della  plebe  nei  regolari  giu- 
dizi comiziali  presieduti  dai  tribuni  e  dagli  edili  (1). 

Ma  non  nelle  formule  sulla  sacertà  del  reo  è  il  vestigio  mag- 
giore dell'  intervento  della  religione  nel  diritto  penale,  si  nella 
giuiisdizione  che  il  pontefice  massimo  ha  sui  sacerdoti  da  lui  di- 
pendenti. Questa  peraltro  non  eccede  in  generale  la  facoltà  di 
imporre  multe  concessa  agii  altri  magistrati  o,  in  casi  di  multe 
più  gravi,  di  dirigere  il  processo  che  per  l'appello  del  reo  si  fa  in- 
nanzi ai  comizi.  Sulle  vergini  vestali  per  cui  il  pontefice  sostituisce 
in  certa  mism^a  la  patria  potestà,  che  si  spegne  nell'atto  della  loro 
consecrazione ,  la  sua  giuiisdizione ,  simile  a  quella  del  padre  sui 
figli,  s'estende  fino  alla  flagellazione  nel  caso  che  lascino  spegnere 
il  fuoco  sacro  o  alla  condanna  a  morte  in  caso  d'incesto.  Ma  non 
soltanto  la  vestale,  si  anche  il  suo  seduttore  risponde  del  suo  reato 
innanzi  al  tribmiale  del  pontefice  massimo,  che  lo  condanna,  senza 
che  gli  sia  lecito  d'appellarsi  al  popolo,  ad  essere  flagellato  a  morte 
nel  Foro  (2)  ;  solo  caso  in  cui  la  tradizione  sacra  ha  trionfato  della 
civile  guarentia  sancita  per  le  condanne  capitali  dai  decemviri. 


(1)  Come  si  vede,  io  credo  che  sia  impossibile  interpretare  in  uno  stesso 
senso  i  casi  variissirai  di  sacertà  ricordati  dalla  tradizione.  E  così  è  anche 
da  spiegare  la  contraddizione  degli  antichi  giuristi  nel  definirla,  cfr.  Fest. 
p.  318  s.  V.  sacer  mons:  homo  sacer  is  est,  qiiem  populus  iudicavit  ab  malefìdum, 
neqtie  fas  est  eum  immolari,  sed  qui  occidit  parricidi  non  damnatnr  ;  e  più  sopra  : 
sacratae  leges  sunt  qiiibus  sanctum  est  qui  quid  adversus  eas  fecerit  sacer  alicui 
deorum  {sit)  sicut  familia  peciiniaque.  sunt  qui  esse  dicant  sacratas  quas  plebes  tu- 
rata in  monte  Sacro  sciverit.  Del  resto  v.  Mommsen  Strafrecht  p.  552  seg.  900  segg. 
Maschke  Zur  Theorie  der  rum.  Agrargesetze  p.  19  segg. 

(2)  Fest.  p.  241  :  probrum  virginia  Vestalis  ut  capite  puniretur,  vir  qui  eam 
incestavisset  verberibus  necaretur:  lex  fixa  in  atrio  Libertatis.  Altri  testi  presso 
MoM.MSEN  Strafrecht  p.  919  n.  1. 


ELEMENTI   GRECI   NELLE    DODICI   TAVOLE  87 

Col  diritto  sacro  si  collegano  anche  i  soli  casi  di  grazia  che 
siano  ammessi  dalla  implacabile  severità  romana  ignara  delle  greche 
amnistie.  Il  reo,  se  si  rifugia  in  catene  nella  casa  del  flamine  diale, 
dev'esser  liberato  da'  suoi  vincoli,  e  questi  si  gettano  fuori  della 
casa  dal  tetto  (1);  se  gli  abbraccia  le  ginocchia,  non  può  in  quel 
giorno  essere  percosso  con  le  verghe  (2)  ;  e  finalmente  il  condan- 
nato a  morte  che  s'incontra  casualmente  in  una  vergine  vestale  ha 
salva  la  vita  (3).  ì^eì  che  del  resto  non  son  da  vedere  privilegi  del 
sacerdozio,  ma  soltanto,  almeno  in  origine,  provvedimenti  diretti 
ad  evitare  al  flamine  e  alla  vestale  imiDurità  rituali. 

Questo  breve  esame  del  diritto  civile  e  del  diritto  penale  nelle 
dodici  tavole  dimostra  che  in  massima  esse  contengono  "  fermati  ,, 
i  costumi  romani  tradizionali.  Soltanto  apijunto  fermandoli,  ossia 
sottraendoli  all'arbitrio  dei  magistrati  e  dei  sacerdoti,  determinan- 
doli nei  casi  controversi,  precisandoli,  sceverandoli  dalle  tradizioni 
che  cadevano  in  disuso  perchè  incompatibili  con  la  civiltcà  progre- 
dita, esse  hanno  posto  il  fondamento  al  maraviglioso  sviluppo  del 
diritto  romano  ;  né  son  rimaste  senza  conseguenze  gravissime  le 
riforme  che,  sia  pur  timidamente,  v'hanno  introdotto  i  decemviri, 
ora  con  allargare  il  significato  d'una  formula,  ora  con  applicare 
per  analogia  ad  un  dato  ordine  di  cose  principi  sorti  per  un  altro 
ordine,  ora  finalmente  con  ispirarsi  qua  e  là  ai  codici  greci. 

Perocché  non  solo  son  d'origine  greca  alcune  istituzioni  già  an- 
teriori alle  dodici  tavole  e  da  esse  regolate,  come  il  testamento  ; 
non  solo  dai  Grreci  appresero  gl'Italici  come  la  scrittura  cosi'  anche 
lo  stesso  uso  di  raccogliere  in  mi  corpo  scritto  le  norme  giuridiche; 
ma  anche  qua  e  là  i  decemviri  si  attennero  assai  dawicino  al- 
Fesempio  dei  codici  greci,  come  nelle  leggi  intese  a  frenare  il  lusso 
sregolato  dei  funerali,  e  in  certe  norme  sui  confini  dei  camici  e 
sui  diritti  dei  collegi  privati.  Da  questi  e  simili  puliti  di  contatto 
con  legislazioni  greche  ebbe  origine  la  favola  dell'ambasceria 
romana  ad  Atene.  E  s'intende  del  resto  come  gii  antichi  storici 
e  gimisti  si  dessero  premm-a  di  i)aragonare  le  dodici  tavole  col 
più  famoso  codice  greco,  quello  di  Solone;  ma  é  al  tutto  in  ve- 
risimile che  direttamente  dal  codice  di  Solone  attingessero  quelle 
leggi  d'origine  greca  i  decemviri.  Infatti  leggi  simili  si  trovavano. 


(1)  Gell.  n.  A.  X  15,  8.  Skrv.  Aen.  II  57. 

(2)  Gell.  X  15,  10.  Serv.  Aen.  Ili  607. 

(3)  Plut.  Num.  10. 


CAPO   XIY  -  LE    LECtGEXDE    SUI   DECEMVIRI,   ECC. 


e  in  parte  ne  abbiamo  prova  sicura,  nei  codici  arcaici  di  non  poche 
altre  città  greche;  ed  è  impossibile,  ne  importa  al  caso  nostro,  ri- 
cercare quanto  Solone  avesse  attinto  alle  leggi  d'altre  città  più 
progredite  di  quel  che  non  fosse  sul  principio  del  sec.  VI  Atene, 
quanto  invece  nel  maggior  fiore  della  potenza  ateniese  città  vicine 
e  lontane  ne  ricopiassero  nei  loro  codici  le  leggi.  E  quindi  verisi- 
mile che  al  codice  di  qualche  colonia  greca  d'Occidente,  forse  a 
quello  di  Cuma,  risalgano  direttamente  o  indirettamente  quelle 
leggi  delle  dodici  tavole  di  cui  gli  antichi  avvertirono  l'apparente 
identità  con  certe  leggi  di  Solone.  Queste  infiltrazioni  elleniche  son 
del  resto  d'assai  poco  conto.  Il  tutt' insieme  delle  tavole  è  schiet- 
tamente nazionale  ;  e  persino  la  più  importante  istituzione  che  i 
Romani  abbiano  attinto  ai  Grreci,  il  testamento,  è  giunta  ai  decem- 
viri elaborata  in  modo  affatto  originale  dall'uso  romano. 

Se  poi,  lasciando  i  raffronti  greci,  iDaragoniamo  le  dodici  tavole 
con  la  più  vetusta  legge  a  noi  pervenuta,  quella  promulgata  di- 
ciotto secoli  prima  dal  re  babilonese  Hammurabi,  ci  sorprende  non 
qualche  analogia  concernente  in  ispecie  l'autorità  del  cai30  di  fa- 
miglia, la  pena  del  taglione,  il  procedimento  contro  il  furto,  ana- 
logia che  non  obbliga  davvero  ad  ammettere  alcuna  effettiva 
parentela  tra  le  due  legislazioni  (1);  ma  la  immensa  superiorità 
apparente  della  più  antica  e  il  grado  d'incivilmento  più  avanzato 
che  presuppone.  Il  codice  di  Hammurabi  mira  non  meno  risoluta- 
mente delle  dodici  tavole  ad  assicm^are  ai  sudditi  ordine  e  pace; 
di  che  è  affidata  la  cm-a,  sotto  l'assoluta  x3otestà  del  re,  a  molte- 
plici ufficiali  con  fmizioni  amministrative  e  giudiziarie.  Degli  or- 
dinamenti familiari  il  diritto  babilonese  si  occupa  largamente  de- 
terminando con  maggior  precisione  che  non  facessero  le  dodici 
tavole  le  relazioni  patrimoniali  tra  i  coniugi  e  non  trascurando  di 
stabilire  le  conseguenze  giuridiche  del  divorzio.  Ma  il  progresso 
civile  dei  Babilonesi  si  palesa  soiDrattutto  nella  cura  con  cui  prov- 
vede la  loro  legge  ad  ogni  maniera  di  obbligazioni  provenienti  da 
delitto  o  da  contratto  e  nello  sviluppo  stesso  che  hanno  avuto 
presso  quel  popolo,  con  l'aiuttf  della  scrittura,  i  contratti  più  sva- 
riati pel  loro  oggetto. ■  Peraltro,  rozze  com'erano,  le  dodici  tavole 
in  un  punto  superavano  d'assai  il  raffinato  codice  d"Hammm"abi:  in 


(1)  Di  ciò  giudica  rettamente,  fra  altri,  E.  Besta  nella  sua  eccellente  me- 
moria su  Le  leggi  di  Hammurabi  e  l'antico  (Jiritto  babilonese  in  '  Riv.  ital.  di  So- 
ciologia '  VIH  (1904)  p.  179  segg.,  particolarmente  a  p.  235  seg. 


I   DECEMVIRI   ED    HAMMURABI  89 

quanto  esse,  con  lievi  eccezioni  poco  dopo  abolite,  sancivano  l'egua- 
glianza di  tutti  gli  uomini  liberi  davanti  alle  leggi  civili  e  cerca- 
vano nella  legge  promulgata  nell'interesse  del  popolo  e  convalidata 
dal  suo  voto  il  fondamento  della  vita  dello  Stato;  laddove  pre- 
supposto del  codice  babilonese  è  che  sussista  un  potere  superiore 
alla  legge  stessa,  quello  del  re,  di  cui  tutti  in  certa  guisa  son  servi 
e  che  fa  leggi  non  per  delegazione  del  popolo,  ma,  sia  pure  nel- 
l'interesse dei  sudditi,  di  pro^jria  autorità  o  per  diretta  ispirazione 
divina.  In  questa  differenza  è  la  ragione  per  cui,  mentre  la  legis- 
lazione progredita  d'Hammurabi  perì  con  la  civiltà  babilonese,  il 
codice  delle  dodici  tavole  potè  essere  il  primo  germe,  onde  si  svolse 
per  una  lunghissima  evoluzione,  nella  quale  ebbe  larga  parte  l'effi- 
cacia di  quelle  leggi  e  di  quelle  dottrine  elleniche  ch'erano  ispirate 
agli  stessi  principi,  il  diritto  vigente  presso  tutti  i  popoli  civili. 


CAPO  XV. 


La  triplice  alleanza  fra  Romani,  Latini  ed  Ernici. 


Durante  l'età  regia  Roma  non  solo  aveva  incorporato  buon 
numero  di  comuni  latini  nel  suo  territorio,  ma,  cercando  di  sotto- 
porre il  Lazio  alla'  sua  supremazia,  pareva  si  preparasse  a  ridurlo 
in  uno  Stato  solo.  Senoncliè,  verso  la  fine  del  sec.  VI,  questa  evo- 
luzione s'arrestò  d'improvviso.  La  fusione  piena  dei  Latini  in  un 
solo  Stato  fu  ritardata  non  di  pochi  anni,  ma  di  più  che  quattro 
secoli;  e  se  la  causa  di  ciò  fu  la  rivalità  delle  maggiori  città  la- 
tine, che  dovevano  sentir  poco  desiderio  di  piegarsi  al  primato 
romano,  rinunziando  alle  proprie  tradizioni  d'antica  e  gloriosa 
autonomia,  e  anche  meno  di  lasciarsi  assorbire  dai  Romani  in  un 
solo  Stato,  l'occasione  fu  offerta  o  dai  torbidi  civili  che  forse  ac- 
compagnarono in  Roma  il  declinare  della  monarchia  o  dalla  rea- 
zione nazionale  del  Lazio  contro  gli  Etrusclii  che  erano  riusciti 
persino  a  dominare  qualche  tem^jo  in  Roma  (v.  e.  XII). 

Allora  si  costituì  tra  i  Latini  una  lega  da  cui  Roma  era  esclusa 
e  che  aveva  anzi  lo  scopo  evidente  di  sottrarre  il  Lazio  alla  ege- 
monia romana;  non  più  unione  essenzialmente  religiosa,  che  per 
abuso  si  sfruttasse  talora  a  scopo  politico,  ma  alleanza  essenzial- 
mente politica,  in  cui  avevano  importanza  secondaria  le  immanca- 
bili ceremonie  religiose.  Capo  supi-emo  della  lega  era  un  dittatóre 
che  comandava  le  forze  federali  e  offriva  i  sacrifizi  pel  buon  esito 
delle  imprese  comuni,  probabilmente  non  con  autorità  di  magistrato 
stabile,  ma  come  un  generalissimo  che  si  nominava  secondo  che  se 


LA   NUOVA    LEGA    LATINA  91 


ne  presentasse  T  occasione  e  al  cui  sommo  potere  dovevano  sotto- 
porsi pienamente,  per  ciò  che  si  riferiva  alla  leva  ed  al  comando 
in  guerra,  i  magistrati  ordinari  delle  singole  città  (v.  I  p.  422  seg.). 
La  nuova  lega  aveva  anche  le  sue  assemblee  federali,  che  si  riu- 
nivano alla  fonte  dell'acqua  Ferentina  nel  territorio  di  Aricia  a 
occidente  del  lago  di  Nemi  (1).  Come  queste  assemblee  fossero  co- 
stituite ignoriamo;  ma  non  v'è  dubbio  che  ciascuno  dei  confede- 
rati poteva  farvisi  rappresentare  ed  aveva  pari  diritto  di  voto  (2), 
Un  caso  fortuito  ci  ha  conservato  la  lista  genuina  dei  popoli 
alleati  (3).  Si  è  da  alcuni  revocata  in  dubbio  l'autenticità  del 
documento  in  cui  è  contenuta  quella  lista,  perchè  in  esso  è  il 
nome  del  dittatore  Egerio,  che  vuoisi  un  personaggio  mitico  aftine 
alla  ninfa  Egeria.  Ma  la  irrealtà  di  Egerio  è  una  supposizione 
gratuita  per  cui  non  fornisce  argomento  sufficiente  la  somiglianza 
col  nome  d'Egeria.  Il  documento  poi  è  riferito  da  uno  scrittore 
serio  e  fededegno  che  l'ha  trascritto,  com'è  da  credere,  nello  stesso 
sacrario  nemorense,  sia  pm^e  traducendolo  in  parte  nel  latino  dei 


(1)  Si  soleva  cercare  dal  Cluverio  in  poi  la  fonte  dell'acqua  Ferentina  presso 
Marino  ;  ma  è  evidente  che  non  si  trovava  in  territorio  romano.  Non  può  del 
resto  neppure  collocarsi  col  Beloch  It.  Btind  187  n.  2  nei  dintorni  del  san- 
tuario nemorense,  perchè  era  sulla  via  da  Eoma  al  paese  dei  Volsci  (Liv.  II 
38.  DioNYS.  Vili  4),  dunque  a  un  dipresso  sull'Appia.  La  indicazione  topogra- 
fica di  CiNcio  ap.  Fest.  p.  241  (sub  monte  Albano)  non  ha  che  un  valóre  ap- 
prossimativo. 

(2)  Secondo  Dionts.  V  50  era  Y^YPaM^évov  èv  xaii;  auvGriKan;  (di  Servio  Tullio?) 
ÓTTCtaat;  irapeivai  ràc;  TróXeic;  raxc,  Koivaìc;  dfopaìt;  òaai  toO  Aarivuuv  eìaì  yévouc;, 
TTapaYYei^<ivTUJv  aÙTaìt;  tujv  irpoéòpujv.  Però  nella  riunione  qui  da  lui  menzio- 
nata, i  Romani,  illegalmente  secondo  Dionisio,  non  vengono  invitati.  È  lecito 
supporre  che  all'acqua  Ferentina  abbiano  avuto  luogo  annualmente  le  riunioni 
federali  della  nuova  lega  di  cui  Roma  non  faceva  parte,  e  che  quindi  non  vi 
sia  spettato  ai  Romani  diritto  di  voto.  La  nostra  tradizione  ricorda  assemblee 
dei  Latini  colà  fin  dall'età  regia  (Liv.  I  50  segg.  Dionts.  Ili  34.  51.  IV  45); 
ma  forse  si  tratta  di  anticipazioni  dirette  ad  ilhistrare  il  preteso  predominio 
romano  in  quelle  assemblee,  cfr.  Cincio  1.  e. 

(3)  Cato  fr.  58  Peter  ap.  Priscian.  IV  p.  129  H  (cfr.  VII  p.  337  H)  :  Caio 
Censoriua...  ibidem  (in  11  originum)  :  lucum  Dianium  in  nemore  Aricino  Eyerius 
Laevius  Tuscidanus  dedicavit  dictator  Latinus,  hi  populi  comtnimiter:  Tuscidanus, 
Ariciniis,  Lanitvinits,  Laiirens,  Coranns,  Tihurtin,  Pometinus,  A?'deatis  Rnfnlus.lia 
realtà  storica  di  Egerio  fu  messa  in  dubbio  dietro  il  Cluverio  //.  antiqua  II 
p.  931  dal  Pais  I  1,  291.  La  migliore  illustrazione  del  documento  è  data  dal 
Beloch  It.  Bund.  p.  179  segg.  e  Die  Weihinschrift  des  Dianahaines  von  Aricia 
nei  '  Jahrbb.  f.  Phil.  '  CXXVII  (1883)  p,  169  segg. 


92  CAPO    XV  -  ALLEANZA   FRA   ROMANI,    LATINI   ED   ERNICI 

suoi  tempi.  Del  resto  ragioni  esterne  fanno  ritenere  clie  la  lista 
sia  integra  (1)  ;  né  vi  contraddice  la  critica  interna,  perchè  la  man- 
canza di  molti  comuni  minori  conferma  che  intorno  al  500  il  Lazio 
aveva  politicamente  un  assetto  molto  diverso  che  non  due  secoli 
prima,  e  quella  d'alcuni  maggiori  si  spiega,  come  A^edi^emo,  senza 
soverchia  difficoltà. 

I  popoli  che  facevano  parte  della  lega  erano  pertanto  i  Tuscu- 
lani,  gli  Aricini,  i  Lanuvini,  i  Laui'entini,  i  Corani,  i  Tibuilini,  i 
Pometini  e  gli  Ai'deati;  cosicché  il  territorio  federale  doveva  avBre 
allora  una  estensione  di  ch'ca  1500  km^  (2).  Non  vi  aveva  fatto 
adesione  Preneste,  la  quale  sembra  essersi  destreggiata,  non- 
ostante la  sua  nazionalità  latina,  tra  Latini  ed  Equi  fin  dopo  Fin- 
vasione  gallica  (3);  non  vi  era  Fidene,  alleata  dei  Veienti,  non 
Nomento,  che  forse  alla  propria  sicui^ezza  aveva  provveduto  unen- 
dosi per  qualche  tem^jo  con  le  contigue  tribù  sabine,  non  Pedo 
che  segui  l'esempio  della  vicina  Preneste  e  forse  si  strinse  in  lega 
con  essa,  non  Labici,  sia  che  fosse  alleata  con  Preneste,  sia  che 
fosse  caduta  fin  d'allora  iielle  mani  degli  Equi.  E  del  j)ari  non 
son  menzionate  Grabì  che,  minacciata  da  tre  potenti  vicine,  Roma, 
Tivoli  e  Preneste,  aveva  creduto  prudente  concludere  a  buoni  patti 
un  accordo  con  Roma  cui  rimase  sempre  fedele  (I  pag.  389),  La- 
vinio,  che  senza  dubbio  faceva  parte  allora  del  comune  lam'entino 
(I  p.  182),  e  da  ultimo  Velletri.  Ora  che  il  territorio  velliterno 
fosse  compreso  nella  federazione  par  certo,  poiché  ne  facevano 
parte  Cora  e  Pomezia;  ma  le  fonti  non  ascrivono  origine  latina 
a  Velletri,  e  quindi  va  ritenuto  che,  almeno  in  qualità  di  comune 
autonomo,  Velletri  sia  d'origine  volsca  e  posteriore  alla  distruzione 
di  Pomezia  (4). 


(1)  Prisciano  cita  ambedue  le  volte  il  passo  per  illustrare  il  nominativo 
Ardeatis.  Ora  a  tal  uopo  era  più  che  sufficiente  cominciare  con  populi  com- 
muniter  e  terminare  con  Ardeatis,  come  appunto  Prisciano  fece  la  seconda 
volta.  Ciò  vuol  dire  che  la  prima  volle  riferire  l'arcaico  documento  integral- 
mente. L'identità  delle  citazioni  mostra  del  resto  che  nessun  nome  è  caduto 
nei  manoscritti  di  Prisciano  fra  Tnsculanus  e  Ardeatis. 

(2)  Cioè  Tusculo  km^  100  ;  Aricia  e  Lanuvio  65  ;  Laurento  e  Ardea  400  ; 
Cora  65;  Velletri  135;  Tivoli  400  (?)  ;  Pomezia  400.  Totale  1565.  Il  computo 
è  fondato  in  generale  sui  dati  raccolti  dal  Beloch  neWIt.  Bund. 

(3)  Probabilmente  una  induzione  ricavata  dal  nostro  documento  o  da  un 
documento  affine  è  la  notizia  data  da  Liv.  II  19  (a.  499):  Praeneste  ah  Latinis 
ad  Romanos  descivit. 

(4)  Peraltro  è  possibile  che  nel  sito  di  Velletri    sia    esistito    l'antichissimo 


LA   NUOVA    LEGA   LATINA  93 

In  ordine  alla  cronologia,  è  fuor  di  dubbio  che  questa  lista 
dei  collegati  latini  spetta  al  500  av.  C.  circa.  Vi  comparisce  infatti 
Pomezia,  la  cui  caduta  è  ricordata  ripetutamente  dalla  tradizione 
alla  fine  del  VI  secolo  o  al  principio  del  V  (v.  oltre),  mentre  non 
vi  son  registrate  le  colonie  dedotte  dal  principio  del  sec.  V  in  poi, 
a  cominciare  da  Signia  (495)  e  da  Norba  (492).  Ora  se  la  precisione 
delle  date  die  gli  annalisti  assegnano  alla  distruzione  di  Pomezia 
o  alla  fondazione  di  Signia  e  di  Norba  è  discutibile,  l'argomento 
ch.e  si  desume  da  tutte  insieme  non  può  essere  disconosciuto  da  una 
critica  temperata. 

La  nuova  lega  latina  provvide  subito  a  darsi  un  santuario  fe- 
derale. Non  pm-e  il  sacrario  di  Diana  aventinense,  ma  anclie  quello 
di  Giove  Laziale,  trovandosi  in  territorio  romano,  era  disadatto 
a  divenirne  il  centro  religioso.  È  del  resto  a  notare  che  l'antica 
federazione  sacra  albana  non  fu  punto  abolita  con  la  costituzione 
della  nuova  lega  latina,  ma  soltanto  tornò  ad  essere,  come  era 
prima,  una  pm-a  e  semplice  unione  religiosa.  Presso  il  lago  di 
Nemi  la  venerazione  di  Diana,  sebbene  nessun  tempio  sorgesse 
nel  sacro  bosco,  era  probabilmente  antichissima,  come  mostrano 
gli  usi  barbarici  che  si  collegano  col  sacerdòzio  del  re  nemorense 
(I  p.  218  e  273).  Ora  il  dittatore  latino  Egerio  Levio  vi  fondò  a 
nome  dei  collegati  un'ara  federale  che  si  contrapponeva  all'ara  di 
Diana  aventinense,  di  cui  i  re  di  Roma  avevano  tentato  invano  di 
fare  il  centro  religioso  del  Lazio  (1).  Non  è  diffìcile  che  contem- 
poraneamente sia  stato  riconosciuto  come  federale  il  santuario  di 
Diana  nel  Tusculano  (2)  e  quello  di  Venere  tra  Lavinio  ed  Ardea  (3). 


centro  latino  dei  Velienses  (I  p.  379  n.  1  nr.  29)  privato  in  proceder  di  tempo 
della  originai-ia  autonomia.  Per  la  origine  dei  Velliterni  v.  Cass.  Dio  XLV  1  : 
r\yj  \xi-\i  è2  OùeXiTpuJv  xùiv  OùoXaKiòuuv. 

(1)  In  questa  condizione  di  cose  non  deve  stupire  che  i  i-itrovamenti  dell'area 
di  Diana  non  siano  in  massima  anteriori  al  V  secolo,  per  quanto  paia  indu- 
bitato che  il  culto  di  Diana  debba  essere  molto  più  antico.  Il  Incus  dedicato 
da  Egerio  sembra  fosse  una  radura,  in  cui  naturalmente  s'innalzò  un  altare. 
Alla  medesima  dedica  par  riferirsi  Fest.  p.  145:  Maniiis  Eger[ius  ìucum] 
Nemorensem  Dianae  consecravit.  A  età  posteriore  risale  il  piano  dell'ampio  re- 
cinto, e  anche  più  tarda  è  la  costruzione  del  tempio,  v.  Morpurgo  'Mon.  ant.  ' 
XIII  p.  361  segg. 

(2)  Plin.  n.  h.  XVI  242:  est  in  suburhano  Tusculani  (ujri  colle  qui  Come  ap- 
pellatur  lucus  antiqua  religione  Dianae  sacratus  a  Latio. 

(3)  Su  cui  V.  sopra  I  p.  200  e  p.  203  n.  3. 


94  CAPO   XY  -  ALLEANZA   FRA   ROMANI,    LATINI   ED   ERNICI 

Quando  Roma  ed  il  Lazio  foi'ono  liberi  dal  pericolo  etrusco 
era  inevitabile  che  Roma  rinnovasse  il  suo  tentativo  d'assumere 
Fegemonia  dei  Latini.  Questa  volta  però  non  si  trovava  a  fronte 
i  singoli  popoli  latini,  ma  una  lega  compatta.  Alla  guerra  che  segui, 
la  tradizione  riferiva  la  grande  battaglia  del  lago  Regillo,  proba- 
bilmente il  cratere  ora  asciutto  detto  Pantano  Secco  a  nord  di  Fra- 
scati (1),  riportandola  con  lieve  disparere  al  499  o  al  496  av.  C.  (2). 
I  precedenti  della  battaglia  son  raccontati  variamente;  ma  sempre 
la  sollevazione  dei  Latini  contro  Roma  di  cui  essa  fu  l'episodio 
culminante  si  attribuiva  all'opera  di  Ottavio  Mamilio  Tusculano, 
genero  di  Tarquinio  il  Superbo,  presso  cui  si  sarebbe  rifugiato  il 
suocero  dopo  fallito  il  tentativo  di  tornare  in  patria  con  le  anni 
di  Porsenna;  ed  a  Tarquinio  ed  ai  figli  si  fa  nella  battaglia  una 
parte  notevole.  Ora  poiché  s'erano  sviluppate  rigogliosamente  le 
leggende  intorno  alla  cacciata  dei  Tarquini  e  a'  loro  tentativi  per 
ritornare  con  aiuti  stranieri,  era  naturale  che  venisse  attratta  in 
quel  ciclo  anche  la  tradizione  della  battaglia  del  Regillo  che  rife- 
rivasi  appunto  agii  anni  del  declinare  della  monarchia;  ma  non 
v'ha  dubbio  che  questi  sono  elementi  estranei  alla  tradizione  pri- 
mitiva. Del  resto  il  racconto  tradizionale  della  battaglia  è  ricco 
di  combattimenti  singolari  e  d'altri  episodi  poetici.  Cosi  alla  testa 
della  cavalleria  romana  sarebbero  comparsi  due  giovani  montati 
su  bianchi  cavalli  che  poi  non  fu  possibile  ritrovare  quando  il  dit- 


(1)  Il  lago  era  nell'agro  tusculano,  Liv.  II  19.  Sulla  posizione  v.  Nibby  Ana- 
lisi III  ^  p.  9.  AsHBv  '  Rend.  dei  Lincei  '  ci.  di  scienze  mor.  etc,  ser.  V  voi.  VII 
(1898)  p.  103  seg. 

(2)  Al  499  la  riferisce  Livio  accennando  che  altri  la  riportavano  al  496. 
Sotto  r  ultima  data  la  descrive  Dionisio.  Comandanti  romani  son  secondo  la 
tradizione  A.  Postumio  dittatore  e  T.  Ebuzio  maestro  dei  cavalieri.  Fasti  dit- 
tatoriali per  questa  età  non  esistevano,  e  così  la  battaglia  fu  riportata  al  499 
perchè  i  fasti  registravano  in  quell'anno  un  console  T.  Ebuzio  o  al  496  perchè 
registravano  un  console  A.  Postumio.  Si  vede  da  ciò  che  l'una  data  non  è 
meno  arbitraria  dell'altra;  ma  nel  vero  è  la  tradizione  collocando  la  battaglia 
tra  il  declinare  della  monarchia  e  la  conclusione  del  foedns  Cassianuin.  —  11 
15  luglio  era  tenuto  come  l'anniversario  della  battaglia  semplicemente  perchè 
in  quel  giorno  aveva  luogo,  almeno  dal  304  in  poi,  una  grande  parata  di  ca- 
valieri [transvectio  equitum)  preceduta  da  solenni  sacrifizi  in  onore  dei  Dioscuri 
(testi  presso  Mommse.v  Staatsrecht  III  493  n.  1).  Non  sembra  che  la  solennità 
sia  stata  istituita  di  pianta  da  Q.  Fabio  Massimo,  ma  non  è  chiaro  in  che 
consistessero  le  sue  innovazioni  e  che  cosa  preesistesse,  cfr.  Diosvs.  VI  13. 


BATTAGLIA    DEL    REGILLO  95 

tatore  ne  fece  ricerca  per  conferire  loro  i  premi.  Invece  termi- 
nata appena  la  battaglia,  prima  che  avesse  fine  l'inseguimento, 
furono  visti  coi  cavalli  madidi  di  sudore  accanto  alla  fonte  di 
Griuturna  presso  il  Foro  Romano  dove  diedero  notizia  della  vit- 
toria (1);  e  un  tale  Domizio  avendo  mostrato  di  non  prestarvi  fede, 
gli  toccarono  con  la  mano  la  barba  che  di  nera  si  cangiò  in  rossa, 
onde  Domizio  fu  soprannominato  Aenobarbo  (barba  di  rame)  e 
trasmise  questo  cognome  ai  suoi  discendenti  (2).  Ora  è  chiaro  che 
il  racconto  della  apparizione  dei  Dioscuri  alla  battaglia  del  Regillo 
dipende  da  quello  della  loro  apparizione  alla  battaglia  della  Sagra 
(I  p.  28).  Anche  qui  secondo  la  leggenda  greca  combatterono  pei 
Locresi  due  giovani  montati  su  cavalli  bianclii,  e  nello  stesso 
giorno  ad  Olimpia,  celebrandosi  i  giuochi,  si  diffuse  la  notizia 
della  vittoria  locrese  (3).  Ma  il  mito  greco  non  pervenne  certo  a 
Roma  in  età  tarda  per  mezzo  della  storiografia  greca,  si  indipen- 
dentemente dalla  letteratm-a  si  diffuse  in  Italia  assai  prima,  in- 
sieme col  culto  dei  Dioscuri  (4);  è  infatti  evidente  che  il  racconto 
tradizionale  della  battaglia  del  lago  Regillo  risale  nel  tutto  in- 
sieme ai  carmi  epici  popolari.  Ma  ])\ir  prescindendo  dagli  elementi 
senza  dubbio  mitici,  anche  gli  altri  x^articolari  sulla  battaglia  al 
lago  Regillo  meritano  poca  fede.  Forse  il  comando  dei  Romani 
in  quella  battaglia  si  attribuì  ad  un  Postumio  solo  perchè  nella 
sua  famiglia  era  usato  il  soprannome  di  Regillense  che  a  torto 
si  reputò  corrispondente  ai  cognomi  trionfali  venuti  in  uso,  più 
tardi.  Forse  d'Ottavio  Mamilio  si  fece  il  comandante  dei  Latini 
in  questa  battaglia  avvenuta  nell'agro  Tusculano  solo  perchè  i 
Mamili  erano  una  delle  genti  principali  di  quella  città  (5).  Ma  non 


(1)  DiONYS.  VI  13.  Plut.  Coriol.  3.  Cic.  de  nat.  deor.  II  2,  6.  Ili  5,  11.  Auct. 
de  tir.  ili.  16,  3  etc. 

(2)  Plut.  Aemil.  25.  Suet.  Nero  1  narra  il  fatto,  di  cui  tacciono  a  proposito 
della  battaglia  del  Regillo  Livio,  Dionisio  e  Cicerone,  un  po'  diversamente  e 
par  riferirlo  all'età  delle  guerre  sannitiche  (Muenzer  in  P.  W.  '  Real-Encyclo- 
pildie  '  V  1313).  Ma  non  è  dubbio  che  il  racconto  originario  si  collegava  con 
l'unica  epifania  dei  Dioscuri  conosciuta  dalla  leggenda  romana,  quella  al  Re- 
gillo. Esso  del  resto  è  recente;  e  fu  inventato  a  maggior  gloria  dei  Domizi 
Euobarbi  quando  divennero  una  delle  famiglie  pivi  ragguardevoli  della  nobiltà 
plebea,  nel  II  o  piìi  verisimilmente  nel  I  see.  av.  Cr. 

(3)  V.,  oltre  i  testi  citati  I  p.  338  n.  2,  Cic.  de  nat.  deor.  II  2,  6.  Ili  5,  13. 
SuiD.  s.  V.  àXtiGéOTepa  tujv  è-rrl  Zdypot. 

(4)  Per  qualche  analogia  v.  al  e.  XXIV. 

(5)  1  Mamili  secondo  Liv.  Ili  29,  6  (cfr.  Cato  fr.  25  Peter  ap.  Priscian.  VI 


96  CAPO   XV  -  ALLEANZA    FKA   ROMANI,    LATINI   ED    ERNICI 

v'è  ragione  per  mettere  in  dubbio  che  presso  il  lago  Eegillo  si  sia 
combattuta,  tra  Romani  e  Latini,  una  grande  battaglia;  e  come 
quella  battaglia  non  si  riferisce  alle  posteriori  guerre  coi  Latini 
del  sec.  IV  su  cui  abbiamo  notizie  abbastanza  copiose  e  fededegne, 
è  da  ritenersi,  con  la  tradizione,  anteriore  al  trattato  concluso  da 
Cassio;  non  di  molto  però,  perchè  solo  quando  declinò  in  Roma 
la  monarchia  potè  il  Lazio  costituirsi  in  lega  politica  escludente 
Roma  (1). 

La  tradizione  che  discorre  tanto  largamente,  attingendo  ai 
carmi  epici  popolari,  della  battaglia  al  Regillo,  tace  sui  fatti  che 
indussero  i  belligeranti  a  por  termine  alla  lotta  con  un  trattato 
di  pace  e  di  alleanza  (2);  segno  evidente  che  di  questo  trattato 
non  aveva  notizia  per  mezzo  di  quei  carmi,  ma  i^er  mezzo  d'un 
documento:  cioè  il  testo  dell'accordo  che  si  conservava  inciso  in 
una  colonna  di  bronzo  sul  Foro  fino  all'età  di  Siila,  come  riferisce 
un  testimonio  oculare  (3).  Di  questo  trattato,  che  recava  il  nome 
del   console  Cassio,  gli  articoli  più  notevoli  erano  redatti   a  un 


p.  227  H)  avrebbero  avuto  la  cittadinanza  romana  fin  dal  458.    Al    consolato 
però  non  pervennero  in  Roma  che  nel  265. 

(1)  Secondo  il  Pais  I  2,  345  n.  '  il  lago  Regillo  posto  fra  Tuscolo  e  Roma 
fu  considerato  come  il  luogo  in  cui  erano  stati  sconfitti  i  Latini  perchè  ivi 
si  solevano  dal  tempo  più  antico  radunare  i  contingenti  degli  alleati,  Liv.  Ili 
20  '.  Così  ad  una  tradizione  molto  antica,  come  dimostra  l'ampia  elaborazione 
poetica  da  essa  avuta,  il  Pais  preferisce  un  particolare  affatto  secondario,  dato 
in  un  racconto  di  cui  son  sospetti  tutti  i  particolari,  e  ch'egli  stesso  del  resto 
fraintende  perchè  al  lago  Regillo  debbono  radunarsi  secondo  il  passo  liviano, 
d'ordine  dei  consoli,  nel  460,  non  i  Latini,  ma  i  Romani.  Come  si  potesse 
esser  conservato  ricordo  di  questo  particolare  non  si  vede;  si  vede  invece 
molto  bene  come  avrebbe  potuto  inventarlo  un  annalista  poco  scrupoloso  me- 
more della  battaglia  del  Regillo,  tanto  piii  che  quel  ricordo  poteva  essergli 
suggerito  dal  nome  del  Tuscolano  Mamilio  di  cui  Livio  racconta  appunto  in 
quell'anno  la  parte  che  ebbe  alla  liberazione  del  Campidoglio  occupato  dagli 
esuli  sotto  Appio  Erdonio. 

(2)  Liv.  11.33,  4:  per  secessionem  plebis  Sp.  Cassius  et  Postumus  Cominius  con- 
sulatiim  inierunt:  his  consuUbus  ctim  Latinis  poptilis  ictum  foedtis.  Dionts.  VI  95: 
èYévovTO  ò'èv  Tuj  aÙTLp  xpóvo)  Kal  Tipòc;  tò^  tujv  Aati'vujv  tróXeic;  ÓTrctcrat;  auv9f)- 
Ko»  KOival  |ue9'6pKUjv  ùirèp  eìptivr|<;  Kal  cpiXiac;. 

(3)  Cic.  prò  Balbo  23,  53:  cuni  Latinis  omnibus  foedus  esse  ictiun  Sp.  Cassio 
Postumo  Cominio  consuUbus  quis  ignorat?  quod  quidem  nuper  in  columna  ahenea 
meminimus  post  rostra  incisum  et  perscriptum  fuisse.  La  colonna  fu  rimossa  pro- 
babilmente quando  Siila  prese  a  ricostruire  la  Curia. 


TRATTATO    DI    CASSIO  97 


dipresso  nei  seguenti  termini:  "  Sia  pace  tra  i  Romani  e  le  città 
<loi  Latini  fincliè  la  i^osizione  del  cielo  e  della  terra  rimanga  la 
stessa  e  né  essi  faccian  guerra  tra  loro,  né  di  fuori  conducano 
nemici,  né  a  chi  muova  guerra  (all'  uno  dei  contraenti)  offrano 
sicm'tà  di  via;  ma  al  soccorso  di  quelli  die  siano  assaliti  vengano 
invece  con  tutte  le  forze,  e  del  bottino  e  della  preda  fatta  nelle 
guerre  comuni  toccliino  egual  parte  gii  uni  e  gii  altri.  I  giudizi 
intorno  ai  contratti  privati  si  facciano  entro  dieci  giorni  (dalla 
({uerela)  in  quella  città  dove  sia  stato  concluso  il  contratto.  A 
questo  trattato  non  xjossa  nulla  aggiungersi  né  togliersi  se  non  di 
comune  accordo  tra  i  Romani  e  tutti  i  Latini  „. 

Della  data,  delF autenticità,  del  significato  di  questo  frammento 
del  trattato,  clie  ci  é  stato  trasmesso  da  uno  scrittore  greco  (1),  si 
é  senza  fine  discusso.  Ma  il  testo  del  trattato  si  conservava  fino 
neiretà  sillana,  e  sappiamo  che  v'era  il  nome  del  console  Cassio  (2). 
Non  é  quindi  da  dubitare  ragionevolmente  che  il  frammento  con- 
servatoci sia  ricopiato  appunto  dal  trattato  inciso  nel  Foro  col 
nome  di  Cassio.  E  però,  stabilita  la  sostanziale  autenticità  dei 
fasti,  può  esservi  solo  questione  se  debba  riferirsi  al  primo,  al  se- 
condo o  al  terzo  consolato  di  Sp.  Cassio  Vecellino  (502,  493,  486), 
l'unico  Cassio  registrato  nei  fasti  prima  dei  Cassi  plebei  che  vi 
compaiono  dal  181;  ma  é  questione  di  poco  momento,  trattandosi 
d'una  età  in  cui  a  precise  determinazioni  cronologiche  conviene 
in  ogni  caso  rinunciare;  e  del  resto  par  probabile  che  nel  docu- 
mento fosse  menzionata  la  iterazione  del  consolato  e  che  appunto 
cosi  debba  spiegarsi  come  l'annalistica  lo  abbia  riferito  concorde- 
.  mente  al  493.  Si  é  detto  che  il  documento  conservato  nel  Foro 
conteneva  il  trattato  coi  Latini  che  ebbe  vigore  dal  338  alla  guerra 
sociale  ;  ma  questo,  anclie  prescindendo  dalla  menzione  del  console 
Cassio,  é  un  gravissimo  errore;  xDoiché  ognun  sa  che  dal  338  in 
poi  una  lega  latina  con  cui  Roma  potesse  avere  un  trattato  d'al- 
leanza non  v'era,  e  men  che  mai  nel  II  sec,  av.  C.  (3)  ;  riportare 


(1)  DioNYs.  1.  e.  Non  è  certo  che  a  questo  documeato  si  riferisca  Fest.  p.  166  : 
iteni  in  foedere  Latino:  ^  pecuniam  quis  nancitor  habeto  '  et  '  si  quid  pignons 
nanciscitur  sibi  habeto  '. 

(2)  Liv.  II  33,  9:  nisi  foedus  cum  Latinis  {in)  colunma  aenea  insculptum  mo- 
numento esset  ab  Sp.  Cassio  uno  quia  collega  afuerat  ictum,  Postumum  Cominium 
bfllum  gessisse  cum  Volscis  memoria  cessisset. 

(3)  E  veramente  singolare  l'asserzione  del  Pais  essere  evidente  '  che  il  do- 
cumento che  era  ancor  visibile  nei  primi  anni  della  carriera  forense  (li  Cice- 

G.  De  Sanctis,  Storia  dei  Roniani,  II.  7 


96  CAPO   XV  -  ALLEANZA   FRA   ROMANI,   LATINI   ED   ERNICI 

poi  questa  leg'a  con  piena  parità  di  diiitti  {foedus  (lequiiin)  alla 
metà  circa  del  sec.  FV,  j)i'ima  della  guerra  latina,  può  solo  chi  non 
riferisca  a  quella  età,  come  indubitatamente  si  deve,  il  primo  trat- 
tato romano-cartaginese,  il  quale  mostra  Roma  nell'atto  d'esercitare 
una  indiscussa  supremazia  nel  Lazio  (v.  e.  XV ili)  (1).  Del  resto 
la  ragione  addotta-  contro  ranticliità  del  trattato  cassiano,  clie  cioè 
è  ben  lungi  dall'essere  vero  clie  i  Latini  abbiano  riconosciuto  fin 
dal  principio  del  sec.  V  la  supremazia  romana,  è  la  j)iù  bella  con- 
ferma della  sua  autenticità,  giacché  nel  testo  di  esso  non  è  il  più 
piccolo  accenno  a  questa  supremazia.  E  la  divisione  per  metà  della 
preda  di  guerra  si  spiega  assai  bene  al  princiijio  del  sec.  V,  quando 
le  forze  messe  in  campo  da  Roma  e  dalla  lega  a  un  dipresso  si 
bilanciavano,  non  più  alla  metà  del  sec.  IV,  quando  la  potenzii 
di  Roma  era  di  gran  lunga  superiore,  come  mostra  anche  l'esito 
della  guerra  combattuta  poco  dopo  coi  Latini  e  i  Campani  collegati. 
Si  aggiunga  che  la  divisione  per  metà  della  preda  ci  riporta  a  un 
tempo  anteriore  alla  lega  contro  gli  Ernici.  che  obbligò  a  dividere 
la  preda  in  tre  parti  eguali  (2),  lega  la  cui  prima  conclusione  non 
può  in  alcun  modo  collocarsi,  come  vedremo,  alla  metà  del  sec.  lY. 


rone  ed  al  tempo  di  Siila  conteneva  quel  trattato  che  ebbe  vigore  sino  a 
quella  legge  lulia  che  ai  soci  Latini  accordò  la  piena  cittadinanza  romana  ' 
(I  2  p.  325).  Ciò  perchè  '  è  assurdo  pensare  che  ivi  (sul  Foro)  fosse  esposto 
un  trattato  che  secondo  la  versione  comune  non  avrebbe  avuto  piìi  valore 
dopo  la  battaglia  di  Suessa  e  di  Astura  '.  Come  se  sull'acropoli  ateniese  non 
si  fossero  conservati  nell'età  imperiale  trattati  che  non  avevano  piìi  valore 
da  mezzo  millennio.  Per  la  possibilità  della  conservazione  di  documenti  ante- 
riori all'incendio  gallico,  v.  sopra  I  p.  5.  S'intende  bene  che  se  anelici  Galli 
avessero  distrutta  la  colonna,  i  Romani  si  sarebbero  dati  cura  di  rinnovarla 
per  mezzo  delle  òopie  conservate  nelle  città  latine  i-imaste  fedeli.  Che  se  poi 
il  Pais  pensa  che  il  magistrato  con  cui  il  trattato  si  collega  invece  di  essere 
il  console  del  principio  del  sec.  V  debba  essere  piuttosto  un  tribuno  della 
plebe  vissuto  in  tempi  assai  posteriori,  è  da  osservare  che  per  eliminare  le 
pretese  difficoltà  della  tradizione  il  critico  ne  crea  gratuitamente  di  piìi  gravi 
assai:  che  cosa  mai  può  aver  avuto  a  fare  col  foedus  latino  un  tribuno  della 
plebe  ?  —  Sulla  personalità  storica  del  console  Cassio,  v.  sopra  p.  12. 

(1)  In  questo  errore  cade  il  Bfloch  Gr.  Geschichte  111  1,  180,  troppo  ligio  qui 
all'autorità  del  Pais.  Della  questione  aveva  giudicato  assai  piìi  rettamente  ncl- 
Vltal.  Band.  È  però  singolare  che  discorrendo  due  volte  con  diversissime  ve- 
dute cronologiche  sul  foedus  Cassianum  lo  abbia  ambedue  le  volte  ritenuto 
contemporaneo  col  primo  trattato  romano-cartaginese,  il  che  è  inammissibile. 

(2)  Plin.  n.  )i.  XXXIV  20,  da    interpretarsi    per    mezzo    di  Dionys.  Vili  69. 


TRATTATO   DI   CASSIO  99 


La  nostra  tradizione  dà  sempre  per  comandanti  degli  eserciti 
collegati  i  magistrati  romani,  i  quali  avrebbero  anzi  richiesto  nor- 
malmente ai  Latini  anno  per  anno  i  contingenti  cui  erano  tenuti 
in  virtù  del  trattato  (1),  e  ritiene  che  la  deduzione  di  colonie  nei 
territori  conquistati  avvenisse  per  deliberazione  del  popolo  romano 
e  che  i  collegati  Latini  ed  Ernici  fossero  liberamente  invitati  dai 
Romani  a  prendervi  parte  (2).  In  realtà  il  testo  del  trattato  non 
si  concilia  affatto  con  questa  pretesa  egemonia  dei  Romani.  E  si 
noti  che  le  guerre  degli  Equi  e  dei  Volsci  che  occupano  quasi 
intero  il  sec.  V  erano  dirette  non  tanto  contro  il  territorio  ro- 
mano quanto  contro  quello  della  lega,  onde  i  Romani  dovevano 
inviare  i  loro  contingenti  al  soccorso  della  lega  latina  più  che  la 
lega  latina  non  dovesse  inviarne  al  soccorso  di  Roma.  E  inoltre 
evidente  che  la  fondazione  di  colonie  le  quali  entravano  a  far 
parte  della  lega  latina  doveva  essere  deliberata  di  comune  consenso 
tra  Romani  e  Latini,  che  potevano  parteciparvi  con  parità  di  di- 
ritti. Il  trattato  cassiano  non  s'accorda  col  concetto  esagerato  della 
potenza  romana  nel  V  secolo  che  domina  nella  tradizione  (3),  ma 
è  invece  in  piena  armonia  con  una  notizia  isolata,  pervenutaci 
non  senza  qualche  errore  nei  particolari,  secondo  cui  le  truppe 
federali  dovevano  solo  qualche  anno  (verisimilmente  un  anno  si  e 
un  anno  no)  esser  guidate  da  comandanti  romani;  ed  anche  in 
questo  caso  non  dagli  ordinari  magistrati,  ma  da  un  duce  nominato 
in  via  straordinaria  (4),  il  quale,  com'è  chiaro,  aveva  l'autorità  di 


71.  77:  "EpviKa<i  jf\c,  t€  Kai  Xeiaq  r\v  av  èk  iravTÒt;  KTriouuvTai ^xaEe Xoju- 

Pàveiv  rpirriv  |U€piòa. 

(1)  Cfr.  p.  es.  Liv.  VI  10,  6  (ad  a.  386)  :  ab  Latinis  Heniicisque  ...  quaesitum 
cur  per  eos  annos  militem  ex  instituto  non  dedissent. 

(2)  Un  esempio  tipico  è  in  Dionys.  IX  59  a  proposito  della  pretesa  coloniz- 
zazione di  Anzio  nel  467  av.  Cr.:  òXi^iuv  àTTOYpanjaf-iévujv  èòoEe  xrì  PouXrì  è-rreiòi'i 
oÙK  àSióxpeujc;  fjv  ó  ò.-aòajo\oc,  èTTirpéipai  Aariviuv  re  Kaì  '  EpviKuuv  toTi;  PouXofuévoie; 
if\c  dtiroiKiac;  laeréxeiv. 

i'ò)  Vedasi  p.  es.  la  contraddizione  in  cui  parlando  dei  tempi  di  Coriolano 
DioxYS.  vili  15,  nel  discorrere  del  trattato  secondo  la  tradizione  annalistica, 
si  mette  col  testo  datone  innanzi  da  lui:  i^  PouXi^  rote;  juèv  òtto  toO  koivoO 
TóJv  AoTivujv  TrapoOoi  irpeapeuTaì?  èuì  auiu^axia;  atxriaiv  àireKpivaTo  |uì^  ^óòiov 
dvai  aqpiai  Pon9eiav  àTTOOxéXXeiv  Korà  tò  trapóv  •  aÙToìi;  ò  '  èKeivoit;  èTTirpéireiv 
Tr)v  éauTUJv  orpariàv  KaiaYpàfpeiv  koI  i^Y€MÓva(;  xnq  òuvóiueujc  \h\.o\ic,  èKTr^iuTteiv  xe 
firav  aÙToì  èKiréiaHJUjai  bùvauiv  •  èv  yòp  xaiq  auvtìnKai<;  alt;  éiroiriaavro  irpòi;  aÙTOùi; 
Ttepl  cpiXiaq  ónópprixov  f^v  toótujv  éKàrepov. 

(4)  CiNcio  ap.  Fest.  p.  241  :  Albanus  rerum  jwtitos   usqite  ad   Tullnin   rcgcin  : 


100  CAPO    XV  -  ALLEANZA    FKA   ROMANI,   LATINI   ED   ERNICI 

dittatore  latino.  E  possiamo  pure  congettm-are  con  fondamento  clie 
i  comandanti  federali  celebrassero  dopo  le  loro  vittorie  un  trionfo 
affatto  indipendente  da  quello  che  si  faceva  in  Roma  dai  magi- 
strati romani  e  senza  bisogno  d'alcun  voto  del  senato.  Questa  fu 
probabilmente  l'origine  della  pompa  trionfale  sul  monte  Albano 
che  più  tardi  si  decretarono  di  proprio  arbitrio  alcuni  generali 
romani  cui  fu  negato  di  trionfare  in  città  (1). 

La  ragione  per  cui  la  lega  latina  si  strinse  novamente  in  fida 
alleanza  con  quella  Roma  contro  la  quale  appunto  s'  era  costi- 
tuita, va  cercata  negli  assalti  degli  Equi  e  dei  Volsci  contro  cui  i 
Latini  da  soli  non  riuscivano  a  sostenersi,  mentre  anche  con  l'aiuto 
dei  Romani  non  affermarono  in  modo  definitivo  la  loro  superiorità 
che  dopo  mia  lotta  disperata  di  più  che  mezzo  secolo.  E  non  si 
andrebbe  lontano  dal  vero  cercando  la  causa  occasionale  nella  di- 
struzione della  ricca  Pomezia,  che  diede  ai  Volsci  circa  quattro- 
cento chilometri  quadrati  di  territorio  latino  e  tolse  alla  lega  una 
delle  sue  città  j^iù  importanti. 

Uno  scrittore  greco  dà  una  lista  di  trenta  città  latine  che  pre- 
sero parte  alla  lega  contro  Roma  (2).  Si  credette  che  egli  avesse 


Alba  deinde  diruta  iisque  ad  P.  Deciiiin  Murem  cos.  populos  Latinos  ad  cajjut 
Ferentinue  quod  est  sub  monte  Albano  consulere  solitos  et  imperium  communi 
Consilio  administrare,  itaque  quo  anno  Romanos  imperatores  ad  exercitum  mit- 
tere  opovteret  iussu  nominis  Latini,  complures  nostros  in  Capitolio  a  sole  oriente 
auspicis  operam  dare  solitos.  ubi  aves  addixissent  militem  illuni  qui  a  communi 
Latio  missus  esset  illiim  quem  aves  addixissent  praetorem  salutare  solitum,  qui  eatn 
provinciam  optineret  praetoris  nomine.  L'errore  capitale  di  Cincio  sta  nell'aver 
cercato  in  questa  istituzione  l'origine  del  proconsolato  e  della  propretura  : 
avrebbe  dovuto  invece  cercarvi  l'origine  della  dittatura  (v.  1  p.  422  segg.). 

(1)  Il  primo  esempio  è  quello  di  C.  Papirio  all'a.  231,  v.  fasti  triumph.  ad  a. 
Val.  Max.  Ili  6,  5:  nam  Papirius  quidem  Masso  cum  bene  gesta  republica 
triumphum  a  senatu  non  impetravisset  in  Albano  monte  triumphandi  et  ipse 
itUtium  fecit.  Plin.  n.  h.  XV  126.  Cfr.  Liv.  XXXIII  23,  3:  in  monte  Albano  se 
triumphatnrum  et  iure  imperii  consularis  et  midtornm  claroruni  virorum  exemplo. 

NlKUlTER   II   42. 

«2)  DioNYs.  V  61,  3:  oi  b'  èyYpom'ainevoi  Ta!<;  ouvBiiKaic  xaOTa  npóPouXci  KaJ 
Toùt;  SpKOUi;  òjuóaavre^  dirò  toùtuuv  tujv  TróXemv  fjaav  fivòpeq  'Apòeaxwv,  'Api- 
Krivujv,  BoiXXavùJv  (o  piuttosto  BuuXavùiv  :  i  codd.  hanno  BoioXavuJv),  Bou|^ev- 
TovOJv  (cfr.  la  lista  di  Plin.  cit.  I  p.  879  n.  1  al  nr.  5),  Kópvujv  (da  correg- 
gere KopavOùv,  perchè  pare  difficile  debba  pensarsi  alla  collina  Come  presso 
Tuscolo,  su  cui  V.  sopra  p.  93  n.  2,  che  non  ebbe  mai  autonomia  comu- 
nale),   KapuevTavòiv    (verso    l'Algido    non    lontano   da    Preneste,    cfr.   Macrob- 


LA    LISTA   DELLE    CITTÀ    LATINE    DI   DIONISIO  101 

attinto  a  un  documento  ufficiale  antichissimo,  alla  lista  di  città 
annessa  al  testo  del  trattato  cassiano.  Ma  in  realtà  la  sua  lista 
comprende  troppe  colonie  posteriori  al  500  perchè  possa  riferirsi 
ad  età  cosi  remota.  Vi  compaiono  cosi  Signia,  Norba,  Circei,  Sezia, 
vi  è  inclusa  Velletri,  che  è  probabilmente  d'origine  volsca,  e  Ter- 
racina,  che  giace  troppo  a  mezzogiorno  dei  termini  cui  stendevasi 
intorno  al  500  la  potenza  romano-latina;  e  vi  è  notata  Lavinio 
accanto  a  Laurento,  mentre  fin  d'allora  probabilmente  costituivano 
un  comune  solo.  Né  poi  è  lecito  ri^Dortar  questa  lista  al  400  per 
spiegarvi  la  presenza  di  recenti  acquisti  della  lega  (1),  perchè 
allora  non  avrebbero  potuto  in  nessun  caso  comparirvi  né  Grabi, 
sempre  i3Ìù  stretta  a  Roma,  né  comuni  assorbiti  da  vicini  x3Ìùpo-. 
tenti  come  Corioli  od  i  Bubentani.  Quella  enumerazione  di  città  non 
ha  dunque  valore  di  documento,  ma  è  frutto  delle  arbitrarie  in- 
duzioni d'un  annalista,  e  dobbiamo  preferirle  la  lista  del  sacrario 
di  Diana  nel  bosco  aricino  (2). 


saturn.  Ili  18,  5  :  est  autem  natio  iiominum  iuxta  agrnm  Praenestinum  qui  Car- 
sitani  vocantur  óirò  tOùv  Kapuuuv,  dove  è  da  leggere  Caruetani),  KipKOtriTuJv, 
KopioXaviùv,  KoppivTUÙv  (da  Corbione  verso  il  confine  degli  Equi:  forse  è  da 
leggere  KopPiujviujv),  Ka^avAv  (v.  I  p.  382  n.  2),  <I)opTiv6Ìuuv  (Monte  Fortino, 
cfr.  la  lista  di  Plin.  al  ur.  11),  TaPioiv,  Aaupevxivujv,  Aavouiviuuv,  Aa^iviaTuòv, 
AaPiKCvujv,  NuuuevTavujv,  Noip^aviùv,  TTpaiveoTivuuv,  TTeòavuùv,  KopKOTOuXaviùv 
{Querquetulani,  cfr.  la  lista  di  Plin.  al  nv.  23),  laTpiKaviJùv,  ZKaTTTr|viUJv  (cfr. 
Fest.  p.  343  M:  S[captia  trihiis  a  no]mine  urbis  Scaptiae  [appellata  quani  La- 
tini] incolehant:  posizione  incerta),  ZrjTivLuv,  Ti^oupxivuuv,  TuOKXavùJv,  TpiKpivujv 
(non  si  trovò  finora  in  alcun  codice,  ma  solo  nella  edizione  dello  Stefano,  il 
quale  però  non  può  aver  inventato  di  suo  capo  un  nome  sì  strano ,  da  cor- 
reggere evidentemente  in  TappaKivuuv  o  TappaKivixujv.  Solo  introducendo  nel 
testo  questo  nome  la  lista  comprende,  come  quasi  certamente  deve,  il  nu- 
mero tradizionale  di  trenta  città  latine),  ToAppiviuv  (v.  la  lista  di  Plin.  al 
nr.  26),  TeXXriviinv  (v.  I  p.  370  n.  1),  OùeXiTpavlJùv. 

(1)  NiEBUHR  R.    G.    il   .30. 

(2)  MoMMSEN  R.  G.  l^  347  ritiene  che  il  documento  rappresenti  la  lista  di 
quei  comuni  che  furono  poi  tenuti  come  membri  ordinari  della  lega,  lista  re- 
datta allorché  circa  il  382  la  lega  si  sarebbe  chiusa  non  ammettendo  più  nel 
suo  seno  le  nuove  colonie.  Così  vi  sarebbe  Sezia  (382),  Signia  (il  cui  nome  il 
Mommsen  suppone  caduto  dopo  Sezia,  non  tenendo  conto  dei  Tricrini  di 
Stefano  :  altrove  però  si  mostra  egli  stesso  incerto  della  sua  congettura),  ma 
non  le  colonie  posteriori  comprese  Sutri  e  Nepi,  nonostante  che  la  nostra  tra- 
dizione le  riguardi  come  di  poco  anteriori  a  Sezia.  È  degno  di  nota  1', ordine 
alfabetico,  la  posizione  che  occupa  il  G  in  quest'ordine,  il  numero  di  trenta. 
Tutto  ciò  conferma  che  la  lista  è  invenzione  annalistica:  di  che  giudica  ret- 
tamente il  Beloch  Tt.  Bund  p.  177  segg. 


102  CAPO   XV  -  ALLEANZA    FRA    ROMANI,    LATINI   ED    ERNICI 


I  piccoli  popoli  latini  che  avevano  perduto  la  loro  antonomia 
menzionati  da  (inello  scrittore  greco,  se  non  facevano  parte  della 
nuova  lega  politica  laziale,  continuavano  in  buon  numero  ad  essere 
invitati  regolarmente  alla  distribuzione  della  carne  delle  vittime 
nelle  Ferie  Latine  sul  monte  Albano.  Là  la  vetusta  solennità,  che 
da  un  giorno  si  prolungò  a  poco  a  poco  ad  uno  spazio  di  quattro, 
si  continuava  a  celebrare  sotto  la  direzione  dei  magistrati  ro- 
mani (I).  I  fasti  di  quelle  ferie  a  partire  dal' decemvirato  furono 
poi  incisi  in  pietra;  ma  la  prima  parte  della  lista  conservataci  in 
istato  frammentario  non  ha  purtroppo  alcun  carattere  d'autenti- 
cità (2).  S'intende  che  col  trattato  di  Cassio  tutti  quei  diritti  reci- 
proci di  connubio,  di  commercio,  d'isopolitia,  che  si  connettevano 
con  la  lega  sacra  (v.  I  p.  388)  e  che  erano  stati  sospesi  rispetto 
alle  relazioni  tra  Koma  e  le  altre  città  dalla  lotta  romano-latina, 
furono  richiamati  in  vigore.  E  non  v'ha  dubbio  che  la  facoltà 
data  ai  Latini  d'acquistare  proprietà  fondiaria  nel  territorio  romano 
e  d'iscriversi  come  cittadini  stabilendosi  in  Eoma,  unita  alla  natu- 
rale attrazione  che  col  progredire  della  civiltà  esercitano  le  città 
grandi  sulla  popolazione  delle  piccole  città  vicine,  contribuì  lar- 
gamente al  meraviglioso  incremento  della  città  di  Roma  nei  se- 
coli successivi. 

Cosi  dunque  s'era  ricostituita,  su  altra  base,  l'unità  politica  di 
Roma  e  del  Lazio,  venuta  meno  col  declinare  della  monarchia  in 
Roma.  Essa  durò,  sottp  questa  forma,  non  quanto  il  cielo  e  la 
terra  come  si  ripromettevano  i  suoi  fondatori,  ma  tanto  da  lasciare, 
nella  storia  d'Italia  traccie  indelebili. 

Frattanto,  stretta  al  pari  dei  Latini  tra  gli  Equi  ed  i  Volsci^ 
la  tribù  montanara  degli  Ernici,  che  occupava  una  buona  parte  del 
bacino  del  Sacco,  entrò  in  lega  col  Lazio  e  con  Roma.  Gli  Ernici 
costituivano  una  lega  in  cui,  a  quanto  pare,  le  prime  parti  spetta- 
vano, in  ragione  della  maggior  potenza,  agli  Anagnini,  che  nel 
loro  territorio  riunivano  le  diete  federali  (3),  mentre  minore  im- 
portanza avevano  gli  altri  centri  di  Alatri  e  di  Veroli. 


(1)  DioNYs.  VI  95. 

(2)  I  frammenti  sono  raccolti  nel  CIL.  I-  p.  55.  Li  ha  illustrati  particolar- 
mente il  MoMMSEN  Rum.  Forschungen  II  97  segg. 

(3)  Liv.  IX  42  ci  parla  di  una  adunanza  federale  nel  circo  marittimo  di 
Anagni,  cbe  forse  era  entro  il  sacro  bosco  di  Diana  nel  Compito  anagnino  di 
cui  discorre  pur  Liv.  XXVII  4.   Qn  altro  centro  della  lega    ernica  era  proba- 


GLI   ERNICT  103 


Quale  fosse  la  stirpe  italica  cui  appartenevano  gli  Ernici  non 
|)Ossiamo  determinare  con  sicurezza  in  mancanza  d'iscrizioni  dia- 
lettali. Le  testimonianze  degli  antichi  che  li  dicono  Sabini  o  attri- 
buiscono origine  marsica  ad  Anagnia  non  hanno  troi^po  valore  (1); 
e  spiegare  con  l'affinità  di  stirpe  la  loro  fida  alleanza  coi  Latini 
contro  i  Volsci  e  gli  Equi  sarebbe  tanto  attraente  quanto  arbi- 
trario. Ad  ogni  modo  la  tradizione  fa  risalire,  certo  non  senza  an- 
ticiparle, le  loro  relazioni  con  Roma  alla  età  regia  (2),  per  poi 
datare  la  lega  a  parità  di  diiitti  dal  terzo  consolato  di  Sp.  Cassio 
(486)  (3).  Ora  è  certo  probabile  che  l'accordo  con  gli  Ernici  sia 
stato  ascritto  a  Sp.  Cassio  solo  perchè  era  una  copia  testuale  del 
trattato  concluso  appunto  da  Cassio  coi  Latini  (4).  Ma  la  piena 
eguaglianza  riconosciuta  agli  Ernici  coi  Romani  e  coi  Latini  (5) 
sarebbe  inesplicabile  se  si  fosse  introdotta  nel  trattato  del  358, 
quando  essi  rinnovarono,  non  sappiamo  bene  a  quali  patti,  la  loro 
lega  con  Roma.  Allora  il  territorio  di  Roma,  pm'  non  volendovi 
comprendere  Cere,  Tuscolo,  la  tribù  Pomj)tina  e  la  Poplilia,  s'era 
dilatato  a  più  che  duemila  km^  e  molto  più  che  duemila  ne  abbrac- 
ciava pure  la  lega  latina  ampliata  di  numerose  colonie,  mentre  il 
'territorio  degli  Ernici  non  s'estendeva  che  i3er  circa  un  migliaio  (6); 
e  la  differenza  cosi  notevole  pel  territorio  era  ancor  i^iù  conside- 
revole per  la  popolazione;  ne  poi,  domati  ormai  gli  Equi  ed  i 
Volsci,  l'aiuto  degli  Ernici  era  tanto  prezioso  da  giustificare  stra- 
ordinaria larghezza  di  concessioni.  Li  vece  le  cose  erano  ben  diverse 
sul  principio  del  sec.  V  quando  il  territorio  di  Roma  non  giungeva  a 


bilmente,  nello  stesso  territorio  di  Anagni,  la  terricciuola  conosciuta  col  nome 
di  Capitulum  Hernicorum  (Piglio),  anch'esso,  così  è  da  credere,  in  relazione  con 
qualche  celebre  santuario. 

(1)  ScHOL.  Verg.  Aen.  VII  684  :  Sabinorum  lingua  saxa  herna  vocantur.  quidam 
(lux  magnus  {Magius  vel  Marsus  corr.  Buttmann)  Scibinos  de  suis  locis  elicuit 
et  habitare  fecit  in  saxosis  montibus,  linde  dieta  stmt  Hernica  loca  et  populi 
Ilernici. 

(2)  Fest.  p.  348  s.  V.  Septimojitio.  Dioxrs.  IV  49. 

(3)  DiONYS.  VITI  68.  Liv.  II  41,  1  :  citm  Hernicis  foedus  ictum:  agri  partes  dune 
udemptae:  inde  dimidium  Latinis,  dimidium  plebi  divisurus  consid  Cassius  erat. 

(4)  DioNYs.  Vili  69:  ai  rcpòc,  "EpviKoe;  ó|uoXoYiai  fjoav  àvxiYpaqpoi  tòjv  iTpò<; 
Aaxivouq  YevO|Liévu)v. 

(5)  V.  sopra  p.  98  n.  2. 

(6)  IH  382  ett.,  secondo  Beloch  Jt.  Band  p.  71;  ma  forse  il  computo  è 
troppo  largo.  Se  il  territorio  di  Trevi  e  di  Affile  spettasse  agli  Ernici  o  agli 
Equi  è  incerto. 


104:  CAPO   XV  -  ALLEANZA   FRA   ROMANI,    LATINI   ED   ERNICI 

mille  km''',  e  a  poco  più,  dopo  la  caduta  di  Pomezia,  doveva  essersi 
ridotto  il  territorio  della  lega  latina.  Inoltre  la  minaccia  perma- 
nente dei  Volsci,  degli  Equi  e  degli  Etruschi  fece  si  che  Roma  e  il 
Lazio  accogliessero  a  condizioni  di  favore  nella  loro  alleanza  i 
robusti  contadini  del  Sacco.  Ciò  prova  che,  prescindendo  dal  nome 
di  Cassio,  la  tradizione  è  approssimativamente  nel  vero  (inantf) 
alla  data  che  assegna  alla  lega  dei  Romani  con  gli  Ernici.  Anzi, 
senza  questa  lega  sarebbe  diffìcile  spiegare  la  meravigliosa  resi- 
stenza dei  Latini  a  fronte  di  tanti  nemici. 

Tra  questi,  veramente  indomabili  si  mostrarono  i  Volsci.  I  Volsci, 
una  popolazione  del  gruppo  osco-umbro,  il  cui  dialetto  (1)  si  acco- 
stava all'umbro  più  di  quello  delle  vicine  popolazioni  sal^elliche  (2), 
risiedevano  probabilmente  durante  l'età  regia  nell'alta  valle  del 
Liri  e  in  j)arte  nel  territorio  che  è  compreso  tra  questo  ed  il 
Sacco,  giungendo  fors'anche  fìno  alla  sponda  del  lago  di  Fucino. 
Ma  sospinti  dalle  belligere  tribù  dei  Marsi  e  dei  Sanniti,  attratti, 
come  spesso  i  montanari,  dalla  vista  delle  pianure  ubertose,  cer- 
carono nuove  sedi  a  mezzogiorno.  La  lunga  striscia  costiera  tra  il 
Tevere  e  il  Volturno  era  allora  abitata  dai  Latini  e  dalla  stirpe 
probabilmente  affine  degli  Aurunci,  che  fronteggiavano  a  sud  gli 
affini  Opici  (I  p.  108  segg.).  E  su  questa  zona  larga  e  poco  i^ro- 
fonda  e  (luindi  adatta  agii  assalti  delle  tribù  montanare  premevano 
da  nord  gli  Etruschi,  che  erano  anche  riusciti  ad  assoggettare 
buona  parte  del  paese  (I  i3.  446).  Probabilmente  del  declinare  della 
potenza  etrusCa  e  dell'anarchia  che  segui  nella  regione,  anarchia 
di  cui  è  episodio  la  battaglia  del  Regillo,  approfittarono  i  Volsci 
per  penetrare  tra  Aurunci  e  Latini.  Discesi  per  la  valle  dell'Ama - 
seno  occuparono  la  sponda  laziale  da  Anxur  -ad  Anzio  ;  e  risalendo 
l'alta  valle  dell'Ufente  tentarono  di  guadagnare  le  cime  dei  monti 
Lepini  che  dominano  la  pianm'a  pontina.  Pomezia,  della  cui  opu- 
lenza la  tradizione  ha  conservato  vivo  il  ricordo,  era  la  più  im- 
portante città  latina  di  questo  piano  uniforme  (I  p.  172  n.  2).  La 
sua  caduta  fece  una  impressione  cosi  profonda  da  esser  ricordata 
non  meno  di  quattro  volte  dalle  nostre  fonti.  Prima  esse  narrano 
che  Tarquinio  Prisco  distrusse  Apiole,  il  cui  nome  è  semplicemente 
una  traduzione  greca  di  Pomezia  ;  la  seconda  volta  chi  distrugge 
Pomezia  è  il  Superbo  (3);  a  due  riprese  poi  sul  principio  della  re- 


(1)  Noto  dalla    iscrizione  di  Velletri,  Zvetaieff  Inscriptiones  It.  niediae  ilial. 
n.  46,  tav.  X  4. 

(2)  Cfr.  Planta  Grammatik  I  p.  25. 

(3)  V.  I  p.  172  n.  2  e  p.   373. 


DISTRUZIONE    DI    POMEZIA  105 


j)nbblica  la  città  cade  in  mano  dei  Romani,  jcui  s'era  ribellata 
defezionando  agli  Am'unci  ed  ai  Volsci,  nel  502  e  nel  495  (1).  Nei 
primi  due  racconti  Pomezia  appare  come  città  volsca,  negli  ultimi 
due  presso  qualche  scrittore  (2)  ancora  come  capitale  dei  Volsci, 
presso  qualclie  altro  come  colonia  latina  dedotta  dai  Tarquinì.  Che 
([ui  si  abbiano  quattro  ripetizioni  d'uno  stesso  fatto  è  evidente. 
Ma  è  molto  incerto  se  in  realtà  Pomezia,  come  asserisce  la  tradi- 
zione, fosse  distrutta  dai  Romani  e  se  vi  sia  ragione  di  ammettere 
che  davvero  abbia  defezionato  dalla  lega  latina  per  darsi  ai  Volsci. 
Certo  il  documento  del  sacro  bosco  di  Aricia  prova  che  anterior- 
mente al  trattato  di  Cassio  essa  faceva  parte  della  lega  latina.  E 
non  pare  molto  verisimile  né  che  passasse  s]3ontane amente  ai  Volsci, 
mentre  era  appunto  l'ultimo  baluardo  latino  nel  paese  da  essi 
occupato,  né  che  la  distruggessero  i  Latini  stessi  o  i  Romani, 
abbandonandone  cosi  al  nemico  il  ricco  territorio,  invece  di  rico- 
stituii'la,  puniti  gli  autori  della  defezione,  come  colonia  latina.  Pro- 
babilmente questa  città  cadde  per  mano  dei  Volsci  quand'essi  dila- 
garono nella  regione;  e  poi  ai  Romani  se  ne  ascrisse  la  rovina 
quando,  latinizzati  i  Volsci,  le  leggende  de'  loro  prosperi  fatti 
d'arme  si  fusero  con  quelle  del  popolo  vincitore. 

Invece  resistette  l'altra  vecchia  città  latina  di  Cori  (3),  protetta, 
se  non  ancora  dalle  sue  mura,  almeno  dalla  sua  i)osizione  forte 
SUI"  una  altura  di  cui  due  torrenti  lambiscono  il  piede;  ma  rimase 
isolata  dalla  lega,  poiché  i  Volsci,  impadronitisi  di  Pomezia,  si 
spinsero  innanzi  tra  i  monti  Lepini  e  gli  Albani  e  fondarono  Vel- 
letri  che  domina  il  passaggio  tra  quei  due  grupi3Ì  montuosi  (4). 

A  questo  momento  peraltro  1'  avanzata  volsca  s'  arrestò.  Che 
l'alleanza  dei  Romani,  Latini  ed  Ernici,  formatasi  soijrattutto  per 
resistere  ai  Volsci,  riusci  a  riportar  sul  nemico  successi  notevoli. 
La  conquista  di  Velletri  riunì  nuovamente  Cori  al  corpo  della 
lega  (5;.    E    poiché    a    ricostruire   Pomezia   nella  pianura,   troppo 


(1)  Liv.  II  17  (per  gli  Aurunci  qui  menzionati  v.  I  p.  172  n.  2).  —  Liv.  II  25. 
DioNYs.  VI  29. 

(2)  Cioè  Dionisio  :  l'altra  versione  è  di  Livio. 

(3)  Di  una  defezione  di  Cori  parla  Liv.  II  16.  22;  ma  essa  e  altrettanto  so- 
spetta quanto  la  delezione  di  Pomezia. 

(4)  NissEN  Landcskunde  II  p.  632. 

(5)  Viene  narrata  veramente  al  494  (Liv.  II  30.  Dionys.  VI  42)  ossia  l'anno 
prima  del  secondo  consolato  di  Cassio  a  cui  è  riferita  la  conclusione  del  foedus 
latino.  Ma  si  parla  d'un   rinforzo   inviato  nel  492  (Liv.  II  34.  Dionys.  VII  13. 


106  CAPO   XV  -  ALLEANZA    FRA   EOMANI,    LATINI    ED    ERNICI 

esposta  agli  assalti  dei  Volsci,  non  poteva  pensarsi,  venne  fondata 
(4:92)  in  posizione  fortissima  come  rocca  nel  territorio  pontino, 
sopra  un  monte  clie  scende  con  ripido  pendio  alla  pianura,  Norba, 
che  è  rimasta  in  quella  regione  imj)rendibile  baluardo  della  lati- 
nità (1).  Più  a  nord  fu  innalzata  appunto  in  questi  anni  un'altra 
valida  fortezza  destinata  a  guardare  la  valle  del  Sacco  e  ad  assi- 
cm'are  le  comunicazioni  con  gli  Ernici,  Signia  (2). 

Non  si  diedero  per  vinti  i  Volsci.  E  a  lungo  lottarono  con 
varia  fortmia  le  due  popolazioni  volsche  cui  pare  toccasse  in  sorte 
di  sostenere  l'urto  dei  Teatini:  i  Volsci  Ecetrani  e  i  Volsci  An- 
ziati  (3).  Di  queste  due  tribù  discorre  specialmente  la  pseudostoria 
romana  del  sec.  V,  per  quanto  anclie  spesso  il  popolo  volsco  ap- 
parisca nella  tradizione  senza  distinzione  di  tribù  e  non  di  rado  sia 
menzionato  il  nome  volsco  (-4)  o  il  concilio  del  popolo  volsco  che  si 
sarebbe  do\mto  riunù-e  ad  Ecetra  (5).  E  che  ad  Ecetra  convenissero 
i  Volsci  del  paese  vicino,  è  da  credere;  ma  non  è  certo  se  vi  si 
riunissero  altri  che  quelli  che  n'ebbero    appunto  il  nome  di  Ece- 


Plut.  Coriol.  12)  alla  colonia  dedottavi  nel  494  (Liv.  Il  31.  Dionys.  VI  43):  e 
probabilmente  non  si  tratta  che  d'un'altra  data  dello  stesso  fatto,  la  quale  è 
approssinaativamente  degna  di  fede. 

(1)  Liv.  II  34  :  Norham  in  niontis  noram  colonicnn  quae  arx  in  Poiiiiìtino  esset 
miserunt.  Sugli  interessantissimi  scavi  di  Norba  che  hanno  sfatato  la  opinione 
della  antichità  favolosa  delle  mura  così  dette  pelasgicbe.  v.  Savignoni  e  Men- 
GARKLLi  '  Notizie  degli  scavi  '  1901  p.  514  segg.  1903  p.  229  segg.  1904 
p.  403  segg. 

(2)  Liv.  II  21  all'a.  495.  La  data  ha  valore  soltanto  approssimativo,  cfr.  p.  105 
n.  5.  La  colonia  già  dedottavi  da  Tarquinio  il  Superbo  (Liv.  I  56.  Dionys.  IV 
68)  è  sospetta  soprattutto  per  l'assenza  di  Signia  nella  lista  di  Catone:  proba- 
bilmente non  si  tratta  che  d'una  anticipazione  della  colonia  del  495.  Sopra 
una  conferma  archeologica  della  data  tradizionale  v.  I  p.  303  n.  2. 

(8)  La  preminenza  di  queste  due  popolazioni  tra  quelle  a  contatto  coi  Latini 
si  rispecchia  nel  racconto  leggendario  di  Dionys.  IV  49  sulla  lega  costituita 
da  Tarquinio  il  Superbo  :  ^k  òè  toO  OùoXoùokujv  ^Gvouq  òùo  itóX6i<;  èòéSavTO 
MÓvai  toc;  TTpoaKXiìaeic;,  'Exexpavoi  Te  Kaì  'AvTiàreq.  Cfr.  Dionys.  Vili  1,  4:  €Ì<; 
"AvTiov  rriv  éTTicpaveoTÓTriv  tòjv  év  OùoXoùokok;  TróXeuuv.  X  21  :  tì^v  'Exerpavòiv 

TTÓXiv  r\  TÒT6  rjv  ToO  OùoXoùaKujv  éiriqpaveaTàTri  t6  Kaì  èv  tùj  KpariOTiu  tóttui 

MaXiara  KeiMévr). 

(4)  Così  Liv.  II  85,  7.  88,  6.  HI  8,  10.  Vili  11,  10. 

(5)  Dionys.  Vili  4.  Liv.  Ili  10,  8.  Per  conciliuni  o  concilia  in  generale,  v. 
Liv.  IV  25,  7.  Dionys.  Vili  56.  Plut.  Coriol.  26.  La  riunione  ad  caput  Ferentinae 
(Liv.  II  38,  1)  è  dovuta  ad  una  confusione  con  le  adunanze  dei  Latini. 


ECETRANI   ED    ANZI  ATI  107 


traili.  Di  un  centro  religioso  comune  a  tutto  il  popolo  volsco  non 
si  fa  parola  ;  e  nulla  mostra  che  il  santuario  di  Satrico  fosse  centro 
di  un'anfìzionia  sul  genere  di  quella  albana.  E  quindi  molto  dubbio 
se  i  Volsci  avessero  realmente  unità  ])olitica  e  se  il  rumore  di 
guerra  quando  si  combatteva  a  Yelletri  pervenisse  ai  Volsci  del- 
l'alta valle  del  Liri.  Par  più  verisimile  che  i  Romani  e  i  Latini 
combattessero  con  le  singole  tribù  volsche,  in  ispecie  con  gli  Anziati 
e  gli  Ecetrani,  che  talora  si  saranno  uniti  contro  il  nemico,  ed 
avranno  anche  ricevuto  qualche  aiuto  dai  connazionali  più  distanti, 
i  quali  fiu-ono  poi  trascinati  nella  lotta  man  mano  che,  cedendo  gii 
Anziati  e  gii  Ecetrani,  il  pericolo  si  venne  facendo  più  dappresso  al 
resto  della  nazione  volsca.  Ecetra,  la  cui  posizione  non  ci  è  nota, 
sembra  fosse  il  centro  più  ragguardevole  della  tribù  che  abitava 
nel  nodo  montuoso  più  orientale  dei  Lepini,  ossia  probabilmente 
della  stessa  tribù  che  compare  nel  IV  secolo  col  nome  di  Priver- 
nati,  quando  la  capitale  tra  i  monti  fu  oscui'ata  come  centro  dalla 
città  di  Priverno  che  era  venuta  sorgendo  nella  pianura  (1).  Quanto 
ad  Anzio,  la  tradizione  dev'essere  nel  vero  quando  ne  afferma 
antichissime  le  origini  riportandole  ad  un  figlio  di  Ulisse  e  di 
Circe  (2);  poiché  il  promontorio  anziate  offriva  la  sola  rada  passa- 
bile della  sponda  compresa  tra  Ostia  e  Terracina.  Ma  nulla  prova 
che  Anzio  abbia  mai  fatto  parte  della  lega  latina  in  qualità  di 
comune  autonomo  (3).  La  sua  celebrità  a  ogni  modo  data  da  quando 
divenne  il  centro  d'una  bellicosa  tribù  di  Volsci  (4),  audace  del 
pari  per  terra  nella  guerriglia  contro  i  Latini  e  per  mare  iiella 
pirateria,  che,  tra  lotte  continue,  conservò  la  sua  nazionalità  fino 
alla  seconda  metà  del  sec.  IV.  Certo  non  è  da  escludere  che  nella 
guerra   lunga   ed   incerta  tra  Volsci  e   Latini,  Anzio,  come   altre 


(1)  È  affatto  errato  cercare  Ecetra  in  vicinanza  del  paese  aurunco  fondan- 
ilosi  su  Liv.  II  26,  4  (cfr.  25,  6)  o  Dionys.  VI  32.  La  menzione  degli  Aurunci 
in  mezzo  alle  prime  gueiTe  coi  Volsci  è  assai  sospetta;  e  proviene  forse  dalla 
confusione  su  cui  v.  I  p.  172  n.  2.  Dionisio  del  resto  parlando  di  coloni  con- 
dotti nel  territorio  di  Ecetra  al  495  non  può  alludere  cheaSignia:  a  cui  al- 
ludeva probabilmente  allo  stesso  proposito  anche  la  fonte  di  Liv.  II  25,  6.  Im- 
portante per  la  posizione  di  Ecetra  è  Liv.  IV  61,  5:  ciiin  Volscis  inter  Feren- 
finum  afque  l'ki'tram  signis  co«/rt<j  srf/wjiVa^^o/j.  L'ultima  menzione  degli  Ecetrani 
è  al  378,  Liv.  VI  31. 

(2)  V.  i  testi  I  p.  209  n.  7. 

(8)  Non  è  il  caso  d'invocare  il  passo  citato  di  Dionys.  IV  49. 

(4)  Vohci  Antiales,  Liv.  II  33.  Vili  13,  5.  Fusti  triumph.  ad  a.  459.  846  av.  Cr. 


108  CAPO   XV  -  ALLEANZA   FRA   ROMANI,    LATINI   ED   ERNICI 


città,  abbia  cambiato  momentaneamente  di  padrone;  ma  so  vi  fn 
dedotta  una  colonia  (la  tradizione  ne  parla  al  467  (1),  ma  forsr 
anticipa  soltanto  la  colonia  del  338),  oli  effetti  non  ne  fnrono  dn- 
revoli  e  il  fatto  deve  considerarsi  come  nn  e]jisodio  trascm'abile 
della  Innga  guerra. 

D'altre  terre  volsclie  da  Velletri  in  fuori  la  tradizione,  anterior- 
mente agli  ultimi  anni  del  V  secolo,  tace  quasi  affatto  (2).  Solo 
sulla  fine  del  sec.  V  o  sul  principio  del  IV  son  ricordate  Verrugine 
che.  non  lontana  né  dal  Lazio  proprio  né  dai  confini  dei  Volsci  e 
degli  Equi,  pare  debba  essere  cercata  nelle  vicinanze  di  Velletri 
e  sarà  stata  forse  in  origine  una  fortezza  velliterna  (3),  Satrico 
presso  Conca,  famosa  pel  santuario  della  Madre  Matuta,  che  pro- 
babilmente era  con  Anzio  in  stretta  unione  (4),  Circei  (5)  e  Anxur  (6). 


(1)  Liv.  Ili  1,  4. 

(2j  Prescindendo  dalla  isolata  menzione  di  Verrugine  al  446  in  Liv.  IV  1,  4; 

oudiere Volscos  Aequosque  oh  communitam  Verruginem  fremere,  e  da  qualche 

città  ricordata  nella  leggenda  di  Coriolano. 

(3)  Combattimento  presso  Verrugine  del  423,  Val.  Max.  11  3,  8.  VI  5,  2 
(Liv.  IV  37  non  fa  cenno  del  sito).  Ne  è  ricordata  l'occupazione  da  Liv.  IV 
55,  8  (receptam)  al  409,  la  perdita  da  Liv.  IV  58,  3  e  Diod.  XIV  11  al  407 
(il  testo  di  Diodoro  ha  'Eppouxo:  ma  non  si  può  ragionevolmente  dubitare  col 
BuKGER  p.  110  della  sua  identità  con  Verrugine).  È  di  nuovo  secondo  Liv.  V 
28  e  DxOD.  XIV  98  nel  394  in  mano  dei  Romani,  che  in  quell'anno  tornano  a 
perderla,  questa  volta  però  per  opera  degli  Equi.  —  Cfr.  su  Verrugine  Pais 
'  Studi  italiani  di  filologia  classica  '  VI  122. 

(4)  Fondazione  albana  secondo  Diod.  VII  3;  inclusa  nella  lista  delle  città 
latine  in  Dionys.  V  61;  conquistata  da  Coriolano,  Liv.  II  39.  Dionys.  VIII  36. 
Del  resto  non  è  menzionata  prima  del  393 ,  quando  si  sarebbe  ribellata  ai 
Romani  secondo  Diod.  XIV  102.  Sul  tempio  della  Madre  Matuta  v.  I  p.  277 
n.  2.  Degli  scavi  di  Satrico,  i  quali  confermano  la  sua  alta  antichità,  non  si 
hanno  che  relazioni  insufficienti  nelle  '  Notizie  degli  scavi  '  1896  p.  190  segg. 
1898  p.  166  segg. 

(5)  Menzionata  come  colonia  di  Tarquinio  il  Superbo  in  Liv.  I  56,  3,  poi 
nella  lista  delle  città  latine  di  Dionys.  V  61,  poi  tra  le  conquiste  di  Coriolano, 
Liv.  II  39.  Dionys.  VIII  14.  Plut.  Coriol.  28.  Nella  storia  non  ricompare  che 
al  393,  quando  viene  colonizzata,  Diod.  XIV  102.  —  Sulla  topografia  v.  Ashby 
Monte  Circeo  nei  '  Mélanges  d'arch.  et  d'histoire  '  XXV  (1905)  p.  157  segg.  — 
Il  nome  deve  scriversi  Cercei.  La  connessione  con  Circe  trovata  dai  Greci  e 
adottata  dagli  indigeni  (cfr.  1  p.  336)  fece  prendere  il  sopravvento  alla  forma 
Circei.  Di  quella  connessione  con  Circe  non  son  documento  i  versi  esiodei 
theog.  1011  segg.:  che  anzi  essi  sono  stati  occasione  ad  inventarla;  il  primo 
ricordo  è  in  [Scyl.]  8. 

(6)  Anxur  (Terracina)  è  ricordata   la    prima    volta    quando  i  Romani   se  ne 


LA   LEGGENDA   DI   CORIOLANO  109 

Ciò  in  parte  procede  dalla  natiu'a  stessa  della  nostra  tradizione,  in 
parte  dall'essere  alcune  di  queste  città,  come  Circei  ed  Anxur,  fin 
quasi  alla  fine  del  sec.  V,  fuori  dei  termini  cui  stendevasi  l'attività 
politico-militare  dei  Romani. 

Ad  ogni  modo  la  pseudostoria  del  sec.  V  abbonda  di  particolari 
sulle  lotte  coi  Volsci.  L'avanzarsi  minaccioso  dei  Volsci  è  il  tema 
della  leggenda  di  Coriolano.  Una  delle  gemme  inii  fulgide  della 
epopea  popolare  italica  era  certo  il  carme  di  Coriolano  (1),  clie  ci 
è  pervenuto  tradotto  in  prosa  e  coi  rimaneggiamenti  prammatici 
degli  annalisti.  Questo  carme  è  così  bello  ed  armonico  ed  ispirato 
a  sentimenti  cosi  profondamente  umani  che  saremmo  tentati  di 
riferirlo  ad  età  assai  progredita  se  non  vi  ostasse  il  difetto  di  ele- 
menti greci  (2j.  La  leggenda  di  Coriolano  consta  di  tre  parti:  la 
jjrima  è  la  spedizione  vittoriosa  dei  Romani  in  cui  l'eroe  s'impa- 
dronisce di  Corioli;  la  seconda  è  la  sua  oijposizione  ad  una  distri- 
buzione di  grano  ai  plebei  affamati,  la  sua  condanna  e  la  sua 
fuga  i^resso  il  principe  volsco  Attio  Tullio;  la  terza  è  la  cam- 
pagna da  lui  condotta  alla  testa  dei  Volsci  fin  quasi  alle  porte  di 


impadronirono  nel  406,  Liv.  IV  59.  Diod.  XIV  16.  Sarebbe  stata  poi  perduta, 
nel  402,  Liv.  V  8,  ricuperata  nel  400,  Liv.  V  13,  e  assediata  dai  Volsci  nel  396, 
Liv.  V  16.  R.  DE  LA  Blanciière  Terracine  nella  '  Bibl.  des  écoles  frany.  d'Athènes 
et  de  Rome  '  fase.  XXXIV  (Paris  1887). 

(1)  DioNV's.  vili  62:  OùoXoOaKOi  (aùiòv)...  ijuc;  xiLv  àpioxujv  yevóixevov  iv  Tiimr) 
exouaiv...  où  yé^oxev  ìììty]\oc,  ì]  toO  rivòpòc;  f-ivrmn  dX\'  oberai  koì  ù|.ivelTai  irpòe; 
TidvTiJUV  ók;  eùaeP>i(;  xaì  òiKaioc;  àvnp. 

(2)  La  storia  di  Temistocle  non  influì  che  sugli  ultimi  rimaneggiamenti 
della  leggenda  di  Coriolano.  Così,  secondo  la  forma  piti  antica  della  leggenda 
Coriolano  sopravvisse  in  esilio  fino  alla  vecchiaia  (Liv.  Il  40,  10);  poi,  ad  imi- 
tazione di  Temistocle,  si  narrò  invece  della  sua  fine  per  suicidio  (Cic.  Brut. 
10,  42.  Lael.  12,  42).  Il  motivo  stesso  del  ricorrere  al  nemico  che  fino  a  ieri 
s'era  combattuto  è  troppo  comune  nella  realtà  della  vita  per  credere  che  debba 
essere  stato  imitato  dalla  fuga  di  Temistocle  presso  Admeto  e  in  Persia.  Di- 
cendo ciò  non  voglio  peraltro  negare  che  Dionisio  Vili  1  e  più  ancora  Plutarco 
Cortol.  23  nel  dipingere  come  Coriolano  si  presentasse  supplice  ad  Attio 
Tullio  abbiano  avuto  presente  l'analoga  scena  di  Temistocle  ed  Admeto. 
La  favola  poi  delle  sedici  donne  elee,  nominate  una  per  ciascuna  delle  città 
dell'Elide,  le  quali  avrebbero  fatto  da  arbitre  tra  Pisa  e  l'Elide  (Pausan.  V  16), 
non  ha  proprio  nulla  a  fai'e  con  l'intervento  delle  matrone  romane  per  la  sal- 
vezza di  Roma.  —  L'analisi  che  della  leggenda  dà  il  Mommsen  Rum.  Forschungen 
li  113  segg.,  ricca  di  osservazioni  utilissime,  è  però,  per  quel  che  a  me  sembra, 
sostanzialmente  errata. 


110  CAPO   XV  -  ALLEANZA   FRA   ROMANI,    LATINI   ED   ERNICI 

Roma  e  la  sua  ritii^ata  in  conseguenza  delle  preghiere  delle  donne 
romane  e  segnatamente  della  madre  e  della  consorte.  Questi  ele- 
menti ricorrevano  senza  dubbio  nel  carme  epico  originario;  meno 
sicuro  è  che  vi  fosse  menzionata  la  instaiu-azione  dei  ludi  romani 
e  la  cacciata  dei  Volsci  venuti  a  Roma  per  assistervi,  che  sarebbe 
stata  la  cagione  dell'ultimo  conflitto.  Il  rinnovarsi  dei  ludi  non 
ha  infatti  alcun  nesso  intimo  col  racconto;  e  l'aneddoto  stesso 
narrato  a  tal  proposito,  che  si  fonda  soltanto  sopra  una  falsa 
etimologia  della  parola  instaurazione,  è  riferito  da  altre  fonti  ad 
età  molto  più  tarda  (1).  Recente  ])i\ò  essere  altresì  il  collegamento 
della  leggenda  col  tempio  della  Fortuna  Muliebre  al  quarto  miglio 
della  via  Latina  (2),  il  quale  ha  la  sua  ragione  in  ciò  che  rincontro 
di  Coriolano  con  le  donne  romane  si  prestava  assai  bene  a  spie- 
gare rorigine  di  quel  tempio.  Lo  stesso  può  dirsi  dell'artifizio  di 
Attio  Tullio  perchè  i  Romani  i3rovocassero  i  Volsci  con  una  espul- 
sione inconsulta  e  dell'adunanza  dei  Volsci  iiTitati  alla  fonte  del- 
l'acqua Ferentina  (3).  Chi  immaginò  questi  particolari  ignorava 
che  all'acqua  Ferentina  non  si  congregavano  i  Volsci,  ma  i  Latini, 
e  xDare  riputasse  lo  stato  usuale  tra  Romani  e  Volsci  quello  della 
pace;  mentre  invece  il  nucleo  stesso  della  leggenda  sembra  pre- 
supporre come  usuale  uno  stato  di  guerra  o  almeno  una  relazione 
ostile. 

Evidente  nella  leggenda  di  Coriolano,  ma  comune  con  altre 
leggende  simili,  è  la  mancanza  di  cronologia,  cioè  di  qualsiasi 
legame  sicmro  con  altri  fatti  databili  della  storia  di  Roma  e  coi 
fasti  consolari.  E  a  questo  proposito  il  non  ricorrere  in  una  delle 
nostre  fonti  (4)  le  coppie  consolari  del  490  e  489,  le  quali  avrebbero 
dovuto  essere  inserite  nel  racconto  della  leggenda  di  Coriolano,  è 
forse  da  spiegare  col  non  essere  in  quella  nessun  appiglio  per  in- 
trodurvele.  Se  poi  il  console  Cominio  del  493  è  ricordato  a  pro- 
posito della  presa  di  Longula,  Polusca  e  Corioli ,  ciò  proviene  da 
mi'induzione  arbitraria  la  cui  origine  si  desume  dalle  parole  stesse 
con  le  quali  n'è  fatto  cenno  (5).  Nel  testo  dell'alleanza  romano- 


(1)  Mackob.  sat.  I  11,  3. 

(2)  Per  la  posizione  v.  Val.  Max.  I  8,  4.  Fest.  p.  242. 

(3)  V.  sopra  p.  91  n.  1. 

(4)  In  Livio.  Cfr.  Mommsen  Roih.  Forschungen  II  137. 

(5)  V.  sopra  p.  97  n.  2.    Secondo  1'  Auct.   de   tnr.  ili.   19  Coriolano  sarebbe 
stato  console  quando  non  volle  si  distribuisse  il  grano  alla   plebe.   È   incerto 


LA   LEGGENDA   DI   CORTOLAXO  111 

latina  clie  si  assegnava  a  quell'anno  non  essendo  che  il  nome  del 
console  Cassio,  rimaneva  disponibile  per  qualsiasi  impresa  l'altro 
console  Cominio  ;  e  una  qualche  impresa  doveva  attribuirglisi  per 
spiegare  la  sua  assenza  nella  conclusione  di  quel  trattato.  E  come 
Coriolano  non  era  registrato  nei  fasti  e  quindi  non  poteva  aver 
fatto  le  sue  conquiste  che  sotto  auspici  altrui,  non  si  trovò  nulla 
di  meglio  che  attribuire  a  Cominio  la  direzione  della  guerra  in 
cui  egli  s'era  segnalato  contro  i  Volsci.  Del  resto  la  mancanza  di 
cronologia  della  leggenda  si  tradisce  qui  scopertamente  ;  iDcrchè  se 
v'è  un  momento  in  cui  sono  affatto  inverisimili  i  ijrosxjeri  successi 
dei  Volsci  da  essa  naiTati,  si  è  negli  anni  che  seguirono  immedia- 
tamente al  trattato  di  Cassio,  il  quale  raccolse  le  forze  dei  Ro- 
mani e  dei  Latini  contro  il  nemico.  Ed  è  pur  degno  di  nota  un 
altro  punto.  Gli  annalisti,  i  quali  davano  un  nome  al  tiranno  sira- 
cusano che  aveva  inviato  le  granaglie,  occasione  della  discordia, 
menzionavano  Dionisio  (1),  il  più  famoso  senza  dubbio  dei  tiranni 
siracusani,  nonostante  che  egli  vivesse  quando  i  Volsci  non  ave- 
vano i)iù  una  X30tenza  tale  da  mettere  a  pericolo  l'esistenza  di  Roma. 
Della  patria  e  del  valore  storico  del  carme  non  ci  chiarisce  il 
giudizio  di  Coriolano  innanzi  alle  tribù;  poiché  se  questo  è  in 
contraddizione  patente  con  le  istituzioni  romane  dell'età  storica, 
non  pronunciandosi  sentenze  di  morte  in  Roma  dopo  le  dodici 
tavole  se  non  nella  massima  assemblea  ijopolare,  l'assemblea  cen- 
tmùata,  non  è  impossibile  che  le  assemblee  della  i^lebe  avessero 
per  lo  innanzi  tentato  d'usurpare  il  diiitto  di  ijronunciarne  (p.  23). 
Può  del  resto  trattarsi  parimente  della  speculazione  pseudostorica 
di  qualche  giurista  che  si  fosse  posto  il  quesito  come  venissero 
effettuati  i  giudizi   capitali   prima   delle  dodici  tavole  (2).  Sicché 


se  questo  scrittore  ci  rispecchi  qui  meglio  delle  altre  fonti  il  carme  epico  po- 
polare su  Coriolano  (che  nulla  vieta  menzionasse  un   console  di  cui  tacevano 
i  fasti),  perchè  Coriolano  vi  sarebbe  comparso,  se  mai,  come  console  nella  sua 
campagna  vittoriosa  contro  i  Volsci. 
(1)  V.  sopra  p.  14  n.  2. 

2)  V.  MoMMSEN'  Roin.  Forschungen  II  147  seg.  Molto  si  è  discusso  sul  passo 
di  Dionisio  VII  64,  6:  Mifii;  yòp  Kaì  etKoai  tótc  qpuXujv  oùoOùv  olq  l'i  vpf\fpo(;  àve- 
bó6n,  Tà<;  àiToXuoùaa^  qpuXà;  èaxev  ó  MdpKiot;  èwéa  Ujot'  el  òùo  TtpoarjXGov  aÙTuJ 
cpuXai  olà  Tì*iv  taoipriqpiav  (ÌTteXéXuT'  fiv  ujairep  ó  vó|uoq  riEiou.  Se  ne  è  voluto  ri- 
cavare che  secondo  la  leggenda  originaria  le  tribù  erano  venti,  v.  Mommsen 
op.  cit.  pag.  138  seg.,  e  v'è  chi  ha  cercato  di  correggere  |uia<;  koI  ekocri.  Ma 
taoMJr|<pia  significa  semplicemente  pari  diritto  di  voto,  cfr.  Pli-t.  C.  Gracch.  9. 


112  CAPO   XV -ALLEANZA    KKA    KOMANI,    LATINI    EU    EKXICI 


non  soii  questi  sicuri  indizi  d'origine  non  romana  del  carme.  Piut- 
tosto nella  importanza  che  vi  hanno  Corioli,  Longula  e  Polusca  (1), 
terre  di  nessun  conto,  che  non  ricompaiono  più  mai  o  quasi  nella 
storia  delle  guerre  coi  Volsci,  potrebbe  cercarsi  un  indizio  che  il 
carme  abbia  avuto  origine  in  questa  regione.  E  a  confermare  anche 
la  provenienza  non  romana  dell'eroe  starebbe  che,  se  si  prescinde 
da  re  Anco  Marcio,  non  abbiamo  altra  testimonianza  in  Roma  né 
d"una  gente  laatrizia  Marcia,  ne  d'un  cognome  Coriolano.  Certo 
<luesto  nome  non  ha  nulla  di  singolare,  e  mancando  ogni  traccia 
di  culto  a  Coriolano,  la  congettura  moderna  della  sua  identità  col 
Marte  di  Corioli  (2),  che  non  sappiamo  neppui'e  se  sia  mai  esistito, 
appare  pienamente  arbitraria.  Anzi  nessun  argomento  abbiamo 
per  affermare  o  per  negare  che  Coriolano  sia  un  personaggio  sto- 
rico come  tanti,  altri  di  cui  pur  narra  cose  meravigliose  l'epopea 
popolare  di  tutti  i  tempi;  ne  quand'anche  fosse  storico  e  non  ro- 
mano dovrebbe  suscitar  meraviglia  la  sua  attrazione  nel  ciclo  delle 
leggende  romane.  Volendo  tuttavia  arrischiare  una  ipotesi  si  può 
pensare  che  Coriolano,  in  origine  l'eponimo  di  Corioli  (3),  solo  col 
tempo  si  sia  trasformato  nel  conquistatore  di  questa  città  quando 
le  leggende  sulla  fondazione  di  Corioli  erano  rimaste  obliterate 
con  lo  sparire  della  città  stessa.  A  questo  modo  si  spiegherebbe 
come  in  mia  leggenda  che  non  par  posteriore  al  sec.  IV  Coriolano 
figm'i  come  un  cognome  trionfale,  mentre  cognomi  trionfali  vera- 
mente autentici  non  sembra  siano  anteriori  al  secolo  III. 

Queste  congetture  si  accordano  bene  col  difettare  di  ogni  nesso 
tra  la  leggenda  di  Coriolano  e  le  altre  leggende  romane  che  hanno 
di  mira  la  stessa  età,  talché  non  ha  parte  in  quella  nessuno  dei 
personaggi  più  celebri  di  Roma  nel  V  secolo.  V'è  certamente  tutto 


e  Dionisio  vuol  dir  soltanto  che  il  voto  di  ciascuna  tribù  aveva  egual  valore 
qualunque  fosse  il  numero  dei  votanti,  come  bene  vide  J.  J.  Mueller  '  Philo- 
logas  '  XXXIV  (1876)  p.  109  segg.  Traducendo  poi  i  passi  di  Dionisio  ove  è 
detto  che  Coriolano  buoi  vpriqpoK;  éà\uu  (Vili  6,  3.  24,  3)  '  fu  condannato  con 
duo  voti  di  maggioranza  '  s'introduce  nel  testo  di  Dionisio  una  contraddizione 
che  non  c'è.  Dionisio  intese  di  dire  che  fu  condannato  per  due  voti  ossia  che 
sarebbe  stato  assoluto  se  due  tribìi  fossei-o  state  favorevoli  anziché  contrarie. 

(1)  Longula  è  poi  ricordata  nella  campagna  del  484,  Dionys.  Vili  85,  i  fines 
Coriolanorum  a  proposito  della  contesa  tra  Ardea  ed  Aricia  del  446,  Liv.  Ili  71. 

(2)  Pais  I  1,  501  scg.  nella  sua  analisi    della    leggenda  di  Coriolano  in  cui 
sembra  dilungarsi  dal  vero  più  assai  che  non  la  leggenda  stessa. 

(3)  Per  nomi  d'eponimi  tratti  dall'etnico  v.  I  p.  207  nota. 


LA   LEGGENDA   DI   COMO  LAND  113 


un  "TupiDG  d'eccezioni  :  P.  Valerio,  ambasciatore  in  Sicilia  per  pro- 
emiare le  granaglie  che  sono  occasione  alla  contesa,  M'.  Valerio, 
menzionato  a  proposito  della  discussione  che  si  fece  intorno  ad  esse 
nel  senato,  Valeria,  che  guida  l'am.basceria  delle  matrone  a  Corio- 
lano  e  diviene  la  prima  sacerdotessa  del  tempio  della  Fortuna 
Muliebre  eretto  in  quella  occasione  (1).  Ma  questi  particolari,  in- 
sieme con  altri  dello  stesso  valore,  rendono  soltanto  testimonianza 
della  elaborazione  che  ha  fatto  della  leggenda  Valerio  Anziate. 

La  leggenda  di  Coriolano  a  ogni  modo,  quale  che  ne  sia  l'ori- 
gine prima  e  gli  elementi  favolosi,  rispecchia  al  vivo  il  ricordo 
che  s'aveva  nel  IV  secolo  dell'avanzarsi  vittorioso  dei  Volsci  nel 
Lazio  e  contro  Roma  un  secolo  prima.  Delle  città  enumeratevi 
che  i  Volsci  avrebbero  conquistato  sotto  gli  ordini  del  fuoruscito  (2), 
alcune  furono  occupate  dai  Volsci  quando  scesero  nella  pianura 
pontina  (Satrico,  Cii'cei),  altre  sono  le  città  ricordate  nelle  guerre 
con  gli  Equi  o  sono  almeno  nella  direzione  del  paese  di  costoro, 
(Tolerio,  Boia,  Labici,  Pedo,  Corbione,  Vitellia,  Carvento)  e  la  loro 
menzione  prova  soltanto  che  la  leggenda  aveva  confuso  le  guerre 
con  gli  Equi  e  con  i  Volsci.  Restano  Longula,  Polusca,  Corioli, 
La"ST.nio.  Corioli,  che  si  trovava  tra  Ari  eia  ed  Ardea  (3),  è  menzio- 
nata soltanto  nelle  guerre  volsche  a  proposito  delle  due  campagne 
fattevi  da  Coriolano,  l'una  servendo  nell'esercito  dei  suoi  concitta- 
dini, l'altra  conducendo  quello  dei  Volsci.  Ma  è  incerto  se  i  Volsci 
si  siano  mai  avanzati  fin  là  con  le  loro  conquiste,  e  forse  in,  ciò  è 
da  vedere  una  conferma  dell'ipotesi  che  Coriolano  fosse  in  origine 
il  fondatore,  non  il  conquistatore  di  Corioli.  Invece  Longula  e  Po- 
lusca, che  erano  situate  verisimil  mente  tra  Anzio  ed  Ardea,  seb- 
bene siano  ricordate  quasi  solo  a  xjroposito  di  queste  due  campagne, 
non  è  difficile  che  fossero  realmente  contese  tra  Volsci  e  Latini, 
il  che  non  potremo  dire  con  eguale  probabilità  della  città  di  La- 
vi nio. 


(1)  DioNYs.  VII  1.  54.  Vili  39.  55. 

(2)  Liv.  II  39  menziona  per  ordine  le  seguenti  conquiste  :  Circei,  Satrico, 
Longula,  Polusca,  Corioli,  Lavinio,  Corbione,  Vitellia,  Trebio  (ricordata  solo  qui), 
Labici,  Pedo;  Dionisio,  ricorda  Circei  (Vili  14),  Tolerio  (17),  Boia  (18),  Labici, 
Pedo,  Corbione,  Carvento  (19),  Boville  (20),  Longula,  Satrico,  Keria  (Sezia?),  Po- 
lusca, 'AXPifìTai  (forse  i  Lavinati,  fors'anche  gli  Albensi  del  catalogo  pliniano, 
cfr.  I  p.  379  n.  1  nr.  1),  Muglila  (ricordata  solo  qui,  cfr.  il  cognome  dei  Papiri 
Mugillani:  in  Liv.  1.  e.  è  stata  introdotta  per  via  di  congettura),  Corioli  (36). 

(3)  Cfr.  sopra  p.  100  n.  2. 

G.  De  Sanctis,  Storia  dei  Romani,  II.  8 


114:  CAPO   XV -ALLEANZA   FBA  ROMANI,    LATINI   ED    ERNICI 

In  questa  campagna  leggendaria  di  Coriolano  e  di  Attio  Tullio 
i  Volsci  appaiono  per  la  prima  volta  in  lega  con  gli  Equi  (1).  La 
lega  tra  i  due  popoli  si  ripetè  poi  spessissimo  secondo  la  nostra 
tradizione  fino  alla  discesa  dei  Galli.  E  certo,  se  per  lunghi  anni 
cessò  quell'espansione  dei  Latini  nel  paese  volsco  che  s'era  iniziata 
cosi  vigorosamente  dopo  l'alleanza  di  Cassio,  si  deve  alla  violenta 
pressione  che  cominciavano  ad  esercitare  da  oriente  sul  territorio 
della  lega  gli  Equi.  E  però  degno  di  nota  che,  per  quanto  la  nostra 
tradizione  sulle  guerre  volsche  sia  imxDerfetta  e  manchevole,  in  ge- 
nerale sembra  risultare  che  più  d'una  delle  imprese  comuni  degli 
Equi  e  dei  Volsci  fosse  in  origine  attribuita  separatamente  agli  uni 
od  agli  altri.  Cosi  ad  esempio  i^er  le  campagne  di  Coriolano  sembra 
si  parlasse  in  origine  soltanto  dei  Volsci  e  del  i^ari  a  proposito  della 
vittoria  romana  riferita  al  446,  dove  la  tradizione  più  recente  parla 
d'Equi  e  di  Volsci  (2),  mentre  alla  battaglia  dell'Algido  del  432 
o  31  partecipavano  in  origine  soltanto  gli  Equi  (3).  Certo  però  una 
parziale  cooperazione  di  tribù  volsche  ed  eque  nulla  avrebbe  avuto 
di  singolare  quando  gii  Equi  dell'Algido  davano  la  mano  ai  Volsci 
di  Velletri. 

Pertanto  dopo  i  primi  decenni  del  secolo  V  non  solo  s'arrestò 
l'espansione  latina,  ma  i  Volsci  ricuperarono  terreno .  Sarebbe,  è 
vero,  un  errore  di  critica  il  ritenere  che  le  conquiste  di  Coriolano  o 
d' Attio  Tullio  corrispondano  a  conquiste  reali  fatte  ]3rima  o  poi  dai 
Volsci.  Ma  certo  il  carme  di  Coriolano  rispeccliia  ih  terrore  volsco 
che  chiuse  talora  i  Romani  nelle  fortificazioni  della  loro  città.  E 
se  Velletri  nel  sec.  IV  era  una  città  volsca  (4),  ciò  dimostra  che  i 
Volsci  l'avevano  ricuperata,  non  certo  nel  periodo  della  loro  deca- 
denza, ma  in  quello  del  loro  maggior  fiore,  verso  la  metà  del  sec.  V. 
Allora  i  Latini  di  Cora,  di  Norba  e  di  Signia  rimasero  isolati  dai 
loro  connazionali.  Ma  tenaci  e  agguerriti,  resistettero  nei  loro  nidi 
d'aquila,  che  forse  appunto  allora  circondarono  di  mm'a  ciclopiche. 
E  mentre  nel  sovrapporre  faticosamente  i  grandi  blocchi  di  quelle 
fortificazioni  occupavano  gli  ozi  invernali,  scendevano  nella  state 


(1)  DioNYs.  Vili  16.  Cfr.   Liv.  II  40,  12. 

(2)  Liv.  Ili  66-70.  Ma  v.  Diod.  XII  30. 

(3)  Diod.  XII  64,  cfr.  Liv.  IV  26-29.  -  Così  pure  al  485  Liv.  II  42  e  Dionys. 
Vili  81  parlano  d'Equi  e  di  Volsci,  Diod.  XI  87  solo  di  Volsci.  —  Su  tuttociò 
cfr.  BuRGER  Sechzig  Jahre  aus  der  iìlteren  Geschichte  Roms  (Amsterdam  1891) 
p.  109. 

(4)  Come  risulta  dalla  iscrizione  citata  sopra  a  p.  104  n.  1. 


GLI   EQUI  115 

alla  pianura  a  mietere  le  messi  dei  Volsci,  che  se  ne  rifacevano  alla 
loro  volta  nelle  campagne  dei  Romani,  dei  Latini  e  degli  Ernici. 
Anche  la  città  latina  di  Ardea  pare  che  cadesse  o  rischiasse  di 
cadere  in  mano  dei  Volsci.  e  di  questo  fatto  era  memoria  nella 
leggenda,  argomento  di  canti  epici,  della  vergine  d' Ardea  (1).  La 
rivalità  fra  un  patrizio  ed  un  plebeo  per  la  mano  di  lei  avendo 
cagionato  una  sedizione,  la  plebe,  sopraffatta  ed  espulsa,  avrebbe 
tentato  di  rientrare  nella  città  a  mano  armata  con  l'aiuto  dei  Volsci 
condotti  dall'Equo  Cluilio.  Ma  vinta  dagli  ottimati  con  l'aiuto  di 
Roma,  il  duce  dei  Volsci  sconfitto  sarebbe  caduto  in  potere  dei 
Romani  e  da  essi  condotto  come  prigioniero  nel  trionfo  del  console 
M.  Greganio  (443).  Questo  racconto  è  in  parte  favoloso;  tuttavia, 
anche  prescindendo  dalla  leggenda,  la  deduzione  d'una  colonia  la- 
tina ad  Ai'dea  nel  442  (2)  non  si  spiegherebbe  se  la  sua  latinità 
non  fosse  stata  in  pericolo. 

Il  vigor  nuovo  degli  assalti  dei  Volsci  dipende  dunque  probabil- 
mente dal  rincalzo  che  ebbero  dagli  Equi,  che  forse  non  molto  dopo 
i  Volsci  avevano  cominciato  a  scendere,  anch'essi  sospinti  dalle  tribù 
sabelliche,  verso  la  pianm^a  latina.  A  quale  delle  stirpi  italiche  ap- 
partenessero gii  Equi  non  può  determinarsi  con  sicurezza,  poiché 
le  iscrizioni  in  dialetto  indigeno  venute  alla  luce  nel  loro  paese 
sono  di  dubbia  autenticità  (3).  Erano  una  tribù  montanara  che  abi- 
tava sparsa  in  villaggi  tra  il  lago  di  Fucino  e  le  vicinanze  di  Rieti 
sui  monti  Simbruini  e  nell'alte  valli  dell'Imella  e  dell' Aniene  che 
li  limitano  a  settentrione  e  a  mezzogiorno  (4).  Dal  loro  paese  bo- 
scoso ed  alpestre,  povero  e  inaccessibile,  essi  da  un  lato,  procedendo 
lungo  l'Aniene,  devastavano  il  territorio  tibra-tino  (5),  dall'altro  ad 


(1)  Liv.  IV  9  seg.  Cfr.  sopra  p.  48. 

(2)  Liv.  Ili  11.  DioD.  XII  34.  Pel  Pais  I  1,  553  la  colonizzazione  di  Ardea 
del  442  è  '  assurda  '.  Dicendo  ciò  il  Pais  dimentica  che  se  Ardea  non  fosse 
stata  colonizzata  dopo  il  500  circa,  non  comparirebbe  tra  le  colonie  latine, 
come  non  vi  è  inclusa  Cora.  11  foedus  Ardeatinum  del  440  (Liv.  IV  7, 10.  Dionys. 
XI  62)  non  è  probabilmente  che  una  invenzione  di  Licinio  Macro,  il  quale 
pretendeva  di  averlo  letto,  Liv.  IV  7,  12. 

(3)  NissEN  Landeskunde  I  514. 

(4)  Il  loro  territorio  aveva  forse  un  2000  km-  di  estensione;  ma  era  per  la 
massima  parte  deserto  e  inadatto   alla  coltivazione. 

(5)  Un  qualche  ricordo  delle  guerre  che  dovettero  sostenere  i  Tiburtini 
pare  si  conservasse,  v.  Serv.  Aen.  Vili  285,  dove  sembra  però  dover  essere 
confusione  tra  Equi  e  Volsci.  Cfr.  I  p.  387  n.  3. 


116  CAPO  XV -ALLEANZA   FRA  ROMANI,    LATINI   ED   ERNICI 

oriente  del  pianoro  d'Ai'cinazzo  invadevano  il  paese  degli  Ernici  ; 
e  nel  mezzo,  tra  Subiaco  ed  Affile  lasciando  l'alta  valle  dell' Aniene 
per  quella  del  Sacco,  si  spingevano  diritti  pel  passo  dell'Algido  nel 
cuore  del  Lazio.  La  mancanza  di  centri  cittadini  in  concorrenza 
tra  loro  fa  ritenere  clie  fossero  ordinati  ad  imita  con  parlamenti 
comnni  a  tutto  il  popolo  e  con  comuni  magistrati  temporanei  o 
permanenti  e  clie  quindi  sia  nel  vero  la  tradizione  raj)presentan- 
doli  sempre,  senza  eccezione,  come  una  tribù  unita.  Nella  storia  ro- 
mana (se  si  prescinde  da  un  accenno  alla  pretesa  pace  fatta  da  essi 
con  Tarquinio  il  Superbo)  (1)  son  menzionati  per  la  prima  volta 
nel  494  (2).  Di  qui  comincia  una  serie  monotona  di  notizie,  poco  o 
nulla  fededegne  nei  particolari,  di  devastazioni  e  di  battaglie,  tra 
cui  spiccano  raramente  qua  e  là  i  colori  della  genuina  leggenda 
popolare,  come  a  proposito  della  vittoria  di  Cincinnato  (458). 

Assai  bello,  ma  di  natura  molto  diversa  da  quello  di  Coriolano, 
era  il  carme  intorno  a  T.  Quinzio  Cincinnato.  Gli  Equi,  che  erano 
venuti  a  patti  coi  Romani,  dopo  un  anno,  rompendo  senza  motivo 
l'accordo,  sotto  la  guida  di  Gracco  Clelio,  devastano  il  territorio 
latino  e  si  accampano  all'Algido.  Gli  ambasciatori  inviati  da  Roma 
a  chieder  soddisfazione  sono  trattati  con  disprezzo  dal  duce  equo, 
che  li  invita  per  ischerno  a  parlare  con  la  quercia  che  ombreggiava 
la  sua  tenda  ;  e  allora  uno  degli  a,mb asciatori,  rivoltosi  all'albero, 
chiede  alla  sacra  quercia  e  agli  dèi  d'esser  testimoni  della  pace 
violata.  Muove  tosto  contro  gli  Equi  il  console  L.  Minucio,  che  dal 
nemico  viene  circondato  nel  suo  campo,  mentre  solo  cinque  cava- 
lieri giungono  a  portare  l'annunzio  in  Roma.  A  tale  notizia  tutti 
si  trovano  d'accordo  per  nominare  dittatore  T.  Quinzio  Cincinnato. 
Cincinnato  attendeva  a  lavorare  egli  stesso  il  suo  campicello  nel 
Trastevere,  quando  soi^ravvengono  i  messi  che  lo  invitano  a  vestire 


(1)  Liv.  I  55,  1.  —  Favola  etimologica  di  nessun  conto  è  la  provenienza 
dagli  Acquietili  dello  ius  fetiale,  v.  I  p.  302  n.  1. 

(2)  Liv.  II  30,  9.  31,  4.  Dionys.  VI  42.  Zon.  VII  14.  Anche  la  tradizione  meno 
interpolata  cominciava  assai  presto  a  parlare  degli  Equi,  v.  Diod.  XI  40 
ad  a.  484:  'Puj|uaToi  upòc;  AlKoXavoùq  koì  toù^  tò  ToOokXov  kotoikoOvtoc;  èv€- 
OTnaavTO  TróX€|uov  Kai  irpòq  luèv  AÌKoXavoùc;  luaxiv  auvctii^avrec;  èvÌKn(Jav  koì  ttoX- 
Xoù(;  TiJùv  TToXeiaiujv  eiXov,  Mera  hi.  raOra  tò  ToOokXov  ètgiToXiópKriaav  Kai  ti^v 
tOùv  AJKoXavOùv  iróXiv  èxeipuOaavTO.  Quale  che  sia  l'origine  di  queste  singolaris- 
sime notizie,  non  è  lecito  trattare  il  testo  arbitrariamente  come  fa  Burgee 
Sechzig  Jahre  p.  119  seg.  Al  più  invece  di  t^v  tOùv  Aìk.  potrebbe  congettu- 
rarsi 'OpTUJvr|v  AIk.  TTÓXiv. 


LA    LEGGENDA   DI   CINCINNATO  117 

la  toga  per  udire  gii  ordini  del  senato.  Fattasi  recar  la  toga  dalla 
moglie  Racilia,  Cincinnato,  ricevuta  la  notizia  della  sua  nomina, 
dolente  di  abbandonare  il  suo  campicello,  ma  ossequente  agii  or- 
dini, traversa  il  Tevere.  Il  giorno  dopo  si  sceglie  a  maestro  dei 
cavalieri  un  x3atrizio  povero,  ma  valoroso,  fa  chiudere  le  botteghe, 
sospende  i  giudizi  e  gii  affari,  e  ordina  a  tutti  i  cittadini  atti  alle 
armi  di  trovarsi  prima  del  tramonto  nel  campo  di  Marte,  ciascuno 
con  dodici  pali,  provvigioni  per  cinque  giorni  ed  armi.  Al  tramonto 
si  mette  in  marcia  ;  sulla  mezzanotte  è  già  all'Algido,  dove  avverte 
con  grida  Minucio  dell'insperato  soccorso.  Mentre  Minucio  fa  una 
sortita  contro  gii  assedianti,  le  truppe  di  Cincinnato  piantano  in 
terra  i  pali  onde  son  provvedute,  e  circondano  l'esercito  assediante 
d'una  immensa  palizzata.  Al  mattino  gli  Equi  son  già  assediati 
a  lor  volta  e  non  x30ssono  che  render  le  armi,  ottenendo  la  vita  a 
patto  di  passar  sotto  il  giogo.  Cincinnato  torna  trionfante  recando 
j)rigioniero  il  duce  spergiuro  degli  Equi,  e  dopo  sedici  giorni,  de- 
posta la  dittatura,  si  riduce  novamente  al  suo  campicello  (1). 

Le  inverisimigiianze  di  questo  racconto  saltano  agii  occhi 
d'ognuno.  Il  vallo  imprendibile  costruito  in  una  notte  attorno  alle 
trincee  degli  Equi,  che  erano  abbastanze  vaste  per  cingere  un  ac- 
campamento romano,  è  degno  di  stare  accanto  al  mm-o  che  in  un 
giorno  gli  Achei  d'Omero  eressero  attorno  alle  navi.  Ma  dove  la 
poesia  popolare  s'è  ciucata  della  rigorosa  verisimigiianza  ?  Nella 
narrazione  che  dà  di  questi  fatti  un  retore  greco,  il  razionalismo 
ha  cancellato  i  colori  dell'epopea  senza  ricostituire  la  storia.  Né 
certo  alcuno  ritenterà  l'impresa  osata  da  lui  o  dalla  sua  fonte  di 
cercare  il  nucleo  storico  della  leggenda  eliminandone  soltanto  il 
meraviglioso  e  l'inverisimile.  A  noi  basti  notare  che  sono  storiche 
le  lotte  con  gii  Equi  sull'Algido  e  che  questa  leggenda  ci  rappre- 
senta al  vivo  l'alternarsi  di  vittorie  e  di  sconfìtte  che  costringeva 
nel  sec,  V  i  Romani  a  vegliare  senza  tregua  nell'armi.  E  storico  è 
pure,  come  si  desume  dai  fasti,  il  personaggio  di  Cincinnato  e  non 
senza  motivo  il  suo  ricordo  dev'essere  soi3ravvissuto  nel  popolo. 
Ma  sarebbe  affatto  vano  il  cercare  quali  imprese  dei  vari  Quinzì 
o  dello  stesso  Cincinnato  fuse  insieme  e  abbellite  dalla  fantasia 
poetica  abbiano  fornito  il  sostrato  del  carme  epico.  Il  quale  è  certo 
d'origine  romana  perchè  indubitatamente  romano  n'ò  l'eroe  e  perchè 
fondati  sulla  esatta  conoscenza  di  cose  romane  molti  dei  partico- 


(1)  Liv.  Ili  25-29.  DioNYs.  X  22-25.  Nel  testo  e  seguito  Livio. 


118      CAPO  XV  -.  ALLEANZA  FRA  KOMANI,  LATLM  ED  ERNICI 


lari,  compreso  quello  del  campicello  di  Cincinnato  nel  Trastevere, 
che  proviene  dalla  denominazione  di  prati  Quinzi  data  a  un  ter- 
reno in  quella  regione  (1). 

I  motivi  caratteristici  di  questo  carme  si  trovano  ripetuti  più 
volte  nella  nostra  tradizione.  Così  il  richiamo  di  Cincinnato  dal- 
l'aratro non  è  riferito  soltanto  per  la  sua  dittatura  del  458,  sì 
anche  a  proposito  del  suo  consolato  del  460  (2)  ;  ma  è  facile  rico- 
noscere che  sta  a  suo  luogo  soltanto  in  occasione  della  dittatura, 
allorché  Cincinnato  partiva  per  una  impresa  militare  che  non  si 
sapeva  come  e  quando  sarebbe  terminata,  non  a  proposito  del  con- 
solato che  trascorse  in  Roma,  dove  poteva  tener  sempre  d'occhio 
il  suo  campicello  (3).  All'anno  464  poi  si  narra  già  di  un  Quinzio 
che  liberò  un  console  assediato  dagli  Equi  (4).  Ma  il  racconto,  vacuo 
e  prosaico,  si  chiarisce  a  prima  vista  per  una  copia  sbiadita  della 
leggenda  di  Cincinnato.  La  deliberazione  del  senato  che  incarica 
un  console  di  provvedere  affinchè  la  repubblica  non  soffra  detri- 
mento, la  nomina  di  T.  Quinzio  Capitolino  a  proconsole,  la  men- 
zione della  colonia  di  dubbia  autenticità  condotta  ad  Anzio,  il 
difettare  di  quei  particolari  locali  che  son  caratteristici  della  ge- 
nuina tradizione  romana,  il  numero  dei  morti  dato  con  una  pre- 
cisione che  rasenta  la  impudenza,  tutto  dinota  che  qui  abbiamo  a 
fare  con  una  delle  peggiori  falsificazioni  deirannalistica  sillana. 

E  anche  innegabile  l'efficacia  che  la  leggenda  di  Cincinnato 
ebbe  nel  racconto  dell'assedio  posto  dai  Volsci  sotto  il  duce  equo 
Cluilio  ad  Ardea  (443).  La  leggenda  della  lotta  tra  Volsci  e  Romani 
per  Ai-dea,  occasionata  dalla  contesa  tra  due  pretendenti  alla  mano 
d'una  fanciulla  (5),  è  senza  dubbio  assai  antica.  Ma  è  troppo  chiaro 
che  l'Equo  Cluilio,  il  quale  apparisce,  non  si  sa  come,  in  qualità 
di  duce  dei  Volsci,  è  lo  stesso  Gracco  Clelio,  il  duce  equo  vinto  da 
Cincinnato.  E  una  stessa  è  la  sorte  d'ambedue  :  vengono  l'mio  e 
l'altro  cinti  d'assedio  in  una  notte  quando  sono  anch'essi  asse- 
dianti,  costretti  alla  resa  e  riserbati  al  trionfo  del  vincitore,  mentre 


(1)  Plin.  n.  h.  XVIII  20.  Liv.  Ili  26,  8. 

(2)  DioNYS.  X  17.  Cic.  Cato  maior  16,  56  collega  il  fatto  con  la  pretesa  se- 
conda dittatura  di  Cincinnato  del  439  (sopra  p.  15),  forse  solo  per  un  errore 
di  memoria. 

(3)  Lo  stesso  vale  per  la  seconda  dittatura,  che  per  di  più  non  è  neppure 
storica. 

(4)  DioNYs.  IX  63.  Liv.  Ili  4. 

(5)  V.  s.  p.  48  e  115. 


GLI   EQUI   sull'algido  119 


il  loro  esercito  passa  sotto  il  giogo.  Di  clie  l'originale  è  da  cercare 
senza  dubbio  nella  leggenda  di  Cincinnato,  dove  il  racconto  pro- 
cede più  coerente  e  dove  un  duce  equo  è  a  posto  in  mezzo  a'  suoi 
connazionali  (1). 

Ad  ogni  modo  si  vede  chiaramente,  in  mezzo  alle  falsificazioni 
degli  annalisti  e  agli  abbellimenti  della  fantasia  popolare,  clie  la 
tradizione  aveva  conservato  vivo  il  ricordo  del  tempo  in  cui  gli 
Equi  accampati  sull'Algido  spargevano  il  terrore  fino  alle  porte 
di  Tuscolo  e  di  Roma.  I  colli  Laziali  son  chiusi  ad  oriente  con 
un'alta  parete  montagnosa  da  Tuscolo  a  Velletri,  che  ha  a  sud  la 
sua  cima  più  alta  nel  monte  Peschio  (936  m.).  Questa  specie  d'an- 
temurale del  paese  latino  è  traversato  da  una  gola  solitaria  lunga 
un  mezzo  miglio,,  alta  540  metri  sul  livello  del  mare,  la  Cava  o 
Cava  d'Aglio,  in  cui  si  conserva  tuttora  il  nome  dell'Algido,  che 
è  la  naturale  linea  di  comunicazione,  seguita  poi  dalla  via  Latina, 
tra  le  sj)onde  del  lago  Albano  e  la  valle  del  Sacco.  Traversa  il 
monte  poco  più  a  tramontana  un  passo  meno  agevole  alto  619  m. , 
noto  ora  col  nome  di  selva  dell'Aglio.  Tra  l'una  e  l'altra  via  s'in- 
nalza il  monte  Fiore,  dov'era  evidentemente  il  campo  fortificato 
degli  Equi  sull'Algido  (2).  Non  lontane  dall'Algido  sembrano  es- 
sere state  i)iù  o  meno  a  lungo  in  mano  degli  Equi  le  città  latine 
di  Labici,  Boia,  Carvento  ed  Ortona,  con  la  vicina  fortezza  di 
Corbione  (3),  e  persino  Tuscolo   appare  qualche  volta  nella  tradi- 


(1)  Errata  in  tutto  è  l'analisi  che  dà  della  leggenda  di  Cincinnato  il  Pais 
I  1  p.  526,  il  quale  crede  che  '  l'episodio  del  console  Minucio  liberato  da  Cin- 
cinnato nell'Algido  non  sia  che  la  perfetta  duplicazione  del  ben  noto  fatto 
del  217  a.  C.  in  cui  il  dittatore  Fabio  Massimo  trasse  d'imbarazzo  C.  Minucio 
il  suo  maestro  della  cavalleria  '.  Non  credo  che  confronti  simili  possano  citarsi 
se  non  a  titolo  di  curiosità. 

(2)  Per  la  topografia  v.  Njssen  Landeslcunde  II  595  seg.  Per  equivoco  Dio- 
nisio (X  21.  XI  3  etc,  cfr.  Steph.  Byz.  s.  v.  'AXti&oc)  parla  di  una  città  sul- 
l'Algido. Nulla  ha  a  fave  ad  ogni  modo  col  castello  degli  Equi  1'  "AXyiòov 
TtoXixviov  di  cui  parla  Strab.  V  237,  che  è  una  stazione  sulla  via  Latina. 

(3)  Labici  è  da  cercare  a  Colonna  (ove  fu  nell'età  imperiale  la  sede  della 
res  publica  Lavicanoriim  Quintanensium)  o  più  verisimilmente  a  Monte  Compatri, 
v.  ToMAssETTi  '  Bull.  archeol.  comunale  '  XXVII  (1899)  p.  288  segg.  '  Diss.  della 
pont.  Accademia  romana  di  archeol.'  ser.  Il  t.  Vili  (1903j  p.  45  segg.,  a  cui 
meglio  sembra  attagliarsi  il  cenno  di  Strab.  V  p.  237  :  Aa3iKLÙ  TiaXaiLÙ  KTia|uaTi 
KaTeairaaiuéviu,  Keiiaéviy  ò'  èqp'  ùi|JOUi;.  Labici  che  vien  riguardata  come  colonia 
albana  (Diod.  VII  5,11)  e  di  fatto  partecipava  alla  lega  albana  (I  p.  379  n.  1 
nr.  32)  è  inserita  tra  le  città  della  pretesa  lega  latina  di  Dionys.  V  61  e  tra 


120  CAPO   XV  -  ALLEANZA    FRA   ROMANI,    LATINI   ED    ERNICI 

zione  in  loro  potere  o  in  alleanza  con  essi  (1).  Tace  invece  la  tra- 
dizione di  Preneste;  ma  è  evidente  che  senza  accordi  con  questa 
potente  città  gli  Equi  non  possono  avere  occupato  l'Algido  e  le 
città  vicine,  esponendosi  ad  essere  tagliati  fuori  delle  loro  mon- 
tagne nel  cuore  d'un  paese  nemico.  E  chiaro  quindi  che  Preneste, 
come  non  faceva  parte  della  lega  latina  al  tempo  in  cui  fu  dedi- 
cata l'ara  di  Diana,  cosi  non  partecipava  alla  lega  stessa  nel  V  se- 
colo, e  lasciando  che  gii  Equi  devastassero  impunemente  il  territorio 


le  conquiste  di  Coriolano  (sopra  p.  113  n.  2).  I  Romani  l'avrebbero  riconqui- 
stata sugli  Equi  nel  418  (Liv.  IV  47.  Diod.  XIll  6)  inviandovi  1500  coloni. 
Inutilmente  poi  gli  Equi  l'assediano  nel  398  (Liv.  V  16)  e  ne  devastano  il 
territorio  nel  383  (VI  21).  —  Boia,  citata  tra  le  colonie  albane  da  Y erg.  Aen. 
VI  775  (in  Diod.  VII  5,  11  pare  si  alludesse  a  Boville),  di  posizione  incerta, 
ma  da  cercare  nelle  vicinanze  di  Labici,  è  ricordata  tra  le  conquiste  di  Corio- 
lano; ad  ogni  modo  cadde  nelle  mani  degli  Equi,  e  come  città  equa  appare 
in  Liv.  IV  49,  3,  quando  se  ne  impadroniscono  nel  415  i  Romani.  Nell'anno 
seguente  414  è  riperduta  e  ripresa  con  evidente  raddoppiamento  (Liv.  IV  49. 
DioD.  XIII  6,  8).  Gli  Equi  l'assediano  novamente  invano  nel  389  (Liv.  VI  2. 
Diod.  XIV  117),  dopo  di  che  essa  sparisce  dalla  storia. —  Carvento,  anch'essa 
di  posizione  incerta,  ricordata  nella  lista  delle  città  latine  da  Dionys.  V  61, 
partecipò  probabilmente  alla  lega  albana  (I  p.  379  n.  1  nr.  8).  Livio  assicura 
(17  53)  che  nel  410  gli  Equi  s'impadronirono  deir«r.r  Carvetiiana,  che  iwpevò 
ricuperata  dai  Romani  lo  stesso  anno,  e  l'anno  seguente  (IV  55)  fu  ripresa 
dagli  Equi  e  invano  ritentata  dai  Romani;  dove  evidentemente  si  tratta  della 
ripetizione  d'una  stessa  notizia  più  o  meno  alterata  sotto  due  date  vicine.  -- 
Ortona,  che  probabilmente  fece  parte  anch'essa  della  lega  albana  (1.  e.  nr.  12), 
fu  assalita  secondo  Liv.  II  43  nel  482  dagli  Equi  e  conquistata  nello  stesso 
anno  secondo  Dionys.  VII!  91  (per  una  possibile  menzione  anteriore  in  Dio- 
doro, V.  sopra  p.  116  n.  2);  perduta  poi  e  ricuperata  dai  Romani  nel  457 
stando  a  Liv.  Ili  30.  Dionys.  X  26  narra  soltanto  come  gli  Equi  se  ne  impa- 
dronirono e  vi  fecero  strage  dei  Latini.  —  Corbione,  forse  corrispondente  a 
Rocca  Priora,  è  nella  lista  delle  città  latine  di  Dionys.  V  61,  vien  tuttavia 
presa  d'assalto  dai  Latini  nella  guerra  con  Roma  (VI  3)  ed  e  poi  menzionata 
tra  le  conquiste  di  Coriolano  (Liv.  II  39.  Dionys.  VIII  19).  Ripresa  da  Cincin- 
nato nel  458  (Liv.  III  28.  Dionys.  X  24)  e  perduta  di  nuovo  l'anno  seguente  457, 
viene  l'anno  stesso  ricuperata  e  distrutta  dopo  una  battaglia  che  è  evidente 
reduplicazione  della  vittoria  di  Cincinnato  (Liv.  Ili  28.30.  Dionis.  X  26.  30);. 
e  tuttavia  ricompare  come  città  equa  nel  446  (Liv.  Ili  66.  69). 

(1)  Così  nel  484,  v.  sopra  p.  116  n.  2.  Nel  459  poi  secondo  Livio  (111  23) 
la  rocca  e  secondo  Dionisio  (X  20)  la  città  e  la  rocca  di  Tuscolo,  occupate 
dagli  Equi,  son  ricuperate  dai  Tusculani  per  l'aiuto   di  Roma. 


LA    BATTAGLIA   DELl' ALGIDO  121 

de'  suoi  connazionali,  profittava  della  loro  alleanza  per  opjpriinere 
i  vicini  più  deboli  (1). 

Grrave  era  dunque  la  condizione  dei  Romani  e  dei  Latini  a  fronte 
degli  Equi  e  dei  Volsci  circa  la  metà  del  sec.  V.  Ma  nella  seconda 
metà  di  quel  secolo  i  Romani  riuscii'ono  finalmente  a  discacciare 
gii  Equi  dall'Algido.  Questo  avvenimento  è  ricordato  nel  racconto 
tradizionale  della  vittoria  che  riportò  sugli  Equi  presso  l'Algido 
il  dittatore- A.  Postumio  Tuberto  nel  431  (2).  Anche  qui  nell'eser- 
cito consolare  circondato  dagli  Equi,  i  quali  da  assedianti  divengono 
Xooi  alla  lor  volta  assediati,  deve  ravvisarsi  evidentemente  una 
nuova  copia  della  leggenda  di  Cincinnato.  Ma  se  l'ajjplicazione  di 
questo  motivo  leggendario  a  Postumio  è  tarda  ;  se  è  tarda  proba- 
bilmente anche  la  confusione  tra  gli  Equi  e  i  Volsci  che  appare 
nel  racconto  liviano  della  battaglia,  dove  invece  altri  parla  sol- 
tanto di  Equi  ;  se  la  uccisione  del  figlio  per  aver  trasgredito  la 
disciplina  (3),  attribuita  tanto  a  Postumio  quanto  ad  A.  Manlio  il 
vincitore  dei  Latini,  è  forse  originaria  nel  racconto  del  combatti- 
mento tra  Romani  e  Latini  con  cui  appare  stretta  di  più  intimo 
nesso  ;  il  fatto  stesso  della  grande  vittoria  di  Postumio  che  sloggiò 
gli  Equi  dall'Algido  è  difficilmente  da  revocare  in  dubbio,  e  da 
esso  data  giustamente  la  nostra  tradizione  la  ripresa  della  lotta 
offensiva  dei  Romani  contro  gli  Equi  ed  i  Volsci.  La  impressione 
della  vittoria  fu  tanto  profonda  che,  mentre  sull'anno  x3reciso  v'è 
qualche  leggera  discrepanza  (4),  s'è  conservato  il  ricordo  di-  quel 
giorno  fausto  nella  primitiva  storia  romana,  il  19  giugno  (5).  Ed 
è  fors'anche  autentico  il  nome  del  duce  avversario  Vettio  Messio, 
uno  dei  pochissimi  comandanti  nemici  ricordati  negli  annali  romani 
pel  sec.  V,  che  peraltro,  se  è  personaggio  storico,  deve  ritenersi, 
contro  la  tradizione,  non  volsco,  ma  equo.  In  sostanza,  nella  leg- 
genda di  Coriolano  il  x^ersonaggio  principale  o  non  è  storico  o  fu 
trasportato  in  mezzo  a  circostanze  assai  diverse  da  quelle  tra  cui 
era  vissuto,  non  v'è  né  cronologia  né  esattezza  di  particolari  topo- 
grafici, ma  solo  il  ricordo  dell'invasione  dei  Volsci  nel  Lazio  ;  nella 


(1)  Il  che  non  vuol  dire  peraltro  ch'essa  sia  mai  stata  città  equa,  come  ri- 
tengono NiEBUHR  II  650  seg.  e  Clason  Rum.  G.  I  79.  Certo  è  che  da  Preneste 
abbiamo  anzi  il  più  antico  documento  latino  a  noi  pervenuto,  la  famosa  fibula. 

(2)  Liv.  IV  27-29.  Diod.  XII  64.  Plut.  Camill.  2. 

(3)  Liv.  e  Diod.  11.  citt.  Val.  Max.  II  7,  6.  Gkll.  n.  A.  XVll  21,  17. 

(4)  Diod.  1.  e.  riferisce  infatti  la  dittatura  di  Postumio  al  432. 

(5)  OviD.  fasi.  VI  721  segg. 


122  CAPO   XV  -  ALLEANZA   FRA   ROMANI,   LATINI   ED   ERNICI 


leggenda  di  Cincinnato,  storico  è  il  personaggio,  la  cronologia  al- 
meno approssimativamente  slemba,  l'Algido  il  reale  campo  di  bat- 
taglia tra  Equi  e  Romani,  netto  il  ricordo  delle  lotte  combattute  tra 
essi  con  varia  fortuna,  ma  il  fatto  o  i  fatti  particolari  che  diedero 
occasione  alla  leggenda  sfuggono  all'  analisi  storica  ;  col  racconto 
della  vittoria  di  Postumio  Tuberto  siamo  ormai  sul  limitare  della 
storia  ;  onde,  sfrondatolo  dei  iJ articolari  leggendari,  non  è  da  porre 
in  dubbio  la  realtà  del  fatto,  quand'anche  si  volesse,  per  la  notata 
incertezza  della  cronologia,  dir  sicuro  soltanto  che  sia  anteriore 
all'assedio  di  Veì  ed  ai  trionfi  che  i  Romani  riportarono  intorno 
alla  fine  del  sec.  V  sui  Volsci.  E  la  tradizione  è  certo  nel  vero 
quando  mostra  i  Romani  negli  anni  innanzi  alla  invasione  gallica 
procedere  ormai  alle  offese  contro  gii  Equi,  ricuperare  le  città  la- 
tine perdute  e  ridurre  gii  Equi  a  tale  che  anche  della  catastrofe 
gallica  non  furono  in  grado  d'approfittare  i^er  tentare  una  efficace 
riscossa  (1).  Infatti  secondo  la  nostra  tradizione  dal  388  fino  al  ter- 
mine della  seconda  guerra  sannitica  essi  rimasero  inattivi  e  tran- 
quilli fra  i  loro  monti,  mentre  il  territorio  che  s'erano  disputato 
gli  Equi  ed  i  Latini  si  contendeva  ormai  tra  Roma  e  Preneste  (2)  ; 
giacché  Preneste  da  una  parte,  e  dall'altra  i  Latini  in  lega  con 
Roma  si  fronteggiavano  ora  immediatamente;  e  tra  essi  non  erano 
più  né  le  minuscole  città  latine  pronte  a  volgersi  dall'uno  all'altro 
dei  contendenti,  né  gli  accampamenti  trincerati  degli  Equi. 

E  intanto  Roma,  impedita  la  efficace  cooiDcrazione  tra  Equi  e 


(1)  V.  per  queste  ultime  lotte  con  gli  Equi,  di  cui  naturalmente  non  pos- 
siamo ricostruire  i  particolari,  i  testi  citati  sopra  p.  108  n.  3  e  p.  1119  n.  3. 
Inoltre  Diodoro  menziona  all'a.  393  la  conquista  di  una  Aiq)\ov  -nóXiv  (XIV  102) 
e  al  392  la  conquista  di  una  AiqpoiKOuav  -rróXiv  (XIV  106),  che  sembra  aver  avuto 
grande  importanza.  Il  Mommsen  congettura  {CIL.  IX  p.  388)  AÌkXov  ed  AìkikXov 
{resp.  Aequiculanorum)  ;  Burger  Sechzig  Jahre  p.  120  e  122  nel  primo  testo 
ATdbXov  (Aefiila,  cfr.  Horat.  carni.  Ili  29;  per  la  posizione  v.  Ashby  '  Papers 
of  the  Br.  school  at  Rom  '  III  p.  132  seg.),  nel  secondo  ZoupXdtKouav.  È  incre- 
dibile affatto  che  i  Romani  si  siano  spinti  nel  territorio  della  posteriore  resp. 
Aequiculanorum.  Perciò  son  da  respingere  le  congetture  del  Mommsen.  L'ultima 
del  Burger  è  tanto  arbitraria  da  non  poter  essere  neppure  discussa.  Felice  è 
invece  la  correzione  AlqpXov  ;  ed  essendo  assai  frequente  il  caso  che  lo  stesso 
avvenimento  sia  ripetuto  sotto  due  anni  successivi,  possiamo  congetturare  che 
della  stessa  città  si  tratti  anche  nel  secondo  testo.  Alcuni  codd.  hanno  ap- 
punto AicpoÌKOv.  Nulla  di  più  agevole  paleograficamente  che  la  correzione  di 
AlcDOIKAN  in  AlcDOYAAN. 

(2)  V.  oltre  e.  XVIII. 


I    SABIXI  123 

Volsci,  procedeva  vittoriosamente  anche  contro  i  Volsci.  Secondo 
la  nostra  tradizione  che,  nonostante  qualche  alterazione  o  redupli- 
cazione, è  ormai  sostanzialmente  veridica,  Velletri  fu,  sia  pure  per 
breve  spazio  di  tempo,  ricuperata  (1),  la  fortezza  di  Verrugine,  im- 
jjortante  per  tutelare  o  impedire  l'unirsi  degli  Equi  e  dei  Volsci, 
fu  disputata  con  varia  fortuna  (2),  Artena  fu  distrutta  (3),  Satrico 
almeno  temporaneamente  sottomessa  (4),  e  tino  a  sud  d'Anzio  oc- 
cupata Circei,  che  poi  si  ridusse  a  colonia,  e  raggiunta  Anxur, 
mentre  gli  Ernici,  con  l'appoggio  dei  loro  alleati  Latini,  strappa- 
vano ai  Volsci  Ferentino  (5).  I  Volsci  erano  evidentemente  impo- 
tenti a  resistere;  sicché  quand'anche  la  pace  chiesta  ed  ottenuta 
da  essi  nel  396  (6)  fosse  una  semplice  induzione  d'  annalisti,  sa- 
rebbe induzione  giustificata.  Allorché  la  catastrofe  gallica  mise  in 
forse  l'esistenza  stessa  di  Roma,  la  lega  latina  possedeva  nel  paese 
^'olsco  le  tre  antiche  fortezze  di  Cora,  Norba  e  Signia,  e  come 
estremo  avamj)osto  Circei  ;  e  mentre  Velletri  era  rientrata  a  far 
parte  della  lega,  erano  state  probabilmente  costrette  a  farvi  ade- 
sione le  città  volsche  di  Anzio  e  di  Anxm\ 

Assai  più  pacifiche  che  non  quelle  con  gli  Equi  ed  i  Volsci 
fui'ono  in  generale  le  relazioni  dei  Romani  con  un  altro  dei  popoli 
confinanti ,  i  Sabini  (I  p.  105  n.  2).  Quelle  fra  le  tribù  sabelliche 
a  cui  rimase  il  nome  di  Sabini,  abitavano  una  vasta  estensione  di 
territorio  a  cavaliere  dell' Apennino,  che  nella  sua  massima  lun- 
ghezza si  stendeva  all'inch'ca  dal  confluente  tra  l'Aniene  ed  il  Te- 
vere alle  sorgenti  della  Nera.  La  leggenda  che  per  l'età  regia  e 
per  la  prima  metà  del  V  secolo  parla  d'invasioni  sabine  a  Roma 
e  nel  Lazio  riguarda  anche  i  Sabini  come  costituiti  ad  unità  poli- 
tica. Ma  è  cliiaro  che  i  Romani  non  ebbero  a  fare  che  con  le  tribù 
sabme  contigue  al  loro  territorio.  Unione  stretta  fra  le  stirpi  sa- 
bine non  esisteva  neppure  sul  principio  del  sec.  IH,  come  mostra  la 
facilità  con  cui  allora  i  Romani  soggiogarono  questa  popolazione 


(1)  Avrebbe  ricevuto  nuovi  coloni  nel  404,  Diod.  XIV  34,  7.  Si  ribellò  nova- 
mente  però  nel  393  secondo  Diod.  XIV  102,  4.  Livio  non  parla  della  sua  ribel- 
lione che  dopo  la  catastrofe  gallica. 

(2)  V.  sopra  p.  108  n.  3. 

(3)  Nel  404  secondo  Liv.  IV  61. 

(4)  V.  sopra  p.  108  n.  4.  Per  Circei  ed  Anxur  n.  5  e  6. 

(5)  Nel  418  secondo  Liv.  IV  51. 

(6)  Liv.  V  23,  12.  Per  gli  Equi  la  cosa  non  è  tanto  chiara,  perchè  vien  ri- 
ferito che  nel  394  s'impadronirono  di  Verrugine,  v.  s.  p.  108  n.  3. 


124:  CAPO   XY  -  ALLEANZA   FRA   ROMANI,    LATINI   ED   ERNICI 

non  imbelle  né  poco  numerosa.  Probabilmente  i  Sabini  delle  valli 
di  Terni  e  di  ISTorcia  avevano  apxjena  un  lontano  sentore  delle  scor- 
rerie che  si  facevano  sulle  sponde  dell' Aniene.  Del  resto  ostilità 
fra  Sabini  e  Latini  nei  primi  secoli  di  Roma  certo  non  manca- 
rono. Ma,  prescindendo  dalla  guerra  leggendaria  tra  Romolo  e 
Tazio  (I  p.  220  segg.),  il  racconto  impreciso,  scolorito,  convenzio- 
nale delle  lotte  coi  Sabini  fino  al  449,  l'ultimo  anno  in  cui  se  ne 
fa  parola  prima  delle  guerre  sanniticlie,  mostra  che  si  trattava  di 
cose  tanto  remote  e  di  sì  poco  conto,  che  la  tradizione  ne  conser- 
vava appena  un  languido  ricordo.  Lo  stesso  episodio  più  singolare, 
quello  della  occupazione  improvvisa  del  Campidoglio  per  opera  del 
Sabino  Appio  Erdonio  (1),  appare  tanto  isolato  cìa  ogni  precedente, 
ed  è  narrato  in  modo  si  confuso  che,  piu"  riconoscendovi  qualche 
fondamento  di  verità,  riesce  malagevole  valutarne  la  importanza  ed 
il  significato.  I  particolari  del  resto  con  cui  alcune  volte  son  narrate 
le  guerre  romano-sabine  sono  in  generale  d'invenzione  recente;  e 
qualche  indizio  sul  loro  autore  ci  dà  tanto  la  parte  preponderante 
che  vi  hanno  i  Valeri  quanto  la  ridicola  precisione  di  dati  numerici 
con  cui  son  narrati  alcuni  di  quei  combattimenti,  il  cui  racconto 
è  pel  rimanente  assai  sbiadito.  Ciò  vuol  dire  che  in  età  assai  re- 
mota, favorite  dal  progredire  dell'incivilimento  e  dall'affinità  di 
stirpe  e  di  religione  tra  i  Sabini  e  una  i3arte  almeno  dei  sudditi 
romani  o  latini,  si  sono  stabilite  relazioni  di  buon  vicinato  tra  gli 
uni  e  gli  altri.  Relazioni  simili  presuppongono  un  confine  preciso: 
né  andiamo  lungi  dal  vero  ritenendo  che  questo  fosse  dove  ap- 
l)unto  lo  colloca  la  tradizione,  presso  Ereto  (2),  che  é,  x)rescindendo  da 
Curi,  l'unica  terra  sabina  che  ci  venga  ricordata  tra  queste  guerre. 
S'intende  clie  il  dominio  romano-latino  non  si  dilatò  fino  al  decimo- 
nono miglio  da  Roma  se  non  a  poco  a  poco.  Al  di  qua  i  territori 
delle  tribù  Claudia  e  Clustumina  difficilmente  fm'ono  incorporati 
dai  Romani  innanzi  ai  iDrimi  anni  della  repubblica,  né  i  Tibmiini 
conquistarono  ad  un  tratto  il  vasto  territorio  che  possedevano  al 
di  là  dell' Aniene.  Nomento  poi  non  fece  adesione  alla  lega  latina 
prima  del  trattato  cassiano  (3),  mentre  Fidene  rimase  fedele  fino 
alla  sua  caduta  alla  politica  di  cercar  salvezza  dalla  supremazia 


(1)  V.  sopra  p.  32. 

(2)  Oltre  i  testi  citati  I  p.  172  n.  1  v.  anche  Dionys.  Ili  32,  4.  59,  1.  IV  51. 
Val.  Max.  II  4,5.  Non  son  accettabili  le  congetture  del  Bvrì^ìkr  Sechzig  JaJi re 
p.  124  seg. 

(3)  V.  sopra  p.  92. 


GUERRE    COI   VEIENTI  125 


romana  nella  nnione  con  Veì.  Del  rimanente,  le  ipotesi  moderne 
che  spiegano  il  tacersi  di  guerre  coi  Sabini  nella  nostra  tradizione 
posteriore  alla  metà  del  sec.  V  con  lo  spopolamento  del  paese  sa- 
bino (1)  sono  arbitrarie  e  poco  sostenibili.  Anche  più  arbitraria  è 
quella  che  senza  alcun  fondamento  di  tradizione  riporta  alla  se- 
conda metà  di  quel  secolo  l'avanzata  dei  Sabini  contro  Roma,  e  con 
essa  il  sostrato  storico  della  leggenda  di  Tito  Tazio  (I  p.  220  n.  1), 
quando  al  contrario  appunto  allora  i  Latini  iniziarono  una  rapida 
espansione  nei  territori  confinanti. 

Al  confine  settentrionale  combatterono  i  Romani  nel  sec.  V  ad 
intervalli,  ma  con  accanimento.  Non  fu  però,  dopo  la  caduta  del 
dominio  etrusco  nel  Lazio,  una  grande  guerra  nazionale  tra  Etruschi 
e  Latini,  si  una  lotta  tra  due  città  rivali.  Infatti  tra  le  città  della 
bassa  valle  del  Tevere,  due  nel  sec.  VI  erano  riuscite  a  superare 
tutte  le  altre  ed  a  crescere  a  loro  spese,  una  etrusca  a  nord,  una 
latina  a  sud  del  fiume,  Veì  e  Roma.  Veì  non  aveva  il  vantaggio 
della  posizione  sul  Tevere,  e  quindi  più  arduo  le  riusciva  assicurarsi 
il  beneficio  della  libera  navigazione  del  fiume  e  arricchirsi  pel 
commercio  fluviale.  In  compenso  dominava  sopra  un  territorio  molto 
più  fertile  (2),  ed  aveva  una  posizione  più  forte  assai  e  più  sana 
(v.  I  p.  151),  al  coperto  d'ogni  sorpresa  dalla  parte  del  Tevere,  sur 
un'altura  di  tufo  circondata  da  ogni  parte,  fuorché  all'angolo  nord- 
ovest, da  corsi  d'acqua  e  fornita  d'acqua  potabile  assai  migliore, 
mentre  i  Romani  dovevano  in  genere  contentarsi  dell'acqua  dei 
pozzi  o  di  quella  impm-a  del  Tevere  (3). 

La  prima  guerra  con  Veì  fu  combattuta,  secondo  la  leggenda, 
da  Romolo,  il  quale  costrinse  i  Veienti  a  cedere  ai  Romani  le  sa- 
line alla  foce  del  fiume  e  il  territorio  transtiberino  dei  Sette  Pagi  (4). 
Codesti  pagi  non  sappiamo  precisamente  dove  fossero,  ma  certo 
appartenevano  poi  almeno  in  parte  alla  tribù  Romilia  (5),  e  questo 


(1)  NiEBUHR  Rom.  G.  II  504. 

(2)  Liv.  V  24,  6:  ager   Veientanus....  iihenor  Romano  agro. 

(3)  DioNYS.  XII  1.5  :  J^v  òè  l'i  Oùievxavtjùv  ttóXic;  oùGèv  ÙTtoòeearépa  xf^i;  'Pibjuric; 
èvoiKeiaGai.  y^v  te  ttoXXi'iv  koì  TroXuKapTTOv  Ixoxìaa,-.-  Kaì  tòv  ÓTTepKei,u€vov  àépa 
KaGapiijTOTOv  koì  Trpòc  ùyteiav  àvOpuOirOK;  apioTov...ùòàTUJv  xe  où  airaviaiv  òvtujv 
oùò'  ètraKTUJv  àXX'  aù9iY€vOL»v  Kal  irXouaiiJUv  koI  iriveoGai  KparioTUuv. 

(4)  DioNYs.  II  55.  Pi.UT.  Rom.  24;  cfr.  Liv.  I  15. 

(5)  Fest.  epit.  p.  271  :  Romulia  tribus  dieta  qiiod  ex  co  agro  censebatur  quem 
Romnlus  ceperat  ex  Veientibus.  Cfr.  Varb.  de  l.  l.  V  56  e  il  nome  del  console 
del  455  T.  Romilio  Vaticano  citato  dal  Beloch  R.  Band.  p.   29. 


126  CAPO   XV  -  ALLEANZA   FRA   ROMANI,   LATINI  ED   ERNICI 

spiega  come  a  Romolo  se  ne  sia  attribuita  l'occupazione.  D'un 
altro  xjossedimento  romano  verso  la  foce  del  Tevere  la  conquista 
sui  Veienti  è  ascritta  a  re  Anco  Marcio,  la  selva  Mesia,  il  cui  le- 
gname egli  avrebbe  destinato  alle  costruzioni  navali  (1).  Questa 
regione  oltre  il  Tevere,  se  fu  rapidamente  conquistata,  fu  poi  aspra- 
mente contesa  tra  Romani  ed  Etruschi.  Di  tali  contese  serba  un 
ricordo  sia  la  leggenda  della  battaglia  della  selva  Arsia  (I  p.  408), 
sia  la  leggenda  di  Porsenna,  nel  particolare  che  il  re  etrusco 
avrebbe  rimesso  ai  Veienti  il  territorio  dei  Sette  Pagi  tolto  per 
trattato  ai  Romani,  per  poi  restituirlo  ai  Romani  stessi  dopo  il 
combattimento  d'Arici  a  (2). 

La  lotta  coi  Veienti  ricominciò  secondo  la  tradizione  nel  485  o 
nel  483  (3),  limitandosi  sul  principio  a  devastazioni  di  territorio 
per  poi  assumere  prox3orzioni  maggiori  nel  481  (4).  Quell'anno,  es- 
sendo il  console  Cesene  Fabio  avversato  dai  suoi  stessi  soldati,  la 
fanteria  romana  lasciò  gli  Etruschi  padroni  del  cam]30  di  battaglia. 
Ma  l'anno  seguente  (480)  Cn.  Manlio  e  M.  Fabio  riuscirono  a  ri- 
XDortare  una  grande  vittoria,  di  cui  si  discorre  con  particolari  mi- 
nuti e  prosaici  (5).  Invece  l'anno  di  poi  (479)  il  console  T.  Verginio, 
sconfitto  e  cii'condato  dai  Veienti,  sarebbe  xjerito  se  il  collega 
Cesene  Fabio  non  fosse  accorso  a  salvarlo,  senza  poter  però  im- 
pedire che  gli  Etruschi  devastassero  il  territorio  romano  fino  al 
Gianicolo  (6).  Allora  i  Fabì,  in  numero  di  trecento,  accollando  a 
se,  nell'interesse  della  x>atria  che  aveva  a  lottare  con  tanti  nemici, 
il  carico  della  guerra  veiente,  deliberarono,  passato  il  Tevere,  di 
occupare  una  fortezza  sul  Cremerà  (7).  Riusci  vano  l'assalto  che 
le  diedero  nel  478  con  truppe  di  tutta  l'Etrm-ia  i  Veienti;  i  quali 
sconfìtti  dal  console  L.  Emilio  si  x)iegarono  a  chieder  pace,  violan- 
dola subito  dopo;  e  fu  fortunata  questa  violazione,  perchè  l'anno 
seguente  riuscirono  a  fare  strage  dei  Fabi  al  Cremerà.  Il  disastro 
dei  Fabi,  raccontato  con  molte  varianti,  è  i^erò  riferito  come  segue 
dalla  tradizione  i)iù  diffusa.  I  Veienti,  cimentatisi  rix)etutamente 
coi  Fabì  in  campo  ax)erto  con    fortuna  avversa,  ricorsero  per  an- 


(1)  Liv.  I  33,  cfr.  Cic.  de  re  i).  II  18,  33.  Auct.  de  vir.  ili.  5,  2. 

(2)  Liv.  II  13,  4.  15,  6. 

(3)  Nel  485  secondo  Dionvs.  Vili  82;  nel  483  secondo  Liv.  II  42. 

(4)  Liv.  II  43.  DioNYS.  IX  1-4. 

(5)  Liv.  II  44-47.  DioNYs.  IX  5-13. 

(6)  Liv.  II  48.  DioNYs.  IX  14. 

(7)  Liv.  II  48-50.  DioNYs.  IX  15-22.  Ovid.  fast.  II  196  segg. 


I   FABI   AL   CREMERÀ  127 


iiientarli  all'astuzia.  Per  ispirare  fiducia  ai  Romani  conducevano 
delle  greggie  nelle  vicinanze  del  forte  dei  Fabì  e,  quando  i  Fabi 
uscivano  a  farne  preda,  con  finto  timore  si  davano  alla  fuga.  Fi- 
nalmente una  volta  i  Fabì  clie  inseguivano  i  fuggiasclii,  arriscliia- 
tisi  assai  lontano  dal  forte,  si  lasciarono  trarre  in  un  agguato  e, 
circondati,  fm'ono  uccisi  fino  all'ultimo.  Da  questa  strage  che 
IDrostrò  quella  gente  numerosa  e  bellicosa  scampò  uno  solo  dei 
Fabì,  il  fanciullo  Q.  Vibulano,  che  appunto  per  la  sua  età  era  ri- 
masto in  Roma.  Né  s'arrestarono  a  questo  i  successi  fortunati  dei 
Veienti;  che  dopo  avere  sconfitto  l'esercito  del  console  T.  Menenio 
inviato  alla  riscossa,  essi  poterono  impadronirsi  del  Grianicolo,  e, 
postovi  un  accampamento  fortificato,  minacciare  la  stessa  Roma  (1). 
Per  un  momento  (-1:76)  Roma  corse  serio  pericolo,  e  cominciò  ad 
infierirvi  la  fame.  Ma  poi  gli  Etruschi,  che  avevano  passato  il 
Tevere,  fm-ono  battuti  presso  la  porta  Collina,  e  i  Romani  riu- 
scirono a  ricui3erare  il  Grianicolo,  dove  cadde  in  loro  potere  il 
campo  etrusco  con  tutte  le  sue  ricchezze.  La  superiorità  delle 
armi  romane  fu  novamente  dimostrata  nel  475  dal  console  P.  Va- 
lerio con  una  vittoria  sui  Veienti  congiunti  ai  Sabini  (2);  talché 
nell'anno  seguente  (474)  si  concluse  coi  primi  una  pace  (3),  dopo  la 
quale  la  nostra  tradizione  non  parla  i^iù  di  Veienti  fino  al  437. 

Tutti  i  particolari  di  questo  racconto  della  guerra  veiente  che 
precedette  e  segui  la  strage  del  Cremerà  son  da  avere  sospetti. 
La  vittoria  del  480  é  narrata  per  diffuso,  ma  sopra  uno  schema 
generico,  senza  né  la  concisione  delle  notizie  documentali  né  il  co- 
lorito poetico  e  i  particolari  locali  della  leggenda;  per  modo  che 
il  racconto,  profondamente  diverso  da  quelli  delle  battaglie  del 
Regillo,  della  selva  Arsia  e  del  Cremerà ,  anziché  della  leggenda 
genuina  cantata  dall'epopea  i)oi3olare,  ritrae  della  prosaica  e  me- 
schina immaginativa  degli  annalisti  (4).  E  jiarimente  l' assedio 
posto  a  Roma  dai  Veienti  nel  476  é  una  infelice  reduplicazione 
dell'assedio  di  Porsenna,  Anche  allora  gli  Etruschi  si  accampano 
sul  Gianicolo  e  di  li  passano  a  schiere  il  Tevere  devastando  e 
predando,  onde  la  città  comincia  a  sentire  la  fame;  finché,  atti- 
rati i  predoni  in  un  agguato,  se  ne  fa  strage  presso  la  porta  Col- 


li) Liv.  II  51-52.  DioNYs.  IX  24. 

(2)  Liv.  II  53.  DioNYs.  IX  34-35. 

(3)  Liv.  II  54.  DioNYs.  IX  36. 

(4)  Perciò   e    da    ritenere   errato    il    giudizio  che  della   sua  storicità  danno 

NiEBDHR   II    224   e    SCHWEGLER   II    745. 


128  CAPO   Xy  -  ALLEANZA    FRA    ROMANI,    LATINI   ED   ERNICI 


lina.  È  vero  che  l'ultima  scaramuccia  è  trasportata  altrove  nel- 
Tassedio  del  476,  ma  in  compenso  gli  Etnischi  ricevono  presso  la 
porta  Collina  una  sconfitta  campale.  E  per  quanto  il  successo  dei 
due  assedi  sia  molto  diverso,  ambedue  le  volte  il  campo  etrusco 
sul  Grianicolo  viene  in  mano  dei  Romani.  Il  razionalismo  critico 
ha  cercato  l'originale  dei  due  racconti,  che  son  foggiati  evidente- 
mente l'uno  sull'altro,  nel  più  pallido  e  prosaico,  ossia  in  quello 
del  476  (1)  ;  ma  par  chiaro  invece  che  l'originale  è  nella  leggenda 
di  Porsenna,  in  mezzo  a  cui  si  spande  la  fulgida  vena  della  poesia 
popolare,  e  che  l'altro  è  una  tarda  copia  d'annalisti  desiderosi  di 
dissimulare  ad  ogni  costo  le  numerose  lacune  della  tradizione. 
In  tutto  il  racconto  poi  della  guerra  è  sospetta  la  costante  connes- 
sione prammatica  dei  fatti  esterni  con  le  discordie  interne;  non 
che  connessione  simile  non  debba  esservi  stata  ;  ma  nessun  critico 
serio  può  ammettere  che  per  la  prima  metà  del  sec.  V  si  conser- 
vassero notizie  sulla  maggiore  o  minor  difficoltà  con  cui  si  arro- 
lavano  milizie,  e  sul  più  o  meno  di  fiducia  che  i  soldati  ripone- 
vano nei  loro  comandanti. 

Non  va  però  giudicato  alla  stessa  stregua  il  racconto  della 
strage  dei  Fabi.  Senonchè  per  intenderlo  convien  chiarire  la  im- 
portanza militare  della  posizione  ove  essa  accadde  (2).  A  circa 
cinque  miglia  di  distanza  da  Roma  sul  Tevere,  a  monte  della 
città,  sopra  un'altura  che  scende  con  ripido  pendio  verso  il  fiume, 
sorgeva  la  città  di  Fidene,  nel  punto  in  cui  i  colli  della  sinistra 
del  Tevere  si  avvicinano  maggiormente  al  corso  del  fiume  lasciando 
accanto  al  suo  letto  uno  spazio  piano  di  non  più  d'una  settantina 
di  metri;  sicché  la  città  dominava  il  fiume,  e  la  navigazione  sul- 
l'alto Tevere  non  era  libera  ai  Romani  se  non  nel  caso  che  pos- 
sedessero Fidene  o  l'avessero  amica.  Di  qui  le  frequenti  lotte  coi 
Fidenati,  di  cui  ha  serbato  un  ricordo,  sia  pure  confuso,  la  tradi- 
zione. Sebbene  avesse  fatto  adesione  all'antica  lega  religiosa  che 
aveva  per  centro  il  santuario  albano  (3),  Fidene  in  età  storica  si 
tenne  lontana  dalla  nuova  lega  x3olitica  latina  e  appare  frequen- 
temente in  lotta  con  Roma,  alleata  coi  Sabini  e  soprattutto  coi 
Veienti.  Le    guerre   dei  Romani  coi   Fidenati  datano,   secondo  la 


(1)  Così    SCHWEGLER    II    754. 

(2)  Su  ciò  V.  soprattutto  Richter  Die  Fabier  am  Cremerà  in  '  Hermes  '  XVII 
(1882)  p.  425  segg. 

(3)  V.  I  p.  379  n.  1   nv.  10. 


BASE   TOPOGRAFICA   DELLA   LEGGENDA.    FIDENE  129 

nostra'  tradizione,  dalle  origini  stesse  di  Roma.  Dopo  che  Romolo, 
impadi'onitosi  di  Fidene,  l'aveva  ridotta  a  colonia  (1),  Tulio  Ostilio, 
Anco  Marcio,  Tarquinio  Prisco  sottomisero  novamente  quella  città, 
che  altrettante  volte  si  ribellò,  o  fu  conquistata  a  viva  forza  dai 
A^eienti  (2).  Nel  498  poi  si  ricorda  di  bel  nuovo  la  sottomissione 
di  Fidene  per  opera  di  T.  Larcio  (3)  :  dopo  di  che  la  città  non  è 
menzionata  più  nelle  guerre  veienti  se  non  a  partire  dal  438.  Lo 
schema  di  tutte  queste  lotte  tra  Fidenati  e  Romani  è  sempre  il 
medesimo,  che  si  ripete  fino  al  tedio  con  scarse  varianti.  I  Veienti, 
passato  il  Tevere,  si  accampano  presso  Fidene,  che  si  ribella  ai 
Romani  spontaneamente  o  vien  costretta  ad  unirsi  per  forza  con 
Vei.  I  Romani  accorrono  a  ricuperarla  e  battono  i  Veienti,  il  cui 
esercito  perisce  in  gran  parte  nelle  acque  del  Tevere.  Fidene  vien 
di  nuovo  conquistata  e  ridotta  a  colonia  per  ribellarsi  novamente 
alla  prima  occasione.  Questi  racconti,  più  che  la  ripetizione  d'un 
fatto  unico,  son  la  ripetizione  d'un  motivo  suggerito  dalla  natm^a 
stessa  dei  luoglii;  perchè  è  evidente  che  i  Veienti  avevano  ogni 
interesse  ad  assicurarsi  almeno  in  parte  la  navigazione  del  Tevere 
mediante  un  accordo  coi  Fidenati,  in  modo  che  Fidene  era  pei 
Veienti  ciò  che  pei  Romani  il  Grianicolo  ;  ed  è  pm-  chiaro  che  se  i 
Fidenati  potevano  trovare  protezione  da  Roma  e  dalla  lega  latina 
nell'alleanza  di  Vei,  Roma  doveva  tentare  ogni  sforzo  per  sotto- 
mettere Fidene.  Pare  che  non  riuscisse  per  altro  a  domare  i  Fi- 
denati se  non  verso  la  fine  del  secolo  V;  del  resto,  pur  senza  am- 
mettere le  uniformi  rijjetizioni  della  tradizione,  non  è  da  escludere 
che  già  prima  della  caduta  suprema  di  Fidene  la  città  fosse  più 
d'una  volta  venuta  alternativamente  in  mano  dei  Romani  e  dei 
Veienti.  Ma  ad  ogni  modo  par  diffìcile  assai  che  dal  498  al  438  i 
Romani  ne  conservassero  incontrastato  il  possesso;  e  la  leggenda 
dei  trecento  Fabì  suppone  che  Fidene  non  fosse  romana.  Se  i  Ro- 
mani si  stabilh'ono  in  un  ]3unto  che  dominava  lo  sbocco  del  Cre- 
merà (Valca)  nel  Tevere  a  fronte  di  Fidene,  dovette  essere  appunto 
per  impedirle  che  si  congiungessero  Fidenati  e  Veienti  e  per  to- 
gliere ai  Fidenati  e  Veienti  la  piena  padronanza  della  navigazione 


(1)  Liv.  I  14.  DioNYs.  II  53.  Plut.  Boni.  2.3.  Frontin.  straf.  II  5,  1.  Polyaen. 
strat.  Vili  3,  2.  Plin.  n.  h.  XVI  11. 

(2)  Liv.  I  27.  DioNYS.  III  23  segg.  —  Dionys.  III  89.  Zon.  VII  7.  —  Dionys. 
Ili  57.  —  Novamente  ribello  dopo  la  caduta  dei  re,  Dionys.  V  40;  sotto- 
messa di  nuovo,  V  43;  ancora  ribelle    nel    500,  Dionys.  V  52,  cfr.  Liv.  II  19. 

(3)  Dionys.  V  60.  Livio  ne  tace. 

G.  De  Saxctis,  Storia  (lei  Romani,  IL  9 


130  CAPO   XY  -  ALLEANZA  FRA   ROMANI,   LATINI  ED   ERNICI 

del  Tevere  a  monte  di  Fidene.  Due  vie  infatti,  ima  lungo  la  valle 
del  Cremerà,  una  ad  una  certa  altezza  ad  occidente  di  questo  ru- 
scello, conducono  da  Veì  al  Tevere;  ed  una  altm^a  alla  foce  del 
Cremerà,  quella  probabilmente  in  cui  si  fortificarono  i  Romani, 
domina  l'una  e  l'altra  via. 

Pertanto  assai  degno  di  considerazione  è  il  fondamento  topo- 
grafico della  leggenda.  Non  sempre  invece  ne  son  molto  credibili 
i  particolari.  Così  quello  del  solo  fanciullo  scampato  alla  strage  (1). 
Un  retore  greco  osserva  molto  ragionevolmente  die  in  una  gente 
forte  di  trecento  uomini  atti  alle  armi  non  poteva  esservi  un  solo 
fanciullo  e  clie  quindi  anclie  altri  Fabì  dovevano  essere  rimasti  in 
Roma  (2).  Del  resto  questo  minorenne  nel  467,  solo  dieci  anni  dopo 
la  strage,  era  già  in  età  di  poter  rivestire  la  prima  magistratm^a 
dello  Stato.  Infatti  quell'anno  apparisce  novamente  nei  fasti  un 
Fabio,  Q.  Fabio  Vibulano.  E  si  lia  anclie  motivo  per  ritenere  che 
non  tutti  i  Fabì  registrati  gli  anni  appresso  nella  lista  dei  consoli 
siano  discendenti  di  questo  Q.  Fabio  (3).  Inoltre  ai  trecentosei 
Fabì  o  ai  trecento  che  danno  alcuni  arrotondandone  il  numero, 
altri  scrittori  aggiungono  in  numero  di  cinquemila  o  di  poco  meno 
di  quattromila  i  loro  clienti  (4).  Or  tanti  clienti  atti  alle  armi  non 
poteva  avere  mia  sola  gente  quando  Roma  non  armava  ancora 
annualmente  due  legioni;  che  se  la  metà  delle  genti  patrizie  aves- 
sero disposto  di  clienti  si  numerosi,  Roma  sarebbe"  stata  già  fin 
d'allora  una  delle  prime  potenze  mihtari  del  mondo  civile.  Sicché 
probabilmente  in  origine  nei  trecentosei  Fabì  erano  compresi  e 
gentili  e  clienti.  Ma  quando  poi  ai  tardi  annalisti  non  x^arve  cìie 
la  strage  di  trecento  uomini,  fossero  pm*  Fabì,  avesse  potuto  co- 
stituire un  disastro  per  Roma,  vi  si  aggiunsero  le  migliaia  dei 
clienti.  E  forse  contribuì  a  farveli  introdm-re  la  strage  dei  Grreci 
alle  Termopile,  ben  nota  dalle  storie  d'Erodoto  agli  scrittori  ro- 
mani, la  cui  somiglianza  con  la  rotta  del  Cremerà  non  poteva 
certo  sfuggire  ad  alcuno.  Ora  alle  Termopile  coi  trecento  Spartiati 
erano  alcune  migliaia  d'altri  Grreci,  in  tutto  quattromila  Pelopon- 


(1)  Liv.  II  50,  11.  Ili  1,  1.  DioNYs.  IV  22.  Ovid.  fast.  II  235  segg.  Fest. 
p.  170  s.  V.  Numerius.  Eutrop.  I  16.  Serv.  Aen.  VI  846.  Aver,  de  vir.  ili.  14,  6. 
ZoN.  VII  17. 

(2)  DlONTS.   1.   e. 

(3)  Cfr.  MoMMSEN  Rom.  Forschungen  II  259  segg. 

(4)  Cinquemila  secondo  Fest.  p.  334  s.  v.  scelerata  porta  ;  quattromila  circa, 
compresi  i  306,  Dionys.  IX  15. 


CRITICA   DELLA   LEGCtENDA  131 

nesiaci,  secondo  repigramma  di  Simonide  riportato  da  Erodoto  (1). 
Fors'ancKe  il  numero  dei  clienti  è  stato  suggerito  non  da  altro 
che  dall'analogia  dei  cinquemila  clienti  dei  Claudi,  che  poco  prima 
di  questo  tempo  si  stabilirono,  secondo  la  tradizione,  nel  territorio 
romano  (I  p.  228). 

Sul  fatto  stesso  della  strage  un'altra  versione  riferiva  che  i 
trecento  Fabì  fmono  sorpresi  e  circondati  dagli  Etruschi  mentre 
s'erano  incamminati  verso  Roma  per  eseguire  un  sacrificio  genti- 
lizio (2).  Ma  un  antico  osservò  già  essere  impossibile  che  ad  ese- 
guh'e  un  sacrificio  per  cui  sarebbero  bastati  uno  o  due  di  loro  si 
fossero  mossi  tutti  i  Fabì  attraverso  il  paese  nemico,  abbando- 
nando la  fortezza  affidata  alla  loro  difesa;  sicché  è  probabile  che 
qui  si  tratti  di  una  ripetizione  inopportuna  della  leggenda  di  quel 
Fabio  Dorsuone  che  durante  1'  assedio  posto  al  Campidoglio  dai' 
Gralli  si  recò  tranquillamente  sul  Quirinale  a  compiere  il  sacrifizio 
gentilizio  traversando,  senza  che  i  Gralli  osassero  dargli  molestia, 
le  linee  nemiche.  Secondo  un'  altra  versione  poi  i  trecento  Fabì 
sarebbero  caduti  con  molti  altri  Romani  in  una  grande  battaglia 
tra  Romani  e  Veienti  (3).  Ma  se  quella  è  un'alterazione  dovuta  a 
inetta  contaminazione  della  leggenda  con  altre,  questa  è  peggiore 
alterazione  procedente  da  un  tentativo  poco  felice  di  renderla  ra- 
zionale. Certo  la  leggenda  secondo  cui  erano  caduti  combattendo 
i  soli  Fabì  offriva  qualche  difficoltà,  ma  la  battaglia  campale  a 
cui  presero  parte  tra  gli  altri  trecentp  Fabì  ne  offre  assai  più. 

Eliminate  queste  alterazioni  posteriori  e  ridotto  il  racconto  ai 
genuini  elementi  della  leggenda,  convien  giudicare  del  suo  valore. 
Alcuni  critici  hanno  voluto  vedervi  una  favola  giuridico-morale 
diretta  a  dimostrare  la  inopportunità  e  i  pericoli  della  guerra  pri- 
vata e  soprattutto  ad  esemplificare  la  "  congiura  „  (coniuratio) 
ossia  quella  forma  tumultuaria  di  leva  in  cui  il  giuramento  si  presta 
dai  nuovi  militi  non  individualmente,  ma  collettivamente  (4).  Altri 
hanno  creduto  di  trovarvi  una  copia  latina  del  sacrifizio  di  Leonida 
e  de'  suoi  trecento  alle  Termopile  (5).  Sarebbe  difficile  immaginare 


(1)  VII  228. 

(2)  Diosrs.  IX  19. 

(3)  DioD.  XI  53:  luefàXri  ladxn  auvéoTr)  irepì  tì-]v  òvo|uaJ^o|Liévr|v  Kpeixépav,  iwv 
a  'Puj)iaiujv  )*|TTr|9évTUJv  auvé^r)  TToXXoùq  aÙTUJv  Tieaeiv  oiq  qjaai  Tiveq  xuùv  avf- 
Ypaqpéuuv  koì  Toùq  0apiou<;  xoùc;  TpiaKooiouc;  av^feveic,  à\Xr\kujv  òvxaq. 

(4j  MoMMSEN  lioin.  ForschuHfjen  1  247  segg. 

(5)  Pais  I  1  p.  623,  il    quale    col    meraviglioso    dogmatismo    usuale   presso 


132  CAPO   XV  -  ALLEANZA    FRA   ROMANI,    LATINI   ED   ERNICI 


due  ipotesi  più  remote  da  og-ni  verisimigiianza,  più  aliene  dal  ca- 
rattere della  leggenda  popolare,  quale  si  palesa  con  la  maggiore 
evidenza  nel  racconto  della  strage  dei  Tabi;  e  può  dirsi  con  sicu- 
rezza che  assai  più  dei  moderni  seguaci  di  codesto  prosaico  razio- 
nalismo critico  si  è  accostato  al  vero,  riportando  fedelmente  la 
leggenda,  Tito  Livio.  Per  la  prima  ipotesi  va  osservato  inoltre  elio 
tra  la  "  congiura  „  militare  come  ci  è  nota  dalla  tradizione  e  la 
guerra  privata  vi  è  a^jerto,  insanabile  contrasto;  poiché  la  "  con- 
gim-a  „  è  fatta  per  conto  dello  Stato  (1)  ;  ne  del  resto  si  vede  perchè 
nella  guerra  privata  il  gim^amento  dovesse  essere  piuttosto  collet- 
tivo che  individuale  :  sicché  in  sostanza  con  la  sola  "  congim-a  „  di 
cui  abbiamo  notizia  negli  ordini  militari  romani,  la  leggenda  dei 
Fabi  non  ha  la  più  piccola  relazione.  E  se  da  qualche  antico  (2)  l'im- 
presa dei  Fabì  fu  citata  come  esempio  di  "congim^i,,,  si  è  perchè 
agli  antichi  accade  qualche  volta  come  ai  moderni  di  scegliere 
inopportunamente  gli  esempì  delle  loro  dottrine.  Quanto  poi  alle 
somiglianze  tra  il  combattimento  alle  Termopile  e  la  leggenda  dei 
Fabì,  certo  ve  ne  ha,  come  con  qualsiasi  racconto  storico  o  leg- 
gendario di  milizie  sopraffatte  dal  nemico  e  cadute  per  la  patria  : 
solamente  somiglianze  di  questa  fatta,  inevitabili  nelle  cose  umane, 
di  per  sé  non  provano  nulla.  Qualche  ulteriore  punto  di  contatto, 
come  il  numero  totale  dei  combattenti  e  forsimche  quello  dei  Fabì, 
può  provenire  da  una  elaborazione  della  leggenda  indigena  fatta 
da  annalisti  familiari  coi  racconti  della  storia  greca,  benché  pel 
numero  dei  trecentosei  Fabì  non  paia  probabile.  E  s'è  notato  al- 
tresì che  dei  Fabì  si  salva  un  solo  rampollo,  come  alle  Termopile 
si  salva  l'unico  figlio  del  vate  Megistia  (3).  Ma  in  realtà  non  è  il 
solo  figlio  di  Megistia  che  si  salva  tra  gii  alleati  dei  Lacedemoni 
alle  Termopile,  e  dei  trecento  Lacedemoni  stessi  i  soli  scampati,  in 
condizioni  e  con  sorte  affatto  diversa,  sono  Aristodemo  e  Pantite  (4)  ; 
né  del  resto  il  Fabio  superstite  fa  parte  delle  truppe  inviate  contro 
il  nemico;  sicché  la  pretesa  somiglianza  si  riduce  a  una  dissimi- 
giianza;  e  il  salvarsi  d'uno  dei  Fabì  ha  la  sua  ragione  non  nella 
imitazione  di  racconti  greci,  ma  nella   necessità   di   conciliare   la 


tanti  che  si  dicono  scettici  o  critici  sa  con  piena  sicurezza  che  '  tutto  quanto 
il  racconto  non  ha  valore  di  sorta  '  (p.  515). 

(1)  Serv.  Aen.  II  157.  VII  614.  Vili  1. 

(2)  Sebv.  Aen.  VII  614.  Cfr.  VI  846. 

(3)  Pais  I  1  p.  518.  Herod.  VII  221. 

(4)  Herod.  VII  229-232. 


CRITICA    DELLA   LEGGENDA  133 

leggenda  della  strage  dei  Fabi  col  fatto  clie  la  loro  stirpe  non  si 
estinse  al  Cremerà. 

Prescindendo  pertanto  da  queste  congetture  moderne,  è  da  cre- 
dere che  il  carme  epico  popolare  sulla  strage  dei  Fabi  conservava 
vivo  il  ricordo  d'una  sconfitta  romana  realmente  avvenuta;  che, 
TeiJopea  popolare  diffìcilmente  inventa  sconfitte,  ma  può  assai  bene 
serbarne  la  memoria  come  la  canzone  di  Rolando  ha  tramandato 
la  rotta  di  Roncisvalle  o  i  carmi  serbi  quella  di  Kosovo.  E  la  no- 
tizia del  luogo  ove  la  sconfitta  avvenne  è  inseparabile  dalla  scon- 
fìtta stessa.  Onde  possiamo  ritenere  che  in  fatto  i  Romani  ab- 
biano tentato  di  stabilirsi  sul  Cremerà  loer  tagliare  le  comunicazioni 
tra  Veì  e  Fidene  e  che  i  Veienti  abbiano  frustrato  quel  tentativo. 
Ed  è  assai  diffìcilmente  immaginaria  la  connessione  della  rotta  con 
la  gente  Fabia,  benché  certo  la  gente  Fabia  non  sia  stata  distrutta 
né  sia  stato  uno  solo  il  superstite.  Non  é  agevole  spiegare  come 
vittima  del  disastro  sia  rimasta  specialmente  quella  gente  ;  ma  non 
é  questo  buon  argomento  per  negare  il  fatto;  né  è  impossibile  che 
i  Fabi  abbiano  tentato  d'accordo  con  lo  Stato,  ma  per  jjroprio 
conto  e  con  forze  proprie,  d'estendere  i  loro  possessi  in  quella  di- 
rezione ;  e  può  darsi  che  sia  da  cercare  appunto  in  quelle  vicinanze 
il  territorio  della  tribù  Fabia  (1). 

La  leggenda  del  Cremerà  doveva  essere,  come  quasi  tutte  le 
leggende,  senza  precisa  cronologia.  La  tradizione  tuttavia  riferisce 
hi  rotta  al  477.  S'è  detto  che  ciò  proviene  da  un  sincronismo  ar- 
tifìciale  con  la  battaglia  delie  Termopile.  Veramente  questa  fu 
combattuta  nel  480;  ma  la  critica  non  manca  di  ripieghi,  e  fu  os- 
servato che  al  480  si  narra  una  battaglia  combattuta  pure  sotto 
la  guida  d'un  Fabio,  della  quale  la  strage  dei  Fabi  del  477  non 
sarebbe  che  una  reduplicazione  (2).  Simili  sottigliezze  persuadono 
poco.  La  battaglia  fu  collocata  al  477  probabilmente  perché  dal  478 
scompaiono  per  undici  anni  dai  fasti  i  nomi  dei  Fabi,  mentre  in- 
vece nei  sette  anni  dal  485  al  479  vi  era  stato  sempre  registrato 
un  console  Fabio.  L'annalistica  collega  questo  scomparire  improv- 
viso dei  Fabi  dai  fasti  con  la  leggenda  della  strage  di  tutti  i  Fabi 
salvo  uno  al  Cremerà,  non  datando  però  la  strage  dal  478,  il  primo 
a  imo  senza  un  console  Fabio,  ma  dall'anno  seguente    per   lasciar 


(1)  Secondo  l'acuta  congettura  del  Kubitschek  De  Romanarum   tributtm   ori- 
gine ac  propagutioiie  p.   12. 

(2)  Pais  I  1,  518. 


134  CAPO   XV -ALLEANZA    FRA   ROMANI,    LATINI    ED    ERNICI 

tempo  ai  Fabi  di  riportare  sui  Veienti  (inalche  felice  successo  che 
A'alesse  a  circondare  la  loro  sconfitta  d'una  luce  di  gloria;  e  forse 
gli  annalisti  con  queste  induzioni  non  si  dilungarono  di  molto 
dal  vero.  La  leggenda  romana  comincia  a  ricordare  in  certa  copia 
solo  dalla  fine  del  sec.  VI  o  dal  principio  del  V  fatti  sostanzial- 
mente storici,  quali  la  battaglia  della  selva  Arsia  e  quella  del  Re- 
gillo.  Se  è  storico  il  disastro  del  Cremerà,  non  è  j)rudente  supporre 
che  sia  più  antico  della  sua  data  tradizionale.  Ne  convien  ripu- 
tarlo più  recente;  perchè  sulla  guerra  degli  ultimi  anni  del  sec.  V 
abbiamo  una  tradizione  nel  tutt'insieme  sostanzialmente  fede- 
degna,  in  mezzo  alla  quale  non  è  possibile  trovargli  posto,  visto 
che  Roma  allora  dalle  difese  x^assò  con  felice  successo  alle  offese. 
Intorno  alla  metà  del  secolo  i)oi  la  tradizione  presuppone  che  abbia 
regnato  pace  profonda  tra  Romani  ed  Etrusclii;  e  deve  essere  nel 
vero.  Da  una  parte  infatti  si  vede  che  dopo  le  battaglie  di  Aricia 
e  di  Cuma  la  forza  d'espansione  degli  Etruschi  era  d'assai  dimi- 
nuita, e  gli  Etruschi,  datisi  alle  arti  di  j)ace,  eran  rimasti  anche 
a  fronte  de'  G-reci  sulla  difensiva.  Né  i  Romani  frattanto  ebbero 
le  forze  per  prendere  efficacemente  l'offensiva  contro  i  loro  po- 
tenti vicini  di  settentrione  prima  che  la  battaglia  dell'Algido  e 
l'avanzata  vittoriosa  nel  paese  dei  Volsci  avesse  assicurato  la  loro 
superiorità  sui  bellicosi  avversari  italici.  E  del  resto  se  ch'ca  la 
metà  del  secolo  V,  ossia  circa  il  temjDo  in  cui  gli  Equi  ed  i  Volsci 
riportarono  i  più  felici  successi  sui  Latini,  i  Romani  fossero  stati 
in  guerra  con  un  altro  avA^ersario  che  anche  da  solo  non  era 
molto  inferiore  in  potenza  a  Roma,  difficilmente  si  sarebbero  sal- 
vati. La  ventui'a  di  Roma  fu  che  l'avanzarsi  vittorioso  degli  Equi 
e  dei  A^olsci  cade  appunto  in  quel  momento  in  cui  s'arresta  l'espan- 
sione e  l'offensiva  etrusca.  Però  i  Romani  ebbero  tutto  l'agio  di 
misurarsi  con  quelle  tribù;  e  quando,  impegnate  nella  lotta  tutte 
le  loro  forze,  venne  loro  fatto  di  prendere  la  rivincita  su  di  esse, 
allora  solo  si  trovarono  in  grado  di  iniziare  l'offensiva  contro  gli 
Etruschi.  Cosi  stando  le  cose,  dobbiamo  non  solo  accogliere  ap- 
IDrossimativamente  la  data  tradizionale,  ma  fors'anche  ripetere  la 
induzione  che  quella  strage  accadesse  dopo  i  sette  consolati  con- 
secutivi dei  Fabì;  poiché  ci  dà  appunto  un'adeguata  spiegazione 
dello  scemare  dell'autorità  di  quella  gente  che  è  dimostrato  dai 
fasti.  Della  battaglia  la  tradizione  ricorda  anche  il  giorno;  e  non 
é  inverisimile  che  d'un  giorno  così  infausto  per  Roma  si  conser- 
vasse memoria  anche  più  che  dell'anno.  Tuttavia  dà  giusto  motivo 
a  sospettare  il  fatto  che,  come  la  strage  del  Cremerà,  cosi  quella 


CRONOLOGIA   DELLA    GUERRA    ETRUSCA  135 

delFAllia  è  riferita  allo  stesso  giorno  18  luglio  (1),  perchè  pare  evi- 
dente elle  Funo  dei  due  disastri  debba  aver  attratto  l'altro  alla 
stessa  data.  E  forse  il  18  luglio  è  la  data  genuina  della  battaglia 
dell' Allia,  giaccliè  una  notizia,  sia  pui-e  isolata,  ne  assegna  alla 
strage  dei  Fabì  un'altra,  quella  del  13  febbraio  (2)  ;  ^particolare  del 
resto  di  poco  conto  sia  in  sé,  sia  perchè  ignorandosi  la  rispondeiaza 
tra  il  calendario  romano  d'allora  e  il  calendario  giuliano  rimane 
sempre  un'incertezza  di  vari  mesi,  anche  accolta  quella  data. 

Così  dunque  di  tutta  questa  guerra  etrusca  narrata  tra  il  485 
e  il  474  non  s'aveva  probabilmente  altro  ricordo  genuino  che  quello 
della  strage  del  Cremerà.  Attribuita  a  questa  strage,  per  via  di 
una  congettura  non  senza  fondamento,  la  data  del  477,  gli  anna- 
listi diedero  saggio  della  loro  fantasia  nel  racconto  di  immagi- 
nari fatti  di  guerra  per  gli  anni  che  precedettero  e  seguirono  :  e 
.soprattutto  di  vittorie,  ]Derchè  una  rotta  romana  non  si  poteva  nar- 
rare senza  che  si  facesse  pagar  cara  al  nemico.  E  tuttavia  una 
guerra  tra  Romani  e  Veienti,  appunto  in  questi  anni,  deve  aver 
a^oito  luogo  ;  e  forse  la  breve  serie  di  vittorie  contro  i  Volsci  che 
avevan  tenuto  dietro  al  trattato  cassiano  incoraggiò  i  Romani  a 
tentar  l'offensiva  contro  i  Veienti.  Ma  poi  l'avanzarsi  degli  Equi 
stremò  le  forze  della  lega  latina,  e  i  Volsci  tornarono  alla  riscossa; 
e  allora  si  concluse  la  pace  coi  Veienti,  i  quali  appunto  perchè 
miravano  non  a  conquistare,  ma  ad  assicurarsi  ciò  che  avevano, 
l'avranno  volentieri  accettata.  S'intende,  che  mentre  i  Romani  con- 
servarono la  loro  testa  di  ponte  al  di  là  del  Tevere,  il  Grianicolo, 
Fidene  rimase  indipendente  da  Roma  ed  alleata  con  Veì,  quale  fu 
poi  nella  guerra  successiva  e  quale  il  fatto  stesso  del  Cremerà 
prova  che  fu  anche  in  questa.  La  tradizione  asserisce  che  la  pace 


(1)  Liv.  VI  1,  11.  Tac.  hist.  II  91.  Serv.  Aen  VII  717.  Cai.  Ant.  e  Amit. 
{CIL.  V  p.  248.  244).  Plut.  Camill.  19.  Successivo  alle  idi  non  fu,  come  ritiene 
Plutarco  fraintendendo  Livio  (1.  e.)  che  egli  cita  {q.  B.  25),  il  giorno  della 
clades,  ma  secondo  la  tradizione  quello  del  sacrifizio  offerto  dai  tribuni  militari 
prima  di  uscire  a  battaglia,  cfr.  A.  Gell.  n.  A.  V  17,  2.  Macrob.  sat.  1  16,  23. 
MoMMSEN  Rljm.  Chronol.  '^  26  n.  32.  Del  resto  la  coincidenza  tra  la  data  delle 
due  sconfitte  è  sospetta,  solo  tenuto  conto  del  come  ce  n'è  pervenuta  notizia  ; 
che  non  mancano  in  realtà  nella  storia  coincidenze  anche  più  singolari  :  p.  e. 
il  24  giugno  è  la  data  delle  due  battaglie  di  Solferino  e  di  Custoza  a  distanza 
di  sette  anni. 

(2)  OviD.  fast.  II  193  segg. 


136  CAPO   XY  -  ALLEANZA   FRA   ROMANI,    LATINI   ED   ERNICI 

tra  Romani  ed  Etrusclii  fu  conclusa  per  quarant'anni  (1).  Questo 
particolare  potrebbe  essere  attinto  da  qualche  documento,  e  po- 
trebbe anche  essere  ricopiato  dalle  storiche  paci  di  quarant'anni 
tra  Roma  e  alcune  città  etrusche  concluse  nel  IV  e  nel  III  se- 
colo (2).  Ma  vi  fu  ad  ogni  modo  sulla  destra  del  Tevere  pace  du- 
revole e  profonda. 

Nelle  guerre  degli  Equi  e  dei  Volsci  si  passa  insensibilmente  e 
per  gradi  dalla  storia  alla  leggenda.  Nelle  guerre  etrusche  v"è  in- 
vece netto  distacco.  Mentre,  a  tacere  dell'età  regia,  il  racconto  della 
guerra  veientica  che  si  collega  con  la  strage  del  Cremerà  manca,- 
tolto  quel  poco  che  può  desumersi  da  questa  stessa  leggenda,  di 
ogni  dato  fededegno  e  ha  in  tutto  il  resto  carattere  artificiale  e 
recente,  la  guerra  comjDresa  tra  il  438  e  il  395,  con  molti  partico- 
lari leggendari  e  non  poche  invenzioni  annalistiche,  ha  un  evi- 
dente sostrato  storico;  e  non  manca  notizia  di  monumenti  e  docu- 
menti a  cui  si  possa  attingere  la  conferma  della  sostanza  della 
tradizione  e  la  rettifica  dei  particolari. 

L'anno  438  Fidene  si  ribellò,  così  la  tradizione,  ai  Romani.  I 
Fidenati  suggellarono  la  loro  rivolta  con  un  delitto ,  1'  assassinio 
dei  quattro  ambasciatori  L.  Roselo,  Tulio  Clelio,  C.  Fulcinio  e 
Sp.  Anzio  che  erano  stati  inviati  a  chiedere  soddisfazione.  Il  re 
dei  Veienti,  Tolunnio,  li  avrebbe  fatti  uccidere  o,  secondo  un'altra 
versione,  avrebbe  dato  involontariamente  occasione  alla  loro  mòrte, 
pronunciando,  mentre  era  intento  al  giuoco  dei  dadi,  una  parola 
che  a\Tebbe  potuto  essere  interpretata  come  un  ordine  di  morte, 
mentre  non  era  che  uno  scherzo  diretto  al  suo  compagno  di  giuoco  (3). 
Ad  ogni  modo  dopo  ciò  i  Veienti  ed  i  Fidenati,  a  cui  si  congiun- 
sero i  Falisci,  mossero  l'armi  oltre  l'Aniene.  Qui  diede  loro  batta- 
glia il  console  L.  Sergio  (437)  e  vinse  il  nemico,  ma  senza  fiac- 
carne la  ostinazione  (4).  Più  gravemente   lo   percosse   il   dittatore 


(1)  Liv.  II  54.  DioNYs.  IX  36.  S'intende  che  trarre  partito  dal  fatto  die  la 
pace  conclusa  secondo  la  tradizione  nel  474  durò  fino  al  437  per  induzioni 
sul  preteso  anno  di  dieci  mesi,  che  non  s'  è  usato  mai,  è  peccare  contro  la 
buona  critica. 

(2)  Liv.  VII  22,  5.  X  37,  5.  Diod.  XX  44,  9. 

(3)  Liv.  IV  17.  Cic.  Phil.  IX  2,  4.  Val.  Max.  IX  9,  3.  Pi,in.  n.  h.  XXXIV  23. 
AucT.  de  vir.  ili.  25,1.  I  nomi  degli  ambasciatori  son  dati  concordemente  dalle 
fonti,  tolto  l'ultimo  che  suona  Sp.  Anzio  in  Livio  e  Cicerone,  Sp.  Nauzio  in 
Plinio  :  il  primo  nome  è  preferibile. 

(4)  Liv.  IV  17,  8. 


CORNELIO    COSSO    p:    LA    DISTRUZIONE    DI    FIDENE  137 

Mamerco  Emilio,  col  vincere  presso  Fidene  nel  437  una  battaglia 
in  cui  il  tribuno  militare  A.  Cornelio  Cosso  uccise  Tolunnio,  il  re 
dei  Veienti,  dedicandone  poi  le  spoglie  opime  nel  tempio  di  Griove 
Feretrio  sul  Campidoglio  (1).  Fidene  però  resisteva.  Anzi  nel  435, 
insieme  coi  Veienti,  i  Fidenati  passarono  novamente  l'Aniene  e  si 
avanzarono  fino  alla  porta  Collina.  Ma  il  dittatore  A.  Servilio  con 
prospero  successo  li  assali  e  li  sconfisse  a  fomento  e  poi,  pene- 
trandovi mediante  un  cmiicolo  sotterraneo,  conquistò  Fidene  (2). 
I  Veienti  s'indussero  dopo  ciò  a  concludere  una  tregua  (3),  che  poi 
ruppero,  poco  prima  del  suo  spirare,  nel  426.  Allora  i  Romani, 
chiesta  invano  soddisfazione,  ricominciarono  le  ostilità  (4).  Tosto, 
avendo  essi  ricevuto  una  sconfitta,  i  Fidenati  si  partirono  nova- 
mente  dalla  devozione  di  Roma,  e  suggellarono  daccapo  la  loro 
riì)ellione  con  un  delitto,  facendo  strage  dei  coloni  inviati  nella 
loro  città  (5).  Ma  il  dittatore  Mamerco  Emilio,  che  aveva  per 
maestro  della  cavalleria  A.  Cornelio  Cosso,  rix^ortata  una  nuova 
vittoria,  s'impadronì  della  città  di  Fidene  e  la  mise  a  ferro  ed  a 
fuoco  (6).  Dopo  di  che  nell'anno  425  si  fermò  una  pace  di  venti  anni 
con  Veì  (7),  al  cessare  della  quale  fu  iniziata  coi  Veienti  quell'ul- 
tima guerra  che  ebbe  termine  con  la  distruzione  della  loro  città. 
Questo  racconto  liviano  non  dà  in  ogni  parte  affidamento  di 
veridicità.  I  Fidenati  si  ribellano  due  volte  con  l'aiuto  dei  Veienti, 
uccidendo  la  prima  volta  gli  ambasciatori  dei  Romani,  l'altra  tru- 
cidandone i  coloni.  E  prima  e  dopo  i  Veienti  e  i  Fidenati  s'inol- 
trano fino  alle  porte  di  Roma  e  in  particolare  fino  alla  porta  Col- 
lina; ed  ambedue  le  volte  piena  vittoria  è  riportata  su  di  essi  dal 
dittatore  Mamerco  Emilio,  alla  quale  contribuisce  non  poco  A.  Cor- 
nelio Cosso.  Qui  dunque  si  riscontrano  evidenti  i  contrassegni  della 


(1)  Liv.  IV  18-20.  DioNYS.  XII  2.  Val.  Max.  Ili  2,  4.  Plot.  Rom.  16.  Marc.  8. 
Fest.  p.  189  s.  V.  opima  spolia.  Seev.  Aen.  VI  842.  860.  Varianti  dovute  proba- 
bilmente ad  errori  di  memoria  si  hanno  in  Propert.  V  10,  23  segg.,  in  Flor. 
I  12,  9  e  nell'AucT.  de  vir.  ili.  25,  2. 

(2)  Liv.  IV  22.  Flor.  1.  e. 

(3)  Liv.  IV  23. 

(4)  Liv.  IV  30. 

(5)  Liv.  IV  31. 

(6)  Liv.  IV  31-34.  Frontin.  struteij.  II  4,  19.  8,  9.  Flor.  I  12,  7.  A  questo 
anno  alcune  fonti  riportano  l'uccisione  di  Tolunnio  per  opera  di  Cornelio 
Cosso,  Val.  Max.  Ili  2,  4. 

(7)  Liv.  IV  35. 


138  CAPO   XV  -  ALLEANZA   FRA   ROMANI,   LATINI   ED   ERNICI 

tarda  reduplicazione;  e  tra  le  due  date  non  è  dubbio  die  si  avvi- 
cini di  più  al  vero  quella  del  426  che  non  quella  del  438,  poiché 
la  nostra  tradizione  migliore  conosce  una  sola  guerra  coi  Fidenati 
e  la  colloca  nel  426,  riferendo  a  quell'anno  sia  la  strage  degli  am- 
basciatori, sia  la  battaglia  data  ai  Fidenati  dal  dittatore  Mamerco 
Emilio,  che  però  sarebbe  rimasta  d'esito  incerto  (1).  E  tuttavia 
anche  quest'ultima  relazione,  pur  non  allontanandosi  sostanzial- 
mente dal  vero,  va  in  parte  corretta,  come  risulta  da  uno  dei  due 
monumenti  intorno  alla  guerra.  Erano  questi  le  spoglie  opime  di 
Tolunnio,  e  le  piccole  statue  alte  tre  piedi  dei  quattro  legati  ro- 
mani uccisi,  che  si  mostravano  fino  agli  anni  giovanili  di  Cicerone 
presso  i  Rostri  (2),  onde  furono  probabilmente  rimosse  insieme  col 
trattato  cassi  ano,  quando  Siila  costruì  la  nuova  Curia  al  posto 
deir antica  Cm-ia  Ostilia.  E  appunto  i  nomi  scritti  sulla  base  delle 
statue  hanno  fatto  si  che  si  conservasse  il  ricordo  di  questi  am- 
basciatori tanto  oscuri  quanto  disgraziati,  mentre  la  nostra  tradi- 
zione è  così  parca  in  materia  di  nomi  non  registrati  nei  fasti  con- 
solari. Né  v'è  alcun  motivo  per  ritenere  che  il  monumento  sia 
tardo  e  privo  d'autenticità  (3).  Certo  i  rostri  delle  navi  degli  An- 
ziati  non  possono  essere  stati  posti  in  mostra  presso  il  Foro  prima 
del  338  ;  ma  senza  dubbio  anteriore  è  il  suggesto  onde  gli  oratori 
parlavano  al  x^opolo,  che  s'è  poi  adornato  di  quei  rostri.  E  non 
siamo  tenuti  a  credere  che  i  Gralli  si  dessero  cura  nel  390  di  ab- 
battere quelle  statue,  che  del  resto  non  era  difficile  poi  restaurare 
o  rinnovare  più  o  ineno  somiglianti  agli  originali.  Ammessa  l'anti- 
chità delle  statue,  può  certo  discutersi  e  del  fatto  per  cui  si  eres- 
sero e  più  della  sua  cronologia;  ma  non  è  inverisimile  che  un 
cenno  del  motivo  per  cui  fm^ono  innalzate,  la  uccisione  degli  am- 
basciatori per  mano  dei  Fidenati,  fosse  sulle  loro  basi;  e  se  pur 
non  v'  era,  non  é  da  respingersi  alla  leggera  una  tradizione  che 
nell'esistenza  delle  statue  aveva  quasi  un  punto  d'appoggio  tangi- 
bile. Ammesso  il  fatto  dell'uccisione,  non  può  ritenersi  uè  molto 
più  antico  né  molto  più  recente  della  data  tradizionale;  non  molto 
più  antico  xjerché  al  tempo  della  guerra  iDrecedente,  intorno  al  480, 
la  scoltm-a  romana  era  difficilmente  tanto  progredita  da  cimen- 
tarsi ad  effigiare  alcuno  in  pietra;  non  molto  più  recente,  perchè 


(1)  DioD.  XII  80. 

(2)  V.  i  testi  sopra  a  p.  136  n.  3. 

(3)  Poiché  non  mi  paiono  argomenti  le  sottili  disquisizioni  del  Pais  I  1,  604. 


CORNELIO    COSSO   E    LA   DISTRUZIONE    DI   FIDENE  139 

dopo  il  426  i  Mani   degli  ambasciatori  erano  stati  già  placati  con 
l'eccidio  di  Fidene. 

Molto  più  importante  di  quelle  statue  era  l'iscrizione  letta  da 
Augusto  sulla  corazza  di  Tolunnio,  con  cui  Cornelio  Cosso,  in  qua- 
lità di  console,  dunque  nel  428,  la  dedicava  a  Griove  Feretrio  (1). 
Ohe  Augusto,  come  taluno  lia  pur  su^iposto  (2),  abbia  frainteso  la 
iscrizione  è  tanto  meno  agevole  ad  ammettersi  in  quanto,  come  già 
osservò  rettamente  uno  scrittore  antico,  la  dedica  di  spoglie  opime 
non  poteva  farsi  se  non  da  un  duce  che  combattesse  con  pro]3rì 
auspici,  quindi  non  da  un  maestro  dei  cavalieri  o  da  un  tribuno 
militare  senza  potestà  consolare  (3).  Pertanto  e  dai  documenti  e 
dairesame  della  tradizione  rimane  assodato  che  intorno  al  428  si 
combattè  quella  guerra  contro  i  Fidenati  che  ebbe  principio  con  l'as- 
sassinio dei  quattro  ambasciatori  romani  e  si  chiuse  o  quell'anno 
stesso  o  poco  dopo  con  la  caduta  di  Fidene;  e  certo  nel  428  ebbe 
luogo  un  importante  episodio  di  quella  guerra,  la  sconfitta  e  niorte 
del  re  di  Vei  Tolunnio,  alleato  dei  Fidenati,  per  opera  del  console 
A.  Cornelio  Cosso.  L'insistenza  con  cui  a  questa  guerra  vien  col- 
legato il  nome  del  dittatore  Mamerco  Emilio,  visto  che  ci  acco- 
stiamo omai  alla  piena  luce  della  storia,  fa  ritenere  che  questi  vi 
abbia  avuto  una  qualche  parte,  per  quanto  non  possiamo  né  de- 
terminare quale  precisamente  questa  sia  stata,  né  recarne  docu- 
mento. Della  pace  di  venti  anni  con  Veì  non  e'  è  modo  di  deter- 
minare se  si  avesse  memoria  oppure    se   si   tratti   semplicemente 


(1)  Ltv.  IV  20:  tituliis  ipse    spoUìs    inscriptus  illos  meque  arguii  consuleni  ea 

Cossum  cepisse.  hoc  ego  ciim  Augustum    Caesarem ingressum    aedein  Feretrii 

lovis,  qiiain  vetustate  dilapsain  refecit,  se  ipsum  in  thorace  linteo  scriptum  legisse 
aiidissem,  prope  sucrilegium  ratus  sion  Cosso  spolìorum  suorum  Caesarem  ipsius 
templi  auctorem  snbtrahere  testem. 

(2)  Pais  I  2  p.  193  n. 

(3)  Liv.  1.  e.:  ea  rite  opima  spol;a  habeyitur  quae  dux  duci  detrarit,  nec  dncem 
novimus  nisi  cuius  auspicio  bellum  geritur.  Che  ciò  Livio,  poco  per  se  perito 
delle  finezze  del  divitto  pubblico  romano,  abbia  sentito  dire  da  Augusto  non 
è  inverisimile.  Che  la  questione  si  sia  discussa  in  occasione  delle  spoglie  del 
re  dei  Bastami  Deldone  riportate  nel  29  dal  proconsole  di  Macedonia  M.  Li- 
cinio Crasso,  il  quale  kòv  rà  OKùXa  aùxà  <t>ereTpiiy  Ali  tjbt;  koì  ÒTTi)aa  óvéGriKev 
clnep  aÙTOKpdTUjp  arpatriTÒ;  éreTÓvei  (Cass.  Dio  LI  24),  è  possibile.  Ma  che 
perciò  l'iscrizione  di  Cosso  possa  essere  una  falsificazione  di  Augusto  per  giu- 
stificare il  rifiuto  che  egli  avrebbe  opposto  alla  dedica  di  Crasso  è  supposi- 
zione affatto  gratuita  del  Dessau  Livius  und  Augustus  '  Hermes  '  XLl  (1906) 
p.  142  segg. 


140  CAPO   XV  -  ALLEANZA   FRA   ROMANI,    LATINI   ED   ERNICI 

d'induzione  fondata  sul  mancar  negli  anni  appresso  ricordo  d'osti- 
lità coi  Veienti.  Certo  su  quella  notizia  e  sull'altra  che  la  pace 
secondo  le  nostre  fonti  spillò  nel  407  non  è  davvero  da  far  tanto 
assegnamento  fino  a  trarne  induzioni  sul  calendario  romano:  sa- 
rebbe disconoscere  la  natura  della  tradizione  pervenutaci  per 
questa  età  (1).  Ma  che  dopo  la  caduta  di  Fidene  vi  sia  stata  per 
parecchi  anni  pace  con  Veì  è  credibile.  Sembra  infatti  che  la  vit- 
toria dell'Algido,  assicurando  il  Lazio  dalle  incm-sioni  degli  Equi, 
stimolasse  i  Romani  a  tentare  la  conquista  di  Fidene  per  rimuo- 
vere ogni  pericolo  d'offese  etrusche  dal  loro  territorio  sulla  si- 
nistra del  Tevere.  E  forse  la  certezza  che  l'ora  della  lotta  suprema 
era  venuta  spiega  la  condotta  brutale  dei  Fidenati  verso  gli  am- 
basciatori romani.  Caduta  Fidene,  ai  Veienti,  che  non  valevano  più 
ormai  a  portar  la  guerra  nel  territorio  romano,  dairostinarsi  nella 
lotta  non  potevano  toccare  che  danni  con  poca  speranza  di  utile. 
E  ai  Romani  giovava  una  tregua  sul  coniine  settentrionale,  che 
permettesse  di  debellare  appieno  gii  Equi  e  di  assicurare  con  la 
sconfitta  dei  Volsci  le  frontiere  meridionali  del  Lazio,  le  sole 
ormai  aperte  al  nemico. 

Le  inesattezze  cronologiche  in  cui  cade  nel  racconto  di  questa 
guerra  la  tradizione  possono  spiegarsi  senza  troppa  difficoltà.  Il 
fatto  di  Cosso  fu  attratto,  a  così  dire,  da  una  parte  dal  consolato 
'di  L.  Sergio  (437),  dall'altra  dalla  dittatm-a  di  Mamerco  Emilio 
(426):  dal  consolato  di  Sergio,  perchè  in  quella  gente  ricorreva  il 
cognome  Fidenate,  probabilmente  non  cognome  trionfale,  ma  de- 
rivante da  possessi  in  quella  regione,  ed  esso  fece  credere  che 
sotto  il  consolato  di  un  Sergio  si  fosse  inflitto  ai  Fidenati  un  grave 
colpo;  dalla  dittatura  di  Emilio,  perchè,  forse  non  a  torto,  la  tra- 
dizione la  collegava  con  la  guerra  veiente;  il  che  fu  pur  la  ca- 
gione che  al  437  con  la  prodei^a  di  Cosso  si  trasportasse  anche 
la  dittatura  di  Mamerco  Emilio.  Onde  è  molto  probabile  che  la 
dopj)ia  dittatura  d'Emilio  non  sia  più  storica  della  doppia  ditta- 
tura di  Cincinnato. 

Dell'ultima  guerra  coi  Veienti  ci  è  conservato  un  racconto  meno 
alterato,  ma  più  laconico,  ed  uno  più  diffuso  e  complesso.  Secondo 
il  primo,  la  guerra  ebbe  ijrincipio  nel  406,  e  lo  stesso  anno  deli- 
berarono i  Romani  per  la  prima  volta  di  pagare  il  soldo  alle 
truppe;  nel    402    i    Veienti    fecero    una    sortita    vittoriosa;  infine. 


(1)  Cfr.  sopra  p.  136  n.   1. 


ASSEDIO   DI   YEl  141 


del  396,  neirundecimo  anno  deirassedio,  nominato  dittatore  M.  Fui'io 
e  maestro  dei  cavalieri  P.  Cornelio,  questi  s'impadronirono  di  Veì 
per  mezzo  d"un  cunicolo  e  vendettero  gii  abitanti  e  la  preda  (1). 
Secondo  l'altro  racconto  (2)  nel  407  era  al  termine  la  tregua  coi- 
Veienti,  e  i  Romani  tornarono  a  chieder  soddisfazione  dell'assas- 
sinio degli  ambasciatori;  ma  pregati  dai  Veienti  clie  si  travaglia- 
vano fra  discordie  intestine,  non  rinnovarono  pel  momento  la 
guerra.  Senoncliè  avendo  mandato  di  nuovo  ambasciatori  nel  406, 
i  Veienti  li  cacciarono  ignominiosamente  minacciandoli  della  sorte 
toccata  ai  quattro  legati  fatti  uccidere  dal  re  Tolunnio.  Allora  i  Ro- 
mani deliberarono  di  dichiarare  la  guerra  e  d'istituù-e  il  soldo  mi- 
litare per  poterla  condm-re  innanzi  con  vigore;  e  spedirono  tosto 
un  esercito  contro  Veì.  Ma  la  città  non  cominciò  a  essere  stretta 
d'assedio  che  nel  405;  e  se  ne  commossero  gli  animi  degli  Etrusclii, 
e  se  ne  discusse  nella  loro  riunione  di  quell'anno  al  sacrario  di 
Voltumna,  senza  che  però  si  prendesse  alcuna  deliberazione.  Nel  403 
la  guerra  facendosi  più  accanita,  i  Veienti  vennero  nel  consiglio 
cU  nominare  un  re;  ma  per  questo  appunto  gli  altri  Etruschi  av- 
versi alla  monarchia  li  abbandonarono  alla  loro  sorte.  Veì  cosi  fu 
cinta  interamente  d'opere  d'assedio,  e  si  stabili  che  l'esercito  ro- 
mano rimanesse  in  campo  anche  dm^ante  l'inverno.  E  quando  i 
Veienti,  fatta  una  sortita  vittoriosa,  danneggiarono  gravemente  i 
lavori  degli  assedianti,  quelli  tra  i  Romani  che  avevano  il  censo 
equestre  senza  essere  iscritti  alla  cavalleria  né  forniti  d'un  cavallo 
dallo  Stato  si  offrirono  di  servii'e  a  proprie  spese,  imitati  tosto 
da  volontari  che  diedero  il  nome  nella  fanteria;  e  cosi  furono  ri- 
parati i  danni.  Ma  finalmente  nel  402  due  popoli  etruschi,  i  Ca- 
l)enati  ed  i  Falisci,  movendo  al  soccorso  dei  Veienti,  assalirono  con 
la  cooperazione  degli  assediati  uno  degli  accampamenti  romani, 
dove  comandava  il  tribuno  militare  Manio  Sergio.  Ora  Sergio  non 
s'indusse  a  ricercare  in  tempo  il  soccorso  del  suo  collega  e  avver- 
sario L.  Verginio,  che  comandava  Taltro  accampamento,  e  Verginio 
s'ostinò  a  non  intervenire  non  essendone  richiesto.  Cosi  i  Romani 
furono  battuti,  preso  uno  dei  loro  accampamenti  e  rotte  le  linee 
d'assedio.  Tuttavia  l'assedio  fu  rinnovato  l'anno  seguente  401,  e  per 
atterrire  e  punire  Capenati  e  Falisci  se  ne  devastarono  le  cam- 
pagne. Ciò  non  rimosse  quei  due  popoli  dal   proposito  di   soccor- 


(1)  DioD.  XIV  16.  43.  93. 

(2)  Liv.  IV  .58  -  V  22. 


142  CAPO    XV  -  ALLEANZA    FKA   ROMANI,    LATINI   ED    ERNICI 

vere  i  Veienti.  Ma  nel  399  le  loro  truppe  tornate  all'assalto  furono 
sconfitte,  e  i  Veienti,  che  avevano  fatto  una  sortita,  ricacciati  nella 
città.  Nell'anno  398  poi  si  rigonfiò  oltre  misura  il  lago  Albano;  e 
un  aruspice  di  Veì  catturato  a  tradimento  o  venuto  come  fuggiasco 
nel  campo  romano  vaticinò  clie  Veì  poteva  essere  presa  solo  quando 
fossero  regolarmente  incanalate  le  acque  di  quel  lago  (1).  Siffatto 
vaticinio  avendo  trovato  una  conferma  nel  responso  clie  recarono 
nel  397  i  messi  die  erano  stati  mandati  a  Delfi  a  consultare  in 
tal  proposito  l'oracolo  d'Apollo,  si  cominciò  lo  scavo  dell'emissario 
del  lago  sotto  la  direzione  dello  stesso  aruspice  etrusco  (2).  Frattanto 
i  Tarquiniesi  aprirono  anch'essi,  ma  inefficacemente,  la  guerra 
contro  Roma,  e  andò  pure  a  vuoto  un  tentativo  che  fecero  i  fedeli 
alleati  dei  Veienti,  i  Capenati  ed  i  Falisci,  per  indm-re  i  popoli 
etruschi  riuniti  al  sacrario  di  Voltumna  alla  guerra  contro  Roma. 
Ne  giovò  ai  Veienti  che  due  tribuni,  assalendo  nel  396  i  Capenati 
ed  i  Falisci,  si  avessero  la  peggio;  poiché,  terminata  la  costruzione 
deir  emissario  del  lago  Albano,  era  giunto  il  momento  segnato 
dai  fati  per  la  caduta  di  Veì.  Allora  si  nominò  dittatore  M.  Furio 
Camillo,  il  quale,  sceltosi  a  maestro  dei  cavalieri  P.  Cornelio  Sci- 
pione, ristabili  la  disciplina  nel  campo  romano,  fece  nuove  leve, 
ricevette  rinforzi  di  Latini  e  d'Ernici  accorsi  per  la  speranza  del 
bottino  sotto  i  suoi  vessilli,  XDronunciò  voti  solenni  ijerchè  i  numi 
gli  dessero  vittoria,  e  mentre  combatteva  con  felice  successo  nel 
territorio  di  Nepi  contro  i  Capenati  ed  i  Falisci,  fece  scavare 
una  galleria  sotterranea  che  conduceva  alla  rocca  di  Veì.  Poi  fece 
dare  un  assalto  generale.  Ancora  si  combatteva  alle  mura,  e 
già  i  Romani  per  mezzo  di  quella  galleria  erano  penetrati  nella 
rocca.  Il  re  dei  Veienti  faceva  un  sacrifizio  nel  tempio  di  Giu- 
none, e  l'aruspice  prediceva  la  vittoria  a  chi  avesse  sezionato  le 
viscere  della  vittima,  quando  i  Romani,  sbucati  nel  tempio,  reca- 
rono le  viscere  al  dittatore  che  compì  il  saciifizio.  Veì  cadde  in 
mano  dei  vincitori,  che  trucidarono  o  vendettero  schiava  la  popo- 
lazione. La  statua  della  dea  di  Veì,  Giunone  Regina,  trasportata 
a  Roma  col  palese  consenso  della  dea,  fu  collocata  in  un  tempio 
che  le  si  edificò  sull'Aventino  (3). 


(Ij  Liv.  V  16.  DioNYs.  XII  10-12.  Plut.  Cam.  3-4.  Zon.  Vii  20.  Cic.  de  divin. 
I  44,  100.  Il  32,  69.  Val.  Max.  I  6,  3. 

(2)  Liv.  V  16.  DioNYS.   XII  12.  Plut.  Val.  Max.  11.  citt. 

(3)  V  19-22.  UioNYs.  XII  13-14.  XIII  3.  Plut.   Camill.  5-6.  Zoxx.  VII  21.  Flou. 
I  12,  9.  Okos.  II  19. 


CRITICA   DELLA   TRADIZIONE  143 

In  questo  racconto  si  manifesta  non  di  rado  la  efficacia  della 
epopea  popolare;  e  fors^anclie  con  più  frequenza  si  notano  traccie 
delle  induzioni  e  invenzioni  degli  annalisti.  E  probabile,  ad  esempio, 
clie  la  stessa  sortita  vittoriosa  dei  Veienti  sia  narrata  due  volte, 
con  particolari  diversi  al  403  e  al  402.  Certo  è  da  credere  che  più 
d'uni  sortita  abbiano  tentato  gli  assediati  con  prospero  successo; 
ma  è  difficile  clie  si  conservasse  memoria  d'una  sola  non  che  di 
più,  e  par  quindi  che  dei  due  racconti  l'uno  non  sia  che  una  va- 
riante dell'altro.  E  non  è  ingiustificata  la  congettura  che  ciò  pro- 
venga dalla  contaminazione  di  due  versioni,  una  delle  quali  rife- 
riva al  407  il  princix3Ìo  della  guerra  e  quattro  anni  dopo,  al  403, 
la  sortita,  l'altra,  conforme  al  racconto  più  sommario  che  a  noi  è 
conservato,  il  principio  della  guerra  al  406  e  la  sortita  al  402  (1). 
Ciò  spiegherebbe  come  siano  attribuiti  al  407  quei  negoziati  senza 
alcuna  conseguenza  di  cui  non  si  vede  come  potesse  essersi  con- 
servato il  ricordo.  Ma  di  nessuna  di  queste  date  pel  ijrincipio  della 
guerra  può  aversi  x)iena  sicurezza;  xDerchè  l'una  e  l'altra  forse  non 
hanno  fondamento  se  non  nella  notizia  dell'assedio  decennale,  fatto 
cominciare  l'anno  stesso  in  cui  s'iniziò  la  guerra  o  l'anno  seguente; 
e  quella  notizia  è  assai  sospetta  iDerchè  dovuta  xjrob abilmente  alla 
poesia  popolare,  che  alla  sua  volta  può  averla  attinta  alla  leggenda 
dell'assedio  di  Troia.  E  se  anche  si  tratta  d'una  induzione  fondata 
sull'essersi  introdotto  il  soldo  per  la  milizia  nel  406,  di  che  non 
era  improbabile  si  conservasse  documento  o  ricordo,  non  acquista 
perciò  molto  di  credibilità.  Infatti  se  non  è  difficile  che  tra  l'isti- 
tuzione del  soldo  militare  e  la  conquista  di  Veì  vi  sia  relazione, 
non  è  necessario  che  tal  relazione  sia  xn'oprio  immediata,  vale  a  dhe 
che  lo  stipendio  si  sia  preso  a  pagare  apposta  per  poter  tenere 
in  campo,  anche  d'inverno,  le  truppe  destinate  all'assedio.  Molto 
sospetto  è  pure  ciò  che  vien  narrato  delle  riunioni  al  santuario  di 
Voltumna,  perchè  non  è  cliiaro  come  gli  annalisti  del  II  secolo 
potessero  sapere  delle  discussioni  avvenute  colà  senza  che  si  pren- 
desse alcuna  deliberazione  ;  di  cui  difficilmente  conservavano  me- 
moria i  carmi  epici  romani  sull'assedio  di  Veì,  Oltre  di  che  la  storia 
della  guerra  di  Roma  coi  Veienti  sembra  dimostrare  che  la  lega 
religiosa  avente  il  suo  centro  nel  santuario  di  Voltumna  (2)  non 
s'era  ancora  trasformata  nel  V  secolo  in  lega   politica.  Invece    si 


(1)  Cfr.  BuRGER  Sechziy  Jahre,  particolarmente  p.  140  seg. 

(2)  Cfr.  I  p.  146  a.  4  e  p.  435. 


14:4  f'APO   XV  -  ALLEANZA    FRA    ROMANI,    LATINI    ED    ERNICI 

spiega  assai  bene  come,  avendo  presenti  le  condizioni  deirEtniria 
nella  seconda  metà  del  IV  secolo,  gli  annalisti  riferissero  anche  al 
tempo  della  guerra  con  Veì  quei  concili  politici  al  sacrario  di  Vol- 
tumna  di  cui  si  aveva  ricordo  sicuro  per  l'età  delle  guerre  san- 
nitiche.  Ed  era  anche  naturale  che,  anticipata  a  questo  modo  la 
permanente  lega  politica  tra  le  città  etrusche,  ricercassero  perchè, 
con  grave  iattura  della  lega  stessa,  venne  abbandonata  nel  peri- 
colo Veì.  Ma  l'ipotesi  che  ciò  dipendesse  dalla  istituzione  della 
monarchia,  se  è  abbastanza  ingegnosa,  non  è  meno  arbitraria.  La 
leggenda  ricordava,  probabilmente  non  allontanandosi  dalla  ve- 
rità, che  Veì  si  reggeva  a  monarchia  quando  cadde  in  mano  dei 
Romani;  e  ciò  trova  una  conferma  monumentale  nelle  spoglie  di 
re  Tolunnio  dedicate  da  Cosso;  ma  questo  stesso  par  dimostrare 
che  il  governo  monarchico  era  a  quel  tempo  in  Veì  non  l'ecce- 
zione, come  ritiene  l'annalistica,  ma  l'uso  costante.  Non  sappiamo 
se  la  monarchia  si  sia  conservata  così  a  lungo  anche  nel  resto 
dell'Etrmia,  dove  la  leggenda  di  Porsenna  ne  serba  ricordo  pel  500 
circa  ;  ma  pare  evidente  che  per  Veì  almeno  non  costituiva  punto 
un  fatto  nuovo,  tale  da  coonestare  l'inazione  della  lega  (1).  Molti 
altri  sono  i  punti  dubbi  del  racconto.  Cosi  può  ben  darsi  che  i  Ca- 
penati  e  i  Falisci  abbiano  inflitto  ai  Romani  più  d'una  rotta;  ma 
nei  due  tribuni  che  hanno  la  peggio  combattendo  contro  i  Falisci 
nel  396  pare  debba  vedersi  una  copia  dei  due  tribuni  a  cui  è  do- 
vuta la  sconfìtta  del  402.  Del  pari  il  legame  tra  la  costruzione  del- 
l'emissario del  lago  Albano  e  la  presa  di  Veì  non  è  certo  inven- 
zione d'annalisti;  ma  sebbene  sia  elemento  genuino  della  leggenda, 
è  difficile  che  abbia  altro  fondamento  che  quello  d'una  approssima- 
tiva contemporaneità.  E  pur  dalla  j)oesia  popolare  è  attinto  pro- 
babilmente il  particolare  del  cunicolo  per  cui  i  Romani  penetra- 
rono nel  tempio  di  G-iunone  ;  ma  esso,  anche  prescindendo  dalla 
relazione  in  cui  una  critica  tropi30  sottile,  ha  voluto  metterlo  con 
l'emissario  del  lago,  non  è  tale  da  potersene  servii'e  per  la  storia; 
poiché  Veì  è  cii'condata  di  fìumicelli,  e  scavare  una  galleria  che 
passando  al  disotto  del  loro  alveo  sboccasse  nella  rocca,  non  era 
per  gl'ingegneri  romani  troppo  facile  impresa.  Del  resto  del  cu- 
nicolo si  parla  anche  a  proposito  dell'assedio  di  Fidane  del  435  (2)  : 


(1)  Sulla  monarchia  in  Etruria  cfr.  1  p.  153  n.   1. 

(2)  V.  sopra  p.  137  n.  2.  A  un  cunicolo  avrebbero  ricorso  per  impadronirsi 
ili  Fidene  pur  Anco  Marcio  iDionys.  Ili  39.  Zon.  VII  7)  e  Sp.  Larcio  (Dionys. 
V  29). 


CRITICA    DELLA    TRADIZIONE  145 

onde  pare  clie  uno  stesso  motivo  leggendario  si  applicasse  alle 
due  maggiori  conquiste  che  intorno  al  400  compirono  i  Romani. 
E  perfino  Finvio  dell'ambasceria  all'oracolo  d'Apollo,  per  quanto 
in  sé  non  abbia  nulla  di  singolare,  prescindendo  dalla  precisa  mo- 
tivazione, date  le  relazioni  che  coltivava  da  tempo  con  Delfi  la 
vicina  Cere,  potrebbe  essere  una  semplice  induzione  ricavata  dal- 
rinvio  a  Delfi  dopo  la  vittoria  d'un  dono  votivo. 

Ad  ogni  modo,  sfrondato  il  racconto  dell'ultima  guerra  veiente 
di  tutti  questi  particolari  falsi  o  sospetti,  ne  traluce  chiaramente 
il  sostrato  storico,  che  sarebbe  grave  errore  disconoscere.  Adunque 
la  pace  con  Veì  dopo  la  caduta  di  Fidene  aveva  lasciato  liberi 
Romani  e  Latini  di  rixjrendere  con  vigore  e  con  fortuna  la  lotta 
coi  Volsci.  E  i  Volsci  cedevan  terreno,  e  pareva  vicino  il  momento 
che  sarebbero  rimasti  a  pieno  debellati  ;  ma  j)rima  che  la  sottomis- 
sione dei  Volsci  avvantaggiasse  troppo  di  forze  i  Romani  a  fronte 
loro,  i  Veienti  ripresero  le  ostilità.  Ormai  i^eraltro  era  tardi  per  poter 
resistere  con  buon  successo  ai  Romani,  agguerriti  e  cresciuti  di 
potenza,  senza  soccorsi  d'altri  popoli  etruschi;  perchè  i  Volsci 
erano  inabili  ad  una  efficace  riscossa,  e  la  caduta  di  Fidene  toglieva 
ai  Veienti  ogni  speranza  di  trasportare  la  guerra  in  territorio  ro- 
mano. E  la  relativa  bontà  della  tradizione  si  vede  anche  in  ciò 
che  non  ignora  come  questa  guerra  fu  combattuta  sulla  destra, 
anziché  come  le  precedenti,  in  parte  almeno,  sulla  sinistra  del  Te- 
vere. Ma  il  soccorso  dei  connazionali  mancò.  Di  questo  si  acca- 
gionarono in  generale  dai  moderni  (1)  i  Galli,  che  appunto  in  quel 
torno  finivano  di  soggiogare  l'Etruria  padana.  Ma  il  pericolo  dei 
Cfalli  non  molto  poteva  commuovere  quelli  di  Cere,  di  Tarquinì, 
di  Volci  e  di  Volsinì  ;  e  se  costoro  non  assistettero  i  Veienti  o  al- 
meno non  li  assistettero  efficacemente,  deve  recarsene  la  cagione 
al  difetto  di  sentimento  nazionale  tra  gii  Etruschi  e  al  non  avere 
ancora  avvertito  gli  altri  Etruschi  il  pericolo  che  correvano  pel 
formarsi  della  potenza  romana.  Se  ne  addiedero  i  Veienti  perchè 
coi  Romani  avevano  avuto  lunghi  contatti  ostili  ed  erano  stati  in 
grado  di  misurare  l'importanza  dei  rivolgimenti  che  si  effettua- 
vano a  mezzogiorno  del  Tevere.  Ed  è  degno  di  nota  che  (qualunque 
cosa  convenga  pensare  dell'aiuto  tarquiniese  di  cui  abbiamo  un 
ricordo  isolato  e  che  forse  anticipa  soltanto  le  posteriori  guerre 
tra  Tarquinì  e  Roma)  il  solo  soccorso  di  qualche  momento  ebbero 


(1)  Seguendo  un  accenno  di  Liv.  V  17,  8. 
G.  De  Sanctis,  Storia  dei  Romani,  II.  10 


146  CAPO   XV  -  ALLEANZA    FRA    ROMANI,    LATINI   ED   ERNICI 


i  \'eienti  da  due  popoli  politicamente  etruschi,  ma  latini  di  nazio- 
nalità, i  Capenati  ed  i  Falisci  (I  p.  106),  i  quali  temettero  di  es- 
sere travolti  nella  rovina  di  Vei.  La  lotta  fu  mortale;  poiché  i 
Romani  s'erano  ripromessi  di  liberarsi  per  sempre,  ora  che  l'occa- 
sione era  favorevole,  dal  pericolo  veiente  ;  ed  i  Veienti  furono  per- 
tinaci a  resistere  a  ogni  costo  prima  clie  sottomettersi  alla  loro 
rivale.  La  fortezza  della  posizione,  la  ricchezza  d'acque,  il  soccorso 
della  iDotente  Falerì  li  affidavano  di  salute.  E  sacrifizio  estremo 
era  pei  contadini  romani  il  tenersi  tutto  l'anno  sotto  l'armi,  lon- 
tani dalle  famiglie  e  dai  campicelli;  ma  il  premio  sperato  non  era 
inferiore  al  sacrifizio.  Possiamo  ben  credere  alla  tradizione  ch.e 
riuscisse  talora  ai  Veienti,  stretti  d'assedio,  di  rompere,  con  l'aiuto 
dei  Capenati  e  dei  Falisci,  le  linee  degli  assedianti,  e  che  la  stan- 
chezza e  la  sfiducia  s'insinuasse  talora  nel  campo  romano.  E  non 
è  dubbio  che  ostinata  fu  la  resistenza  e  lungo,  con  le  sue  inter- 
ruzioni, l'assedio.  E  forse  se  fossero  ijervenuti  i  Veienti  coi  loro 
alleati  a  tenere  per  poclii  anni  ancora  sospesa  la  vittoria  romana 
e  se  i  Romani  fossero  stati  meno  perseveranti,  il  soi^ravvenire  dei 
Gralli  avrebbe  potuto  mutare  le  sorti  della  guerra;  ma  prima  che 
ciò  accadesse,  riusci  al  dittatore  romano  M.  Furio  Camillo  di  pren- 
dere d'assalto  la  città.  Bene  Camillo  meritava  la  gloria  onde  lo 
ricolmarono  i  carmi  popolari;  poicliè  questo  era  il  successo  più 
grandioso  che  i  Romani  avessero  conseguito  fino  allora,  successo 
che  dovette  far  profonda  impressione  a  loro  stessi,  ai  loro  amici 
e  ai  loro  nemici.  Mentre  iDrima  i  Romani  non  avevano  assalito 
e  superato  che  piccole  città  latine  e  volsche,  povere  e  dal  ristretto 
territorio,  ora  una  città  antica  ed  opulenta,  grande  e  forte,  con  ter- 
ritorio ricco  ed  esteso  era  caduta  in  loro  potere.  Certo  non  può 
senza  orrore  pensarsi  alla  sorte  che  per  la  barbarie  dell'antico  di- 
ritto di  guerra  dovette  essere  serbata  ai  vinti,  nò  i3uò  disconoscersi 
che  la  caduta  di  Vei  spense  uno  dei  maggiori  focolai  di  incivili- 
mento che  fossero  allora  nell'Italia  centrale.  Ma  con  la  conquista 
di  Vei  s'affermò  per  la  |3rima  volta  la  superiorità  degli  Italici 
sugli  altri  invasori  della  penisola,  e,  senza  che  né  vincitori  né  vinti 
potessero  pm*  confusamente  intravederne  gli  effetti,  si  fece  il 
primo  e  più  arduo  passo  sulla  via  della  riduzione  d' Italia  ad  unità 
nazionale. 

Della  presa  di  Vei  si  conservò  un  monumento,  la  cui  origine  é 
narrata  diffusamente  dalla  tradizione.  Camillo  aveva  fatto  voto 
di  dedicare  la  decima  del  bottino  ad  Apollo  Delfico.  E  però  cia- 
scuno dovette  versare  il  decimo  del  valore  della  preda  fatta  o  con- 
segnatagli; e  stimato  il  valore  della  città  e  del  territorio  veiente 


IL  DONO  AD  APOLLO  DELFICO  147 

anche  l'erario  ebbe  a  contribuire,  dando  l'equivalente  del  decimo, 
al  dono  votivo  (1).  Non  trovandosi  poi  l'oro  richiesto  per  l'aureo 
cratere  che  si  voleva  dedicare  a  Delfi,  le  matrone  furon  preste  a 
cedere  allo  Stato  i  loro  ornamenti  preziosi,  e  ne  ricevettero  in  com- 
penso il  dii'itto  di  andare  in  cocchio  in  città  (2).  Grli  ambasciatori 
romani  che  recavano  il  dono  caddero  in  mano  di  pirati  liparei  che 
li  condussero  nella  loro  isola.  Ma  Timasiteo,  lo  stratego  di  Lipari, 
li  pose  in  libertà  e  li  fece  anzi  scortare  col  loro  cratere  a  Delfi  (3), 
dove  essi  lo  deposero  nel  tesoro  dei  Massalioti  (4).  Onimarco  però 
fece  poi  fondere  il  cratere  durante  la  guerra  focese,  sicché  ne  ri- 
mase soltanto  la  base  di  bronzo  (5).  Quanto  a  Timasiteo,  i  Romani 
l'onorarono  concedendogli  l'ospizio  pubblico  (6),  e  quando  poi  nella 
prima  punica  si  impadronirono  di  Lix)ari,  si  ricordarono  della  sua 
generosità  dichiarandone  i  discendenti  liberi  ed  immuni  dalle  im- 
poste (7).  Dell'autenticità  di  queste  notizie  si  è  dubitato  (8).  Si  è 
osservato  che  il  culto  d'Apollo  in  Roma  non  è  anteriore  alla  metà 
del    secolo  W;    ma,    concesso   pm^  questo,   di  che   xduò    discutersi 


(1)  Liv.  V  23.  25.  Plut.  Camill.  7-8.  App.  Ital.  8.  Zon.  VII  21. 
\2)  Liv.  V  25.  Fest.    p.    245    s.    v.  pilentis.    Zon.  1.  e.  Con  qualche  variante 
Plut.   Camill.  8. 

(3)  Liv.  V  28.  DiOD.  XIV  93.  Con  qualche  variante  Plut.  Camill.  8. 

(4)  DioD.  Appian.  n.  citt. 

(5)  Appian.  1.  e. 

(6Ì  Sul    significato    dell'  ospizio    pubblico,    v.  Mommsen    Rom.    Forschungen  I 
326  segg. 

(7)  DioD.  1.  e,  che  narra  di  Timasiteo  all'a.  consolare  stesso  della  presa  di 
Veì  (396),  dice  che  ciò  accadde  137  anni  dopo.  Ora  i  Romani  presero  Lipara 
nell'anno  consolare  252  av.  C.  Dal  252  si  risale  così  per  l' invio  dell'amba- 
sceria (computando  nella  somma  uno  degli  estremi)  al  388.  E  il  388,  aggiunti . 
i  quattro  anni  dittatoriali  e  i  quattro  anni  attribuiti  in  più  dai  fasti  capito- 
lini all'anarchia  che  e  annua  in  Diodoi'O,  corrisponde  precisamente  al  396 
della  cronologia  comune  (I  p.  9).  Ma  è  affatto  impossibile  che  le  onoranze  a 
Timasiteo  spettino  all'anno  stesso  della  caduta  di  Veì;  sicché  con  ragione 
Livio  narra  di  Timasiteo  due  anni  dopo,  al  394.  È  d'altra  parte  poco  credibile 
che  la  data  della  caduta  di  Veì  si  sia  determinata  da  quella  delle  onoranze 
rese  a  Timasiteo;  anzi  pare  piuttosto  da  tenere  il  contrario.  Quindi  l'inter- 
vallo dev'essere  stato  determinato  non  per  mezzo  della  lista  dogli  strateghi 
di  Lipara,  ma,  partendo  dalla  data  tradizionale  della  presa  di  Veì,  per  mezzo 
dei  fasti  consolari  romani,  nella  redazione  appunto  in  cui  se  ne  serve  Diodoro; 
e  però  esso  non  ci  è  d'alcun  aiuto  per  lo  studio  della  cronologia  romana. 

(8)  Ihne  Rom.  G.  I  -  235.  Pais  II  1  p.  28  seg.  Burger  p.  82. 


148  CAPO   XV  -  ALLEANZA    FRA    ROMANI,    LATINI    ED    ERNICI 

(v.  c.  XXY),  non  ne  segue  che  fosse  ignoto  e  molto  meno  ohe  non 
potessero  a  Delfi  chiedersi  oracoli  o  inviarsi  doni  votivi.  Non  c'è  ra- 
gione per  escludere  che  Roma  avesse  relazioni  con  Delfi  quando, 
a  poca  distanza,  Cere  ne  aveva  di  cosi  intime  da  erigere  persino 
in  Delfi  un  proprio  tesoro.  Certo  la  connessione  del  dono  con  l'ora- 
colo concernente  la  derivazione  del  lago  Albano  è  probabilmente 
tanto  immaginaria  quanto  quell'oracolo  ;  ma  non  è  ragione  suffi- 
ciente per  dubitare  della  storicità  di  un  fatto  il  vederne  data  dalla 
tradizione  una  causa  fantastica.  E  pur  molto  sospetto  il  partico- 
lare dell'oro  ceduto  volontariamente  dalle  matrone,  che  vien  nar- 
rato anche  un'altra  volta  a  proposito  del  riscatto  di  Roma  dai 
Galli  (1):  in  questa  generosità  delle  matrone  è  da  vedere  un  mo- 
tivo leggendario  che  non  sappiamo  con  quali  avvenimenti  sia  stato 
in  origine  collegato  della  poesia  popolare.  Quanto  poi  al  premio  che 
questo  atto  generoso  avrebbe  trovato  nella  concessione  alle  ma- 
trone del  carpento  entro  la  città,  non  pare  sia  altro  che  un  mito 
etiologico  destinato  a  s]DÌegare  come,  essendo  vietato  andar  nella 
città  in  cocchio,  non  fosse  esteso  questo  divieto  alle  matrone:  pri- 
vilegio che  non  ha  certo  bisogno  d'una  spiegazione  mitica.  Ma  i 
liarticolari  sul  monumento .  e  in  specie  sulla  conservazione  della 
base  dopo  spogliato  dai  Focesi  il  tempio,  son  difficilmente  da  re- 
vocare in  dubbio:  ed  è  da  credere  che  nella  base  fosse  una  iscri- 
zione ricordante  il  fatto:  altrimenti  mal  si  spiegherebbe  come  si 
pensasse  di  riconoscere  la  base  del  dono  romano.  Così  pure  delle 
piraterie  dei  Liparei  a  danno  degli  Etruschi  abbiamo  altre  notizie 
indipendenti  da  quelle  sul  cratere  dedicato  ad  Apollo  (2);  e  il  con- 
tegno dei  primi  verso  gli  ambasciatori  romani  ha  la  sua  ragione  sia 
nelle  ottime  relazioni  in  cui  e  Liparei  e  Romani  erano  coi  Mas- 
salioti  (3),  sia  nel  fatto  che  probabilmente  i  Romani  come  i  Ceriti 
si  astenevano  da  quelle  piraterie  a  danno  dei  Greci  per  cui  erano 
in  genere  famigerati  i  navigatori  tu-reni  (4).  Non  v'è  quindi  mo- 


(1)  Liv.  V  50,  ofr.  VI  4,  3.  Diod.  XIV  93. 

(2)  Paus.  X  16,  7. 

(3)  Per  le  relazioni  di  Roma  con  Marsiglia  v.,  oltre  il  luogo  citato  di  Diod., 
Strai».  IV  180  (vera  o  leggendaria  provenienza  da  Marsiglia  del  simulacro  di 
Diana  aventinense).  Iustin.  XLllI  5  (contributo  dei  Marsigliesi  all'oro  pagato 
dai  Romani  ai  Galli,  v.  capo  seg.).  —  Del  resto  la  tradizione  ritiene  i  Liparei 
come  indipendenti,  mentre  pochi  anni  dopo  furono  sottomessi  da  Dionisio,  e 
deve  essere  nel  vero.  Non  così  E.  Mkyku  G.  des  Alterthums  V  p.  448  seg. 

(4)  Strab.  V  p.  220. 


NUOVE    GUERRE    IN   ETRURIA  149 

tivo  di  dubitare  nò  dell' esistenza  del  dono  né  della  sua  connes- 
sione con  la  presa  di  Vei.  Se  anche  tal  relazione  non  fosse  tra- 
mandata, non  saprebbe  scegliersi  in  tutta  la  storia  romana  anteriore 
alla  guerra  di  Pirro  occasione  più  opportuna  della  presa  di  Vei 
per  r  invio  d'un  dono  votivo  ad  Apollo.  Quel  dono  non  aveva  sol- 
tanto una  ragione  religiosa,  ma  doveva  servir  certo  a  dimostrare 
al  cospetto  degli  alleati,  degli  amici  e  dei  nemici  che  Roma  si  te- 
neva ormai  per  una  potenza  civile. 

L'occupazione  del  territorio  veiente  indusse  i  Romani  sia  a  cer- 
care una  linea  di  frontiera  che  assicui'asse  il  nuovo  acquisto,  sia 
a  costringere  gli  antichi  alleati  dei  Veienti  a  piegarsi  al  nuovo 
stato  di  cose.  E  per  prima  fu  sottomessa,  secondo  la  tradizione, 
nell'anno  seguente  (395)  Capena  (1),  e  il  suo  territorio  fu  come 
quello  di  Vei  incorporato  allo  Stato  romano  (2);  poi  furono  sog- 
giogate Sutri  e  Nepi,  due  città  a  settentrione  del  lago  di  Brac- 
ciano, che  probabilmente  come  Capena  avevano  avuto  relazioni  di 
dipendenza  verso  i  Veienti  (3).  Anche  di  queste  i  Romani  si  ax^- 
propriarono  il  territorio,  forse  fin  d'allora  cedendolo  alla  lega  la- 
tina col  proposito  di  ordinare  quelle  due  terre  a  colonie.  Con  la 
conquista  di  ìTepi  e  di  Sutri  i  Romani  s'  erano  assicurati  e  una 
posizione  dominante  sulle  vie  che  conducevano  nell'interno  del- 
l'Etruiia  e  pei  loro  nuovi  possessi  il  confine  naturale  del  Cimino. 
Per  Imigo  tempo  Sutri  fu  in  quella  regione  baluardo  avanzato 
della  latinità,  e  andare  a  Sutri  rimase  presso  i  Romani  frase  pro- 
verbiale che  equivaleva  a  mettersi  prontamente  in  assetto  di 
guerra  (4). 


(1)  Liv.  V  24:  ea  clades  popiclum  Capenatem  suhegit:  pax  petentibus  data. 

(2)  Ciò  non  potrebbe  trarsi  dalla  frase  citata  di  Livio,  ma  risulta  da  Fest. 
p.  343,  cfr.  Liv.  VI  4,  4.  Sul  municipio  capenate  v.  al  e.  XXII. 

(8)  Vi  è  qualche  discrepanza  in  materia  nella  tradizione.  Diodoro  (XIV  98,  5) 
riferisce  al  394:  ('Pcjuuaìoi)  Zoùrpiov  |aèv  aip|uriaav,  dove  è  stato  congetturato 
con  ragione  iÙKioav  ;  e  (XIV  117,  7)  al  390  narra  come  Camillo  ricuperò  e  re- 
stituì agli  abitanti  Zouxpiavi'iv  oOaav  ÒTTOiKiav  f^v  ci  Tuppnvoi  3ici  KareiXnopei- 
<Jov.  Livio  narra  quest'ultimo  fatto  al  389  riguardando  allora  i  Sutrini  come 
sodi  populi  Romani  (VI  3,  2),  lo  ripete  con  qualche  variante  al  386  e  raccoji- 
tando  un  fatto  analogo  a  proposito  di  Nepet  mostra  di  riguardare  ancora  le 
due  città  come  sociae  urbes  (VI  10,  6);  finalmente  al  383  parla  della  coloniz- 
zazione di  Nepet  (VI  21,  4),  tacendo  di  quella  di  Sutrio.  Invece  Velleio  I  14 
scrive:  2}ost  septem  annos  quatn  Galli  urbem  ceperunt  Sutrium  dcducta  colonia 
est  et  post   annum  Setia,  novemque  interiectis  annis  Nepet. 

(4)  Plaut.  Casin.  524.  Fest.  p.  310. 


150  CAPO   XV  -  ALLEANZA    FRA    ROMANI,    LATINI   ED    ERNICI 

Il  teiTÌtorio  romano  confinava  ora  con  quello  di  quattro  po- 
tenti città  della  lega  etrusca:  Cere,  Tarquinì,  Faleri,  Volsinì.  Se 
si  prescinde  dalle  leggende  dell'età  regia  (1),  il  primo  ricordo  dei 
Ceriti  nella  tradizione  romana  è  a  proposito  della  condotta  anii- 
chevole  che  tennero  verso  i  Romani  in  occasione  dell'  incendio  gal- 
lico (2).  Questo,  e  più  il  silenzio  della  tradizione  intorno  ai  Ceriti 
durante  la  guerra  di  Vei,  dimostra  che  essi  assistettero  neutrali  e 
forse  non  senza  qualche  compiacimento  alla  caduta  della  potente 
vicina;  del  resto  assai  più  che  di  Roma  si  preoccupavano  allora 
di  Siracusa,  la  cui  j)otenza  cresceva  per  terra  e  per  mare,  formi- 
dabile ai  Fenici  ed  agli  Etruschi  (3).  Forse  non  altrettanto  amiche- 
voli verso  Roma  erano  le  disposizioni  della  regina  della  maremma, 
la  potente  Tarquinì.  Ma  Tarquinì  e  Roma,  ciascuna  con  mi  terri- 
torio d'un  duemila  chilometri,  s' incutevano  rispetto  e  timore  scam- 
bievolmente; né  avevano  ragione  di  anticipare  la  lotta  inevitabile. 
La  guerra  continuò  invece  dopo  la  caduta  di  Veì  con  la  maggiore 
alleata  dei  Veienti,  Faleri,  che  non  poteva  veder  senza  terrore  i 
Romani  a  Capena,  a  Sutri  ed  a  Nepi.  Si  combattè,  secondo  la  tra- 
dizione, per  due  anni,  e  poi  (394)  i  Falisci  si  sottomisero  a  Camillo, 
che  in  qualità  di  tribuno  militare  era  a  campo  contro  la  città^, 
ammirati  della  magnanimità  con  cui  il  duce  romano  rifiutò  di  ap- 
profittare del  tradimento  d'un  maestro  di  scuola  che  gli  aveva 
consegnato  i  figli  dei  maggiorenti  di  Faleri  (4).  In  realtà  Faleri 
non  si  sottomise  punto,  né  agevole  sarebbe  stato  pei  Romani  sog- 
giogare una  città  che  seppe  resistere  vigorosamente  a  Roma  an- 
cora sul  chiudersi  della  prima  punica.  Solo  dovette  concludersi  una 
pace  in  cui  i  Falisci  si  adattarono  a  riconoscere  i  fatti  compiuti. 
Quanto  alla  storiella  del  maestro  di  scuola,  può  f ors'anche  aver 
fatto  parte  di  quel  ciclo  di  leggende  che  la  ijoesia  ]3opolare  radunò 
intorno  alla  memoria  di  Camillo;  ma  in  questo  caso  mostra  soltanto 


(1)  DioNYS.  Ili  58.  IV  27,  cfr.  Liv.  IV  60,  11. 

(2)  V.  cap.  seg, 

(3)  V.  al  cap.  seg.  sulla  devastazione  del  porto  di  Cere  compiuta  nel  384  da 
Dionisio. 

(4)  Liv.  V  27.  DiONYS.  Xlll  1-2.  Plut.  Camill.  10.  Cass.  Dio  fr.  23,  3-4.  Zon. 
VII  22.  Dioo.  XIV  96,  5  riferisce  al  395:  'Pa)|Liaìoi  OaXiaKOv  ttóAiv  ék  toO  (t>a- 
XiaKuuv  ^Gvouq  èEeTTÓp6ri<Jctv,  e  al  394  (XIV  98,  5)  :  'Pu)|Liatoi  irpòq  «J^aXiaKouq  elpn- 
vriv  TToir|ad)aevoi  ktX.  È  lo  stesso  fatto  assegnato  con  diverse  circostanze  a  due 
anni  successivi:  ne  s'ha  da  fare  alcuna  congettura  per  eliminare  la  contrad- 
dizione. Per  un'analogia  v.  sopra  p.  122  n.  1. 


ROMANI   E   LATINI  151 

con  quale  cautela  debba  usarsi  della  pctesia  popolare  nelle  ricostru- 
zioni storiche.  Del  resto,  secondo  la  nostra  tradizione,  qui  poco 
degna  di  fede,  non  si  sarebbero  neppur  appagati  di  questi  felici 
successi  i  Romani  e  avi'ebbero  avuto  poco  dopo  (392-1)  guerra  coi 
Volsiniesi  e  coi  Salpinati  (popolo  ignoto,  di  cui  c|ui  solo  occorre 
menzione)  e  sarebbero  penetrati,  devastando,  oltre  i  monti  Ci- 
minì  (1),  in  una  regione  che,  non  molto  consona  a  sé  stessa,  la  tra- 
dizione rappresenta  come  ignota  ed  inaccessibile  ai  Romani  sulla 
line  del  sec.  IV. 

Ma  anche  prescindendo  dalle  conquiste  immaginarie,  bastavano 
quelle  compiute  in  effetto  da  Roma  per  preparare  un  profondo 
mutamento  nei  rapporti  tra  Roma  e  la  lega  latina.  Questa  lega, 
dopo  la  caduta  di  Pomezia,  abbracciava  un  territorio  d'un  migliaio 
di  chilometri  quadrati  d'estensione,  ossia  superiore  di  poco  al  ter- 
ritorio romano.  Dopo  l'accordo,  le  conquiste  territoriali  degli  alleati 
servirono  a  fondare  colonie  latine,  ossia  nuovi  comuni  autonomi 
a  cui  potevano  inscriversi  cittadini  di  tutti  gli  Stati  confederati, 
i  quali  entravano  a  far  parte  della  lega  latina  con  diritti  pari  a 
quelli  dei  Prisci  Latini  che  in  origine  la  costituivano.  Cosi  subito 
dopo  l'accordo  con  Roma  furono  fondate  Segni  e  Norba  (p.  106). 
Inoltre  accedettero  probabilmente  alla  federazione  nel  corso  del 
sec.  y  due  città  affini  di  stirpe,  Nomento  (2)  e  Pedo  (3)  ;  abbiamo 
invece  ragione  di  credere  che  continuasse  a  tenersene  fuori  Pre- 
neste  (4),  come  ne  rimase  fuori  anche  Grabì,  che  i  suoi  vincoli 
speciali  d'alleanza  con  Roma  tendevano  a  trasformare  a  poco  a 
poco  in  un  comune  romano  (5).  S'avvantaggiava  del  resto  la  lega' 
anche  degli  acquisti  che  veniva  facendo  per  conto  proprio  taluna 
delle  sue  città  confinanti  coi  nemici  del  nome  latino;  per  modo 
che  intorno   al  120,    prima  che    cominciasse   l'offensiva  fortunata 


(1)  Liv.  V  31-32.  DioDORo  XIV  109,  7  ricorda  una  vittoria  dei  Romani  sui 
Volsiniesi  al  391  presso  roupdoiov  (?). 

(2)  Per  Nomento  (Mentana)  pare  che  ciò  debba  ricavarsi  dalle  notizie  sul 
confine  di  Ereto  (sopra  p.  124  n.  2).  Livio  fa  ricordo  della  città  a  proposito 
delle  guerre  coi  Fidenati  del  435  e  del  426  (IV  22.  32). 

(3)  Pedo  (Gallicano?)  è  tra  le  città  latine  ricordate  da  Dionys.  V  61  e  poi 
tra  le  conquiste  di  Coriolano  (Liv.  II  31.  Dionys.  Vili  19.  26.  Plut.  Coriol.  28); 
dopo  di  che  non  torna  a  parlarsene  fino  al  358. 

(4)  V.  sopra  p.  92  n.  3. 

(5)  V.  I  p.  389. 


152  CAPO   XV  -  ALLEANZA    FRA    KOMAXT,    LATINI   ED    ERNICI 


contro  i  Volsci,    essa  comprendeva    undici  comuni   e  1500  km'  di 
territorio  (1). 

Ma  ne  ai  Romani  né  agli  Ernici  poteva  garbare  die  d'acquisti 
fatti  col  sangue  di  tutti  s'avvantaggiasse  la  sola  lega  latina.  È 
vero  che  qualsiasi  cittadino  dei  tre  popoli  aveva  pari  diritto  a 
prender  parte  alla  fondazione  delle  nuove  colonie:  non  andava 
però  forse  a  grado  di  molti  Romani  ed  Ernici  di  rinunciare,  per 
aver  parte  alla  colonia,  ai  diritti  che  esercitavano  nel  Foro  di 
Roma  o  nel  Compito  d'Anagni,  Oltre  di  che  non  era  senza  pericolo 
lasciare  che  il  territorio  della  lega  latina  superasse  di  troppo  quello 
degli  altri  contraenti  della  triplice  alleanza.  E  tuttavia,  fatta  ec- 
cezione delle  ultime  guerre  con  Fidene  e  con  Veì,  i  Romani  e  gli 
Ernici  si  tennero  paghi  a  reclamare  per  sé  qualche  distretto  di 
confine  conquistato  ai  comuni  nemici.  Cosi  gii  Ernici  non  si  eb- 
bero che  Ferentino  (2),  e  i  Romani  poco  spazio  di  terreno  verso  il 
confine  equo.  Quando  infatti  si  riusci  a  far  sgomberare  gli  Equi 
dall'Algido,  questo,  coi  distretti  degli  antichi  comuni  latini  di  La- 
bici,  Boia,  Carvento  ed  Ortona,  deve  essere  stato  incorporato  nel 
tenitorio  romano;  poiché  non  c'è  ragione  per  mettere  in  dubbio 
quel  che  la  tradizione  dice  sulle  colonie  romane  di  Labici  (418)  (3) 
e  di  Vitellia  (4),  sol  che  si  tenga  a  mente  che  non  può  essersi  trat- 
tato di  veri  comuni  autonomi  di  cittadini  romani,  ma  d'assegna- 
zioni di  terreno  in  iDaese  annesso.  Ma  questi  ampliamenti  dello 
Stato  romano  furono  largamente  compensati  dagli  ampliamenti 
che  ebbe  la  lega  latina  con  la  fondazione  di  Circei  (393j,  seguita 
da  quella  di  Sezze,  Sutri  e  Nepi,  il  cui  territorio,  se  non  coloniz- 
zato, fu  però  assai  probabilmente  ceduto  alla  federazione  prima 
della  invasione  gallica,  e  dalla  accessione  di  Velletri,  d'Anzio  con 
Satrico,  e  poi  anche  d'Anxur;  cosicché  la  lega,  anche  j)rescindendo 
dalle  terre  che  s'  avevano    da  ridurre   a   colonie,   raggiungeva  la 


(1)  I  menzionati  sopra  a  p.  92  n.  2  con  Pomezia  e  Velletri  in  meno  e  un 
centinaio  di  km*  in  piìi  pel  territorio  tiburtino.  Inoltre  Norba  che  avrà  ab- 
bracciato un  100  km^,  Signia  con  100,  Nomento  con  70,  Pedo  con  75.  To- 
tale 1445  km^ 

(2)  Sopra  p.  123  n.  3. 

(3)  Liv.  IV  47,  7  :  coloni  ab  urbe  mille  et  quingenti  missi  bina  iugera  acce- 
perunt. 

(4)  Liv.  V  29  al  393  :  Vitelliam  coloniam  Romanam  in  suo  agro  Aequi  ex- 
pugnant.  Cfr.  Sueton.  Vitell.  1.  È  incerto  se  sia  la  stessa  colonia  in  Volscos 
ricordata  da  Liv.  V  24,  4  al  396. 


ROMANI   E    LATINI  15B 


estensione  di  2500  km.  quadrati  (1),  e  comprese  quelle  s' esten- 
deva per  un  3000  (2). 

Ma  la  conquista  di  Fidene,  di  Veì  e  di  Capena  tolse  la  spro- 
porzione clie  si  era  venuta  formando  tra  il  territorio  latino  ed  il 
romano  (3).  Dell'm'to  con  Veì,  Roma  aveva  dovuto  portare  il  pe- 
ricolo e  il  danno;  e  forse  neppure  fece  richiesta  per  la  guerra 
etrusca,  che  era  diretta  contro  lei  sola,  dei  contingenti  federali- 
Onde  ad  essa  poi  restò,  fatta  eccezione  degli  avamposti  di  Sutri 
e  di  Nepi,  tutto  il  vantaggio  della  vittoria;  e  così  vi  fu  copia  di 
terreni  da  distribuire  a  cittadini  romani  senza  che  dovessero  ri- 
nunciare al  beneficio  della  cittadinanza;  e  il  territorio  romano,  più 
che  raddoppiato,  gareggiò  quasi  in  estensione  con  quello  latino, 
pui'  tanto  dilatato  dalle  ultime  conquiste. 

Frattanto  se  la  lega  latina  aveva  molto  guadagnato  in  esten- 
sione, aveva  però  molto  perduto  in  coesione.  Per  lunghi  anni  l'avan- 
zarsi dei  Volsci  e  degli  Equi  aveva  spezzato  in  tre  il  territorio 
federale:  a  sud  Cora,  Norba  e  Signia  circondate  per  tre  lati  dai 
Volsci  e  dagli  Equi  e  solo  a  nord-est  confinanti  con  gli  alleati  Er- 
nici  ;  al  centro  Lanuvio,  Laurento,  Ardea  ed  Aricia,  il  nucleo  della 
lega  latina,  strette  tra  i  Volsci  ed  il  territorio  romano  ;  a  nord  Ti- 
voli, Nomento  e  Pedo,  che  da  una  parte  il  territorio  romano  con 
l'annesso  agro  sabino,  dall'altra  il  paese  equo  e  prenestino  sepa- 
ravano dal  resto  della  federazione.  Quanto  a  Tuscolo,  era'  quasi 
un'isola  nel  territorio  romano,  e  solo  ad  oriente  confinava  con 
paese  occupato  dagli  Equi;  ma  rimase  poi  interamente  circondata 
dai  possedimenti  romani  quando  i  Romani  acquistarono  Labici  e 
Boia.  In  tal  condizione  di  cose  nulla  era  più  diffìcile  ai  Latini  che 
intendersi  efficacemente  j)er  un'azione  comune.  Assai  prima  che 
i  delegati  latini  avessero  fatto  in  tempo  a  congregarsi  alla  fonte 
dell'acqua  Ferentina,  gli  ottimi  ordini  di  guerra  e  la  continuità 
del  territorio  mettevano  i  Romani  in  grado  di  avere  in  assetto  una 
legione  e  li  rendevano  pronti  ad  accorrere  dovunque  nel  paese  la- 


(1)  Totale  precedente  km-  1445.  Velletri  165,  Anzio  e  Satrico  con  l'agro  pon- 
tino 440.  Circei  100.  Terracina  170.  Incrementi  del  territorio  di  Signia  (Beloch 
It.  Bund  p.  146)  135.  Totale  2455. 

(2)  Totale  precedente  kin-  2455.  Sezze  185.  Sutri  e  Nepi  300.  Totale  2940. 

(3)  Territorio  romano  comprese  Fidene  e  Labici,  circa  1000  km^.  Territori 
di  Veì  e  di  Capena,  circa  1220.  Totale  2220.  V.  la  tabella  presso  Beloch  It. 
Band  p.  69  segg. 


15J:  CAPO   XV  -  ALLEANZA   FRA   KOMANI,    LATINI   ED   ERNICI 

tino  fosse  invocato  il  loro  aiuto.  Da  ciò  venne  di  conseguenza 
che  l'articolo  del  trattato  il  quale  stabiliva  che  il  comando  degli 
eserciti  federali  sarebbe  spettato  un  anno  ai  Romani  ed  un  anno 
ai  Latini,  senza  essere  abolito,  cadde  in  dissuetudine.  Si  assuefe- 
cero i  Latini  a  ricorrere  direttamente  per  aiuto  a  Roma  dalla  città 
minacciata  dal  nemico,  fosse  Tuscolo  o  Lanuvio;  e  i  Romani  ad 
invitare  le  varie  città  latine  a  rinforzare  coi  loro  contingenti 
l'esercito  senza  attendere  che  si  convocasse  il  concilio  della  lega 
o  che  si  nominasse  il  dittatore  federale.  E  cosi  le  truppe  latine  a 
poco  a  poco  fecero  l'uso  a  non  aver  altri  comandanti  supremi  che 
i  consoli  e  i  dittatori  romani. 

Ma  oltre  allo  scompaginarsi  del  territorio  della  lega  per  effetto 
delle  conquiste  degli  Equi  e  dei  Volsci  e  alla  frequente  ui'genza 
di  soccorsi  immediati  che  Roma  sola  poteva  dare,  contribuì  a  ciò 
anche  il  moltiiDlicarsi  delle  colonie  latine.  Ai^icia  e  Tivoli  avevano 
vecchie  e  gloriose  tradizioni  d'autonomia  e  mal  si  adattavano  a 
cedere  ai  Romani,  la  cui  potenza  appariva  ad  esse  maggiore  bensì, 
ma  meno  antica  della  propria.  Di  tali  tradizioni  difettavano  invece 
le  nuove  colonie,  che  costituivano  ormai  una  parte  importantissima 
della  federazione  ;  e  per  questo  e  per  esser  baluardi  della  latinità 
in  paese  straniero  dovevano  intendere  a  conservarsi  un  punto  di 
appoggio  dove  era  il  fulcro  della  potenza  latina,  a  Roma;  tanto 
più  in  quanto  in  buona  ]3arte  i  coloni  erano  raccolti  tra  i  citta- 
dini romani,  che  non  iDotevano  dimenticare  d'aver  servito  nelle  le- 
gioni della  patria  e  che  tramandavano  nelle  loro  famiglie,  coi 
carmi  popolari,  l'ossequio  a  Roma.  Né  giovò  alla  omogeneità  della 
lega  l'accessione  forzata  di  comuni  volsci  come  Velletri  od  Anzio, 
che  se  ricolmavano  in  qualche  punto  le  lacune  del  territorio  fede- 
rale, non  i^otevano  trovarsi  in  conformità  di  sentimenti  coi  Latini 
che  essi  avevano  combattuto  a  morte,  e  specialmente  dovevano 
sentir  vivo  il  ricordo  della  inimicizia  con  le  città  più  vicine  di  cui 
tante  volte  avevano  invaso  con  varia  fortuna  il  territorio. 

Frattanto  la  potenza  romana  cresceva  e  per  l'aumento  natu- 
rale della  popolazione  e  ])er  quello  della  civiltà  e  pel  confluire  in 
Roma  di  Latini  a  cui  i  trattati  permettevano  d'acquistare  la  cit- 
tadinanza e  pel  continuo  esercizio  delle  armi  e  pel  sempre  maggior 
vigore  con  cui  adoperavano  i  Romani  le  loro  forze  nella  lotta  per 
l'esistenza  e  da  ultimo  per  i  gravi  effetti  morali  e  materiali  del 
trionfo  su  Veì.  Né  alla  potenza  romana  potevan  far  contrappeso 
efficace  a  favore  dei  Latini  gli  Ernici,  fin  da  principio  assai  meno 
potenti  e  numerosi  dei  loro  alleati  e  scaduti  ora  d'importanza  e 
i^el  loro  teiTitorio  rimasto  quasi  tal  quale,  mentre  tanto  s'era  dila- 


I 


ROMANI   E    LATINI  155 


tato  il  territorio  romano  e  latino,  e  perchè  pareva  cessato  il  peri- 
colo equo  e  volsco  clie  aveva  reso  preziosi  i  loro  aiuti.  E  cosi  s'era 
di  fatto  se  non  di  diritto  instaurata  novamente  e  con  assai  mag- 
gior gagliardia  quella  egemonia  che  Roma  aveva  tentato  di  con- 
seguire nel  Lazio  sul  declinare  dell'età  regia  per  mezzo  della  lega 
albana;  e  pareva  che  dovesse  servirle  di  guarentia  al  suo  primato 
l'allentarsi  e  quasi  sciogliersi  di  fatto  dei  vincoli  che  stringevano 
tra  loro  le  città  della  nuova  lega  politica  latina.  A  grado  a  grado 
pertanto  Roma  s'era  trasformata  in  un  grande  Stato  di  cui  si 
estendeva  il  dominio  o  la  egemonia  dai  monti  Ciminì  fin  oltre  il 
Circello.  E  se  le  conseguenze  di  questo  fatto  tardarono  a  manife- 
starsi, si  fu  perchè  per  un  momento  non  pur  la  i^otenza,  ma  l'esi- 
stenza stessa  della  città  fu  messa  in  pericolo  dall'inatteso  soprav- 
venire d'un  nuovo  nemico. 


qV"  k  ftV*  k  0/"°  k  oV*  k  flV*  !>.  e^ 


CAPO  x^a. 

Gli  Italici  in  lotta  coi  Celti  e  coi  Greci. 


Allorcliè  risalendo  il  Danubio  gl'Italici  ancora  nell'età  eneoli- 
tica s'incamminavano  verso  occidente,  li  seguivano,  tenendosi  con 
essi  a  contatto,  i  Celti  (1).  Poi  i  due  popoli  si  se^Dararono.  Proba- 
bilmente per  le  Alpi  orientali  gli  Italici  discesero  nella  nostra  pe- 
nisola, mentre  i  Celti  continuarono  risalendo  il  Danubio  a  penetrare 
nell'Europa  centrale.  E  cessò  tra  i  due  popoli  fratelli  ogni  relazione 
diretta  :  poiché  sospinta  dai  Celti,  una  nazione  non  aria,  che  j)rima 
di  essi  nell'età  eneolitica,  procedendo  probabilmente  per  la  stessa 
via,  s'era  diffusa  nell'Europa  centrale,  l'etrusca,  scese  in  parte  in 
Italia  occupando  la  valle  padana  e  inducendo  gl'Italici  a  prose- 
guire verso  mezzogiorno  la  loro  migrazione  (v.  e.  IV).  La  profonda 
differenza  tra  la  postura  delle  nuove  sedi  dei  Celti  e  degl'Italici, 
il  mancar  di  contatti  tra  essi  e  soprattutto  la  vicinanza  tra  gl'Ita- 
lici ed  altri  popoli  più  inciviliti  e  la  lontananza  invece  in  cui  ri- 
masero per  lungo  tempo  i  Celti  da  ogni  focolare  d'incivilimento, 
differenziò  d'assai  lo  sviluj)po  dei  due  popoli.  Per  modo  che  gl'Ita- 
lici i  quali,  ora  amici,  ora  nemici,  si  sentivano  però  stretti  sempre 
dal  vincolo  della  stessa  civiltà  non  solo  coi  G-reci,  ma  anche  con 
gli  Etruschi  e  coi  Fenici,   pm'  da  essi  etnicamente  tanto  diversi, 


(Ij  Questa  ipotesi  è  fondata  sulle  attinenze  tra  il  celtico  e  l'italico,  intorno 
a  cui  V.  p.  es.  Kretschmer  Einleitung  p.  126  segg. 


MIGRAZIONI   DEI   CELTI  157 

provarono  invece  per  gli  affini  Celti,  quando  questi  scesero  in  Italia, 
solo  quel  sentimento  complesso  misto  di  terrore,  d'odio  e  di  disprezzo 
che  l'uomo  incivilito  nutre  pel  barbaro  clie  gli  si  rende  formidabile. 

A  fronte  di  quelle  turbe  di  guerrieri  dall'ampia  e  robusta  cor- 
poratura, dai  folti  inconditi  mustacchi,  dalla  lunga  chioma  scarmi- 
gliata di  rado  protetta  con  l'elmo,  che  si  precipitavano  sull'av- 
versario appena  vestiti,  armati  delle  loro  affilatissime  spade,  non 
cm'anti  della  vita,  con  barbariche  grida  di  guerra  (1),  il  panico  si 
diffondeva  tra  i  soldati  italici  usi  a  combattere  con  nemici  che  si 
coprivano  al  par  di  loro  di  lucenti  armi  difensive  metalliche,  che 
marciavano  e  combattevano  riuniti  in  ben  disciplinate  unità  tat- 
tiche, che  sapevano  le  stesse  evoluzioni  militari  e  usavano  gli 
stessi  stratagemmi. 

E  piu'e  quei  barbari  non  s'erano  mostrati  al  tutto  refrattari  alla 
civiltà,  anzi  le  loro  grandi  immigrazioni  nelle  penisole  meridionali 
dell'Europa  son  posteriori  all'apparire  sull'alto  Danubio  e  sull'alto 
Reno,  nell'odierna  Germania  fino  ai  monti  della  Germania  media, 
nell'odierna  Francia  escluso  il  mezzogiorno  del  paese,  dei  segni  d'un 
nuovo  sviluppo  civile  che  sostituisce  la  civiltà  predominante  nel- 
l'Europa centrale  nella  prima  età  del  ferro,  e  conosciuta  col  nome 
di  civiltà  di  Hallstatt,  da  mia  città  dell'Alta  Austria  j)i'esso  cui  si 
rinvenne  una  ragguardevolissima  necrox)oli  di  quella  età  (2).  E  la 
nuova  civiltà,  cui  si  dà  il  nome  di  civiltà  della  Tene,  da  una  sta- 
zione, del  resto  assai  più  tarda,  situata  in  Svizzera  sul  lago  di 
Xeuchàtel  (3),  si  annunzia  danna  parte  con  la  ulteriore  elaborazione 


(1)  Areian.  anab.  I  4,  6  (da  Tolemeo  di  Lago^  cfr.  Strab.  VII  p.  301  seg.). 
PoLYB.  II  20.  DiOD.  V  28  segg.  (Posidonio).  Cfr.  S.  Reinach  Les  Gaulois  dans 
l'art  antique  in  '  Revue  archéol.  '  ser.  IH  t.  XII  (1888)  p.  273  segg.  XIII  (1889) 
p.  11  segg.  187  segg.  317  segg.  —  Sulla  storia  dei  Celti  v.  in  ispecie  Contzen 
Die  Wanderungen  der  Kelten  (Leipzig  1861),  Bertrand  et  Reinach  Les  Celtes 
dans  les  vallées  du  Pò  et  du  Danube  (Paris  1894),  e  anche  D'Arbois  de  Jdbaix- 
viLLE  Les  premiers  habitants  de  l'Europe  II  (Paris  1894)  p.  254  segg.  Degli 
scrittori  antichi  che  discorsero  dei  Celti  tratta  lo  stesso  D'Arbois  de  Jubain- 
viLLE  Cours  de  Uttérature  celtique,  XII  (Paris  1902). 

(2)  Sacken  Grabfeld  von  Hallstatt  (Wien  1864).  Hoernes  Die  Hallstuttperiode 
in  '  Arch.  fur  Anthropologie  '  N.  F.  Ili  (1905)  p.  233  segg. 

(3)  Gross  La  Tene,  un  oppidum  Helvète  (Paris  1886).  —  Sull'arte  della  Tene 
V.  in  particolare  l'eccellente  studio  del  Reineke  Zur  Kenntniss  der  la  Tène- 
Denhmdler  in  '  Festschrift  zur  lunfzigjahr.  Feier  des  Museum^  zu  Mainz  '  (Mainz 
1902)  p.  53  segg.  Un  utile  riassunto  è  presso  Hoernes  Vrgeschichte  des  Menschen 
(Wien  1892)  p.  636  segg. 


158         CAPO   XVr  -  GLI   ITALICI  IN   LOTTA   COI   CELTI   E    COI   GRECI 

di  forme  preesistenti  dell'arte  barbarica,  dall'altra  con  Tintrodii- 
zione  di  nuove  forme  artisticlie.  Queste  nuove  forme  son  Topera 
di  artefici  che  si  ispirano  a  modelli  greci,  ma  sono  alieni  dal 
cercar  di  riprodm'li  e  forse  inetti  a  farlo,  e  iDer  tal  rispetto  si 
dimostrano  superiori  ad  un  tempo  ed  inferiori  agii  artisti  bar- 
bari delle  regioni  a  settentrione  del  Ponto  Eusino.  Tale  s\'ilui3po 
s'iniziò  nella  Francia  orientale  a  settentrione  di  Marsiglia.  Atti 
come  tutti  gii  altri  IndoeuroiDei  al  progresso,  i  Celti  tanto  più  vo- 
lentieri accolsero  gFinflussi  della  civiltà  ellenica  die  loro  perveni- 
vano per  la  valle  del  Rodano,  in  quanto  Favversione  ai  Ligmi  che 
cliiudevano  ad  essi  la  via  del  Mediterraneo  li  riuniva  in  comunione 
di  sentimenti  e  d'interessi  coi  Greci  di  Marsiglia  ;  onde  dagli  scrit- 
tori greci  s'ebbero  la  rinomanza  di  barbari  filelleni  (1).  Ma  in  questo 
primo  periodo  cominciano  appena  a  delinearsi  le  caratteristiche 
della  posteriore  civiltà  esterna  dei  Celti,  la  frequenza  delle  collane, 
delle  armille,  degli  anelli  e  delle  fibule  di  foggie  strane,  l'abbon- 
danza delle  spade  e  la  rarità  degli  elmi,  accanto  a  cui  si  rinven- 
gono anche  quei  carri  da  guerra  a  due  ruote  che  poi  a  lungo  so- 
pravvissero i^resso  i  più  arretrati  in  civiltà  tra  i  Celti,  i  Britanni  (2). 
ManelFetà  successiva  che  corrisponde  alIVsecolo,  mentre  scompaiono 
in  generale  i  cocchi,  si  diffonde  anche  più  l'uso  della  spada  corta 
e  sottile  a  dojDpio  taglio,  che  poi  s'allunga  e  s'arrotonda  in  punta, 
diviene  sempre  idìù  raro  l'uso  dell'elmo  e  più  frequente  la  collana 
e  l'armilla  e  usuale  la  fìbula  caratteristica  degli  strati  celtici,  che 
serviva  a  fermare  sul  petto  il  sago  onde  i  barbari  erano  vestiti, 
la  fibula  della  Tene,  con  la  staffa  ripiegata  e  le  molte  spu'ali  della 
sua  molla. 

La  diffusione  della  civiltà  della  Tene  nel  suo  primo  periodo 
corrisponde  a  un  dijDresso  alla  più  antica  estensione  delle  sedi  del 
popolo  celtico,  quando  esso  non  aveva  abbandonato  i  territori  sulla 
sinistra  dell'alto  Danubio  nella  selva  Ercinia  e  nella  Boemia,  e  al 
tempo  stesso  scendendo  il  Reno  e  valicando  i  Vosgi  s'era  inoltrato 
in  Francia  sino  all'Oceano.  Sono  le  sedi  che  assegna  ai  Celti  Ero- 
doto (3)  quando  li  colloca  intorno  alle  sorgenti  dellTstro  e  alla  città 
di  Pirene  nell'Europa  occidentale,  ma  meno   ad  ovest  dei  Cineti 


(1)  Strab.  IV  181.  189.  [ScvMN.]  183  segg. 

(2)  Caes.  6.  G.  IV  33. 

(8J  II  33.  IV  49.  Prima  di  Erodoto  forse  i  Celti  erano  stati  menzionati  da 
EcATEo.  Prescindendo  infatti  dai  fr.  19  e  22  e  da  tenere  conto  del  fr.  21  ap. 
Steimi.  Byz.  s.  V.  Nùpaì  •  itóXk;  KeXriKT'i  ■  'EKaraioq  Eùpiinr)- 


LA    CIVILTÀ    DELLA    TENE  159 

della  penisola  iberica.  Poi  un  altro  gruppo  compatto  di  migratori 
indoeui'opei,  i  Grermani,  cominciò  a  premere  sui  Celti,  tentando  di 
respingerli  oltre  il  Reno  e  oltre  il  Danubio  (1)  ;  onde  i  Celti  si 
riversarono  nelle  isole  Britanniclie  soggiogandovi  i  discendenti 
degli  abitatori  primitivi  ('2)  e  al  tempo  stesso  avanzandosi  in  Grallia 
verso  occidente  e  verso  mezzogiorno,  toccarono  il  golfo  di  Biscagiia. 
e,  respinti  o  soggiogati  i  Liguri,  il  Mediterraneo  (3),  mentre  inva- 
devano l'Eberia,  ove  furono  conosciuti  col  nome  di  Celtiberi  nel- 
Taltipiano  centrale,  e  di  Celtici  sulla  costiera  meridionale  clie  essi 
raggiunsero  tra  la  Gruadiana  e  il  Guadalquivir,  vicino  al  territorio 
dei  Tartessì  (4).  Né  qui  s'arrestarono  le  loro  migrazioni  :  che  tra 
il  -450  ed  il  400  essi  discesero  nell'Italia  settentrionale,  e  un  mezzo 
secolo  dopo  le  loro  orde  cominciarono  a  penetrare  nella  penisola 
balcanica  (5)  ;  per  modo  cbe  a  buon  diritto  ad  uno  storico  greco 
cbe  scriveva  circa  la  metà  del  sec.  IV,  il  paese  dei  Celti  appariva 
come  una  regione  di  smisurata  grandezza,  e  i  Celti  stessi  il  maggior 
popolo  d'Occidente  (6). 

Un  ricco  mercante  di  Chiusi  per  nome  Arante,  volendo  vendi- 
carsi del  superbo  Lucumone  che  gli  aveva  sedotto  la  moglie,  e  non 
potendo  ottenere  giustizia  in  patria,  si  recò  al  di  là  delle  Alpi 
presso  i  Galli  —  è  questo  il  nome  con  cui  gli  scrittori  romani  so- 


(1)  Questa  sembra  la  migliore  spiegazione  delle  migrazioni  celtiche,  per 
quanto  i  Germani  non  compaiano  nella  storia  che  assai  piìi  tardi. 

(2)  Il  dominio  dei  Celti  nella  Britannia  è  anteriore  probabilmente  alla  se- 
conda metà  del  sec.  IV,  sebbene  per  noi  il  più  antico  indizio  della  loro  pre- 
senza colà  sia  nei  nomi  di  Albione  e  di  Britannia  che  dà  all'isola  il  navigatore 
Pitea;  efr.  [Akistot.]  de  mundo  393  &.  Il  nome  di  Albione  Ì3  noto  anche  all'antico 
periplo  delle  coste  atlantiche  usato  da  Avieno  {ora  marit.  108);  ma  questo  è 
posteriore  a  Pitea,  come  sembra  aver  provato  Marx  '  Rh.  Museum  '  L  (1895) 
]).  321  segg.  contro  Muellenhoff  Deutsche  Alterthumskundc  I  73  segg. 

(3  Sui  Liguri  nella  Provenza  v.  I  p.  62  n.  1.  Sebbene  il  ps.  Scilace  non 
menzioni  ancora  i  Celti  sul  Tirreno,  è  verisimile  che  già  al  suo  tempo  aves- 
sero cominciato  a  prendervi  stanza. 

(4)  Che  i  Celti  già  dimorassero  nell'Iberia  al  tempo  di  Erodoto  è  probabile; 
ma  non  bastano  a  dimostrarlo  i  testi  citati  sopra  a  p.  158  n.  3.  La  più  an- 
tica testimonianza  sicura  è  quella  di  Eforo.  Sulla  distinzione  dei  Celtiberi  e 
Celtici  V.  CoNTZEN  p.  21  segg. 

(h)  Sull'antichità  delle  invasioni  celtiche  nell'IUiria  v.  Contzen  p.  63.  Zippei. 
Die  rómische  Herrschaft  in  Ilhjrien  (Leipzig  1877)  p.  31  segg. 

(6)  Ephor.  fr.  38.  43  (ap.  Strab.  IV  p.  199). 


IGO         CAPO   XVI  -  t!LT    ITALICI    IN    LOTTA    COI    CELTI    E    COI    GRECI 

ii^liono  chiamare  i  popoli  celtici  (1)  —  con  una  provvista  di  vino, 
(i  olio  e  di  fichi,  a  fine  d'invogliarli  a  scendere  in  Italia  mostrando 
loro  i  prodotti  ad  essi  ignoti  del  nostro  paese  (2).  Questo  aneddoto 
con  cui  la  tradizione  spiega  la  invasione  gallica  del  390  cii'ca  nel- 
l'Italia centrale,  presuppone  che  i  Celti  non  avessero  fino  allora 
valicate  le  Alpi.  E  noto  come  abbiamo  invece  in  Livio  una  enu- 
merazione prammatica  delle  loro  i3recedenti  invasioni  nell'Italia 
settentrionale  dai  tempi  di  Tarquinio  Prisco  (3).  Ora  non  è  facile 
che  i  Galli,  senza  aver  posto  piede  stabilmente  in  Italia,  venissero 
difìlati  a  Chiusi  e  di  li  senz'altro  a  Roma  ;  ma  quell'aneddoto  ci 
rappresenta  un  frammento  dell'antica  poesia  popolare,  mentre  in- 
vece i  racconti  prammatici  sulle  successive  invasioni  galliche  non 
sono  che  un  tardo  e  più  o  meno  fantastico  tentativo  di  ricostru- 
zione storica.  Ed  è  del  pari  una  semplice  induzione  non  sce\a'a 
d'inverisimiglianza  che  l'invasione  gallica  impedisse  agli  Etruschi 
di  soccorrere  efficacemente  i  Veienti  nella  loro  lotta  contro  Roma 
(sopra  p.  145);  né  sembra  altro  che  un  artificioso  sincronismo 
privo  di  valore  storico,  dovuto  probabilmente  alla  fantasia  degli 
annalisti  romani,  quello  della  caduta  di  Melpo  nella  Etruria  pa- 
dana per  opera  dei  Celti  con  la  caduta  di  Veì  per  opera  di  Ca- 
millo (4).  A  priori  non  abbiamo  motivo  per  ascrivere  l'occupazione 
della  valle  padana  ad  una  lenta  espansione  celtica  più  che  ad  una 


(1)  Caes.  h.  (r.  I  1  :  ipsorum  lingua  Celtae  nostra  Galli  appellantii)'.  Galli,  come 
il  greco  faXarai  (di  cui  non  abbiamo  esempio  innanzi  all'età  di  Pirro),  non 
pare  che  una  diversa  riduzione  dello  stesso  termine  celtico  onde  ebbe  origine 
la  denominazione  di  Celtae,  KeXxoi,  dovuta  ad  una  diversa  pronunzia  dialet- 
tale. Cfr.  NissEN  Landeskunde  I  p.  476.  Zetiss  Die  Deutsclien  und  die  Nachbar- 
stamme  (MiJnchen  1837)  p.  65.  Vari  tentativi  etimologici  sui  vocaboli  Galli  o 
Galati  vedansi  presso  Holder  Altceltischer  Sprachschatz  1  1522.  1638.  Ma  è 
assai  poco  credibile  che  due  nomi  così  simili  con  cui  due  nazioni  diverse  hanno 
preso  a  designare,  certo  indipendentemente  l'una  dall'altra,  lo  stesso  popolo 
derivino  da  radici  affatto  distinte. 

(2)  Liv.  V-  83.  Plut.  Cam.  15.  Dionys.  XIII  10-11.  Cfr.  Caio  fr.  36  ap. 
Gell.  n.  A.  XVII  13,  4.  Anche  Poltu.  II  17,  3  sembra  alludere  a  questa  che 
il  MoMMSEN  Rotn.  Forschungen  lì  302  ritiene  a  torto  '  cine  der  Ausgeburten  der 
jiingsten  Annalistik  '. 

(3)  Liv.  V  34-35,  cfr.  Iustin.  XX  5.  XXIV  4.  Sul  valore  di  questo  racconto 
v.  Mdei-lenhoff  Deutsche  Alterthumskunde  lì  (1887)  p.  250  segg.  Niese  Zur  Ge- 
schichte  der  keltischen  Wanderunjen  iii  '  Zeitschrift  f.  deutsches  Alterthum  ' 
XLII  (1898)  p.  129  segg.  E.  Metek  Geschichte  des  Alterthums  V  p.  151  segg. 

(4)  CoHN.  Nei-,  fr.  7  ap.  Plin.  n.  h.  IH  125. 


I    CELTI   IxN   ITALIA  161 


^'igo^osa  e  subitanea  spedizione  di  conquista.  Ma  non  è  inverisimile 
die  lo  spostarsi  verso  mezzodì  dei  popoli  s abellici  e  il  loro  avan- 
zarsi verso  l'Enotria  e  la  Campania  circa  la  metà  del  sec.  V  si 
colleglli  con  la  pressione  che  venissero  esercitando  dal  settentrione 
sugli  Etrusclii  e  sugli  Italici  i  Galli.  Né  d'altra  parte  convien  ri- 
ferire l'inizio  di  quella  espansione  ad  età  molto  anteriore  alla  metà 
del  sec.  V,  perchè  non  par  dubbio  che  la  civiltà  etrusca  continuasse 
a  fiorire  nell'Emilia  per  tutto  o  quasi  quel  secolo. 

Cadde  in  ogni  modo  in  potere  dei  Celti  la  maggior  parte  della 
regione  tra  il  Po  e  le  Alpi  (1).  A  occidente  si  stabilirono  i  Salassi 
nella  vai  d'Aosta,  i  Leponzì  attorno  al  Sempione  e  al  lago  Mag- 
giore (2),  i  Libici  presso  Vercelli  (3)  ;  e  probabilmente  Celti  erano 
pm"e  i  Taurini  sull'alto  Po  presso  il  confluente  con  la  Dora  Ri- 
paria (4),  i  Vertamacori  attorno  a  Novara  (5),  i  Levi  (I  p.  62) 
attorno  a  Ticino  (Pavia).  Seguiva  ad  oriente  il  popolo  principale 
della  Gallia  Cisalpina,  gl'Insubri,  il  cui  centro  era  a  Mediolanio, 
allora  certo  non  altro  che  una  p)iccola  borgata,  e  più  ad  oriente 
ancora,  nei  territori  di  Brescia  e  di  Verona,  i  Cenomani.  Oltre  Ve- 
rona i  Celti  per  allora  non  si  spinsero.  I  Veneti  rimasero  signori 
dei  territori  di  Vicenza  e  di  Ateste  (Este)  ;  e  se  più  tardi  troviamo 
in  potere  dei  Celti  la  regione  delle  Alx3Ì  Carniche,  ciò  si  deve  ad 
invasioni  assai  iDosteriori.  Non  dappertutto  inoltre  nelle  regioni 
conquistate  disparvero  le  traccie  degli  antichi  abitatori.  Cosi  la 
lingua  e  le  istituzioni  etrusche  si  conservarono  a  Mantova  (I  p.  436)  ; 
e  tribù  retiche  ed  euganee  sopravissero  a  lungo   nel  territorio  di 


(1;  NissEN  Landesìcunde  I  477  segg.  V.  anche  U.  Pedrou  Roma  e  la  Gallia 
Cisalpina  (Torino  1893). 

(2)  Cato  fr.  37  ap.  Plin.  >i.  li.  Ili  134:  Lepontios  et  Salassos  Tauriscae  gentis 
idem  Cato  arbitrata)'. 

(3)  Plin.  n.  h.  Ili  124:  Vercellae  Libicioriim  ex  Salluis  ortae.  I  Libici  son 
Celti,  secondo  Polyb.  II  17,  4.  Liv.  V  85,  2.  Al  contrario  i  Salluvì  son  detti 
talora  Liguri,  Plin.  Ili  47.  Ciò  vuol  dire  che  si  mescolarono  coi  Liguri  che 
avevano  trovato  nelle  loro  sedi  dell'età  storica. 

(4)  V.  I  p.  62  n.  3.  Una  testimonianza  della  loro  nazionalità  celtica  può 
vedersi  anche  nel  passo  di  Catone  citato  sopra  alla  n.  2,  perchè  Catone  non 
allude  certo  ai  Taurisci  del  Nerico.  I  suoi  Taurisci  non  sono  che  i  Taurini.  La 
nazionalità  celtica  dei  Taurini  è  confermata  del  resto  e  dalla  toponomastica 
e  dal  dialetto. 

(5)  Plin.  n.  h.  Ili  124:  Novaria  ex  Vertamacoris,  Vocontiorum  hodieque  jMffo, 
non  ut  Cato  existimat  Ligiirum.  I  Voconzì  peraltro  son  riguardati  come  Liguri 
nei  fasti  trionfali  ad  a.  123  e  122;   ma  la  cosa  è  da  spiegare  come  pei  Salluvì. 

G.  De  Sanctis,  Storia  dei  Romani,  U.  11 


162         CAPO   XVI  -  GLI    ITALICI   IN    LOTTA   COI   CELTI    E    COI    CtEECI 

Verona  (I  p.  65).  A  sud  del  Po  i  Celti  occuparono  TEmilia  senza 
però  cancellarvi  ogni  traccia  del  dominio  etrusco  ed  umbro  ;  né 
mancarono  città  che  conservassero  la  loro  indipendenza  dai  Celti, 
tra  cui  l'italica  Ravenna  (I  p.  102).  Qui  tre  tribù  galliche  si  suc- 
cedevano lungo  la  sponda  destra  del  Po  da  occidente  ad  oriente, 
gii  Anamari  nei  pressi  di  Clastidio  (Casteggio)  (1),  i  Boi  ed  i  Lin- 
goni.  Come  fra  i  Traspadani  gl'Insubri,  cosi  fra  i  Galli  Cispadani 
primeggiavano  i  Boi,  che,  insignoritisi  della  principale  città  etrusca 
della  regione,  Felsina  (I  -p.  436),  le  lasciarono  il  nome  di  Bononia. 
E  finalmente  più  a  sud,  sulla  sponda  adriatica  dall' Uti  all'Esino, 
si  stabilirono  ultimi  i  Senoni.  In  questa  vasta  regione  non  mancano 
documenti  epigrafici  ed  archeologici  del  dominio  celtico  ;  più  a  mez- 
zogiorno i  trovamenti  archeologici,  in  specie  quelli  di  Montefortino 
presso  Arcevia  nel  paese  dei  Senoni  (2),  ci  dimostrano  che  i  Q-alli 
risentirono  assai  presto  gl'influssi  della  civiltà  etrusca  ;  a  setten- 
trione invece  i  G-alli  ne  rimasero  anche  più  tardi  assai  meno  tocchi, 
di  che  fan  prova  i  sepolcreti  di  Ornavasso,  in  provincia  di  Novara , 
nel  territorio  dei  Leponzì  (3).  Ma  documento  anche  più  ragguarde- 
vole del  dominio  celtico  son  gii  odierni  dialetti  gallo-italici,  pie- 
montese, lombardo  ed  emiliano,  il  cui  territorio  corrispoiide  a^^pros- 
simativamente  a  quello  occupato  dai  G-alli,  fuori  di  qualche  distretto 
perduto  ad  oriente,  in  cui  s'è  diffuso  il  veneto,  e  di  qualche  altro 
guadagnato  sul  dialetto  ligure  a  mezzogiorno  del  Po. 

Onde  provenissero  quei  Galli  che  occuparono  l'Italia  superiore 
può  desumersi  dalla  posizione  dei  passi  alpini  che  rimasero  in  loro 
potere  (4).  Tra  questi,  poiché  il  Cenisio  ed  il  Sempione  non  pare 
venissero  praticati  se  non  dai  temici  dell'impero,  non  possono  es- 
sere stati  usati  dai  Galli  che  il  passo  del  Monginevra,  pel  quale  si 
scende  nella  valle  di  Susa  e  nel  territorio  dei  Taurini,  e  il  piccolo 
San  Bernardo  (alx)e  Graia),   x^er  cui  si  scende  tra  i    Salassi  della 


(1)  PoLYB.  II  32  ('Avaiaàvuuv).  Lo  stesso  nome  deve  riconoscersi  in  II  34,  5 
("Avòpuuv)  e  II  17,  7  {'Avavec,). 

(2)  Brizio  Sepolcreto  gallico  di  Montefo7-tino  'presso  Arcevia  in  '  Mon.  Ant.  ' 
IX  (1901)  p.  687  segg. 

(3)  BiANcuETTi  1  sepolcreti  di  Ornavasso  in  '  Atti  della  Società  di  archeol. 
e  b.  arti  di  Torino  '  voi.  VI  (1895).  E.  Ferrerò  '  Atti  dell'Acc.  della  scienze 
di  Torino  '  XXXII  (1896-7)  p.  78  segg.  —  Sull'uno  e  sull'altro  trovamento 
V.  le  importantissime  osservazioni  del  Déchelette  Montefortino  et  Ornavasso 
'  R,  Archéol.  '  ser.  III  voi.  XL  (1902)  p.  245  segg. 

(4)  Di  ciò  giudica  rettamente  E.  Meyer  V  150.  152  contro  Niese  1.  e. 


PROVENIENZA   DEI   CELTI   d' ITALIA  163 

vai  d'Aosta  (1).  Difficilmente  può  ammettersi  che  scendessero  i 
Celti  per  le  Alpi  Retiche,  le  quali  rimasero  fino  in  piena  luce  di 
storia  in  possesso  d'un  popolo  di  differente  nazionalità,  o  per  le 
Alpi  Carniclie  e  Griulie,  sia  perchè  tra  queste  e  la  Gallia  Cisalp)ina 
si  stendeva  il  territorio  dei  Veneti,  sia  perchè  quei  iDassi  alpini  non 
sembra  fossero  occupati  dai  Celti  prima  del  200  circa  av.  C.  E  la 
provenienza  dei  Celti  d'Italia  dai  valichi  occidentali  delle  Alpi, 
sembra  confermata  dal  fatto  che  nella  regione  centrale  della  Gallia 
Transalpina  si  riscontrano  non  jpochi  dei  nomi  di  tribù  portati  dai 
Galli  Cisalx)ini  :  cosi  quelli  dei  Cenomani,  dei  Lingoni  e  dei  Senoni. 
La  vicinanza  di  queste  tre  tribù  nelle  due  Gallie  mostra  all'evi- 
denza che  non  può  trattarsi  d'una  casuale  omonimia  come  non  son 
rare  tra  popoli  parlanti  la  stessa  lingua,  ma  che  quelle  tribù  della 
Cisalpina  son  x^ropagini  delle  corrispondenti  tribù  della  Transalpina. 
Accanto  ai  Senoni  ed  ai  Lingoni  dimora-vano  gli  Edui,  da  cui  si 
diceva  che  derivassero  gl'Insubri  (2).  Non  lungi  dal  passo  del  Mon- 
ginevra  stanziavano  nella  Gallia  meridionale  i  Voconzi  onde  pure 
provenivano  i  Vertamacori  del  Novarese  (sopra  p.  161  n.  5);  e  se 
più  a  mezzogiorno  nella  Provenza  risiedevano  i  Salluvì,  onde  si 
stimava  i3rovenissero  i  Libici  (ibid.  n.  3),  assai  probabilmente  non 
è  quella  la  sede  i3rimitiva  dei  Salluvì,  perchè  la  Provenza  era  in 
origine  abitata  da  tribù  ligmi  e  solo  più  tardi  vi  si  stanziarono  i 
Celti.  Solo  indizio  d'altra  provenienza  potrebbe  cercarsi  pei  Boi 
nella  loro  omonimia  con  quella  tribù  celtica  che  lasciò  il  nome  alla 
Boemia  e  che  dimorò  poi  nel  Norico  (3)  ;  giacché  la  leggenda  che 
di  questi  Galli  danubiani  fa  i  discendenti  dei  Boi  sopraffatti  in 
Italia  dai  Romani  ed  esuli  dalle  loro  sedi  è  certo  indegna  di  fede  (4). 
Ma  può  osservarsi  che  questa  omonimia  è  isolata,  e  però  ben  lon- 
tana dall'avere  la  forza  dimostrativa  delle  altre  già  citate.  E  del 
resto  Boi  si  trovavano  pm-e  in  Gallia  ;  ed  è  vero  che  in  parte  vi 
eran  giunti  in  età  storica  dalle  regioni  danubiane  (5),  ma  in  parte, 


(1)  Queste  due  strade  (òià  Taupivujv  e  b\à  ZaXaaowv),  quella  delle  Alpi  Ma- 
rittime (bla  AiYÙujv)  e  verisimilmente  il  passo  del  Brennero  (fcià  Pairiùv)  sono 
i  quattro  soli  valichi  alpini  che  conosca  Poliiìio  presso  Strab.  V  p.  209  (per 
penetrare  nella  Liguria  o  nella  Gallia  Cisalpina).  Oltre  a  questi  era  nota  da 
tempo  remoto  la  via  del  Gran  S.  Bernardo  (Alpe  Pennina),  ma  essa  era  ancora 
al  tempo  di  Stkab.  IV  208  ripida,  stretta  e  impraticabile  ai  carri. 

(2)  Liv.  V  34,  9. 

(3)  PosiDON.  ap.  Strab.  VII  293.  Caes.  b.  G.  I  5.  Tac.  Gcrm.  28. 

(4)  Strab.  V  213.  216. 

(5)  Caes.  b.  G.  I  5.  28. 


164         CAPO   XVI  -  GLI   ITALICI   IN    LOTTA    COI    CELTI    E    COI    GRECI 

nelle  vicinanze  di  Bordeaux  (1),  si  eran  forse  stanziati  colà  anterior- 
mente alle  grandi  migrazioni  dei  Celti  verso  mezzogiorno.  Perciò 
la  maggiore  verisimiglianza  è  clie  romonimia  sia  puramente  ca- 
suale ;  e  la  diffusione  del  nome  potrebbe  provenire  dal  suo  signi- 
ficato che  allude  forse  al  valore  guerresco  ;  talcliè  non  è  difficile 
che  lo  stesso  vocabolo  entri  come  componente  nell'etnico  Tolistoboi 
o  Tolistobogi,  con  cui  si  designa  una  delle  tribù  celtiche  stabilitesi 
più  tardi  nell'Asia  Minore  (2).  Non  volendo  accogliere  questa  ijjo- 
tesi,  può  senza  grave  difficoltà  supporsi  non  già  con  la  fonte  di 
Livio  che  1  Celti  della  Gallia  si  siano  inoltrati  con  due  spedizioni 
contemporanee  e  x)arallele  nella  Selva  Ercinia  sotto  Sigoveso,  nel- 
l'Italia sotto  Belloveso  ;  ma  che  i  Celti  danubiani  rappresentino  il 
retroguardo  della  migrazione  celtica  rimasto  nelle  sedi  più  antiche 
di  tutto  il  popolo,  mentre  con  gli  altri  Celti,  anche  qualche  tribù 
ad  essi  più  specialmente  affine  si  spostava  verso  occidente  per  poi 
aver  parte  alla  grande  immigrazione  in  Italia.  ' 

Ad  ogni  modo,  forse  in  un  mezzo  secolo,  un  quarto  della  peni- 
sola italiana  era  caduto  sotto  il  dominio  dei  Gralli.  ISTè  pareva  che 
s' arrestasse  il  loro  impeto  aggressivo.  Peraltro  sembra  che  l'orda 
di  Gralli  che  passò  l'Apennino  intorno  al  390,  anzi  che  di  x^render 
sedi  stabili  nell'Etrmia  o  nel  Lazio,  si  proponesse  di  muover  contro 
Roma,  adescata  dalla  fama  della  ricchezza  e  della  p)otenza  di  quella 
città  (3).  Non  pare  che  per  via  i  Gralli  s'impadronissero  d'alcuna 
delle  città  importanti  della  valle  del  Tevere,  dacché  ce  ne  sarebbe 
probabilmente  conservata  memoria  ;  ma  non  vi  è  ragione  di  met- 
tere in  dubbio  che,  forse  nella  speranza  di  ricco  e  facile  bottino, 


(1)  Itili.  Anton.  456.  Paulin.  carni.  X  239  segg. 

(2)  Cfr.  HoLDEK  Altceltischer  Sprachschatz  I  p.  463. 

(3)  Della  invasione  gallica  del  390,  oltre  a  notizie  sparse  in  vari  scrittori 
e  nei  frammenti  di  Dionisio,  di  Appiano  Celi,  e  di  Cassio  Dione,  abbiamo  un 
racconto  particolareggiato  in  Diod.  XIV  113-117,  Liv.  V  38-55  e  Pi.ut.  Camiìl 
Dei  tre  racconti  per  valore  letterario  è  superiore  il  liviano,  che  non  sempre  è 
inferiore  a  quel  di  Diodoro  per  valore  storico.  Conciso,  ma  importantissimo  e 
il  cenno  di  Polyb.  II  18  segg.  sulle  relazioni  tra  Galli  e  Romani.  Di  moderni 
sono  da  citare  Mommsen  Die  galUsche  Katastrophe  nelle  Rom.  Forschungen  li 
297  ^Qgg.  Thouret  mem.  cit.  1  p.  5  n.  2.  Biikger  Sechzig  Jahre  aus  der  Ultcren 
Geschichtc  Roms.  I.  Abschn.  Hirschkeld  Zur  Camilluslegende  nella  '  Festscbrift 
fur  Friedlànder  '  (Leipzig  1895)  p.  125  segg.  —  Per  ciò  che  si  riferisce  alla 
cronologia,  è  da  ritenere  che  l'anno  consolare  che  corrisponderebbe  al  390 
av.  Cr.  secondo  i  fasti,  corrisponda  in  realtà  al  387  o  al  386  (v.  I  p.  13  n.  2). 


I    GALLI   CONTRO   ROMA  165 


forse  indotti  da  qualche  traditore,  si  siano  trattenuti  per  un  certo 
tempo  ad  assediar  Chiusi. 

A  Cliiusi,  secondo  si  narra,  richiesti  di  soccorso  dai  Chiusini  o 
per  informarsi  dei  nuovi  invasori,  i  Romani  inviarono  un  amba- 
sceria. Ma  i  legati,  non  limitandosi  ad  un  intervento  pacifico,  presero 
parte  attiva  alla  difesa  della  città  e,  in  una  sortita  degli  assedianti, 
uno  di  essi  uccise  e  spogliò  un  guerriero  barbaro.  Allora  i  Gralli 
spedirono  alla  loro  volta  ambasciatori  a  Roma  a  chieder  soddisfa- 
zione ;  negata  la  quale,  lasciarono  l'assedio  di  Chiusi  e  mossero 
contro  Roma  (1).  Questa  storiella  è  evidentemente  inventata  allo 
scopo  di  motivare  la  venuta  dei  Galli  a  Roma  e  di  spiegare  per 
mezzo  dell'ira  degli  dèi,  sdegnati  per  la  violazione  del  diritto  delle 
genti,  la  sconfitta  dei  Romani,  che  sarebbero  stati  altrimenti  invin- 
cibili. Ma  i  Galli  per  assalire  Roma  non  avevano  d'uopo  di  cercare 
un  pretesto  nelle  consuetudini  internazionali  dei  popoli  più  civili  : 
e,  quanto  ai  Romani,  il  loro  orizzonte  politico  non  s'estendeva  al- 
lora oltre  i  monti  Cimini,  come  prova  l'impressione  che  fece  poi 
il  passaggio  di  quei  monti  nel  310  per  opera  di  Q.  Fabio  RuUiano  ; 
è  quindi  difficile  assai  che  si  curassero  delle  relazioni  tra  Chiusini 
e  Galli,  e  anche  più  che  gii  Etruschi,  invece  di  aiutarsi  tra  loro,  si 
rivolgessero  alla  lontana  Roma  con  cui  erano  stati  sempre  in  re- 
lazioni ostili.  Allora  del  resto  relazioni  di  diritto  internazionale 
tra  i  Romani  e  i  popoli  della  Etruria  settentrionale  non  sussiste- 
vano, se  non  si  vuol  tener  conto  di  quelle  stabilite  dal  mitico  re  di 


(1)  La  leggenda  è  riferita  con  molte  varianti.  Livio  parla  di  tre  ambascia- 
tori mandati  dopo  la  richiesta  d'aiuti,  Diodoro  di  due  inviati  semplicemente  per 
esplorazione;  e  pare  che  quest'ultimo  numero  corrisponda  all'uso  più  antico 
(MoMMSEN  Staatsrecht  li  ^  p.  685).  Per  Livio  son  tre  Fabì;  Diodoro  non  fa  nomi, 
ma  accenna  solo  che  il  colpevole  è  figlio  di  uno  dei  tribuni  militari.  Or  nel 
391  non  fu  tribuno  alcun  Fabio.  Può  egli  alludere  però  ai  tribuni  del  390, 
per  quanto  le  altre  fonti  narrino  il  fatto  al  391  e  asseriscano  che  i  legati 
furono  poi  creati  tribuni  pel  390.  Porse  la  tradizione  originaria  parlava  di  un 
Fabio,  figlio  di  uno  dei  tribuni  del  390.  Esagerando,  si  immaginò  che  il  reo 
fosse  stato  fatto  tribuno  nel  390;  e  come  allora  ebbero  tal  carica  tre  Fabì, 
così  si  parlò  di  tre  Fabì  ambasciatori.  Essendo  il  fatto  inventato,  si  può  ri- 
cercare perchè  si  sia  attribuito  ad  uno  o  a  piìi  Fabì  piuttosto  che  ad  altri.  La 
ragione  sta  foi'se  in  ciò  che  si  voleva  spiegare  l'ambasceria  col  tribunato  del 
padre  ;  e  forse  anche  contribuì  al  sorgere  della  leggenda  il  ricordo  della  clades 
dei  Fabì  al  Cremerà,  che  una  tradizione  errata,  ma  ammessa  generalmente, 
collocava  lo  stesso  giorno  della  battaglia  dell'AUia  (sopra  p.  135  n.  1). 


166         CAPO   XVI  -  GLI   ITALICI   IX    LOTTA    COI    CELTI   E    COI    GRECI 

Chiusi,  Porsenna,  di  cui  a  questo  punto  la  tradizione  si  dimentica 
del  tutto. 

n  duce  dei  Galli  clie  assalirono  Roma  è  cliiamato  dalla  tradi- 
zione Brenne,  con  lo  stesso  nome  di  quel  condottiero  clie  un  secolo 
dopo  guidò  i  Celti  contro  Delfi.  Si  è  i^erò  ritenuto  che  Brenne 
in  celtico  voglia  dire  semplicemente  duce,  ovvero  che  il  nome  di 
Brenne  (1)  sia  attribuito  al  vincitore  dei  Romani  ad  imitazione  del 
Brenne  che  superò  le  Termopile.  Ma  entrambe  le  ipotesi  son  prive 
di  fondamento.  Le  leggende  sulla  presa  di  Roma  sono  nel  tutt'in- 
.  sieme  antiche,  ed  è  naturale  che  ricordassero  il  nome  del  duce 
nemico  ;  mentre  sembra  impossibile  che,  sia  nella  loro  forma  origi- 
naria, sia  nella  elaborazione  che  ebbero  dagli  annalisti,  ricalcassero 
in  questo  punto,  e  in  questo  soltanto,  la  storia  dell'invasione  celtica 
in  Grecia.  Quanto  al  numero  dei  barbari,  la  fonte  nostra  migliore 
asserisce  che  erano  trentamila,  ma  che  al  momento  di  muovere 
contro  Roma  portarono  il  loro  esercito  a  settantamila  uomini  (2). 
Poiché  secondo  un'altra  notizia  resercito  romano  di  quarantamila 
soldati  non  era  numericamente  scarso,  ossia,  come  pare  debba  in- 
tendersi, non  era  inferiore  al  gallico,  par  chiaro  che  in  quella  fonte 
son  combinate  due  tradizioni,  secondo  l'una  delle  quali  i  Galli  erano 
forti  di  trentamila,  secondo  l'altra  di  settantamila  uomini.  Dei  due 
numeri  il  primo  ha  tutto  il  carattere  della  verisimiglianza,  e  deve 
reputarsi  quindi  derivante  da  qualche  scrittore  greco  contemporaneo 
ai  fatti  e  in  grado  d'esserne  abbastanza  esattamente  informato, 
quale  era  ad  esempio  Filisto  (3). 

Contro  gl'invasori  è  da  credere  che  i  Romani  abbiano  messo  in 


(1)  Pel  nome  Brenno,  che  ricorre  p.  es.  in  CIL.  XIII  677,  cfr.  Holder  Altccl- 
tischer  Sprachschatz  I  p.  524.  Diodoro  non  dà  il  nome  del  duce  gallico. 

(2)  DioD.  XIV  113,  3.  114,  1.  Cfr.  Plut.  Cam.  18. 

(3)  Sembra  impossibile  che  Filisto  non  abbia  discorso  dell'incendio  gal- 
lico. Certo  da  lui  pare  derivata  la  notizia  di  Iustin.  XX  5,  4  sull'alleanza  tra 
Dionisio  e  i  Galli  che  avevano  preso  Roma.  Non  vuol  dir  molto  che  Plutarco 
non  sappia  citare  altre  antiche  testimonianze  greche  che  quella  d'Aristotele 
(v.  oltre)  e  di  Eraclide  Pontico  ibc;  arparòc;  èE  'TirepPopéiuv  èXeùjv  ?£uj6ev  i|)pnKOi 
TtóXiv  'EXXrjviba  'Pib|uriv  èKel  ttou  KaTUJKri|uévr)v  irepì  Tt'iv  jueydXriv  QaKaaaav 
{Camill.  22).  Sappiamo  infatti  con  piena  sicurezza  che  anche'Teopompo  (Plin. 
n.  h.  ITI  57>  ricordava  nrbem  a  Gnllis  captain.  E  un  frammento  di  Teopompo 
intorno  all'invasione  gallica  del  390  è  forse  il  brano  citato  senza  nome  d'au- 
tore da  SuiDA  s.  V.  Karéanepxe  su  cui  ha  richiamato  V  attenzione  il  Pais  I  2 
p.  89  n.  1  :  Xoyiaiuòc;  òè  aÙTÒv  èKeTvoc;  KaTéOTrepxev  (iv9piJbnou<;  ÓKoXaaTOUt;  cpùaiv 
Toùc;  Tuppiivoùi;  ttoX€|liìujv  éqpobov  luri^ciM'ì  f-in^«M"J«;  ùqpopiu|aévou(;  ùPpiileiv  xai  ^a- 
CTUJveùeiv. 


LA   ROTTA   DELl'aLLIA  167 


campo  tutte  le  milizie  die  avevano  in  piede  di  guerra  quelFanno, 
()ssia,  daccliè  nel  390  i  tribuni  militari  erano  sei  (cf.  e.  XVII),  due 
legioni,  la  forza  massima  dell'esercito  romano  iino  alle  guerre  san- 
nitiche  (1).  Erano  dunque,  giusta  i  quadri,  sei  corpi,  ciascuno  di 
mille  uomini  di  grave  armatura,  cioè,  computando  la  fanteria  leg- 
gera e  la  cavalleria,  un  novemila  uomini.  Data  la  gravità  del  caso 
e  la  vicinanza  del  campo  di  battaglia  alla  città,  si  può  ritenere  che 
la  forza  effettiva  della  milizia  quell'anno  non  pui'  non  fosse  infe- 
riore alle  cifre  segnate  nei  quadri,  ma  fors'anche  le  superasse  fino 
a  raggiungere  i  diecimila  uomini.  Quanto  agli  ausiliari,  la  tradi- 
zione rex3uta  che  Roma  a  fronte  dei  Gralli  fosse  abbandonata  alle 
l)roprie  forze  (2);  ma  se,  come  non  può  escludersi,  erano  coi  Ro- 
mani anche  gli  alleati,  l'esercito  opposto  all'invasore  avrà  numerato 
forse  un  quindicimila  uomini,  di  cui  nove  o  diecimila  di  fanteria 
l)esante  ;  non  xjìù,  perchè  sarebbe  grave  errore  supporre  che  i  Latini 
<•  gli  Ernici  potessero  fornire  alle  milizie  romane  quei  contingenti 
che  esse  ricevevano  dagli  alleati  italici  al  tempo  della  guerra  an- 
nibalica. Per  quanto  a  noi,  assuefatti  alle  grandi  battaglie  moderne, 
dieci  o  quindicimila  combattenti  i30ssano  sembrar  poca  cosa,  era 
quello  probabilmente  il  maggiore  esercito  romano  che  si  fosse  mai 
tino  allora  apprestato  ad  una  battaglia  campale  (3). 

All'avanzarsi  dei  Galli  (cosi  narra  Livio)  (4)  i  Romani  presi 
alla  si3rovvista,  non  avendo  tempo  di  far  lunghi  apparecchi,  dovet- 
tero tumultuariamente  usch"e  a  battaglia.  All'midecimo  miglio  da 
Roma,  sulla  sinistra  del  Tevere  presso  l'Allia  (5),  s'imbatterono  nel 


(1)  Secondo  Diod.  XIV  114  i  Romani  fecero  una  leva  in  massa  e  armarono 
24.000  uomini  validi  e  un  numero  non  specificato  di  àoSevéoTaTOi.  Secondo 
Plut.  1.  e.  erano  in  tutto  40.000  uomini.  Dionys.  XIII  12,  2  parla  di  quattro 
legioni  di  truppe  esercitate  e  di  un  numero  maggiore  di  truppe  meno  valide, 
in  sostanza  tutti  prendono  le  mosse  dagli  effettivi  normali  delle  truppe  che 
-i  mettevano  in  campo  annualmente  in  età  posteriore,  ossia  due  eserciti  con- 
solari foi'ti  di  due  legioni  per  ciascuno  con  altrettanti  o  più  ausiliari,  che 
4ui  son  sostituiti  dagli  àoGevéaraToi,  cioè  un  quarantamila  uomini  in  tutto. 

(2)  Cfr.  però  Polyb.  II  18,  2. 

(3)  Chi  trovasse  troppo  bassi  questi  computi  si  riduca  alla  memoria  che 
allora  la  maggiore  città  greca  dell'Occidente  non  disponeva  di  più  che  6  o  7 
mila  opliti  cittadini  e  che  contro  non  molto  più  di  25  mila  uomini  ebbe  a 
combattere  poco  prima  Dionisio  nella  battaglia  dell'EUeporo  che  decise  delle 
sorti  dell'Italia  greca  (v.  sotto  p.  190). 

(4)  V  37-38. 

(5)  È  da  scriversi  Allia  anziché  Alia,  come  mostrano  i  calendari  e  CIL.  XI 
1421,  cfr.  HuELSEN  in  Paui,y-Wi3Sowa  '  R.  E.  '  I  2,  1385. 


168        CAPO   XVI  -  GLI   ITALICI   IN   LOTTA   COI   CELTI   E    COI   GRECI 

nemico.  Colà  i  tribuni,  che  nell'imminenza  del  pericolo  avevano 
perduto  il  senno,  non  si  accamparono  regolarmente  né  presero  gli 
auspici,  ma  si  tennero  paghi  a  schierare  le  trupx^e  sopra  una  lunga 
linea  di  battaglia  per  non  essere  aggii-ati  dal  nemico.  Api30ggiando 
la  sinistra  al  fiume,  i  Romani  a  difesa  dell'altra  ala  collocarono 
le  riserve  su  certe  alture  che  dominavano  la  destra.  I  G-alli,  la  cui 
linea  di  battaglia  era  anche  più  estesa  della  romana,  aprirono  il 
combattimento  con  un  assalto  alle  riserve.  Battute  queste  dopo 
una  breve  resistenza,  il  grosso  dell'esercito  romano  che  si  vide  in 
pericolo  d'essere  aggirato  prese  la  fuga  senza  neppur  venire  alle 
mani.  La  sinistra  fuggì  verso  il  Tevere,  dove  alcuni  annegarono, 
mentre  altri,  varcato  il  fiume  a  nuoto  e  toccata  l'altra  sponda,  si 
salvarono  a  Veì.  I  fuggiaschi  della  destra  invece  presero  la  via 
di  Roma  ;  ma  il  loro  panico  era  tale  che  si  rifugiarono  nella  rocca 
senza  neppur  pensare  a  chiudere  le  ijorte  della  città.  Non  molto 
diverso  da  questo  è  il  racconto  che  fa  dello  stesso  scontro  un  altro 
storico,  sol  che  per  lui  la  battaglia  ha  luogo  sulla  destra  del  fiume, 
e  quindi  giungono  a  Roma  quelli  tra  i  fuggiaschi  che  lo  hanno  pas- 
sato a  nuoto  (1).  S'è  discusso  se  il  campo  di  battaglia  vada  cercato 


(1)  Secondo  Diod.  1.  e.  i  Romani  passato  il  Tevere  si  avanzano  fino  ad  80 
stadi  (10  miglia)  da  Roma.  La  linea  di  battaglia  si  stende  dal  fiume  ai  colli; 
verso  i  colli,  ove  sono  schierati  i  meno  validi  tra  i  Romani,  i  Celti  muovono 
all'assalto  con  le  loro  truppe  scelte,  che  hanno  facilmente  ragione  degli  av- 
versari: dopo  di  che  piega  la  falange  romana  della  pianura.  La  maggior 
parte  dei  Romani  si  salva  a  Veì,  solo  pochi  nuotando  pervengono  a  Roma. 
Al  racconto  di  Diodoro  si  attengono  Mommsen  Boni.  Forscliungen  II  360  segg. 
HuKLSEN  e  LiNDNER  Die  AUiaschlacht  {Rom.  1890).  Beloch  '  BuUett.  dell' Inst.  ' 
1877  p.  55,  il  quale  in  omaggio  a  Diodoro  è  giunto  persino  a  trasportare 
l'AUia  sulla  destra  del  Tevere,  ed  E.  Meyer  Geschichte  des  Alterthums  V  p.  155, 
e  Die  Alliaschìacht  in  '  Apophoreton  uberr.  v.  der  Graeca  Haliensis  der  XLVII 
Phil.-Versammlung  '  (Berlin  1903)  p.  136  segg.  Con  ragione  0.  Richter  '  Berlin, 
phil.  Wochenschrift  '  1892  p.  149  segg.  Beitriìge  zur  romischen  Topographie  1. 
Il  (Berlin  1903)  p.  5  segg.  e  Pais  I  2  p.  80  seg.  preferiscono,  dal  lato  topo- 
grafico, il  racconto  di  Livio.  È  interessante  vedere  che  in  questo  caso  la  tra- 
dizione più  antica  e  fededcgna  ci  è  conservata  da  Livio  (I  p.  45).  Sulla  destra 
si  è  trasportata  la  battaglia  o  per  avere  frainteso  l'antico  racconto  del ,  com- 
battimento, 0  per  aver  supposto  che  i  Galli  venendo  dall'Etruria  dovessero 
manovrare  sulla  destra  del  Tevere,  o  per  meglio  spiegare  la  fuga  a  Voi. 
E.  Meyer  insiste  sul  punto  che  la  tradizione  è  unica  e  che  quindi  una  delle 
due  versioni  rappresenta  una  tarda  correzione  dell'altra.  Ma  appunto  se  la 
tradizione  collocava  la  battaglia  sulla  destra,  a  nessuno  poteva  venire  in  mente 
di  trasportarla  alla  sinistra. 


LA   ROTTA   DELL'aLLIA  169 


in  realtà  siili' una  o  suiraltra  sponda  del  Tevere.  Ora  FAUia,  che 
sorgeva,  come  ci  vien  detto,  nei  monti  Grustumini  e  presso  cui, 
secondo  mia  notizia  sia  pm^e  di  scarso  valore  storico,  avvenne 
nel  380  un  combattimento  tra  Romani  e  Preiiestini,  è  senza  dubbio 
uno  dei  ruscelli  die  affluiscono  sulla  sinistra  del  Tevere  a  una 
decina  di  miglia  da  Roma,  probabilmente  il  Fosso  della  Bettina 
che  prende  verso  il  confluente  il  nome  di  Fosso  Maestro.  Ma  il 
disastro  alliense,  di  cui  la  tradizione  romana  conservò  sì  viva  la 
memoria,  se  fosse  avvenuto  sulla  destra  del  Tevere,  non  avrebbe 
potuto  prender  nome  da  un  insignificante  fiumicello  della  sinistra. 
D'altra  iDarte  è  in  sé  verisimile  che  i  Galli  varcassero  il  fiume 
alquanto  a  monte  di  Roma  per  non  doverlo  traversare  ove  il  suo 
letto  è  i3Ìù  esteso  e  ove  il  passaggio  poteva  essere  pericoloso  in 
X)resenza  del  nemico  ;  come  pure  è  da  ritenere  che  i  Romani,  se  il 
disastro  fosse  avvenuto  sulla  dritta,  non  avrebbero  mancato  di  ta- 
gliare il  doppio  ponte  che  all'altezza  dell'isola  di  S.  Bartolomeo 
allacciava  le  due  sponde  e  il  ponte  Sublicio,  profittando  dei  giorni 
o  delle  settimane  cosi  guadagnate  per  mettere  la  città  in  istato 
di  difesa  prima  che  il  nemico  avesse  potuto  tragittare  il  fiume. 
E  però  sulla  sinistra  del  Tevere  deve  ritenersi  avvenuto  il  fatto 
d'arme  dell' Allia;  e  il  campo  di  battaglia  può  anche  designarsi 
con  maggior  precisione,  perchè  non  è  a  credere  che  i  Romani 
abbiano  collocato  le  truppe  oltre  quel  fiumicello  invece  di'  XDrofit- 
tarne  per  proteggere  la  loro  fronte,  come  usavano  fare  gli  antichi 
nelle  loro  posizioni  di  battaglia.  Ora  a  sud  del  Fosso  Maestro  i 
Romani  potevano,  apx3unto  conforme  al  racconto  liviano,  appog- 
giare la  sinistra  al  Tevere,  la  destra  alle  altui^e  della  Marcigliana 
ed  occupar  queste  con  un  distaccamento  di  fanteria  leggera.  Poco 
a  mezzogiorno  del  confluente  dell'  Allia  la  valle  del  Tevere  si 
restringe  sulla  sinistra  del  fiume  formando  come  una  angusta 
gola  tra  il  Tevere  e  le  alture  della  Marcigliana.  Appunto  innanzi 
a  questa  gola,  sbarrandola  al  nemico,  stavano  schierati  i  Romani 
in  una  pianni^a  che  ha  una  larghezza  di  circa  un  chilometro  e 
che  quindi  permetteva  di  disiDorre  sopra  sei  file  una  falange  di 
seimila  uomini  di  armatura  pesante  e  anche  soi3ra  nove  file  una 
di  nove  o  diecimila   uomini  (1).  Lo    scopo   di   quest'ordine  di  bat- 


(1)  11  legionario  romano  in  ordine  di  battaglia  dista  dal  vicino  tre  piedi 
(di  0,296  mm.),  Polyb.  XVllI  30,  6.  Veget.  Ili  14.  A  questo  tempo  i  Romani 
si  schieravano  per  falange,  non  per  manipoli,  quindi  non  abbiamo  da  calco- 
lare come  per  le  posteriori  battaglie  romane  gl'intervalli  tra  i  manipoli  che 
pare  fossero  normalmente  di  60  piedi.  La  ragione  per    cui    militari    provetti 


170         CAPO   XVI  -  OLI  ITALICI  IN   LOTTA   COI   CELTI   E    COI    GRECI 

taglia  che  tanto  assottigliava  le  linee  romane  era  d'impedire  Tag- 
giramento  cui  s' era  esposti  combattendo  contro  le  scliiere  dei 
barbari  clie,  forti  d'un  trentamila  uomini,  avevano  una  rilevante 
superiorità  numerica  sui  dieci  o  quindicimila  dei  Romani.  Ninna 
fede  pertanto  merita  ciò  clie  vien  detto  d'impreparazione,  di  sba- 
lordimento e  di  leva  tumultuaria.  Agli  scrittori  del  II  secolo  po- 
teva sembrare  strano  che  i  Romani  avessero  lasciato  avanzar  tanto 
il  nemico;  ma  nel  390  il  confine  latino  sulla  sinistra  del  Tevere 
era  solo  ad  Ereto  al  diciottesimo  miglio  della  via  Salaria  (v.  sopra 
p.  124).  I  Romani,  abbandonando  alle  devastazioni  dei  barbari  un 
breve  tratto  di  paese,  presero  dietro  l'Allia  all'undecimo  miglio 
un'ottima  jjosizione  difensiva  per  coprire  la  città,  riparando  quanto 
era  possibile  con  la  felice  scelta  del  luogo  alla  inferiorità  del  nu- 
mero. La  notizia  dell'assalto  dato  dai  Gralli  alle  alture  può  essere 
stata  conservata  dalla  poesia  popolare  ed  è  in  sé  verisimile,  talché 
è  dato  usarne  a  ricostruire  l'andamento  della  battaglia.  I  Gralli 
adunque,  passato  di  corsa  il  fìumicello,  debbono  aver  attaccato 
impetuosamente,  armati  delle  loro  spade  affilate,  la  falange  romana. 
Mentre  le  loro  colonne  profonde  tentavano  di  sfondare  la  linea 
sottile  dei  legionari,  un  corpo  di  Galli  sulla  sinistra  si  scagliava 
all'assalto  dei  colli  della  Marcigliana.  Senza  lasciarsi  arrestare  dai 
tiri  di  fionda  e  di  giavellotto  della  fanteria  leggera,  i  Galli,  saliti 
per  le  altui-e  con  l'agilità  dei  barbari  e  con  la  noncui'anza  che  i 
barbari  hanno  della  vita  e  giunti  a  contatto  col  distaccamento 
romano,  ne  ebbero  facilmente  ragione  per  la  superiorità  del  numero 
e  delle  armi.  La  fuga  cui  si  diede  dopo  breve  resistenza  la  fanteria 
leggera  e  l'apparire  dei  Galli  sulle  alture  dominanti  il  campo  di 
battaglia  tolse  animo  alla  destra  romana  che  presto  cominciò  a 
piegare  e  a  fuggire.  Quando  già,  travolta  una  delle  ale,  i  fuggiaschi 
ostruivano  la  gola  fra  il  Tevere  e  i  colli  della  Marcigliana,  la  si- 
nistra romana,  assalita  dai  Galli  di  fronte  e  di  fianco,  fu  respinta 
sul  Tevere  e  la  battaglia  si  mutò  in  carneficina.  E  mentre  i  super- 
stiti della  destra  per  la  gola  della  Marcigliana  si  difilavano  a 
Roma,  i  superstiti  della  sinistra,  varcato  a  nuoto  il  Tevere,  cerca- 
vano salvezza  verso  Vai. 


come  il  Lindner  hanno  errato  nella  determinazione  del  campo  di  battaglia  è 
che  si  suol  partire  da  due  falsi  supposti,  l'uno  che  l'esercito  romano  nume- 
rasse in  realtà  40  mila  uomini,  l'altro  che  la  lunghezza  delle  linee  romane 
vada  calcolata  sui  dati  che  abbiamo  per  l'età  in  cui  era  in  vigore  la  tattica 
manipolare. 


CADUTA   DI   KOMA  171 


I  Romani  avevano  dunque  ijerduto  la  maggiore  battaglia  che 
avessero  combattuto  fino  allora.  La  rotta  del  loro  esercito  di  prima 
linea  era  un  disastro  gravissimo  e  non  guari  riparabile,  poicliè 
riorganizzarlo  chiamando  alle  armi  le  riserve  era  tanto  più  diffi- 
cile in  quanto  neppm"  tutti  i  fuggiaschi  erano  convenuti  in  Roma  ; 
ed  era  da  far  poco  conto  sugli  alleati,  trepidi  e  vacillanti,  i  quali 
dovevano  preferire  di  assistere  alla  calamità  dei  Romani  e  profit- 
tarne anziché  esserne  a  i)arte.  Il  lutto  privato,  che  moltissimi 
avranno  avuto  qualche  congiunto  tra  i  morti  o  tra  gli  scomparsi 
nella  battaglia,  cospii'ò  con  la  sfiducia  di  poter  resistere  efficace- 
mente al  nemico  che  aveva  sbaragliato  le  forze  migliori  di  Roma 
a  fiaccare  per  un  momento  l'energia  del  senato  romano;  né  vi  fu 
il  tempo  di  riaversi  per  provvedere  virilmente  ai  rimedi;  giacché 
tosto,  il  giorno  api3resso  secondo  alcuni,  dopo  tre  giorni  secondo 
altri,  i  Gialli  comparvero  innanzi  a  Roma  (1).  Frattanto  non  s'era 
riuscito  ad  apprestare  una  difesa  che  nella  rocca  capitolina.  Le 
mura  di  Roma  attribuite  a  Servio,  se  fossero  esistite  fin  d'allora, 
all'ebbero  trattenuto  i  Gralli  come  trattennero  poi  Annibale  (I  i).  392); 
ma  poiché  esse  non  sono  anteriori  al  sec.  IV,  si  accosta  al  vero  la 
tradizione  secondo  cui  i  Gralli  trovarono  aperte  le  porte  della 
città,  in  questo  senso  che  in  realtà  non  c'era  bisogno  di  entrarvi 
per  le  porte. 

La  poesia  popolare  illuminò  del  suo  fulgore  la  caduta  di  Roma. 
Si  narra  cosi  che  le  sacerdotesse  di  Vesta  fuggendo  a  piedi  verso 
Cere  s'imbatterono  al  di  là  del  ponte  Sublicio  in  un  po^jolano  che 
si  metteva  in  salvo  co'  suoi,  il  quale  le  fece  salire  sul  suo  carro, 
dopo  averne  fatti  scendere  la  moglie  ed  i  figli  (2).  I  senatori  ci 
vengono  rappresentati  nell'atto  di  attendere  il  nemico  che  li  tru- 
ciderà senza  compassione  nella  Curia,  vestiti  dei  loro  abiti  solenni, 
assisi  sulle  sedie  cm-uli.  Di  Fabio  Dorsuone  si  narra  che,  mentre 
il  Campidoglio  era  assediato,  si  recò  coraggiosamente  a  compire 
un  sacrifizio  nel  temx)io  di  Vesta  o,  secondo  altri,  sul  Quirinale, 
senza  che  alcuno  degli  assediati  osasse  attraversargli  la  via  (3). 


(1)  La  prima  è  la  versione  di  Liv.  V  41,  4.  La  seconda  è  data  concorde- 
mente da  DioD.  XIV  115.  PoLYB.  II  18.  Vekr.  Flacc.  ap.  Gell.  n.  A.  V  17. 
I'lut.  Camill.  22. 

(2)  Liv.  V  40.  Plut.  Camill.  41.  Vai..  Max.  1  1,  10.  Flor.  I  7.  È  molto  incerto 
se  a  questo  popolano  si  riferisca  l'elogio  del  Foro  d'Augusto  in  CJL.  P 
p.  191  n.  6. 

(3j  Api'ian.  Celt.  6  che  cita  un  Kaùaioq  (Cassio  Emina?).  Liv.  V  40.  Val.  Max. 
I   1,   11.  Flou.  I  7,  16. 


172         CAPO   XVI  -  GLI    ITALICI   IN   LOTTA    COI    CELTI    E    COI    GRECI 

Una  discussione  di  questi  particolari  sarebbe  oziosa.  Richiede 
invece  maturo  esame  la  leggenda  della  liberazione  di  Roma.  I 
Romani  scampati  a  Veì,  ripreso  animo,  si  riordinano  per  tentar 
di  venire  al  soccorso  dei  concittadini  assediati  nel  Campidoglio. 
Per  loro  mandato  Ponzio  Cominio  scende  il  Tevere  sopra  una  cor- 
teccia di  sughero  a  fine  di  mettersi  in  relazione  col  senato  e  col 
popolo  romano,  e,  giunto  alla  riva,  sale  per  uno  scosceso  sentiero 
al  Campidoglio,  poi  torna  per  la  stessa  via  a'  suoi  mittenti  con  la 
notizia  della  nomina  a  dittatore  di  Camillo,  richiamato  dall'esilio. 
Ma  i  Galli  fanno  ora  di  notte  il  tentativo  di  ascendere  al  Cam- 
pidoglio per  la  sti\ada  seguita  da  Cominio.  In  questo  frangente 
le  guardie  ed  i  cani,  sfiniti,  vengono  meno  al  dovere  di  vigilare. 
Avvertono  invece  la  presenza  del  nemico  le  oche  sacre  a  Giunone, 
e  M.  Manlio  si  desta  a  tempo  al  loro  strepito  per  respingere  il 
primo  degli  assalitori  che  già  aveva  dato  la  scalata  al  colle.  Sal- 
vata da  lui  e  dai  comijagni  la  rocca,  dopo  sette  mesi  i  Galli, 
stanchi  dell'assedio  e  afflitti  da  una  epidemia  che  fa  strage  fra  le 
loro  schiere,  s'inducono  a  trattare  coi  difensori.  I  Romani,  oppressi 
dalla  fame,  si  dispongono  ad  un  accordo  promettendo  ai  Galli, 
pm-chè  si  allontanino  da  Roma,  mille  o  duemila  libbre  d'oro  (Ij. 
Frattanto  Camillo,  che  come  dittatore  ha  ricostituito  fuori  di  Roma 
l'esercito  romano,  sopravviene  mentre  i  Galli  pesano  su  bilance 
false  il  prezzo  del  riscatto  e  rescinde  l'accordo  dicendo  che  esso 
non  è  valido  perchè  fatto  senza  il  consenso  del  dittatore.  Si 
viene  a  battaglia  sul  Foro.  I  Galli  sgominati  e  fugati  rinnovano 
il  combattimento  all'ottavo  miglio  della  via  Gabina,  dove  sono 
ancora  sconfitti  tanto  che  neppur  uno  scampa  alla  strage,  e  Camillo 
torna  trionfante  in  città  (2). 


(1)  L'ultima  cifra  è  data  da  Vakk.  ap.  Non.  p.  228.  Plin.  n.  h.  XXXIII  U 
DioNTs.  XIII  9  (25  tal.). 

(2)  Questa  leggenda  è  mirabilmente  narrata  in  Livio.  Concordano  nella  so- 
stanza con  lui,  pur  differendo  in  qualche  particolare,  Plutarco,  Dionisio  e  Dione. 
Pel  MoMMSEN  non  si  tratta  che  d'una  falsificazione  della  piìi  recente  annali- 
stica, e  solo  è  da  lamentare,  dic'egli  (mem.  cit.  p.  338),  '  dass  der  namenlose 
Urheber  dieser  in  aschyleischem  Stil  gehaltenen  Umgestaltung  der  Ueberlie- 
ferung  nicht  statt  der  Annalen  vielmehr  Praetextaten  geschrieben  hat  '.  Con 
ciò  riconosce  egli  stesso  che  abbiamo  qui,  in  prosa,  un  frammento  d'ottima  e 
originale  poesia  quale  nessuno  sapeva  scrivere  circa  il  100  av.  Cr.  in  Roma. 
Ma  la  versione  data  da  Diodoro,  che  pel  Mommsen  è  assai  più  antica,  in  realtà 
non  rappresenta  che  un  tentativo  di  correzione  della  leggenda.  Così  p.  es.  in 
Diodoro  i  Romani  di  Veì  mandano  Ponzio  Cominio  per  mettersi  d'accordo  con 


LA  LEGGENDA  DELLA  LIBERAZIONE  DI  ROMA.  MANLIO  E  CAMILLO      173 

Questo,  cli'è  senza  dubbio  il  riassunto  d'uno  dei  migliori  tra  i 
carmi  epici  popolari,  ci  mostra  non  come  i  fatti  si  svolsero  real- 
mente, bensì  come  si  rispecchiavano  nella  fantasia  dei  Romani 
del  secolo  III.  Ma  gli  annalisti  più  antichi  e  coscienziosi,  che  nelle 
fonti  greche,  se  trovavano  qualche  cenno  su  chi  aveva  salvato  il 
Campidoglio,  non  ne  leggevano  nessuno  sulla  pretesa  liberazione 
di  Roma  e  sulla  rivincita  di  Camillo,  contaminarono  storia  e  leg- 
genda narrando  che  Camillo  riprese  si  l'oro  gallico,  ma  dopo  che 
i  Galli  si  erano  ritirati  da  Roma,  presso  Volsinì  o  presso  Pesaro, 
che  dall'oro  pesato  avi^ebbe  avuto  il  suo  nome  di  Pisauro  (1)  ;  ov- 
vero che  il  bottino  fu  tolto  ai  Galli,  se  non  dai  Romani,  dai  loro 
amici  di  Cere  (2).  Altri  poi,  ripudiando  al  tutto  la  leggenda,  cer- 
cavano il  motivo  per  cui  i  Galli  avevano  abbandonato  Roma  in 
una  invasione  veneta  nel  loro  paese  inducendolo  dalla  ostilità  che 
continuava  anche  in  età  storica  tra  Veneti  e  Galli  (3). 


gli  assediati  del  Campidoglio.  Ora  l'invio  è  in  Livio  ben  motivato;  in  Diodoro 
non  serve  a  nulla:  i  Romani  di  Veì  non  avevano  alcun  interesse  a  inviare 
Ponzio  se  non  preparavano  un'azione  contro  gli  assedianti;  e  tale  azione  non 
può  essere  che  quella  di  Camillo.  Quindi  il  racconto  dell'intervento  miraco- 
loso di  Camillo,  che  è  il  presupposto  della  leggenda  di  Ponzio,  è  piìi  antico 
della  versione  diodorea.  Così  pure  l'esilio  di  Camillo  è  stato  inventato  jierchè 
il  vincitore  di  Veì  non  avesse  colpa  nella  catastrofe  gallica  e  si  trovasse 
pronto  fuori  di  Roma  per  riordinare  i  fuggiaschi.  Il  racconto  di  Diodoro,  se- 
condo cui  Camillo  andò  in  esilio  dopo  la  vittoria  gallica,  è  la  pedantesca 
correzione  di  uno  il  quale  trovava  troppo  miracoloso  il  richiamo  per  eSetto 
della  legazione  di  Ponzio  Cominio. 

(1)  DroD.  XIV  117,  5:  tujv  b'  ÒTTeXrjXuBÓTUJv  FaXaTiiv  òtto  ' PiJu|uri<;  OùedOKiov 
Tr)v  TTÓXiv  au|a|uaxov  ouaav  'Pu))LiaiuJv  TtopOoùvTmv  èiriOéiuevoc;  aÙTOìq  ó  aÙTO- 
KpuTUjp  Kal  Toùq  TTXeìOTOu^  àTTOKTeivac;  ific,  àr:oOKevr\c,  Tiàor]c,  èKupieuoev  èv  rj  Kaì 
TÒ  xpucriov  fjv  [ò  eìXrirpeiaav  eie;  'PU)|ur|v]  Kaì  ax^bòv  anavxa  rà  bnqpuaa^éva  Kaxà 
xriv  Tr)c,  TTÓXeujt;  aXujoiv  :  dove  il  nome  corrotto  OùectaKiov  è  stato  variamente 
reintegrato  ;  ma  la  congettura  OùoXaiviov  (Niebuhr)  ha  per  se  l'evidenza  paleo- 
grafica. Serv.  Aen.  VI  825  :  Camillus  ...  Gallos  iam  abeuntes  secutus  est,  quibus 
interemptis  aurum  omne  recepii  et  signa.  quod  cum  Ulte  appendisset  civitati  nomen 
dedit;  nam  Pisaurum  dicitur,  quod  illic  aurum  pensatum  est. 

(2)  Strab.  V  p.  220  :  (ci  Kaiperavoì)  toù<;  éXóvxaq  ■xi\v  'Pib.urjv  FaXàrac;  Kare-- 
TTcXé^uriocv  àmoOaiv  èTri0é,uevoi  kotò  ZaPivouc;  koì  ot  iiap'  éKÓvTwv  éXa^ov  'Puj- 
f-iaioiv  èKeìvoi  Xàqpupa  fiKOvxaq  àqpeiXovxo.  Diod.  XIV  117  combina  questa  versione 
con  la  precedente:  oi  ò'  elq  Tr)v  'lattu-fiav  tujv  KeXxiJùv  èTteXriXuGóxec;  àveaipen^av 
bla  Trìq  xiùv  'Puj|uaiujv  xùjpaLC,  ■  koì  juex'  òXìyou  ùttò  Kepioiv  èmPouXeueévxec;  vuKxòq 
óÌTTavx€<;  KoxeKÓnriaav  èv  xiIj  Tpauaiiu  (TTiaaupiuj  ?)  -rrebiiy. 

(3)  PoLYB.  II  18,  3.  Che  la  versione  di  Polibio  secondo  cui  i  Galli  per  questo 
motivo  tornarono  in  patria  àOpauaxoi  koI  àaivdi;  (forse  è  da  leggere  àa\Mr\)  fxovxe^ 


174         CAPO    XVI  -  OLI   ITALICI   IN    LOTTA    COI    CELTI    E    COI    GRECI 


Queste  congetture  o  indazioni  sono  preziose  per  noi  perchè 
mostrano  come  lo  stesso  ingenuo  senso  critico  dei  primi  annalisti 
romani  avvertisse  che  la  leggenda  era  in  contraddizione  con  la 
realtà  storica:  ma  prescindendo  da  ciò  hanno  meno  valore  della 
antica  leggenda  che  tentano  correggere.  La  quale  del  resto,  come 
tutte  le  leggende  che  ebbero  elaborazione  poetica,  comporta  solo 
in  piccola  parte  l'analisi.  In  essa  qualche  particolare  può  aversi 
per  mito  etiologico  destinato  a  spiegare  ceremonie  sacre.  Cosi  le 
avi'à  fornito  forse  qualche  elemento  Fuso  d'appiccare  alcuni  cani 
presso  il  tempio  di  Summano  sul  Campidoglio,  che  procede  forse 
eia  un  motivo  sacro  analogo  a  quello  del  sacrifizio  di  cagne  rosse 
che  si  faceva  nelle  Robigalia  (I  p.  284)  (1).  E  lo  stesso  intervento 
di  Manlio  può  essere  un  mito  etimologico  sorto  per  spiegare  il 
cognome  di  Capitolino  ereditario  nella  gente  Manila,  che  deve 
aver  avuto  origine  dalla  dimora  originaria  di  quella  gente  sul 
colle  (2).  L'esilio  di  Camillo  può  essere  stato  inventato  perchè  il 
vincitore  di  Veì,  .  senza  alcuna  responsabilità  nella  catastrofe,  si 
trovasse  fuori  di  Roma,  pronto  ad  intervenii'e  come  deus  ex  ma- 
china.  E  il  suo  ravvicinamento  con  Achille,  del  quale  partendo 
da  Roma  avrebbe  imitato   l'imprecazione  (3),  è  forse   opera  degli 


Ti'iv  iJjqpéXeiav  (II  22,  5)  sia  inconciliabile  con  quella  di  Diodoro  è  tanto  evi- 
dente che  non  varrebbe  la  pena  di  notarlo  se  il  Mommsen  non  avesse  voluto 
riferirle  ambedue  a  Fabio.  Molto  singolare  è  il  racconto  di  Polyaen.  Vili  25,  1: 
PujMOìoi  Ke\TÙ)v  Ti^v  'Puj|ur|v  XapóvTwv  ouvGfiKa^  Trpòq  aÙToùt;  èxprii^Jovro  qpó- 
poui;  xeXeìv,  irùXriv  àveuJTf^évriv  rrapexeiv  òià  iravTÒq  Kal  Ynv  èpyàcyiiuov.  Tornati 
i  Celti,  i  Romani  li  colmano  di  doni  ospitali,  e  quando  si  sono  ubbriacati, 
li  tagliano  a  pezzi  :  iva  hk  kotò  ràq  auv9iiKa<;  fiiravra  iroiriijai  ÒOKotev,  èitì  uérpae; 
dirpoapóTou  irùXriv  (ìv6UJY|aévr|v  KaxeaKeOaaav.  La  porta  cui  si  allude  è  la  Pan- 
dana.  L'aneddoto  concernente  la  porta  (Pandana),  che  si  può  stralciare  dal  resto 
senza  danno,  è  inserito  qui  dalla  leggenda  di  Romolo  e  Tazio:  Fest.  p.  363: 
Tatius  posteci  in  pace  facienda  cavit  a  Roimilo  ut  ea  (porta)  Sahitiis  semper  pa- 
teret.  Cfr.  Gilbert  Geschichte  und  Topographie  der  Sfadt  Rem  I  p.  330  n.  2.  — 
E  sta,  come  questo,  isolato  il  cenno  di  Frontin.  strateg.  II  6,  1  :  Gallos  eo 
proelio  quod  CavtilU  ductu  gestum  est  desiderantes  navigia  quibus  Tiberim  transi- 
renf,  senatus  censuit  transvehendos  et  commeatibus  quoque  prosequendos. 

(1)  Plin.  n.'h.  XXIX  57:  suppUcia  annua  canes  pendant  Inter  aedeni  luven- 
tutis  et  Summani  vivi  in  furca  sabucea  armo  fìxi.  Schol.  Aen.  Vili  652.  Cfr.  Pais 
I  2,  92  seg.,  il  quale  ha  ragione  in  sostanza,  sebbene  fraintenda  il  passo  di 
Plinio  confondendo  i  cani  colà  appiccati  col  catulo  che  si  sacrificava  a  Gè 
nita  Mana. 

(2)  Liv.  VI  20,  13.  Cic.  de  dom.  38,  101.  Ovid.  fasti  VI  185. 

(3)  A  240:  f^  ttot'  'Ax\\\f\o^  iroOt^  iSexai  ulaq  'Axmujv. 


LA   LKC.(;KXDA  Dr']LLA  LIBERAZIONE  DI  ROMA.  MANLIO  E  CAMILLO       175 

annalisti  più  recenti,  dettato  ad  essi  coni'  era  dall'  analogia  delle 
circostanze  e  dai  ricordi  omerici.  Finalmente  l'immaginaria  distru- 
zione dei  barbari  pnò  essere  stata  attribuita  al  miglior  guerriero 
romano  ricordato  per  quelle  età  dalla  tradizione,  M.  Fiuio  Ca- 
millo il  conquistatore  di  Veì,  con  tanto  maggior  ragione  quanto 
meno  è  da  dubitare  clie  Camillo  abbia  con  efficacia  servito  la  sua 
X)atria  e  contribuito  a  rialzarne  le  sorti  nella  lotta  per  l'esistenza 
elle  immediataniente  dopo  la  partenza  dei  Gralli  ebbe  a  sostenere 
contro  i  vicini.  Si  è  preteso  che  la  leggenda  abbia  origine  da  una 
confusione  tra  le  gesta  del  padre  Marco  e  quelle  del  figlio  L.  Ca- 
millo che  fronteggiò  i  Galli  nel  349;  ma  tale  confusione  difficil- 
mente iDoteva  aver  luogo,  dacché  secondo  la  tradizione  più  antica 
L.  Furio  non  venne  nepxiure  alle  mani  coi  Galli ,  e  conforme  a 
ciò  i  fasti  trionfali  non  registrano  alcun  suo  trionfo  sui  barbari 
(v.  oltre  e.  XVIII).  È  vero  che  uno  scrittore  greco  del  secolo  IV  dà 
al  salvatore  di  Roma  il  nome  di  Lucio  (1);  ma  questo  Lucio  non 
ha  nulla  a  fare  con  L.  Furio,  del  quale  non  s'era  ancora  in- 
ventata la  vittoria  sui  Galli,  si  è  semplicemente  uno  storico  o 
mitico  predecessore  di  M.  Manlio,  il  salvatore  del  Campidoglio  nel- 
l'assalto nottui'iio  dei  barbari.  Di  recente  poi  un  critico  ha  creduto 
di  trovare  il  segreto  della  leggenda  di  Camillo  nel  suo  cognome 
che  vuol  dire  "  ministro  degli  dèi  „  (2);  questo  spiegherebbe  la 
sua  relazione  col  sacro  colle  capitolino:  tale  relazione  farebbe  in- 
tendere alla  sua  volta  iierchè  la  pseudostoria  attribuisse  l'occupa- 
zione del  colle  a  Romolo,  il  fondatore  di  Medullia,  presunta  patria 
dei  Fmi  (3)  ;  e  infine  quelle  attinenze  recondite  tra  Camillo  e  Ro- 
molo varrebbero  a  mostrare  iierchè  di  Camillo  si  disse  che  al  iiaii 
di  Romolo  aveva  superato  i  Veienti.  Non  c'è  nessuno  il  quale  non 
veda  come  queste  sottili  combinazioni,  assai  meno  verisiniili  del 
resto  della  stessa  leggenda,  sono  tanto  insufficienti  al  loro  assunto 
quanto  superflue. 

Lasciando  da  parte  la  leggenda  e  le  sue  correzioni,  a|3i)are  evi- 
dente che  la  scorreria  fatta  dai  Galli  intorno  al  390  in  mezzo  a 
paese  straniero  non  poteva  aver  iier  iscopo  la  stabile  occupazione, 


(1)  Plut.  Caui.  22:  'ApiaTOTéXr|(;  bè  ó  qpiXóaocpoi;  tò  |uèv  àXuJvai  ti^v  ttóXiv  ùttò 
KeXxOùv  (ÌKpipOùc,  bfiXó<;  èariv  ÓKTiKoiIjq,  tòv  òè  aObaavxa  AeÙKiov  elvai  qpr|aiv. 

(2)  Pais  I  2,  177  segg. 

(3)  Ciò  si  ricava  dal  loro  antico  cognome  di  MeduUini.  È  incerto  quanto  l'ar- 
gomento sia  valido.  Non  si  dimentichi  del  resto  che  a  Tuscolo  si  sono  trovata 
iscrizioni  sepolcrali  arcaiche  della  gente  Furia,  CIL.  XIV  2578. 


176         CAPO   XVI  -  (il.I    ITALICI   IN    LOTTA    COI    CELTI   E    COI    CrKECI 


ma  semplicemente  il  bottino  e  l'umiliazione  degli  indigeni  d'Italia, 
alla  stessa  guisa  delle  spedizioni  contro  Roma  d'Alarico  e  di  Gren- 
serico.  E  però  non  è  da  stupire  che  i  Galli  si  siano  indotti  a  par- 
tire senza  aver  compito  il  loro  trionfo  entrando  nel  Campidoglio: 
nò  v'ha  motivo  alcuno  di  mettere  in  dubbio  che  il  Campidoglio, 
secondo  asserisce  la  tradizione  romana,  abbia  resistito  agli  assa- 
litori; il  che  par  confermato  dall' antica  notizia  di  fonte  greca  su 
([uel  Lucio  che  sarebbe  stato  il  salvatore  di  Roma.  L'incm-sione 
dei  Veneti  nel  paese  dei  Galli  sembra  destinata  a  spiegare  cosa 
che  non  ha  altrimenti  bisogno  di  spiegazione;  al  più  sarebbe  da 
ritenere,  non  tanto  per  riguardo  alla  tradizione  che  ne  fa  ricordo, 
quanto  per  le  analogie,  che  una  epidemia  possa  aver  contribuito 
a  determinare  i  Galli  al  ritorno.  La  notizia  del  riscatto  da  essi 
preteso,  se  pur  non  sicmissima,  è  però  grandemente  probabile, 
(piand'anche  la  somma  d'oro  richiesta  si  sia  immaginata  movendo 
dalle  condizioni  d'età  più  recenti  (1). 

I  Galli  non  lasciarono  certo  la  città  senza  averla  orribilmente 
devastata;  nò  avranno  mancato  di  appiccare  qua  e  là  qualche  in- 
cendio a  compir  l'opera  di  distruzione;  ma  che  ogni  cosa  sia  pe- 
rita, compresi  tutti  i  documenti,  salvo  poche  case  sul  Palatino,  è 
soltanto  un  mito  etiologico  destinato  a  spiegare  la  scarsezza  che 
s'aveva  in  Roma  sul  termine  della  repubblica,  di  documenti  e  di 
monumenti  anteriori  al  IV  secolo  (cfr.  I  p.  5).  Il  particolare  delle 
case  scampate  all'  incendio  sul  Palatino  (2)  è  anch'esso  un  mito 
diretto  a  salvare  l'autenticità  di  quella  capanna  che  s'attribuiva  al 
fondatore  di  Roma.  E  come  i  miti  si  sono  accumulati  sulla  pretesa 
distruzione,  cosi  sulla  pretesa  ricostruzione  di  Roma.  Vien  detto, 
p.  e.,  che  le  vie  di  Roma  antica  erano  cm-ve  e  strette  a  cagione 
della  fretta  con  cui  si  provvide  a  ricostruire  la  città  dopo  l'incendio 
gallico  (3).  Ma  al  contrario  le  vie  anguste  e  curve  si  spiegano 
assai  meglio  se  la  città  si  è  formata  a  poco  a  poco  in  età  remota; 


(1)  Mille  libre  d'oro  eqiiivalgono  a  150  talenti  euboici  d'argento.  Per  avere 
un  termine  di  paragone  si  può  ricordare  che  la  contribuzione  imposta  a  Fi- 
lippo V  di  Macedonia  dopo  la  battaglia  di  Cinoscefale  non  superò  1000  talenti 
d'argento. 

(2)  Dato  dal  solo  Diod.  XIV  115,  6:  tì]v  ttóXiv  èXu|Lia(vovTO  x^pU  òXìyojv  oìkiùv 
èv  Tuj  TToXaTiiu.  Cfr.  Mommsen  op.  cit.  p.  319. 

(3)  DiOD.  XIV116:  'Piuiaatoi  ^bujKav  èEouaiav  tlù  3ouXo|a6Viu  xaG'  6v  TTpoV)- 

PHTai  Tònov   oIkiov  oiKoboneìv àTrdvTuuv  oOv  upòi;  tì^v  ibiav  irpoaipcaiv   oÌKObo- 

l-iGÙvTuuv,  auv^Pn  TÒq   Kaxà  iróXiv    óboù(;    ajevàc,    fevéoQai   koì    KO^Trà*;  èxoùaa<;. 
Cfr.  Liv.  V  55,  4.  Tac.  ann.  XV  43. 


l'incendio  gallico  177 


che  se  si  fosse  ricostruita  a  nuovo  in  età  relativamente  progre- 
dita com'era  il  principio  del  secolo  IV^  quando  le  norme  della 
limitazione  etrusca  erano  state  già  adottate  dai  Latini,  nulla  im- 
pediva che  venissero  tracciate  secondo  un  piano  regolatore  vie 
eguali  e  tagiiantisi  ad  angolo  retto.  Con  l'incendio  gallico  spiega- 
vano pure  gli-  antichi  come  le  cloache  passassero  in  Roma  sotto 
alle  case  private,  mentre  in  origine  dovevano  essere  state  costruite 
in  terreno  pubblico  (1)  ;  dove  è  chiaro  che  si  ha  piuttosto  da  infe- 
rirne che  quando  si  son  costruite  in  Roma  le  cloache  non  vigevano 
ancora  le  rigorose  norme  giuridiche  posteriori  sulla  x^roprietà  del 
loro  soprassuolo.  E  infine  lo  stesso  particolare  che  lo  Stato  for- 
nisse ai  privati  le  tegole  per  coprire  le  loro  case  (2)  è  manifesta- 
mente inventato  allo  scopo  di  illustrare  una  poco  nota  istituzione 
posteriore,  poiché  fino  al  tempo  di  Pirro  le  case  romane  furono 
coperte  con  assi  di  legno  (3). 

Ad  ogni  modo  più  che  i  danni  materiali,  pur  rilevantissimi,  di 
questa  scorreria  doveva  essere  grave  il  suo  effetto  morale  ;  poiché 
essa  rivelava  in  modo  inatteso  la  debolezza,  degli  indigeni  d'Italia 
e  in  particolare  dei  Romani.  Ma  mentre  ui'geva  da  settentrione 
sugl'Italici  il  pericolo  celtico,  non  meno  formidabile  si  riaffacciava 
da  mezzogiorno  il  pericolo  greco.  Veramente  da  qualche  tempo  i 
Grreci  parevano  aver  cessato  d'esser  troppo  temibili  aglTtalici. 
Dopo  che  le  vittorie  d'Imera  e  di  Cuma  avevano  dato  all'ellenismo 
un  nuovo  vigore  sul  principio  del  sec.  V  (sopra  e.  XII),  la  demo- 
crazia e  il  particolarismo  avevano  ridotto  a  vergognosa  impotenza 
le  città  pm"  si  ricche  e  popolose  dell'  Italia  e  della  Sicilia  greca. 
Come  già  era  caduta  a  Cuma  la  tirannide  lasciando  la  città  inca- 
pace di  resistere  con  le  sue  forze  ai  nemici  della  nazione,  cosi 
cadde  di  poi,  quasi  subito  dopo  la  morte  di  Terone,  ad  Agrigento  (4), 
e  in  Siracusa  non  sopravvisse  che  di  poco  a  lerone,  che  aveva 
ridotto  alla  sua  dipendenza  la  nuova  repubblica  agrigentina  riu- 
scendo ad  unificare  quasi  a  pieno  la  Sicilia  greca  (5);  ultimi,  pochi 
anni  dopo,  furono  rovesciati  a  Messana  e  Regio  i  figli  di  Anas- 


(1)  Liv.  V  55,  5  :  ea  est  causa  (festinatio)  car  veteres  cloacae  primo   per  pu- 
blicum  ductae  mene  privata  passim  subeant  tecta. 

(2)  DioD.  XIV  116,  8:  òr)|Lioaiaq  Kepainiòa^  èxoprifouv  ai  in^xpi  toO  vOv  TroXiTiKoi 
KoXoOvTai.  Liv.  V  55,  3:  teyula  publice  praebita  est. 

(3)  Plin.  n.  h.  XVI  36  :  scandula  contectam   fuisse  Romam    ad    Pi/rrhì    ttsque 
bellum  annis  CCCCLXX  Cornelius  Nepos  aitclor  est. 

(4)  DiOD.  XI  53. 

(5)  DioD.  XI  67-68.  Aristot.  polii.  V  p.  1312  b. 

G.  De  Sanctis,  Storia  dei  Romani,  lì.  12 


178        CAPO   XVI  -  GLI   ITALICI   IX    LOTTA   COI    CELTI   E    COI    GRECI 


silao  (1),  mentre  a  Crotone  e  a  Taranto  fiu'ono  instaurati  al  posto 
delle  vigenti  oligarcliie  governi  democratici  (2).  I  soli  Locresi  Epi- 
zefiri  rimasero  rigidamente  fedeli  alle  istituzioni  oligarcliiche  e 
alle  leggi  di  Zaleuco  (3),  il  che,  unito  con  la  differenza  di  stirpe 
e  con  la  inferiorità  civile ,  conferi  solo  ad  isolarli  maggiormente 
dai  loro  connazionali  italioti.  Questi  mutamenti  di  governo  si  ac- 
compagnarono do\'Tinque  a  lotte  sanguinose  in  cui  si  consumarono 
inutilmente  le  energie  vitali  dei  Greci,  in  Sicilia  tra  i  fuorusciti 
cui  i  tiranni  avevano  confiscati  i  beni  e  i  mercenari  cui  essi  ave- 
vano distribuito  quei  beni  e  largito  la  cittadinanza  (4);  in  Italia 
tra  i  democratici  e  i  Pitagorici  che  avevano  usato  a  difesa  del 
partito  conservatore  la  forza  materiale  e  morale  della  loro  setta.  A 
ciò  si  aggiungeva  il  risorgere  dello  spirito  particolaristico  represso 
sia  dai  tiranni,  sia  dalla  lega  pitagorica,  la  quale  ramificandosi 
nelle  varie  città  aveva  contribuito  a  crearvi  una  certa  commianza 
d'mtendimenti.  In  queste  condizioni  ripresero  vigore,  a  fronte  dei 
Greci,  gl'indigeni.  In  Italia  gli  Iapigi,  clie  erano  riusciti  a  riportare 
poco  dopo  il  480  una  grandissima  vittoria  sui  Eegini  e  i  Tarentini 
collegati  (5),  continuavano,  sia  pure  con  scarso  successo,  la  lotta  (6). 
Nell'isola  il  re  siculo  di  Mene  (Mineo),  Ducezio,  dopo  aver  aiutato 
i  democratici  siracusani  contro  i  mercenari  di  lerone,  diede  a'  suoi 
connazionali  una  nuova  capitale  in  Palice  (Palagonia)  sul  lago 
sacro  dei  Palici  e  cercò  di  ridm^li  ad  unità  e  guidarli  all'assalto 
contro  i  Greci  (7)  ;  ma  finì  col  soggiacere  quando  Agrigentini  e  Si- 


(1)  DioD.  XI  76. 

(2)  Per  Crotone  la  cosa  si  collega  con  la  oppressione  dei  Pitagorici  (1  p.  323), 
V.  Akistox.  fr.  11  ap.  Iamblich.  v.  Pyth.  248  segg.  Ofr.  Polyb.  II  39.  —  Per  Ta- 
ranto il  mutamento  è  in  relazione  con  la  rotta  sofferta  per  opera  degli  Iapigi 
(v.  oltre  n.  5)  :  Aristot.  poUt.  V  p.  1303  a. 

(3)  Cfr.  Demosth.  c.  Aristocr.  139-141. 

(4)  DioD.  XI  72-73.  76.  Aristot.  V  p.  1303  a.  Qualche  nuova  notizia  è  in  un 
frammento  di  papiro  d'Oxyrhynchos  (IV  p.  80  segg.),  che  contiene  probabil- 
mente una  parte  del  sommario  del  lib.  IV  delle  storie  di  Filisto;  v.  le  mie 
osservazioni  nella  '  Riv.  di  filologia  '  XXXIII  (1905)  p.  66  segg. 

^.5)  Hekod.  vii  170:  cpóvoq  'EXXnviKÒq  néfiajoc,  oOtoc;  bf]  èYéveTO  tcóvtujv  tù)v 
fliaeiq  lòiLiev.  Dico.  XI  52  (a.  473/2).  Aristot.  jyolit.  V  p.  1303  a.  Pais  Atakta  in 
'  Ann.  delle  univ.  toscane  '  XIX  (1891)  p.  1  segg. 

(6)  Pausan.  X  13,  10.  Cfr.  Pais  meni.  cit.  p.  8. 

(7)  Il  fatto  è  narrato  da  Diou.  due  volte,  all'a.  458/7  (XI  78,  5)  ed  al  453/2 
(XI  88,  6.  90,  2).  Come  siano  da  intendere  questi  testi  ha  mostrato  il  Beloch 
'  Riv.  di  st.  antica  '  I  2  (1895j  p.  80  seg. 


J 


REAZIONE    degl'italici   CONTRO   I   GRECI  179 

racusani,  dimentichi  delle  loro  rivalità,  si  coUegarono  contro  di  lui, 
e  con  la  sua  sconfitta  falli  il  primo  ed  ultimo  tentativo  dei  Siculi 
per  effettuare  con  proprie  forze  la  riscossa  contro  Tellenismo  (1). 
Circa  questo  tempo  i  Siracusani  raccolsero  ancora  una  volta  le 
loro  energie  per  combattere  le  piraterie  degli  Etruschi,  e  fecero 
contro  di  essi  due  s^jedizioni  devastando  la  Corsica  e  impadronen- 
dosi dell'isola  d'Elba  (2);  ma  fu  quella  una  breve  parentesi;  poi 
tornarono  alla  consueta  inerzia  cui  li  faceva  propendere  l'avver- 
sione ai  sacrifizi  onde  non  apparisse  l'utilità  immediata.  Ne  alcun 
pericolo  immediato  pareva  minacciare  i  Glreci  di  Sicilia  dopo  che 
l'insurrezione  sicula  era  stata  domata  e  anzi  Ducezio,  rinunciando 
ad  un  ideale  che  non  sembrava  più  attuabile,  s'era  rassegnato  a 
servire  gl'interessi  siracusani  (3).  Cosi  i  Grreci  di  Sicilia,  poco  cu- 
ranti dell'avvenire,  lasciarono  andare  in  decadenza  le  fortificazioni 
delle  città  e  gii  ordini  militari,  né  provvidero  a  rinnovare  il  na- 
viglio da  guerra.  Certo  le  città  greche  fiorirono  allora  come  non 
mai  per  lo  innanzi  d'industrie  e  di  commerci,  mentre  la  popola- 
zione moltiplicata  attendeva  a  godere  e  ad  arricchife.  Ma  venne 
il  momento  del  risveglio,  e  i  sacrifizi  non  fatti  a  tempo  in  piccola 
misura  dovettero  compiersi  in  misura  di  gran  lunga  maggiore,  e 
non  valsero  ad  evitare  che  l'ellenismo  soffrisse  disastri  non  inù. 
riparati. 

Fu  quella  del  resto  l'età  dell'oro  della  coltm-a  siceliota  ed  ita- 
liota;. A  Siracusa,  che  divenne  per  opera  dei  Dinomenidi  la  prima 
grande  città  del  mondo  greco  e  che  solo  nel  corso  del  sec.  V  fu 
superata  da  Atene,  sorse  per  la  prima  volta  a  dignità  d'opera 
d'arte  la  commedia,  cui  appunto  offriva  materia  e  ispn-azione  la 
vita  della  grande  città.  Il  primo  poeta  comico  siracusano  fu  un 
uomo  d'origine  oscura,  uno  de'  nuovi  cittadini  a  cui  i  tiranni 
avevano  largito  i  diritti  politici,  Epicarmo  (4),  Grli  scarsi  frammenti 


(1)  DioD.  XI  91  seg.,  che  narra  tutta  la  guerra  all'a.  451/0. 

(2)  DioD.  XI  88,  4-5.  Questa  guerra  è  riferita  da  Diodoro  all'a.  453/2;  ma 
verisiinilmente  essa  durò  più  di  un  anno  attico. 

(3)  Non  par  possibile  che  senza  segreto  accordo  coi  Siracusani  egli  tornasse 
di  Corinto,  ov'era  stato  rilegato,  per  procedere  alla  fondazione  di  Kale  Akte 
sulla  costa  settentrionale  dell'isola:  Diod.  XII  8  (a.  446/5),  cfr.  Holm  Storia 
della  Sicilia  I  p.  486. 

(4)  Kaibel  Com.  Graec.  fragm.  I  1  p.  88  segg.  —  Epicarmo  fiorì  nella  prima 
metà  del  sec.  V,  e  ammettendo  col  Beloch  ch'egli  abbia  toccato  l'età  della 
guerra  del  Peloponneso  {Gr.  Geschichte  I  p.  577  n.  1)  si  cade  in  contraddizione 


180        CAPO  XVI  -  GLI   ITALICI   IN   LOTTA   COI   CELTI   E    COI   GRECI 

delle  sue  cominedie  mostrano,  con  l'abbondante  vena  satirica  ed 
umoristica  del  poeta,  la  profondità  della  sua  coltura.  Assai  moderna 
in  confronto  di  quella  più  recente  d'Aristofane,  la  commedia  di 
Epicarmo,  aliena  dalla  satira  personale  come  dalle  sfrenate  biz- 
zarrie della  commedia  attica  antica,  discuteva  le  questioni  filoso- 
fìclie  più  vitali  con  una  libertà  e  con  una  acutezza  che  torna  a 
gran  vanto  non  solo  del  poeta,  ma  anche  del  pubblico  che  lo  in- 
tendeva e  lo  aijplaudiva.  Anche  più  moderno  d'Epicarmo,  Sofrone 
circa  il  tempo  della  guerra  del  Peloponneso  dettò  primo  dialoglii 
in  prosa  che  per  la  pittui'a  dei  caratteri  e  la  naturalezza  della 
conversazione  meritarono  d'essere  o  di  farsi  stimare  gli  esemplari 
cui  si  ispii-ò  per  l'ethos  dei  suoi  dialoghi  il  divino  Platone  (1).  Frat- 
tanto, intorno  a  quello  stesso  tempo,  coltivò  la  logografia  col  me- 
desùno  indirizzo  che  si  seguiva  nella  Grrecia  jjropria  Antioco  di 
Siracusa  raccogliendo  tutte  le  notizie  che  si  avevano  sulle  colonie 
greche  di  Sicilia  e  d'Italia;  né  probabilmente  son  da  lui  molto 
distanti  d'età  i  due  Regini  Ippi  e  Glauco,  l'uno  autore  d'opere  di 
storia  simili  a  quelle  d'  Antioco  e  d'Ellanico,  l'altro  storico  della 
poesia  e  della  musica  (2). 

Ma  anche  più  della  di"ammatica  e  della  storia  fiori  nelF  Occi- 
dente la  filosofia.  Qui  Parmenide  di  Elea,  iniziato  alla  riflessione 
dagli  arditi  '  dubbi  e  dalle  ardite  negazioni  di  Senofane,  cercò 
per  mezzo  del  puro  raziocinio  una  intuizione  del  mondo  di 
cui  potesse  aversi  sicurezza  (3).  E,  noncurante  della  ■  esperienza, 
costruì  la  dottrina  dell'  essere  uno,  infinito,  assoluto,  immutabile, 
eterno.  E  il  suo  discepolo  Zenone  dirizzò  l'acume  del  suo  ingegno 
a  difendere  la  teoria  del  maestro  segnalando  con  logica  formida- 


troppo  grave  con  Aristot.  imet.  p.  1448  a,  che  lo  dice  ttoXXuj  TrpÓTepoc;  di  Chio- 
nide  e  di  Magnete.  V.  Wilhelm  Dram.  Urkunden  in  '  Sonderschr.  des  oesterr. 
avch.  Inst.  '  VI  (1906)  p.  107  seg.,  cfr.  Kaibel  ibid.  p.  174  seg.  È  certo  da  ri- 
tenere coi  Beiceli  autentico  il  carme  fisico  imitato  qua  e  là  da  Euripide  e 
tradotto  poi  da  Ennio  :  ma  questo  può  essere  di  parecchio  anteriore    al  430, 

(1)  Kaibel  op.  cit.  p.  152.  Per  le  attinenze  coi  dialoghi  platonici  v.  Durjs 
ap.  Athen.  XI  p.  504  b.  La.  Diog.  Ili  18.  Suid.  s.  v.  Zibqppiuv  etc. 

(2)  Della  età  di  Ippi  fa  cenno  solo  Suida  s.  v.  "Ittttui;  collocandolo  ètri  tOùv 
TTepaiKUJv.  I  frammenti  possono  far  sorgere  qualche  dubbio  sulla  sua  remota 
antichità.  Certo  è  solo  che  egli  è  anteriore  a  Fania  di  Ereso,  scolaro  di  Ari- 
stotele, che  lo  cita,  v.  Plut.  de  orac.  def.  6.  Di  Glauco  ci  vien  detto  che  fu 
contemporaneo  di  Democrito  (La.  Diog.  IX  38);  e  s'accorda  con  ciò  un  fram- 
mento in  cui  si  parla  della  fondazione  di  Turi  (ibid.  Vili  52). 

(3)  Sembra  che  questo  sia  il  vero  senso  della  à\r[Qe\a  parmenidea:  Covotti 
a  p.  124  della  mem.  cit.  sopra  I  p.  828  n.  1. 


COLTURA   SICELIOTA   DEL    SEC.   Y  181 

bile  le  contraddizioni  in  cui  si  avvolge  l'esperienza.  Ma  frattanto 
in  Sicilia,  mal  soddisfatto  del  sistema  di  Parmenide,  mi  notabile 
agrigentino,  Empedocle,  cercava  la  verità  sul  mondo  esteriore  non 
nelle  pure  intuizioni  della  ragione,  ma  nella  esperienza  rij)etuta 
e  verificata  con  raiuto  di  tutti  i  sensi  in  modo  da  escludere  ogni 
errore  (1).  E  su  quella  credeva  di  poter  fondare  la  sua  dottrina,  che 
poi  ebbe  tanti  seguaci,  dei  quattro  elementi  e  del  ciclo  interminabile 
delle  esistenze  nascenti  dall'amore  e  uccise  dall'odio,  le  due  forze 
cke  accozzano  e  risolvono  senza  tregua  gii  elementi  eterni.  Se  non 
che  accanto  al  mondo  della  materia,  Empedocle,  assai  sujDeriore  in 
questo  a  Parmenide,  riconosceva,  ben  distinto,  il  mondo  dello  spi- 
rito (2).  E  svolgendo  meglio  del  discepolo  di  Senofane  la  dottrina 
del  Colofonie  definiva  Dio  mente  sacra  ed  ineffabile  attribuendogli 
la  più  assoluta  spiritualità  (8).  Nel  mondo  della  materia  ogni  esi- 
stenza è  contingente  e  solo  eterni  gli  elementi,  nel  mondo  dello 
spirito  eterna  è  ogni  esistenza  e  solo  per  legge  divina  gli  esseri  che 
si  macchiano  di  colpe  scendono  nel  mondo  della  materia  e  pren- 
dono tutte  le  forme  delle  esistenze  mortali:,  la  furia  del  vento  li 
caccia  nel  mare,  il  mare  li  respinge  al  suolo  della  terra,  la  terra 
ai  raggi  del  sole  lucente,  il  sole  li  travolge  nei  vortici  dell'aria  (4). 
Accanto  a  queste  scuole  cercava  anch'essa  di  conciliare  scienza 
e  religione  la  vecchia  scuola  pitagorica  sopravvissuta  alle  proscri- 
zioni e  alle  stragi.  Ed  essa  ebbe  anzi  nella  seconda  metà  del  s'ec.  V 
quello  che  fu  forse  il  maggiore  de'  suoi  rappresentanti,  Eilolao  di 
Taranto  (5).  In  questo  tempo  i  Pitagorici,  mentre  studiavano  pro- 
fondamente e  non  senza  frutto  matematica  e  astronomia,  trasfor- 
marono la  loro  filosofia  in  una  mistica   dei  numeri,    rimanendo 


(1)  La  genesi  della  filosofia  di  Empedocle  è  ottimamente  chiarita  dal  Co- 
voTTi  op.  cit.  p.  140  seg.  ;  non  così  le  attinenze  tra  la  fisica  e  i  Ka9ap|uoi'. 

(2)  L'apparente  contraddizione  tra  il  trepì  qpùaeiuq  e  i  xaGapuoi  è  spiegata 
dal  Bidez,  dal  Diels  e  dal  Covotti  ponendo  a  distanza  di  tempo  i  due  scritti 
e  ammettendo  una  conversione  del  filosofo  dallo  sperimentalismo  al  misticismo 
0  viceversa.  È  questa  una  ipotesi  non  necessaria,  che  costringe  tra  altro  a 
riferire  arbitrariamente  al  irepl  qpùaeux;  il  fr.  110  Diels  che  spetta  invece  ai 
Kaeapjuoi  (Hii'POL.  refut.  haer.  VII  30). 

(3)  Fr.  134  DiELs. 

(4)  Fr.  11.5  DiKLS.  S'intende  che  la  relazione  tra  il  bai'iuujv  decaduto  e  l'esi- 
stenza terrena  era  concepita  da  Empedocle  molto  diversamente  da  quel  che 
uno  spiritualista  odierno  immagini  la  relazione  tra  l'anima  e  il  corpo  (cfr. 
RoHDE  Psyche  IP  p.  171  segg.). 

(5)  Diels  Die  Fragmente  dev   Vorsohratiker  I^  p.  283  segg. 


182         CAPO   XVT  -  OLI   ITALICI   IN    LOTTA    COI    CELTI   E    COI    ORECI 

addietro  d'assai  nella  speculazione  a  Parmenide  e  ad  Empedocle; 
ma  pur  con  la  distinzione  della  cosa  e  della  sua  essenza,  che  cer- 
cavano appunto  nel  numero,  prepararono  la  dottrina  platonica 
delle  idee. 

Dalla  contraddizione  fra  i  sistemi  filosofici,  sia  clie  cercassero 
nella  piu-a  ragione  o  nell'esame  dei  fenomeni  il  loro  punto  di  par- 
tenza, nacque  anche  in  Sicilia  lo  scetticismo,  e  principale  rappre- 
sentante ne  fu  appunto  uno  scolaro  di  Empedocle,  Gorgia  di  Le- 
ontini  (1).  Nulla  è  reale;  o  se  qualcosa  v'ha  di  reale,  non  è  dato 
conoscerlo;  o  se  è  dato  conoscerlo  non  è  possibile  trasmetterne  ad 
altri  la  conoscenza  (2):  questa  è  la  dolorosa  conclusione  de'  suoi 
studi  filosofici.  Ma  non  perciò  Gorgia  si  rimane  dalla  sua  serena 
operosità;  poiché  se  non  v'è  realtà,  v'è  apparenza,  se  non  può  darsi 
scienza,  può  aversi  opinione,  e  se  non  a  pieno,  può  questa  almen 
parzialmente  trasfondersi  in  altri.  Il  mezzo  per  diffonderla  è  la 
retorica.  E  uno  dei  maggiori  maestri  di  retorica  a  tutti  i  Greci,  e 
con  la  dottrina  e  con  l'esempio,  fu  appunto  Gorgia,  il  quale  con- 
tinuò cosi  l'opera  di  due  altri  Sicelioti,  i  Siracusani  Tisia  e  Corace. 

In  questa  età  in  cui  tanto  fiorivano  nell'  Occidente  ellenico  le 
discipline  del  pensiero  e  della  parola,  erano  coltivate  anche,  seb- 
bene con  minore  originalità  che  nella  madrepatria,  le  arti  plastiche. 
Soprattutto  s'innalzavano  tempi  vasti  ed  imponenti,  che  sono  tra 
i  meglio  conservati  che  l'antichità  ci  abbia  trasmesso.  Cosi  alcuni 
tra  i  tempi  di  Selinunte,  quello  onde  i  Sù^acusani  hanno  fatto. la 
loro  cattedrale,  il  tempio  di  Era  Lacinia,  le  cui  rovine  hanno  dato 
nome  al  capo  delle  Colonne,  il  tempio  di  Posidone  a  Pesto,  quello 
di  Segesta,  che  rende  testimonianza  dell'ellenizzarsi  degli  indigeni 
anche  se  avversi  ai  Greci,  il  tempio  della  Concordia  in  Agrigento 
e  l'Olimpico  della  stessa  città,  imiDonente  anche  ora  nel  suo  cu- 
mulo immane  di  rovine  (3).  Alcuni  di  questi  tempi,  i  maggiori, 
come  l'Olimpico  di  Agrigento  e  uno  dei  tempi  di  Selinunte  (G), 
rimasero  incompiuti  perchè  l'arte  e  il  benessere  d'una  gran  parte 
della  Sicilia  greca  non  toccò  mai  più  l'altezza  raggiunta  nel  sec.  V. 

Con  l'inerzia  politica  in  cui  si  adagiavano  fra  tanto  splendore 
di  civiltà  i  Sicelioti  contrasta  l'attività  e  il  vigore  che  Atene,  dive- 


(1)  Gorgia    morì    vecchissimo   (di  109  a.  secondo  Apollod.  presso  La.  Diog. 
Vili  58)  non  molto  dopo  il  380. 

(2)  Sext.  adv.  mathem.  VII  65  segg.  —  V.  per  l'intelligenza  di  questo  testo 
GoMPERz  Griech.  Denker  I  380  segg. 

(3)  V.  l'opera  di  Koldewey  e  Puchstein  cit.  sopra  I  p.  323  n.  5. 


GLI   ATENIESI  NELL'OCCIDENTE  183 

niita  dopo  le  guerre  persiane  la  maggior  potenza  greca  e  la  capi- 
tale intellettuale  ed  economica  della  nazione,  spiegò  nell'Occidente. 
Essa  inviò  coloni  a  Napoli  rafforzando  quell'  avamposto  dell'  el- 
lenismo (1),  strinse  lega  con  gli  Elimi  avversati  dai  vicini  Seli- 
nunzì  (2)  e  coi  Calcidesi  di  Sicilia  cui  metteva  in  pericolo  l'incre- 
mento delle  colonie  doriche  (3),  x^romosse  la  fondazione  di  Turi, 
destinata  a  succedere  alla  distrutta  Sibari  (4),  e  infine  intervenne 
due  volte  con  l'armi  in  Sicilia  contro  Siracusa  e  i  suoi  alleati.  La 
seconda  spedizione  in  cui  gli  Ateniesi  impegnarono  le  loro  forze 
migliori  di  terra  e  di  mare  era  diretta  certo  nella  mente  dei  suoi 
autori  non  tanto  alla  difesa  di  Segesta  o  alla  riedificazione  della 
calcidese  Leontini,  clie  i  Siracusani  avevano  poco  prima  distrutta, 
quanto  a  preparare  la  fondazione  d'un  grande  impero  ateniese  nel- 
l'Occidente. L'interesse  che  prese  Atene  alle  cose  di  Sicilia  si  ri- 
specchia nella  leggenda,  che  allora  x3robabilmente  si  formò,  secondo 
cui  Ateniese  era  il  Colombo  della  Sicilia,  quel  Teocle  cui  la  tra- 
dizione ascriveva  la  fondazione  della  jdìù  antica  colonia  greca  nel- 
l'isola, Nasso  (5). 

n  disastro  del  settembre  413,  che  tenne  dietro  alle  accanite  bat- 
taglie navali  combattute  nel  porto  grande  di  Siracusa,  tra  le 
maggiori  che  avessero  luogo  nei  nostri  mari  fino  alle  guerre  pu- 
niche, ridusse  quelle  speranze  al  nulla  e  rimosse  ogni  pericolo  di 
predominio  ateniese  nel  Mediterraneo  occidentale.  La  stessa  Turi, 


(1)  Strab.  V  p.  246  accenna  a  coloni  ateniesi  in  Napoli.  Secondo  Timeo  fr.  99 
l'ateniese  Diotimo  (che  è  forse  lo  stesso  Diotimo  figlio  di  Strombico  che  fu 
stratego  nel  433/2,  Thuc.  I  45.  CIA.  I  179)  istituì  in  Napoli  una  corsa  con 
fiaccole  in  onore  di  Partenope  òxe  arpaT^^òc,  Ojv  tOùv  'AGrjvatujv  èTroXé|uei  toìc, 
ZiKeXoìt;.  La  data  è  incerta;  ma  forse  il  fatto  si  collega  con  l'alleanza  tra  Atene 
e  gli  Elimi  e  la  guerra  tra  gli  Elimi  e  Selinunte  di  cui  alla  n.  seg. 

(2)  Fin  dal  453/2:  CIA.  IV  22  k  e  139.  Sulle  prime  avvisaglie  tra  Segestani 
e  Selinuntini  v.  Diod.  XI  56  (a.  454/3)  con  le  osservazioni  del  Beloch  '  Hermes' 
XXVIII  (1893)  p.  631. 

(3)  Trattato  con  Regio:  CIA.  I  33.  IV"  p.  13.  Trattato  con  Leontini:  CIA. 
IV  33  a.  Ambedue  sono  del  433/2. 

(4)  Secondo  Diod.  XII  9  nel  446/5,  secondo  le  vitae  X  orai,  del  Ps.  Plutarco 
p.  835  d  nel  444/3.  L'ultima  data,  che  è  forse  da  preferire,  sembra  presupposta 
anche  da  altre  notizie  derivanti  da  antiche  cronografie,  cfr.  Busolt  Griech. 
Geschichte  II  523  n.  3. 

(5)  Teocle  era  calcidese  secondo  Hellan.  fr.  52,  ateniese  secondo  Ephor.  fr.  52 
ap.  Strab.  VI  267  seguito  dal  Ps.  Scymn.  274.  Sull'origine  di  quest'ultima  ver- 
sione v.  Pais  Storia  della  Sicilia  I  169. 


184         CAPO   XTI  -  G-LT   ITALICI   IX    LOTTA    COI    CELTI    E    COI    GRECI 

che  già  s'era  mostrata  poco  fedele  a'  suoi  fondatori,  non  ebbe  più 
d'allora  in  poi  altre  relazioni  che  ostili  con  Atene.  E  tuttavia  il 
ricordo  di  quella  spedizione  e  degli  uomini  che  vi  avevano  avuto 
parte  si  conservò  a  lungo  in  Italia  e  in  Sicilia;  e  n'è  documento 
anche  Fantica  statua  di  Alcibiade  che  fu  eretta  nel  Comizio  romano, 
perchè  egli  era  ritenuto  evidentemente  in  Roma  prima  d'Alessandro 
il  più  valoroso  dei  Grreci,  come  il  più  saggio  era  ritenuto  Pitagora 
che  aveva  anch'egli  colà  una  statua  (1).  Le  popolazioni  indigene 
s'erano  in  generale  dichiarate  per  gli  Ateniesi  contro  i  Siracusani 
che  esse  avevano  imparato  a  temere  ;  e  anche  qualche  città  etrusca, 
tra  cui  probabilmente  Cere,  aveva  inviato  alcuni  ausiliari  che  si 
segnalarono  in  uno  degli  ultimi  combattimenti  presso  Siracusa  (2), 
mentre  giunsero  a  cose  finite  ottocento  mercenari  indigeni  assol- 
dati in  Camx)ania  (3). 

La  distruzione  dell'armata  spedita  in  Sicilia  ebbe  effetti  gra- 
vissimi neirOriente  ellenico,  perchè  segnò  colà  la  fine  del  primato 
ateniese,  mentre  nella  storia  deirOccidente  e  l'invio  della  grande 
spedizione  e  il  disastro  con  cui  si  chiuse  non  son  che  incidenti  tras- 
curabili. Certo  la  impreparazione,  le  dissensioni,  il  difetto  d'energia 
e  di  spirito  militare  in  Siracusa  avi'ebbero  reso  impossibile  alla 
città  senza  aiuti  spartani  e  corinzi  e  jdìù  senza  la  fatale  lentezza 
di  Nicla  di  salvarsi  dagli  assedianti.  Ma  la  fondazione  d'un  impero 
ateniese  nell'Occidente  non  era  che  un  sogno:  troppi  nemici  aveva 
Atene  a  combattere  in  Grrecia,  troppo  debole  era  la  compagine 
della  sua  lega  marittima,  troppo  scarsa  la  popolazione  cittadina, 
perchè  Atene  potesse  pugnare  con  prospero  successo  nell'Occidente 
insieme  e  nelF  Oriente.  Se  anche  Atene  conquistava  Siracusa,  il 
suo  dominio  non  poteva  essere  che  passeggero,  e  la  storia  delle 
colonie  greche  in  Occidente  avrebbe  tosto  ripreso  il  suo  corso 
fatale.  Non  valse  del  resto  neppure  il  pericolo  a  strappare  dalla 
loro  inerzia  i  Sicelioti  e  a  mostrar  loro  la  necessità  d'armarsi  e 
d'unirsi  se  non  volevano  soccombere  al  primo  nemico  che  li  assa- 
lisse. Anzi  la  vittoria  riportata  con  tanto  scarso  loro  merito  li 
riempi  di  fiducia  e  di  tracotanza;  e  col  montare  della  marea  de- 
mocratica che  ne  fu  la  conseguenza,  declinò  anche  più  Fordine, 
la  disciplina  e  lo  spirito  di  sacrifizio. 

E  venne  inattesa,  ma  pronta,  la  Nemesi.  Gli  Elimi  combattuti 


(1)  Plin.  n.  h.  XXXIV  26.  Plut.  Nnm.  8. 

(2)  Tiiuc.  VII  53- 54. 

(3)  DioD.  XIII  44,  2. 


INTERVENTO   CARTAGINESE  185 


ancora  dai  Greci,  dopo  aver  cercato  invario,  a  ogni  patto,  la  pace, 
si  rivolsero  per  aiuto  a  Cartagine  (1).  Cartagine,  dopo  la  rotta  di 
Imera,  si  era  astenuta  per  settant'anni  da  ogni  intervento  nelle 
cose  di  Sicilia.  Ma  la  sua  pace  coi  Greci  non  era  stata  inoperosa. 
Aveva  atteso  a  rinvigorire  il  suo  dominio  sulle  coste  sarde,  sx^a- 
gnuole  e  africane  e  a  popolarle  di  nuove  colonie,  e,  francatasi  da 
ogni  soggezione  ai  barbari  Libi,  li  aveva  soggiogati  e  resi  tributari 
nelFodierna  Tunisia  e  s'era  acquistata  l'alleanza  delle  tribù  della 
Numidia.  Ora  Cartagine  doveva  deliberare  se  le  conveniva  abban- 
donare alla  loro  sorte  gli  Elimi  o  intervenire  in  Sicilia  e  cercar 
la  rivincita  d'Imera.  L'effetto  dell'abbandono  sarebbe  stato  la  piena 
vittoria  dell'ellenismo  e  in  particolare  dell'  ellenismo  dorico  nel- 
l'isola; poiché  la  sottomissione  di  Nasso  e  di  Catania  ove  si  soste- 
nevano a  mala  pena  i  Calcidesi,  appoggiati  dai  superstiti  della 
grande  spedizione  ateniese  (2),  non  poteva  tardare  :  onde  nasceva 
il  pericolo  che  alla  prima  occasione,  facendo  centro  in  Siracusa,  si 
costituisse  un  impero  ellenico  nell'Occidente.  Il  non  intervenire 
adunque  non  solo  avrebbe  imp)ortato  l'abbandono  delle  colonie 
fenicie  di  Sicilia,  ma  presumibilmente  avrebbe  soltanto  ritardato 
il  conflitto  tra  Fenici  e  Greci  e  tolto  ai  Fenici  d'iniziarlo  in  circo- 
stanze favorevoli  come  si  poteva  allora;  poiché  un  impero  greco 
d'Occidente  era  inevitabile  che  tendesse  al  dominio  esclusivo  del 
Mediterraneo  occidentale.  L'essere  intervenuti  a  tempo  permise 
allora  e  poi  ai  Cartaginesi  di  condurre  offensivamente  con 
grande  loro  vantaggio  quella  guerra  che  pur  mirava  alla  sem- 
pUce  difesa  dei  loro  interessi,  lottando  coi  Greci  in  Sicilia,  e,  dal- 
l'audace tentativo  d'Agatocle  in  fuori,  serbando  immuni  dai  danni 
e  dai  pericoli  d'invasioni  elleniche  i  loro  territori.  Certo  la  guerra 
allora  iniziata  per  la  difesa  delle  colonie  fenicie  in  Sicilia  condusse 
alla  sanguinosa  lotta  per  l'esistenza  con  Roma  che  trovò  il  suo 
epilogo  nella  distrazione  di  Cartagine;  e  può  dirsi  che  si  tratti 
d'una  sola  guerra  tra  Arii  e  Semiti  in  cui  ai  Greci  stremati  si 
sostituirono  poi  gl'Italici,  durata  con  tregue  più  o  meno  lunghe 
due  secoli  e  mezzo.  Ma  che  l'indebolimento  dell'ellenismo  in  Oc- 
cidente avrebbe  giovato  agli  Italici  più  che  ai  Fenici  era  allora 
fuori  d'ogni  umana  previsione;  né  del  resto  da  una  politica  di 
rinuncia  avrebbe  tratto  Cartagine   altro  vantaggio  che  quello  di 


(1)  Fonte  quasi  unica  per  la  guerra  del  409-4  è  Diod.  XIII  43-44.  54-63,  75. 
80-96.  108-114,  che  trascrive  da  Timeo. 

(2)  [Lys.]  jìì-o  Polijstr.  24  segg.  Diod.  XIII  56,  2. 


186         CAPO   XAT  -•  GLI   ITALICI   IN    LOTTA    COI    CELTI    E    COI    GRECI 

dover  cedere  poi,  e  senza  gloria  ne  dignità,  agli  Arii  in  Spagna 
ed  in  Africa  dopo  aver  ceduto  in  Sicilia.  E  la  storia,  la  quale  non 
dal  solo  evento  giudica  delle  azioni  degli  uomini  e  dei  popoli, 
deve  tributar  lode  a  Cartagine  per  non  aver  seguito  quella  poli- 
tica di  pusillanimità  camuffata  da  prudenza  clie  fini  col  trascinare 
a  una  vilissima  caduta  un'altra  regina  dei  mari. 

Le  due  grandi  spedizioni  cartaginesi  del  409  e  del  406  recarono 
all'ellenismo  siculo  danni  immensi.  Selinunte,  Agrigento,  clie  Pin- 
daro aveva  chiamato  la  più  bella  delle  città  mortali  (1),  Grela  e  Ca- 
marina  sulla  costa  meridionale,  Imera  sulla  settentrionale  fui'ono 
prese  e  distrutte;  e  si  rialzarono  si  col  tempo  dalle  loro  rovine,  tolta 
Imera,  che  fu  sostituita  dalla  nuova  città  di  Terme  (Termini)  (2),  ma 
senza  assurgere  mai  più  all'antico  splendore.  Sul  particolarismo  e 
sulla  democrazia  cadeva  i^rinci  pai  mente  la  responsabilità  di  tante 
stragi  e  rovine;  e  nessuno  poteva  dimenticare  che  la  monarchia 
militare  aveva  saputo  ben  altrimenti  difendere  l'ellenismo  nella 
giornata  d'Imera.  Perciò  dopo  la  caduta  d'Agrigento  il  tentativo 
d'assumere  la  th^annide  che  fece  un  giovine  ufficiale  siracusano  di 
nome  Dionisio  (405)  trovo  il  patrocinio  di  molti  dei  maggiorenti 
siracusani  e  il  favore  della  pubblica  opinione.  La  sventm-a  di  Dio- 
nisio e  della  Sicilia  volle  che  il  primo  fatto  d'arme  del  nuovo 
signore  terminasse  con  un'altra  rotta  e  con  l'abbandono  di  Gela 
ai  Cartaginesi  (3).  Seppe  ben  poi  riparare  quella  rotta  Dionisio  ;  e 
del  resto  forse  i3Ìù  di  lui  poteva  accagionarsene  la  democrazia, 
poiché  non  s'improvvisano  né  disciplina  né  armi.  Ma  quella  scon- 
fitta fece  riprendere  animo  agli  avversari  della  tu^annide  e  perder 
fede  in  lui  a  molti  che  erano  disposti  a  rinunciare  alla  libertà  re- 
pubblicana pur  di  salvarsi  dalFox^pressione  straniera  ;  e  con  la  vio- 
lenza egli  dovette  conservare  ilsuo  potere  prima  che  gli  fosse  dato 
di  dimostrarne  la  legittimità  vincendo  i  Cartaginesi  e  liberando  la 
Sicilia  greca  dall'oppressione  semitica.  La  violenza  inasprì  del  pari 
il  tiranno  e  i  suoi  avversari,  e  togliendo  tra  lui  e  i  sudditi  ogni 
legame  d'affetto  impedi  il  formarsi  d'un  sentimento  monarcliico.  E 
con  orrore  in  Sicilia  e  fuori  i  contemporanei  guardavano  quest'uomo 
macchiato  di  sangue  cittadino,  questo  potente  cui  i  suoi  sgherri  e 
le  sue  proscrizioni  non  davano  un'ora  di  sicurezza  dai  nemici  in- 


(1)  Pijth.  XIT  2  :  kaXXi'oTa  Ppoxeàv  tioXìiuv. 

(2)  DioD.  XIII  79,  8  (407/6). 

(3)  Dell'importanza   che    questo  fatto  ebbe  nella  storia  di  Dionisio  giudica 
rettamente  E.  Meyer  Geschkhte  des  Alterthums  V  p.  87  seg. 


I    PRIMOEDÌ   DI   DIONISIO   IL   VECCHIO  187 

terni.  Ma  intanto  il  tiranno  preparava  la  riscossa  contro  i  Carta- 
ginesi cui  nella  pace  del  405  aveva  dovuto  abbandonare  tutta  la  Si- 
cilia greca  salvo  la  sponda  orientale  dell'isola.  E  cominciò  col  ridurre 
ad  unità  la  Sicilia  orientale  e  sopraffare  l'elemento  calcidese  di- 
struggendo r antichissima  ISTasso  (1),  che,  non  risorta  più  dalle  sue 
rovine,  fu  sostituita  poi  in  posizione  più  forte  da  Tam^omenio  (Taor- 
mina), e  impadronendosi  di  Leontini,  gicà  rilevatasi  dopo  la  sua 
distruzione,  e  di  Catania,  che  furono  poi  ricostituite  da  lui  stesso 
come  colonie  militari  (2).  Poi  nel  397,  chiamati  alla  riscossa  i  Grreci, 
ruppe  guerra  a  Cartagine  (3).  Segui  una  lotta  sanguinosissima  e 
combattuta  con  varia  fortuna  in  cui  per  un  momento  parve  Dio- 
nisio sul  punto  di  cacciare  i  Semiti  dall'isola,  per  un  momento  i 
Cartaginesi,  distrutta  Messana,  e,  vinto  con  terribile  strage  dei  Grreci 
il  naviglio  siracusano  nelle  acque  di  Catania  e  posto  l'assedio  a 
Siracusa,  parvero  vicini  a  ridiuTe  tutta  la  Sicilia  a  loro  provincia. 
Ma  l'assedio  di  Siracusa  terminò  pei  Cartaginesi  con  un  disastro 
pari  a  quello  della  grande  spedizione  ateniese,  e  il  vanto  d'averlo 
preparato  come  allora  spettò  ad  Ermocrate  e  allo  spartano  Grilippo, 
cosi  ora  a  Dionisio  e  al  navarco  Faracida  che  Sparta  aveva  inviato 
al  suo  soccorso  (4).  Cartagine  però  non  aveva  nemici  così  nume- 
rosi come  Atene,  né  il  disastro  la  costrinse  ad  abbandonare  sen- 
z'altro l'impresa  e  l'isola.  Onde  nel  392  tra  Dionisio  e  il  generale 
cartaginese  Magone  che  comandava  una  nuova  spedizione  in  Sicilia 
si  venne  a  una  pace  per  cui  Cartagine  abbandonava  le  città  greche 
conquistate  e  i  loro  territori,  mentre  i  Grreci  riconoscevano  come 
pro\^ncia  (èTTiRpàieia)  cartaginese  i  territori  delle  città  fenicie  ed 
elime  dell'estremo  occidente  di  Sicilia  (5):  tra  le  quali  alla  distrutta 


(1)  DioD.  XIV  15  (a.  403/2). 

(2)  DioD.  ].  e,  cfr.  78,  3. 

(3)  Fonte  principale  per  la  seconda  guerra  cartaginese  di  Dionisio  è  Diod. 
XIV  45-78.  86-88.  90.  95-96,  pur  troppo  manchevolissimo  per  gli  anni  seguenti 
alla  liberazione  di  Siracusa. 

(4)  È  a  ragione  ammessa  l'identità  del  navarco  spartano  Faracida  (Diod. 
XIV  63,  4.  70,  1)  col  navarco  Farace  che  comandava  nel  397  in  Asia  (Xen. 
Hell.  Ili  2,  12.  Diod.  XIV  79).  Ciò  conferma  che  l'assedio  di  Siracusa  spetta 
al  396  :  poiché  non  c'è  motivo  per  ritenere  che  Faracida  a  Siracusa  non  fosse 
navarco  nel  senso  stretto  della  parola. 

(5)  Diod.  XIV  96  dimentica  la  condizione  più  importante  :  la  rinuncia  di 
Cartagine  ai  territori  delle  città  greche.  Ciò  si  trae  all'evidenza  dal  succes- 
sivo trattato  con  Cartagine,  v.  Beloch  Gr.  G.  II  p.  169  n. 


188         CAPO   XVI  -  GLI    ITALICI    IN    LOTTA    COI    CELTI   E    COI   GRECI 

Mozia  era  stata  sostituita  Lilibeo,  la  odierna  Marsala,  clie  fu  poi 
il  più  poderoso  baluardo  del  dominio  cartaginese  nell'isola. 

Questa  pace  che  rese  Dionisio  padi'one  di  cinque  sesti  deirisola 
fece  del  suo  regno  uno  degli  Stati  più  potenti  del  bacino  del  Me- 
diterraneo. Le  catene  d'adamante  (1)  con  cui  egli  si  vantava  di 
avervi  assicui'ata  la  monarcliia  (2)  non  erano  soltanto  le  mm-a  for- 
tificate, gli  arnesi  di  guerra,  il  naviglio  e  l'esercito  permanente 
costituito  di  mercenari  d'ogni  nazione,  ma  soprattutto  le  colonie 
militari  che  fondò  nelle  antiche  città  greche  di  Messana,  Catania 
e  Leontini  (3),  a  Tauromenio  dove  i  Siculi  avevano  costruito  sotto 
la  protezione  di  Cartagine  una  città  ch'egli  conquistò  (4),  ad  Adrano 
(Adernò)  in  territorio  Siculo  (5)  e  a  Tindaride  ad  occidente  di 
Messana  (6). 

Ed  ora  Dionisio  cercò  d'unire  con  la  Sicilia  anche,  in  parte 
almeno,  l'Italia  greca.  Nella  Terra  di  Lavoro,  che  al  principio  del 
sec.  V  era  campo  di  battaglia  tra  Grreci  ed  Etruschi,  sulla  metà 
del  secolo  cominciarono  a  scendere  al  piano  dai  monti  del  Sannio 
quelle  tribù  sabelliche  a  cui  Etruschi  e  Greci  dovevano  parimente 
soggiacere.  L'etrusca  Capua  e  la  greca  Cuma  furono  conquistate 
dagli  invasori  (7);  con  Cuma  o  poco  dopo  cadde  nelle  loro  mani 
Dicearchia  a  cui  diedero  quel  nome  italico  che  fu  reso  dai  Latini 
con  Puteoli  (8).  Ai  Greci  non  rimase  che  NaiDoli  con  Capri  e  con 
Ischia,  che,  colonizzata  dai  Sii'acusani  e  poi  lasciata  in  conseguenza 


(1)  DioD.  XXII  10,  4,  cfr.  XIII  54,  4.  Già  prima  della  pace  egli  aveva  as- 
sunto il  titolo  di  fipxujv  IiKeXiaq:   CIA.  II  8.  51.  52. 

(2)  Pi.uT.  Dio  7. 

(3)  Sopra  p.  187  n.  2.  Per  Messana  v.  Diod.  XIV  78,  5. 

(4)  Diod.  XIV  59,  2.  96,  4. 

(5)  Diod.  XIV  37,  5. 

(6)  Diod.  XIV  78,  5-6.  Cfr.  Beloch  L'impero  siciliano  di  Dionisio  '  Atti  del- 
l'Acc.  dei  Lincei  '  ci.  di  se.  mor.,  ser.  Ili  voi.  VII  (1881Ì  p.  211  segg. 

(7)  Secondo  Diod.  XII  31.  76  nel  438/7  (o  datando  coi  fasti  consolari  nel  445) 
Tò  levoq  tOùv  KaiiTTttvuJv  auvéairi  e  nel  421/0  (428)  conquistò  Cuma;  secondo 
Liv.  IV  37.  44  Capua  cadde  nel  423  e  Cuma  nel  421. 

(8)  Di  preciso  sulla  caduta  di  Dicearchia  nulla  possiamo  dire.  Le  monete 
con  la  leggenda  osca  ^V>|T^I8  o  la  greca  OIITEAIA,  per  quanto  da  alcuni 
ultimo  il  NistìEN  Ital.  Landeskunde  II  738,  attribuite  erroneamente  a  Puteoli, 
nulla  hanno  a  fare  con  questa  città,  v.  Sambon  Les  monnaies  antiques  de  l'Italie 
I  p.  327  segg. 


DIONISIO   IN   ITALIA.    I   LUCANI  189 

di  terremoti,  era  stata  occupata  dai  Napoletani  (1).  Non  solo  in  tutto 
il  l'esto  della  Campania  con  le  sponde  del  golfo  di  Salerno  i  mi- 
gratori sabelb'ci  stabilirono  il  loro  dominio;  ma  anche  a  sud  del 
Silaro  si  ordinarono  nella  seconda  metà  del  V  secolo  col  nome  di 
Lucani  in  una  confederazione  che  assorbì  i  preesistenti  elementi 
italici  e  li  guidò  alla  riscossa  contro  l'ellenismo  (2).  Posidonia, 
PiKmite,  Scidi'o  e  Lao  fm-ono  occupate  circa  il  400  dai  Lucani;  per 
modo  che  sulla  sponda  tiiTcna  oltre  il  Lao  soltanto  Elea  conservò 
con  Napoli  la  sua  nazionalità  ellenica.  "  Ai  Posidoniati  accadde 
(narra  uno  scrittore  tarentino  dell'età  d'Alessandro)  clie,  Greci  di 
origine,  s'imbarbarirono e  mutarono  la  favella  e  le  altre  istitu- 
zioni, ma  celebrano  tuttavia  una  delle  antiche  solennità  elleniche, 
in  cui  si  rammentano  deirantico  parlare  e  degli  antichi  costumi 
e  si  separano  dopo  fatto  lamenti  e  sparso  lacrime  (x3er  averli  per- 
duti)„  (3). 

Sul  principio  del  sec.  IV  i  Lucani  costituirono  forse  lo  Stato 
italico  più  potente  e  più  comi^atto  ;  e  i  Greci  d'Italia  per  provve- 
dere alla  propria  sicurezza  contro  di  essi  e  contro  la  potenza  for- 
midabile della  monarchia  militare  in  Sicilia  avvertirono  la  necessità 
di  unirsi  in  lega  nazionale.  Tutti  gli  Italioti,  tolti  i  Locresi,  si 
collegarono  per  la  difesa  comune  (4);  e,  data  la  vitalità  che  pos- 
sedeva tuttora  in  Italia  l'ellenismo,  era  da  sperare  che  questa 
lega  non  solo  avrebbe  rintuzzato  i  Lucani,  ma  forse  sarebbe  riu- 
scita a  ridare  all'ellenismo  una  posizione  dominante  sulla  sponda 
tirrena.  Senonchè  i  Lucani  trovarono  un  alleato  nel  signore  di  Si- 
racusa, Dionisio,  il  quale  ambiva  la  supremazia  dell'Italia  greca. 
Cosi  gl'Italioti,  assaliti  da  un  lato  dai  Lucani  e  dall'altro  da  Dio- 
nisio, ebbero  la  peggio.  Un  corpo  di  quindicimila  Italioti  che  si 
era  avanzato  nel  390  contro  Lao  fu  circondato   e  per  due  terzi 


(1)  Strab.  V  p.  248. 

(2)  Compaiono    per    la    prima  volta    in    lotta  con  Turi,  Polyaen.  strateg  IT. 
10,  2.  4. 

(3)  Aristox.  fr.  90  (cfr.  Strab.  VI  252).  —  Lao  lucana  nel  390  :  Diod.  XIV 
101.   —   Per  Elea  v.  Strab.  1.  e.  :  irpòt;  A€UKavoù(;  àvtéaxov. 

(4)  Diou.  XIV  91  (a.  393):  oi  bè  ti')v  'IroXiav  KaToiKoOvtee;  "EXXrjvec;  ou|n- 

\xa.\\.av  òè  irpòt;  dWriXou^  è-rroiriffavTo  koì  auvéòpiov  èYKaxeoKeùaZiov  •  fjXmJIov  YÒp 
TÒv  Aiovùaiov  ^<?òiuj(;  à|uuveìa6ai  xai  toì<;  TiapoiKoOoi  AeuKavuùv  àvriTÓHeaGai. 
Gl'inizi  primi  della  lega  son  probabilmente  più  antichi  di  qualche  decennio 
(PoLYB.  II  39,  6j.  Sembra  infondata  l'opinione  di  K.  Meyer  Geschichte  lìes  Al- 
terthums  V  p.  128  che  intorno  al  390  non  vi  appartenesse  ancora  Taranto. 


190        CAPO   XVI  -  GLI   ITALICI   IN   LOTTA   COI   CELTI   E    COI   CiKECI 

annientato  dai  Lucani  (1);  e  poco  dopo,  nel  389,  un  esercito  di 
più  elle  venticinquemila  Italioti  fu  rotto  da  Dionisio  sul  fiume 
EUeporo  presso  Caulonia  (2).  La  battaglia  di  LaO,  la  prima  grande 
vittoria  campale  degli  Italici  sugli  EUeni  di  cui  abbiamo  notizia  (3), 
e  la  battaglia  dell'EUeporo,  la  maggiore  clie  si  fosse  fino  allora 
combattuta  in  Italia,  segnano  un'epoca  imiDortantissima  nella  storia 
deir ellenismo  nella  penisola.  Grl'  Italioti  non  valsero  più  a  rifarsi 
di  forze,  e  la  loro  lega,  che  le  ulteriori  vicende  delle  guerre  con 
Dionisio  ridussero  a  Turi,  Eraclea,  Metapontio  e  Taranto,  non  fu 
più  in  grado  di  tentar  di  per  se  sola  una  lotta  offensiva  contro 
grindigeni  (4).  Ma  la  tutela  degli  interessi  ellenici  in  Italia  fu  pel 
momento  assunta  vigorosamente  da  Dionisio.  Il  signore  di  Siracusa 
non  aveva  stretto  alleanza  coi  Lucani  e  scompaginato  la  lega  ita- 
liota allo  scopo  di  giovare  agi'  indigeni,  ne  per  questo  distrusse 
Regio,  die  gritalioti  avevano  dovuto  abbandonargli,  e  fiaccò  la 
potenza  di  Crotone  ;  ma  soltanto  per  aprirsi  la  via  al  dominio  del- 
l'Italia greca.  Così  mentre  egli  fortificava  l'istmo  di  Catanzaro  per 
difendere  la  sua  alleata  Locri  e  il  territorio  da  lui  conquistato  di 
Regio  dalle  incursioni  dei  Lucani  (5),  profittava  dell'indebolimento 
degli  Etruschi  dopo  l'invasione  gallica  per  devastare  Pirgi,  il  x^orto 
di  Cere  (6),  occupare  novamente  l'Elba  (7)  e  fondare  in  Corsica, 
regione  fino  allora  sottoposta  all'influenza  etrusca,  un  "  Porto  sira- 
cusano „  (8).  Al  tempo  stesso  edificava  suU'Adiiatico  la  colonia  di 
Ancona  (9),  s'impadroniva  di  Adria  alla  foce  del  Po  (10),  e  tentava 
perfino  un   principio   di   colonizzazione  delle  isole  e   delle  coste 


(1)  DioD.  XIV  101-102. 

(2)  DioD.  XIV  104-105.  PoLYB.  I  6,  2.  Polyaen.  V  3,  2. 

(3)  Degl'indigeni  d'Italia  in  generale  la  prima  grande  vittoria  è  quella  degli 
Iapigi  sui  Tarentini  e  i  Regini  (473).  V.  sopra  p.  178. 

(4)  Cfr.  PoLYB.  II  39,  secondo  cui  i  propositi  degli  Italioti  di  darsi  un  buon 
ordinamento  federale  furono  impediti  vuò  Tr\(^  Aiovuaiou  ZupaKoaiou  òuvaOTeiac;, 
^Ti  òè  xì)c,  Tiliv  irepioiKoùvTUJv  Pappdpuuv  èrrinpaTeiaq. 

(5)  Plin.  n.  h.  Ili  95.  Strab.  VI  261. 

(6)  DioD.  XV  14.  Ael.  V.  h.  I  20.  Strab.  V  220. 

(7)  V.  sopra  p.  179.  La  nuova  occupazione  si  desume  da  Auistot.  polii. 
1  1259  a,  cfr.  Pais  '  Studi  Storici  '  li  347  segg. 

(8)  ZupaKÓaio*;  Xi|uriv,  Diod.  V  13,  3. 

(9)  Strab.  V  241.  Plin.  n.  h.  Ili  111. 

(10)  Plin.  n.  h.  Ili  120.  Plut.  Dio  11.  Etym.  M.  n.  v.  'Aòpióq. 


DIONISIO   IN   ITALIA.   I   LUCANI  191 

illiriche  (1).  Cosi  dopo  un  lungo  arresto  pareva  ricominciata  l'espan- 
sione greca  in  Italia  e  nelle  isole  vicine.  E  mentre  i  Celti  incen- 
diavano Roma,  e  Dionisio,  die  era  con  essi  in  relazione  di  ami- 
cizia (2)  e  che  anche  tra  i  Celti  reclutava  i  suoi  mercenari,  deva- 
stava il  porto  della  vicina  ed  amica  Cere,  si  poteva  pensare  che  i 
giorni  delle  iDopolazioni  italiche  fossero  contati  e  che  sarebbero 
soggiaciute  ai  barbari  del  settentrione  o  ai  coloni  greci  del  mez- 
zogiorno. 


(1)  DioD.  XV  13.  14.  Cfr.  gli  scritti  cit.  sopra  I  p.  326  n.  3.  Un  importante 
documento  epigrafico  della  operosità  coloniale  dei  Greci  nell'Adriatico  in  questa 
età  è  presso  Dittenberger  Sijlloge  II  ^  933. 

(2)  Secondo  Iustin.  XX  5,  4  avrebbe  stretto  alleanza  coi  Galli  dopo  l'assedio 
di  Roma. 


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CAPO  xvn. 


L'ordinamento  centuriato. 


La  città  era  devastata;  vacillanti  le  istituzioni;  scompaginata 
la  federazione  coi  Latini  e  con  gli  Ernici  ;  non  esercito,  non  opere 
di  difesa;  formidabile  il  pericolo  di  nuove  invasioni  barbariche.  Ma 
ai  Romani  non  mancò  animo  né  consiglio  per  provvedere  al  ri- 
medio. E  si  cominciò  con  un  pieno  rinnovamento  degli  ordini 
interni.  Nella  seconda  metà  del  sec.  V  l'antica  leva  annua  che 
prendeva  il  nome  di  legione  e  si  componeva  dei  tre  reggimenti- 
di  mille  uomini  di  fanteria  i3esante  comandati  dai  tre  tribuni  dei 
militi  non  era  più  prox)orzionata  né  alle  esigenze  sempre  maggiori 
della  lotta  disperata  che  i  Romani  sostenevano  contro  i  vicini,  né 
all'incremento  della  popolazione.  Fino  allora  al  servizio  militare 
di  prima  linea  era  stata  chiamata  solo  la  categoria  dei  x^ossidenti 
più  ricchi  che  si  potevano  armare  di  tutto  punto  a  proprie  spese, 
quella  che  corrispondeva  alla  prima  classe  dell'ordinamento  centu- 
riato. Cosi  si  spiega  come  questa  fosse  detta  per  eccellenza  "  classe  „ 
(leva)  (1)  e   "'  classici  „  quelli  che  ne  facevano  parte,  "  al  disotto 


(1)  Da  calare  =  Ka\etv  secondo  Dionys.  IV  18  e  Quintil.  inst.  1  6,  33,  i  quali 
debbono  essersi  accostati  assai  al  vero,  per  quanto  forse  convenga  piuttosto  sup- 
porre col  CoussEN  una  radice  clat  (*clat-é-re  =  KXr|Teùuj),  cfr.  Curtius  Grundziige  '" 
139.  Non  par  da  seguire  il  Mommsen  Staatsrecht  III  262  seg.  ne  nel  suo  scetti- 
cismo sulla  etimologia  ne  nella  sua  interpretazione  del  vocabolo. 


ACCRESCIMENTO   DELL'eSERCITO  193 

della  classe  „  {infra  classem)  quelli  clie  erano  iscritti  nelle  classi 
inferiori  (1).  Ma  più  tardi  cliiamandosi  a  grado  a  grado  al  servizio 
militare  di  prima  linea  anche  altre  categorie  di  cittadini  meno 
provvisti  dalla  fortmia ,  si  cominciò  a  far  leva  annualmente  di 
quattro  e  poi  di  seimila  fanti  d'armatura  pesante.  Ciò  si  desume 
dai  fasti  consolari,  i  quali  mostrano  come  i  tribuni  militari  che 
prima  erano  tre,  uno  per  ciascuno  dei  tre  corpi  di  mille  uomini 
arrolati  ogni  anno,  fm-ono  d'ordinario  quattro  dal  426  in  poi  e  si 
elessero  sovente  in  nmnero  di  sei  a  partire  dal  405  (2).  Anche  te- 
nuto conto  però  dell'estendersi  graduale  dell'obbligo  del  servizio 
militare,  quando  il  territorio  romano  a.bbracciava  solo  un  900  km' 
(I  p.  384)  e  la  popolazione  cittadina  non  poteva  superare  i  50  mila 
uomini,  tra  cui  un  15  mila  maschi  adulti,  il  mettere  in  piede  di 
guerra  annuahiiente  tremila  fanti  gravemente  armati  era  già  chie- 
dere al  popolo  romano  un  non  piccolo  sacrifizio;  un  esercito  di 
seimila  uomini  di  fanteria  pesante  non  si  potè  arrolare  costante- 
mente anno  per  anno  se  non  quando  il  territorio  dello  Stato  si  fu 
accresciuto  a  sijese  degli  Equi  e  degli  Etruschi.  Cosi  la  statistica 
conferma  quel  che  si  ritrae  dai  fasti,  che  la  normale  leva  annua 
di  seimila  uomini  non  può  essere  anteriore  al  princix^io  del  IV  secolo. 

Raddoppiato  il  contingente  che  si  metteva  ciascun  anno  in 
assetto  di  guerra,  si  divisò  d'ordinarlo  in  due  unità  rispondenti  cia- 
scuna alla  legione  che  prima  aveva  costituito  l'esercito  romano: 
ciò  era  suggerito  tanto  dalla  lunga  tradizione  che  faceva  consi- 
derar quella  come  la  normale  unità  delle  forze  militari  e  dalla  ne- 
cessità di  dividere  -i  combattenti  per  fronteggiare  i  vari  nemici 
contro  cui  Roma  aveva  a  difendersi,  quanto  dall'  opportunità  di 
dare  a  ciascuno  dei  due  magistrati  che  annualmente  erano  o 
avrebbero  dovuto  essere  a  capo  dello  Stato  un  j)iccolo  corpo  d'eser- 
cito che  stesse  a'  suoi  ordini. 

La  legione  era  costituita  più  tardi  di  tremila  uomini  di  fanteria 
pesante  e  milleduecento  di  fanteria  leggera  (3);  ed  abbiamo  ragione 


(1)  Gell.  n.  A.  VI  13.  Fbst.  ep.  p.  113:  infra  classem  signi/ìcantur  qui  minore 
siimma  quam  centiim  et  viginti  milium  aeris  censi  sunt. 

(2)  Queste  induzioni  dal  numero  dei  tribuni  militari  son  fondate  su  ciò  che 
s'è  detto  sopra  sulla  natura  e  la  origine  del  tribunato  militare  con  potestà 
consolare  (sopra  p.  57). 

(3)  PoLYB.  VI  20  (a  proposito  degli  ordinamenti  militari  romani).  Il  24,  18 
(pel  225).  Liv.  VII  25,  8  (pel  349).  11  numero  delle  truppe  leggere  si  desume  da 
PoLYB.  VI  21.  In  cifra  tonda  la  forza  effettiva  della  legione  si  computa  spesso 
a  4000  uomini:  così  già  pel  494  presso  Dionys.  VI  42. 

Gr.  De  Sasctis,  Storia  dei  Romani,  II.  18 


194  CAPO  XVII  -  l'ordinamento  centuriato 

di  credere  che  questa  fosse  la  sua  forza  effettiva  fin  da  quando 
intorno  al  400  si  trasformò  Tordinamento  militare  romano.  Due 
legioni  comprendono  ijertanto  sessanta  centinaia  di  fanti  di  grave 
armatura  e  ventiquattro  d'armatura  leggera.  Or  gli  anticlii  ci 
parlano  d'un  ordinamento  romano  in  cui  erano  sessanta  le  centurie 
dei  giovani  destinati  a  servirle  nella  fanteria  di  linea  e  venticinque 
quelle  dei  giovani  destinati  alle  truppe  leggere  ;  e  non  v'ha  dubbio 
che  esso  fu  adottato  quando  la  milizia  levata  annualmente  si  ordinò 
in  due  legioni  (1).  E  come  ciò  non  potò  farsi  in  nessun  modo  innanzi 
al  405,  quando  i  tribuni  militari  furono  portati  per  la  X3rima  volta 
a  sei,  è  chiaro  che  una  riforma  si  grave  di  conseguenze  militari 
e  politiche  deve  essersi  introdotta  dopo  che  il  disastro  gallico  ebbe 
dimostrata  la  insufficienza  degli  ordinamenti  antichi.  Nò  deve  im- 
pedirci di  cosi  ritenere  la  tradizione  che  riferisce  le  origini  della 
riforma  a  Servio  Tullio  ;  X30ichè  già  vedemmo  che  a  lui  sono  state 
attribuite  in  generale,  senza  tener  conto  della  cronologia,  le  istitu- 
zioni più  importanti  della  Roma  repubblicana.  Si  ijonga  mente 
inoltre  che  1'  essersi  distribuito  il  popolo  in  193  centurie,  alcmie 
molto  numerose,  sebbene  forse  non  quanto  pretende  la  tradizione, 
tutte,  eccetto  le  centurie  dei  cavalieri,  ben  più  numerose  del  con- 
tingente che  dovevano  fornire  all'esercito,  suppone  una  popolazione 
cittadina  adulta  di  almeno  trentamila  uomini,  ossia  doppia  di  quella 
del  principio  del  sec.  V  (2). 


(1)  Che  l'ordinamento  serviano  fosse  essenzialmente  ordinamento  militare  fu 
riconosciuto  dallo  Schweglek  R.  G.  I  740,  dal  Mommsen  R.  G.  I  ^  92  ed  in  modo 
anche  pi\i  esplicito  da  H.  Genz  Die  servianische  Centurienverfassung  (Sorau 
1874,  progr.)  e  dal  Soltau  Altrom.  Volksrersammlungen  p.  229  segg.  La  tradi- 
zione suppone  però  che  ab  origine  avesse  insieme  carattere  militare  e  politico. 
—  Si  è  speso  molto  acume  per  cercare  di  spiegare  come  i  fanti  leggeri  fossero 
2400  mentre  le  centurie  corrispondenti  eran  25,  v.  Mommsen  Tribiis  p.  153  seg. 
Lanoe  Rom.  Altertkumer  1  ^  527.  Delbrueck  Geschichte  der  Kriegskunst  I  231. 
La  ragione  è  forse  questa,  che  per  facilitare  i  computi  il  numero  delle  centurie 
di  ciascuna  classe  doveva  essere  in  rapporto  semplice  con  quello  delle  altre; 
e  perciò  conveniva  che  le  centurie  iuniorum  delle  due  ultime  classi  fossero 
25  e  non  24;  il  numero  dei  fanti  della  legione  doveva  essere  per  la  stessa 
ragione  divisibile  per  cento  ;  onde  di  milizie  leggere  non  potevano  esservi 
12  ^/j  centinaia,  ma  solo  12.  Praticamente  è  probabile  che  ogni  anno  una 
centuria  delle  due  ultime  classi  rimanesse  per  turno  esente  dal  servizio 
militare. 

(2)  Il  Delbrueck  Gesch.der  Kriegskunst  I  p.  219  segg.  ha  jjer  primo  usato  della 
statistica  per  discutere  i  dati  tradizionali   sull'ordinamento  centuriato  ;    ed    è 


MANLIO  195 

Di  riforme  faceva  del  resto  assai  d'uopo  dopo  l'incendio  gal- 
lico; elle  il  malcontento  e  la  sfiducia  negli  ordini  vigenti  si  ma- 
nifestarono chiaramente  nel  tentativo  di  M.  Manlio  Capitolino  per 
assumere  la  tirannide  (1).  Intorno  a  questo  attentato  alla  costitu- 
zione repubblicana  sappiamo  soltanto  quel  che  ci  è  tramandato 
dalla  migliore  delle  nostre  fonti  :  che  cioè  nel  385  M.  Manlio,  avendo 
cercato  dimpadronn-si  del  potere,  fu  soiDraffatto  ed  ucciso  (2).  Con 
tale  notizia,  che  allude  evidentemente  ad  una  sollevazione  di  cui 
Manlio  fu  a  capo,  s'accorda  sia  Livio  quando  designa  il  fatto  col 
nome  di  sedizione  manliana  (3),  sia  il  racconto  che  abbiamo  presso 
un  altro  scrittore  secondo  cui  Manlio,  dox)0  aver  occupato  il  Cam- 
pidoglio, fu  assalito  e  vinto  da  Camillo  (4).  L'ultimo  particolare  è 
peraltro  sospetto,  perchè  par  collegarsi,  come  l'altra  notizia  pur 
sospetta  della  parte  che  Manlio  ebbe  alla  salvezza  di  Roma  dai 
Gralli,  col  suo  cognome  di  Capitolino  (p.  174);  e  di  dubbio  valore 
è  il  contrappósto  che  vi  riappare  dei  due  salvatori  della  città, 
Manlio  e  Camillo  (5).  Ma  ad  ogni  modo  assai  meno  antica  ed  at- 
tendibile i^ar  l'altra  versione  della  fine  di  Manlio,  secondo  cui  egli 
fu  processato  per  delitto  di  perduellione  innanzi  all'  assemblea 
(delle  centurie)  nel  campo  di  Marte,  e  sarebbe  stato  assolto  dal 
popolo,  che  la  vista  del  Campidoglio  faceva  memore  dei  servigi 
da  lui  resi  alla  patria,  se  Camillo  non  fosse  riuscito  ad  ottenerne 
la  condanna  a  morte  trasportando  l'assemblea  nel  bosco  Petelino, 
onde  il  Campidoglio  non  si  scorgeva  (6).   Tutto  ciò  poi  che  vien 


rimasto  persuaso  di  doverne  abbassare  la  data  al  500  circa.  Ma  da  15  mila 
maschi  adulti  (più  allora  in  Roma  non  potevano  esserne)  van  detratti  un  mi- 
gliaio almeno  per  le  centurie  degl'inermi,  1800  pei  cavalieri,  un  migliaio  per 
i  seniores  o  per  gl'invalidi  che  avevano  servito  a  cavallo  :  non  rimangono  che 
11.000  per  la  fanteria;  dei  quali  i  giovani  e  validi  non  potevano  essere  già 
85  centinaia,  bensì  al  più  un  7000.  Ma  ammesso  pure  che  fossero  8500,  due  le- 
gioni non  si  potevano  armare  annualmente  senza  che  si  facesse  sempre  una 
leva  in  massa  di  tutta  la  gioventù  valida;  e  questo  invece  non  poteva  farsi, 
com'è  chiaro,  che  in  via  affatto  eccezionale. 

(1)  MoMMSEN  Rom.  Forschungen  II  179  segg. 

(2)  DioD.  XV  35,  .3:  MdpKO(;  MdvXiot;  èTTiPaXóiaevo;  Tupctwiòi  koì  KpaxriGeic; 
àvr)pé0r|. 

(3)  VI  11,  1.  18,  1,  cfr.  19,  1. 

(4)  Cass.  Dio  fr.  25,  2,  cfr.  Zonae.  VII  24. 

(5)  Esso  già  appare  in  Claud.  Quadrio,  fr.  7  Peter  ap.  Gbll.  n.  A.  XVll  2,  14. 

(6)  Cic.  de  domo  38,  101.  Varrò  e  Corn.  Nep.  ap.  A.  Gell.  n.  A.  XVII  21,  24. 
Liv.  VI  11-20.  DioNYS.  XIV  4.  Plut.  C'amili.  36.  Val.  Max.  VI  8,  1.  Auct.  de 
vir.   ili.  24. 


196  CAPO  xvii  -  l"ordinamento  centuriato 

narrato  innanzi  alla  condanna  sul  malessere  del  popolo  oppresso 
dai  debiti  e  sui  modi  che  Manlio  teneva  per  lenire  le  sofferenze 
dei  debitori,  preparandosi  la  via  alla  tirannide,  non  son  clie  au- 
toscbediasmi  d'annalisti,  per  quanto  non  sia  dubbio  che  anche  il 
malessere  economico  debba  essere  stato  assai  grave  negli  anni  che 
seguirono  immediatamente  all'incendio  gallico.  Forse  è  pure  indu- 
zione o  leggenda  che  più  tardi  sulle  case  di  Manlio  rase  al  suolo 
s'innalzasse  il  tempio  di  Giunone  Moneta  (1)  e  che  si  vietasse  per 
legge  ai  patrizi  d'abitare  il  Campidoglio  (2);  ed  anche  leggendaria 
è  forse  la  deliberazione  della  gente  Manila  di  non  adojìerare  più 
il  prenome  di  Marco  (3);  che  se  questo  prenome  non  fu  più  as- 
sunto da  nessun  Manlio,  può  benissimo  recarsene  la  cagione,  senza 
bisogno  d'alcun  decreto  gentilizio,  ai  ricordi  dolorosi  che  con  esso 
si  collegavano.  Ad  ogni  modo  fra  tante  leggende  e  tante  inven- 
zioni si  vede  chiaramente  che  Manlio  tentò  di  rinnovare  lo  Stato 
con  opera  violenta  e  rivoluzionaria;  e,  sebbene  la  tradizione  i)iù 
antica  ascrivesse  il  vanto  di  aver  superato  la  sedizione  manliana 
non  a  Camillo,  ma  al  dittatore  A.  Cornelio  Cosso  (4),  in  un  punto 
il  contrapposto  di  Camillo  e  di  Manlio  risponde  alla  verità,  che 
cioè,  a  differenza  di  Manlio,  Camillo  si  studiò,  e  con  prospero  suc- 
cesso, di  rinnovare  lo  Stato  mediante  pacifiche  ed  opportune  ri- 
forme. Infatti,  per  quanto  le  riforme  che  vengono  dalla  tradizione 
attribuite  a  Camillo  (5)  sembrino  in  realtà  assai  posteriori,  non 
par  dubbio  che  com'egli  fu  l'anima  della  difesa  di  Roma  negli 
anni  che  seguh'ono  all'  incendio  gallico ,  cosi  fosse  1'  autore  o  uno 
degli  autori  di  quella  riforma  centuiiata  che  tanto  contribuì  al 
pronto  risorgere  della  potenza  romana;  e  perciò  a  buon  diritto  fu 
celebrato  dalla  leggenda  come  il  secondo  fondatore  di  Roma. 

Secondo   l' ordinamento  centuriato,   il  popolo  romano   era  di- 
stinto in   cinque   classi  e  in  193  centurie  (6).  Di  queste,  18,  ossia 


(1)  Liv.  VII  28.  OviD.  fasti  VI  183  segg. 

(2)  Liv.  VI  20,  13.  Val.  Max.  1.  e.  Plut.  1.  e.  e  q.  B.  91.  Cass.  Dio  fr.  25,  1. 

(3)  I  p.  230  n.  4. 

(4)  Infatti  all'a.  385,  sotto  cui  Diodoro  riferisce  la  fine  di  Manlio,  Livio  narra 
che  fu  fatto  arrestare  dal  dittatore  A.  Cornelio  Cosso;  ma  rimesso  in  libertà 
non  venne  condannato  che  l'anno  seguente.  Sembra  che  la  catastrofe  sia  stata 
trasportata  al  384  solo  per  potervi  far  avere  una  parte  a  Camillo,  che  in 
quell'anno  era  tribuno  militare. 

(5)  V.  oltre  p.  207  n.  4. 

i6)  Questo  numero  è  dato  da  Cic.  de  re  p.  II  22,  39  e  da  Dionys.  IV  18.  19.  20. 
VII  59.  X  17. 


LE    NUOVE    CENTURIE  197 


circa  il  decimo  della  forza  militare  massima  che  potevasi  armare, 
erano  centurie  di  cavalieri;  80,  cioè  40  di  iuniori  e  40  di  seniori, 
spettavano  alla  prima  classe;  20,  ossia  10  di  imiiori  e  10  di  seniori, 
alla  seconda;  altrettante  alla  terza  ed  alla  quarta  e  30  alla  quinta, 
anche  queste  divise  per  metà  tra  giovani  e  vecchi  (1).  Il  limite  di 
età  tra  le  centurie  degli  iuniori  e  dei  seniori  ossia  tra  il  servizio 
militare  attivo  e  la  riserva  era  il  quarantacinquesinio  anno  com- 
piuto (2),  o,  secondo  alcune  fonti,  il  quarantesimo  sesto  (3).  Altre 
cinque  centm-ie  potevano  essere  adoperate  anche  in  guerra,  ma 
senz'armi,  onde  quelli  che  vi  erano  iscritti  furono  detti  inermi:  si 
chiamarono  anche,  a  quel  che  pare,  capitecensi,  perchè  lo  Stato 
ne  teneva  registro,  non  pei  loro  beni  che  erano  troppo  insigniti- 
canti,  ma  solo  per  la  loro  persona  {caput)  (4),  e  proletari,  perchè 
non  servivano  lo  Stato  pagandogli  il  tributo  del  denaro  o  del 
sangue,  ma  contribuendo  a  dargli  nuovi  cittadini  (5).  Queste  cinque 
centurie  erano  quelle  dei  falegnami  {fabri  tignarii)^  dei  fabbri 
{fabri  aerarli)^  dei  sonatori  di  tromba  (tubicines)^  dei  sonatori  di 
corno  (cornicines)  e  di  coloro  finalmente  che,  non  avendo  alcun 
mestiere  speciale,  venivano  registrati  alla  fine  della  lista  dei  cit- 
tadini (accensi)  e  prestavano  in  guerra  qualsiasi  servizio  secon- 
dario a  richiesta  del  comandante  (6). 


(1)  Sulla  disti-ibuzione  delle  centurie  fra  le  classi  concordano  Liv.  I  43  e 
DioNYs.  IV  16.  17.  VII  59. 

2)  Così  Varrò  ap.  Censor.  de  die  ncit.  14,  2  seguito  da  Dionys.  IV  16. 

(3)  Così  TuBERONE  ap.  Geli,,  n.  A.  X  28.  Polyb.  VI  19,  2.  Cic.  de  senect.  17,  60. 
Liv.  XLIII  14,  6.  Cfr.  Mohmsen  Staatsrecht  I  ^  p.  508  n.  1. 

(4)  Gell.  n.  A.  XVI  10,  10:  qui  nullo  aiit  perquam  parvo  aere  censebaniur 
''capite  censi  '  vocahantur.  Exuper.  2:  illi  quibiis  nullae  opes  erant  caput  suum 
qiiod  solum  possidehant  censebantiir. 

(5)  La  identità  dei  proletari  e  dei  capitecensi  è  asserita  esplicitamente  da 
Fest.  p.  226  :  ijroletarium  capite  censum  dictum  e  implicitamente  da  Cic.  de  re  p. 
II  22,  40,  secondo  cui  eo.s  qui  aut  non  plus  mille  quingentwn  aeris  aut  omnino 
nihil  in  suum  censum  praeter  caput  attuUssent  proletarios  nominavit  (Servius). 
Invece  secondo  Gellio  i  proletari  possedevano  almeno  1500  assi,  i  capite- 
censi  tra  1500  e  875.  Queste  notizie  sono  state  interpretate  variamente  e  va- 
riamente accostate  a  quella  data  da  Polibio  che  il  servizio  militare  era  obbli- 
gatorio per  chi  possedeva  sopra  4000  assi  (VI  19,  2).  Probabilmente  in  vari 
tempi  nel  III  e  nel  II  sec.  fu  abbassato  il  censo  richiesto  per  servire  nel- 
l'esercito ;  e  le  notizie  frammentarie  che  ne  aveva  raccolto  qualche  erudito 
servirono  ai  filologi  per  differenziare  artificialmente  capitecensi  e  proletari. 

(6)  DioNYs.  IV  17:  TéxTapaq  òè  Xóxouq  oùbèv  ^Xovxaq  òttXov  àKoXou9elv  èKéXeuae 
Toì<;  évÓTtXoi!;  ■  rjjav    bè    tiIiv  TeTxcipuuv    toùtujv    bùo  ,uèv  óttXottoiùjv  xe  xaì  xe- 


198  CAPO  XYii  -  l'ordinamento  centukiato 

Le  classi  si  distinguevano  secondo  il  censo.  Ci  vien  detto  che 
per  essere  iscritti  nella  prima  si  richiedeva  un  capitale  di  125  mila 
(più  tardi  100  mila)  assi  (1),  per  la  seconda  75  mila,  per  la  terza 
50  mila,  per  la  quarta  25  mila,  per  la  quinta  12.500  od  anche 
11  mila  (2).  Di  questi  assi,  dieci  vengono  ridotti  costantemente  dagli 
scrittori  greci  ad  una  dramma,  ossia  ad  un.  denaro  (3).  Ma  questa 
riduzione  non  si  applica  già  all'asse  originario,  l'asse  librale,  ne 
all'asse  ridotto  del  tempo  della  seconda  guerra  punica,  che  fu 
equiparato  ad  Vie  di  denaro,  bensì  all'asse  del  periodo  intermedio 
tra  il  268  ed  il  216  circa,  che  si  ragguagliava  ad  Vio  del  denaro 
d'argento  (4).  Ciò  prova  che  le  cifre  del  censo  delle  varie  classi,  come 
ci  furono  tramandate,  non  solo  non  risalgono  a  Servio  Tullio,  ma  non 
son  neppure  anteriori  all'età  delle  guerre  puniche.  Onde  potrebbe 
sorgere  il  dubbio  che  la  tradizione,  come  anticipò  dal  IH  al  VI 
secolo  quelle  cifre,  cosi  abbia  errato  ritenendo  anteriore  al  ITE  se- 
colo tutto  in  genere  l'ordinamento  per  classi  e  per  centm-ie.  Ma 
è  assai  inverisimile  che  nuovi  ordini  introdotti  non  molti  anni 
prima  della  nascita  dei  i3Ìù  antichi  annalisti  fossero  riferiti  all'età 
regia  dalla  tradizione  canonica  che  aj)punto  a  quegli  annalisti 
mette  capo;  mentre  invece  ben  può  spiegarsi  che  di  qualche  po- 
steriore riforma  dell'  ordinamento  centuriato ,  p.  e.  del  ragguaglio 
dei  censi  in  assi  del  nuovo  sistema  monetario ,  si  dimenticasse 
1'  origine  j^iù  tardi  e  si  stimasse  avvenuta  nelF  atto  stesso  in  cui 


KTÓvuuv  Kai  Tiùv  tìXXujv  Tòiv  aK6ua2óvTUJv  Tà  elq  tòv  iróXeiuov  €vxpr]aia,  bùo  òè 
aaXmoTÒjv  koì  PuKaviaTuùv  koì  tùiv  (SXXoiq  tioì  òpyóvok;  ^TriarmaivóvTUJv  tò  irapa- 
KXriTiKÒ  ToG  7ToXé|uou.  IV  18:  xi^v  ò'èirì  -rrctoaiq  TeTayiuévriv  (au|U|Liopiav,  cioè  la 
sesta  classe)  eie;  Xóxoq  (èirelxe)  ó  tùjv  àuópiuv.  La  centuria  degli  accensi  solo 
da  Dionisio  è  computata  come  sesta  classe  (anche  VII  59).  Altrove  non  si  parla 
che  di  cinque  classi,  Cic.  de  re  p.  II  22,  39.  Liv.  Ili  30.  Gell.  h.  A.  X  28  1. 
AscoN.  in  Cornei,  p.  26  Oeelli.  Charis.  inst.  1  p.  75  Keil.  Liv.  1  43  computa 
sei  centurie  d'inermi,  alle  cinque  di  Dionisio  aggiungendone  una  di  capite 
censi.  Per  gli  accensi  v.  Fest.  ep.  p.  18.  369.  Varrò  ap.  Non.  p.  520.  Mommsen 
Staatsrecht  III  283.  Delbrueck  Kriegskunst  I  233. 

(1)  125  mila  secondo  Gell.  n.  A.  VI  13;  120  mila  secondo  Plin.  n.  li.  XXXIII 
43  e  Fest.  ep.  p.  113;  100  mila  secondo  Liv.  I  43,  1  e  Dionys.  IV  16,  2.  Lo  stesso 
censo  è  presupposto  da  Polyh.  VI  23,  15  quando  dice  che  portano  la  corazza 
a  maglia  ol  ùirèp  ràc,  nupiaq  Ti|aiÌJMevoi  òpoxiudq. 

12)  12.500  secondo  Dionys.  IV  17,  1;  11.000  secondo  Liv.  I  43,  8. 

(8)  DioNYs.  IV  16.  17.  PoLYB.  1.  cit.  Cfr.  anche  Liv.  XLV  15,  2,  dove  sembra 
che  due  assi  e  mezzo  del  censo  vengano  equiparati  a  un  sesterzio. 

(4)  Mommsen-  Staatsr.  Ili  249  n.  4.  Per  le  riduzioni  dell'asse  v.  al  e.  XXIIL 


LE    CINQUE    CLASSI  199 


s  erano  istituite  classi  e  centurie.  Inoltre  l'ordinamento  centuriato 
entrò  in  vigore  quando  l'esercito  romano  saliva  d'ordinario  a  due 
leg'.oni.  Invece  dm-ante  la  prima  punica,  anzi  dagli  ultimi  anni  della 
seconda  g-uerra  sannitica  (v.  e.  XIX)  la  forza  annua  dell'esercito 
era,  \n  tempo  di  guerra,  di  quattro  legioni  ;  e  per  di  j)iù  nel  sec.  HI 
le  centurie  della  fanteria  pesante  in  ciascuna  legione  non  si  di- 
stinguevano secondo  che  appartenevano  alla  prima,  alla  seconda 
o  alla  terza  classe,  ma,  tenuto  conto  soltanto  dell'età,  erano  di- 
stinte in  gruppi  forniti  d'armi  diverse  (1). 

Questo  ordinamento  adunque  dev'essere  sol  di  poco  posteriore 
airincendio  gallico.  Pure  è  probabile  che,  a  differenza  di  quel  che 
si  fece  in  Atene  al  tempo  di  Solone,  il  censo  richiesto  per  le  sin- 
gole classi  fosse  comxDutato  anche  in  origine  in  metallo  e  non  in 
natura;  poiché  intorno  al  400  già  la  libbra  di  rame  era  l'unità  di 
misura  del  valore,  e  in  rame  si  imponevano  ordinariamente  le 
multe  fin  dal  tem^DO  delle  dodici  tavole.  Si  aggiunga  che  solo  per 
mezzo  della  riduzione  ad  una  comune  unità  secondo  una  tariffa 
più  o  meno  perfezionata  poteva  tenersi  il  debito  conto  del  bestiame, 
che  pui'  formava  una  parte  non  piccola  della  ricchezza  dei  conta- 
dini romani  (2).  E  lecito  quindi  ritenere  che  per  avere  i  censi  ori- 
ginari delle  varie  classi  convenga  senz'  altro  ridurre  gli  assi  di 
dieci  al  denaro  in  assi  librali  che  si  consideravano  come  eguali 
al  sesterzio.  Ma  questa  riduzione  dei  censi  delle  classi  rispettiva- 
mente a  50,  30,  20,  10  e  5  mila  assi  librali  avrebbe  importanza 
solo  se  sapessimo  con  quale  tariffa  si  ragg-uagliò  in  denaro  il  capo 
di  bestiame  o  lo  iugero  di  terreno.  Purtroppo,  se  per  il  bestiame 
possiamo  congettm'are  che  la  tariffa  fosse  quella  stessa  fissata  x)er 
legge  secondo  cui  la  pecora  veniva  computata  a  dieci,  il  bue  a 
cento  assi  (sopra  p.  55),  ignoriamo  affatto  come  venissero  valutate 
le  case,  i  terreni  e  gli  schiavi.  Solo  xoossiamo  tenere  con  sicurezza 
che  del  danaro,  della  suppellettile  domestica  e  degli  oggetti  pre- 
ziosi non  si  tenesse  alcun  conto  prima  d'  A^Dpio  Claudio  Ceco  e 
che  la  misura  minima  di  terreno  distribuita  fondando  colonie  di 
cittadini  dovesse  essere  sufficiente  ad  avere  il  censo  richiesto  per 


(1)  PoLYB.  VI  21,  cfr.  Liv.  Vili  8. 

(2)  Si  è  detto  che  l'ordinamento  serviano  non  si  preoccupava  delle  res  nec 
mancipi,  com'erano  appunto  le  greggie.  In  realtà  sembra  impossibile  che  per 
scrupoli  giuridici  si  omettesse  nel  computo  del  censo  un  elemento  così  impor- 
tante, quando  si  aveva  nella  libbra  di  rame  una  comune  misura  che  permet- 
teva agevolmente  di  tenerne  conto. 


200  CAPO  xYii  -  l'ordinamento  centuriato 


la  quinta  classe.  Ora  le  notizie  su  antiche  assegnazioni  di  dua 
iugeri  non  sono  in  tutto  degne  di  fede  (1).  Ma  anche  nel  II  secoio 
si  distribuirono  talora  a  coloni  romani  solo  5  iugeri  (2),  e  nel  Z73 
in  un'assegnazione  viritana  in  cui  si  tenne  conto  anche  dei  Latini 
si  distribuirono  a  questi  tre  iugeri  per  ciascuno  (3).  La  tradisione 
poi  riguarda  sette  iugeri  come  la  misura  del  campicello  del  citta- 
dino del  buon  tempo  antico,  e  parla  di  sette  iugeri  a  pi'oposito  di 
Cincinnato,  di  Atilio  Regolo  e  di  Fabio  il  Temporeggiatore  (4). 
Che  se  qui  si  tratta  di  notizie  leggendarie,  in  ispecie  rispetto  a 
Fabio,  difficilmente  peraltro  sarebbero  sorte  leggende  simili  se 
non  veniva  di  regola  iscritto  nella  fanteria  pesante,  ossia  nelle  tre 
prime  classi,  un  proprietario  di  sette  iugeri  di  terra  (ett.  1,76), 
quando  disponesse,  s'intende,  di  qualche  altro  piccolo  capitale, 
una  casetta,  qualche  capo  di  bestiame,  forse  uno  schiavo.  Va 
quindi  ritenuto  che  il  censo  delle  varie  classi  e  persino  quello 
della  prima  era  proporzionalmente  bassissimo.  Per  la  prima  classe 
può  notarsi  a  conferma  che  il  censo  equestre  doveva  essere  eguale 
o  superiore  a  quello  per  essa  richiesto,  obbligata  com'era  quella 
classe  solo  al  meno  costoso  servizio  di  fanteria.  Ora  se  nel  II  se- 
colo, fondando  una  colonia  di  diritto  latino,  ai  cavalieri  che  vi 
presero  parte,  trattati  assai  più  liberalmente  dei  fanti,  si  distri- 
buirono trenta  iugeri  (5),  ciò  par  provare  che  con  trenta  iugeri  di 
terra  si  poteva  essere  iscritti  alla  prima  classe,  computati,  s'intende, 
quei  piccoli  capitali  in  schiavi  o  in  bestiame  che  solevano  accom- 
pagnare una  proprietà  di  siffatta  ampiezza.  Bisogna  è  vero  tener 
conto  dell'agro  pubblico,  che  però  doveva  avere  intorno  al  390  una 


(1)  Liv.  IV  47,  6.  VI  16,  6.  Cfr.  sopra  p.  71.  Potrebbe  però  essere  storica 
la  notizia  sui  due  iugeri  dati  ai  coloni  d'Anxur  nel  329:  Liv.  Vili  21,  11. 
AU'a.  340  Liv.  Vili  11  ricorda  assegnazioni  di  due  iugeri  e  ^/.j  e  di  tre  iugeri. 

(2)  Così  per  Mutina  (Liv.  XXXIX  55,  a.  183)  e  per  Graviscae  (Liv.  XL  29, 
a.  181). 

(8)  Liv.  XLII  4,  4. 

(4)  Per  Cincinnato  e  per  Regolo  v.  Val.  Max.  IV  4,  6.  7.  A  Cincinnato  si 
attribuiscono  anche  quattro  soli  iugeri,  v.  Liv.  Ili  26,  8.  Plin.  «.  h.  XVII I  20. 
CoLUM.  de  re  r.  praef.  13.  Eutrop.  I  17.  Per  Fabio  v.  Val.  Max.  IV  8,  1.  — 
Plin.  n.  h.  XVIIl  \%  :  Mani  quidein  Curi...  nota  contio  est:  j^erniciosum  intellegi 
civem  cui  septem  iugera  non  essent  satis.  Cfr.  Val.  Max.  IV  3,  5.  Colum.  de  re  r. 
praef.  14.  I  3,  10.  Frontin.  strat.  IV  3,  12.  V.  anche  Val.  Max.  IV  4,  11:  (nel 
tempo  antico)  nullum  aut  admodum  parvi  ponderis  argentum,  paucos  servos, 
septem  iugera  aridae  terrae cernimus. 

(5)  Per  Vibo  Valentia,  nel  192,  v.  Liv.  XXXV  40. 


LE    CINQUE    CLASSI  '201 


estensione  mediocre,  dove  poteva  mandarsi  a  pascolare  il  proprio 
bestiame,  delle  guerre  continue  clie  iDermettevano  al  contadino 
soldato  di  arricchire  con  quel  che  si  carpiva  al  nemico  la  i)0- 
vertà  della  sua  azienda  rurale,  e  in  fine  delle  frequenti  assegna- 
zioni di  territorio  occupato  che  davano  ai  cadetti  poveri  il  modo 
di  guadagnarsi  la  vita  senza  essere  a  carico  della  famiglia.  Tutto 
ciò  può  farci  intendere  come  fosse  si  basso  il  limite  del  censo  per 
la  terza  classe  e  proporzionalmente  quelli  delle  altre;  ma  non 
resta  men  vero  che  in  Atene  una  buona  xoarte  dei  cittadini  delle 
qtiattro  classi  inferiori  Solone  l'avrebbe  registrata  nella  sua  ultima 
classe,  quella  dei  teti,  che,  libera  dal  tributo  e  dal  servizio  militare 
nella  fanteria  pesante,  era  in  compenso  inferiore  quanto  ai  diritti 
politici  alle  altre  classi.  Il  servizio  militare  veniva  cosi  a  costituire 
un  peso  gravissimo  pel  piccolo  proprietario  che,  mentre  col  suo 
campicello  d  una  decina  di  iugeri  riusciva  ap]oena  a  sfamare  la 
famiglinola,  costretto  a  trascurare  spesso  per  la  guerra  i  lavori 
rm-ali,  aveva  inoltre  a  suo  carico  la  compra  e  la  manutenzione 
delle  armi.  Sovveniva  in  parte  a  questi  mali  lo  stipendio  militare, 
ignoto  nell'età  più  antica,  che  fu  introdotto,  secondo  gii  annalisti, 
nel  406  av.  C,  e  in  ogni  caso  non  molto  dopo  che  si  mise  in  vigore 
la  costituzione  serviana  (1);  ma  più  dello  scarso  stipendio  mensile, 
da  cui  si  detraevano  le  sx^ese  per  il  vitto  e  x)el  rifornimento  del 
vestiario  e  delle  armi  (2),  ai  danni  che  soffrivano  dal  servizio  mi- 
litare i  piccoli  proprietari  soccorreva  innanzi  alla  iDrima  guerra 
punica  la  breve  dm^ata  delle  camiDagne  e  le  assegnazioni  di  terri- 
torio tolto  ai  vinti. 

E  errata  del  resto  1"  ox)inione  comune  che  quando  venne  at- 
tuata la  costituzione  serviana  vi  fosse  grande  disparità  numerica 
tra  le  centurie  (3)  e  che  esse  abbracciassero^  di  contro  a  qualche 
centinaio  apx)ena  d'iscritti  nelle  x)rime  classi,  forse  qualche  migliaio 


(1)  Liv.  IV  59,  11  :  (decrevit)  senatus  ut  stipendium  miles  de  publico  acciperet 
Clini  ante  id  tempus  de  suo  quisque  functus  eo  niunere  esset.  Y  4,  5.  Flor.  I  12. 
DioD.  XIV  16  5.  Zos.  VII  20.  Lyd.  de  mag.  I  45.  Che  in  origine  non  vi  fosse 
stipendio  militare  e  asserito  anche  da  Dionvs.  IV  19. 

(2)  Come  dice  pel  suo  tempo  Polyb.  VI  39:  toI;  òè  "Pujjuaioi;  xoO  xe  oixou 
Kttì  xfic  èaSrjxo;  k6.v  xivoq  òttXou  upoobeiiGiuai,  ttóvxujv  xoóxuuv  ó  xomÌ"';  Tt^v  x€- 
xaYiaévrjv  Ti)anv  èK  xuJv  òipuuviuuv  ÙTToXoYi^exai. 

(3)  Su  ciò  ha  giudicato  rettamente  Delbrueck  op.  cit.  I  p.  224  seg.  Le  sole 
centurie  degli  inermi  erano  verisimilmente  parecchio  più  numerose  delle  altre. 


202  CAPO  XVII  -  l'ordinamento  centuriato 

nel  popolo  minuto  delle  ultime,  di  guisa  die  queste  assai  meno 
a\Tebbero  dovuto  soffrire  pel  servizio  militare  e  in  proporzione 
assai  meno,  anche  quando  tutte  le  centurie  avessero  dato  il  voto, 
avrebbero  contato  nell'assemblea  popolare  centmnata.  E  certo  invece 
che  se  nelF assemblea  centuiiata  la  prima  classe,  comx^resi  i  cava- 
lieri, disponeva  di  98  voti,  mentre  tutte  le  altre  insieme  non  ne 
avevano  che  90,  questa  distribuzione  dei  voti  doveva  corrispondere 
press'a  poco  alla  forza  numerica  delle  classi  stesse.  Infatti  intorno 
al  390  il  territorio  romano  s'era  raddoppiato  per  effetto  delle  con- 
quiste, ma  ancora  la  popolazione  cittadina  non  s'era  potuta  accre- 
scere in  proporzione  del  paese  annesso,  sicché  non  doveva  sujDerar 
di  molto  le  novantamila  anime.  Ora  computando  al  minimo  pos- 
sibile l'effettivo  di  ciascuna  centuria,  ossia  a  cento  quello  delle 
centurie  dei  cavalieri  e  dei  seniori,  a  duecento  quello  degli  iunior! 
e  degii  inermi,  si  viene  a  poco  meno  di  trentamila  maschi  adulti, 
cioè  appunto  ad  una  popolazione  cittadina  di  più  che  novanta- 
mila  anime  e  ad  una  popolazione  totale  di  oltre  centomila.  Ma  in 
questo  computo  il  numero  degli  iscritti  alle  centurie  è  senza  dubbio 
inferiore  al  vero.  E  quindi  affatto  impossibile  che  le  centurie  della 
terza,  quarta  e  quinta  classe  fossero  molto  più  numerose  di  quelle 
della  prima:  si  dovrebbe  altrimenti  supporre  nel  territorio  romano 
una  densità  di  xjopolazione  superiore  ad  ogni  verisimigiianza.  E 
però  la  costituzione  cosi  detta  serviana,  anziché  politicamente  gra- 
vosa, era  invece  favorevole  da  questo  punto  di  vista  in  sommo 
grado  alla  classe  dei  minori  j)roprietari  i  cui  diritti  essa  pareg- 
giava teoricamente  appieno  a  quelli  dei  maggiori.  La  classe  domi- 
nante si  rassegnò  ad  accettarla  perchè  si  avvide  che  Roma  aveva 
d'uopo  della  tensione  massima  delle  sue  energie  e  non  c'era  altra 
via  di  salvezza  se  non  quella  di  abbassare  all'estremo  il  limite 
minimo  del  censo  necessario  per  servire  nella  fanteria  di  linea. 
Preparata  a  poco  a  poco  durante  il  sec.  V  con  l'accrescimento  dei 
reggimenti  comandati  dai  tribuni  militari  e  con  la  nuova  circo- 
scrizione territoriale  destinata  a  facilitare  la  leva,  l'ardita  riforma 
che  tolse  di  colpo  ogni  residuo  d'importanza  politica  e  militare 
alle  ernie  e  alla  loro  assemblea  si  può  insomma  spiegare  soltanto 
con  la  necessità,  resa  evidente  agii  occhi  di  tutti  dall'  incendio 
gallico,  di  riformare  con  opera  pronta  e  coraggiosa  lo  Stato  e  di 
accrescere  definitivamente  l'esercito,  I  novemila  uomini  che,  com- 
presa la  fanteria  leggera  e  la  cavalleria,  i  Romani  mettevano  an- 
nualmente in  piede  di  guerra  in  virtù  del  nuovo  ordinamento, 
rai^presentavano  il  decimo  circa  della  popolazione  cittadina.  Era 
uno  sfruttamento  inaudito  delle  proprie  energie,  il  quale  non  ha 


LA    FANTERIA  203 


riscontro  alcuno  nella  storia  moderna  (1).  Ed  ebbe  due  effetti 
gravissimi:  Fimo  che  Roma  non  solo  ricuperò  rapidamente  il 
terreno  perduto  per  effetto  del  disastro  del  390,  ma  iniziò  presto 
la  serie  gloriosa  delle  sue  conquiste;  l'altro  che  i  piccoli  proprie- 
tari sfruttati  a  difesa  dello  Stato  ne  divennero  senza  indugio  i 
13adi'oni,  emancipandosi  politicamente  ed  economicamente  dalla 
tirannide  aristocratica.  Nessuno  poteva  prevedere  allora  che  l'ef- 
fetto finale  del  nuovo  ordinamento  sarebbe  stato  la  conquista  del 
mondo  per  opera  dei  Romani  e  la  distruzione  di  quella  classe  di 
contadini  proprietari  che  l'aveva  conquistato. 

Anche  dopo  che  s'attuò  l'ordinamento  centuriato  la  fanteria  pe- 
sante di  una  legione  costituiva  una  falange,  una  sola  unità  tattica 
non  divisa  punto  in  unità  tattiche  minori  (2),  la  cui  forza  per  la 
resistenza  come  per  l'assalto  consisteva  nel  tener  fermo  delle  file 
l'una  dietro  l'altra  e  dei  soldati  l'uno  accanto  all'altro  nella  fila. 
Questa  tattica,  in  uso  fin  dall'età  arcaica  presso  i  Grreci,  fu  adot- 
tata dagli  Italici  tanto  per  l'esempio  di  quelli  quanto  per  l'analogia 
delle  condizioni.  Infatti  accolto  in  Italia  l'uso,  che  s'era  introdotto 
dapj)rima  nel  bacino  orientale  del  Mediterraneo,  dell'armatura  de- 
stinata a  proteggere  tutta  la  x^ersona  (panoplia)  e,  col  rendersi 
sempre  più  commii  i  metalli  ignobili,  divenuto  più  facile  ad  ogni 
uomo  libero  non  tropp»o  povero  di  prociu^arsela,  doveva  necessa- 
riamente trovar  buona  accoglienza  una  tattica  che  permettesse  di 
trar  profitto  non  più  solo  del  valore  individuale  dei  i^ochi  forniti 
di  buone  armi,  ma  anche  del  valore  collettivo  della  schiera  armata. 
La  riforma  serviana  avanza  in  questo  gli  altri  ordinamenti  simili, 
che  si  vale  anche  di  quanti  non  sono  in  grado  di  proemiarsi  l'in- 
tera panoplia,  ma  solo  una  parte,  collocandoli  nelle  ultime  file.  Qui 
essi  servono  sia  materialmente  con  la  loro  pressione  a  spingere 
innanzi  le  prime  file,  sia  moralmente  a  incoraggiare  quelli  che 
stanno  sul  fronte  di  battaglia  con  la  sicurezza  che  dietro  ad  essi 
sono  altre  milizie  sufficientemente  armate  loer  essere  in  grado  di 


(1)  La  Prussia  nello  sforzo  immane  che  fece  per  la  libertà  nel  1813  mise  in 
assetto  di  guerra  il  5  ^1^  p.  cento  della  popolazione,  nel  1870  solo  il  3  ^/j. 

(2)  Cfr.  Liv.  Vili  8,  3  :  et  quod  unteci  phalanges  similes  Macedonicis,  hoc  postea 
manipulatim  structa  acies  coepit  esse.  Secondo  Atiikn.  VI  p.  273  f  e  l' ined. 
Vaticanum  '  Hermes  '  XXVII  (1892)  p.  121  i  Romani  avrebbero  appreso  a 
disporsi  in  falange  dai  Tirreni  ;  e  non  è  impossibile  infatti  che  gli  Etruschi 
abbiano  trasmesso  ai  Latini  una  tattica  che  essi  stessi  avevano  appreso  dai 
Greci. 


204  CAPO  XVII  -  l'ordinamento  centuriato 

resistere  nel  caso  che  il  nemico  rompa  qua  e  là  la  prima  linea. 
S'intende  che  questo  ufficio  non  poteva  spettare  che  ai  fanti  della 
seconda  e  della  terza  classe:  le  quali,  mentre  la  prima  era  armata 
di  elmo  di  bronzo,  corazza,  scudo  rotondo  di  bronzo  {clipeus)  e 
schinieri  {ocreae}^  non  portavano  corazza,  proteggendo  invece  il 
petto  col  lungo  scudo  quadrangolare  {scutuni),  e  si  distinguevano 
tra  loro  x^erchè  la  terza  era  dispensata  dall'uso  degli  schinieri.  La 
quarta  e  la  quinta  classe  invece,  armate  solo  l'una  di  giavellotto, 
Taltra  di  fionda,  senza  difesa  di  scudo  né  di  corazza,  non  potevano 
costituir  punto  le  ultime  linee  della  falange,  dove  non  sarebbero 
state  d'alcun  uso  non  avendo  modo  di  servirsi  colà  delle  proprie 
armi  uè  tanta  fiducia  in  sé  p)otendo  senth'e  o  ispirare  agli  altri 
da  incorare  i  fanti  gravemente  armati  sia  all'assalto  sia  alla  difesa 
o  anche  solo  da  sospingerli  innanzi  premendo  su  di  essi  (1).  Si  é 
dubitato  dell'aggiustatezza  delle  notizie  tradizionali  sul  diverso 
armamento  delle  classi,  perchè  pareva  impossibile  che  lo  Stato 
primitivo  si  occupasse  di  particolari  come  la  forma  dello  scudo 
in  un  tempo  in  cui  non  si  pagava  stipendio  e  ciascuno  si  'pro- 
cacciava da  sé  r  armatura.  E  certo  tale  obbiezione  varrebbe  se 
le  classi  fossero  state  davvero  istituite  dal  buon  re  Servio.  Ma  lo 
Stato  del  sec.  IV  era  progredito  e  conscio  del  suo  ufficio  abba- 
stanza per  imporre  un  regolamento  sulle  armatiu'e  da  usarsi  in 
guerra  ;  e  che  ciò  non  sia  una  invenzione  annalistica  si  vede  anche 
dalla  importanza  che  viene  attribuita  alla  lancia,  l'arme  più  ac- 
concia per  la  falange,  che  fu  sostituita,  progredendo  la  tattica,  col 
pilo,  e  dalla  menzione  degli  schinieri,  che  il  legionario  romano 
dell'età  storica  non  usava  più  di  portare  (2). 

Da  queste  considerazioni  si  desume  che  la  centuria  della  legione 
nell'ordinamento  serviano  non  era  punto   una   miità   tattica,   anzi 


(1)  Cfr.  Delbrueck  op.  cit.  I  p.  221  segg.  Le  milizie  leggere  delle  ultime 
due  classi  portavano  allora  il  nome  di  rorarii,  cfr.  Non.  p.  552:  rorarii  ap- 
pellabantiir  milites  qui  antequam  congressae  essent  acies  primo  non  niultis  iaculis 
inihant  proelium:  tractum  qiiod  ante  muximas  pliwìas  caeluin  rorare  incipiat,  e 
i  frammenti  di  Lucilio  e  di  Vaurone  ivi  cit. 

(2)  Sull'armamento  vario  delle  classi  v.  Liv.  1  43.  Dionys.  IV  16.  17.  La  quarta 
elasse  avrebbe  fatto  parte  anch'essa  della  falange  secondo  Dionys.  1.  e:  òttAo 
bè  qp^peiv  èraEev  aÙTOÙi;  GupeoCx;  re  koì  Eiqpri  koI  òópaxa  Kaì  orctaiv  l\e\.v  èv  toìc; 
àyuJai  T)*|v  ùoTÓxriv  :  ma  è  da  seguire  piuttosto  a  tal  proposito  Liv.  1.  e.  Lo 
scetticismo  del  Delbuueck  op.  cit.  I  p.  222  è  giustificato  soltanto  se  si  accetti 
l'opinione  comune  o  anche  quella  del  Delbriick  stesso  sull'antichità  delle 
classi. 


LA    CAVALLERIA  205 


neppui'e  una  suddivisione  che  avesse  importanza  militare;  perchè 
in  una  falange  possono  aver  militarmente  importanza  solo  quelle 
suddivisioni  che  dalla  ]ìrima  vanno  all'ultima  fila,  mentre  la  cen- 
tmia  non  abbraccia  che  soldati  di  una  classe  e  quindi  di  una  parte 
soltanto  delle  file  (1).  E  i^erò  la  centm'ia  non  poteva  in  campo 
esser  altro  i^er  allora  che  una  unità  amministrativa;  ma  essa  aveva 
importanza  principalmente  nella  leva.  I  cittadini  erano  divisi  nel 
censimento  in  centurie,  sicché  era  facile  da  ciascuna  centuria  di 
iuniori  registrati  nel  censo  coscrivere  un  centinaio  di  soldati  egual- 
mente armati  pei  due  eserciti  consolari;  onde  la  centuria  del  censo 
era  divenuta,  come  in  origine  era  la  ernia,  il  quadi^o  di  leva  della 
centui'ia  dell'esercito. 

Le  centurie  dei  cavalieri  erano  nell'  ordinamento  serviano  di- 
ciotto (2).  Né  x30ssono  dirsi  molte  in  proporzione  dei  600  cava- 
lieri che  si  levavano  annualmente  insieme  con  le  due  legioni; 
perchè  un  terzo  di  quelli  che  erano  registrati  nei  quadri  doveva 
così  prendere  le  armi  ciascun  anno:  numero  considerevole,  se  si 
tien  conto  dei  cavalieri  che  rimanevano  abusivamente  nelle  cen- 
turie equestri  anche  divenuti  inabili  al  servizio  attivo  (3),  di  chi 
aveva  qualche  ragione  legittima  per  farsi  dispensare  in  un  dato 
anno  dal  servizio,  di  quelli  cui  toccava  d'accompagnar  l'esercito 
come  tribuni  militari  o  fors'  anche  con  altri  uffici ,  e  infine  dei- 
Tessere  i  cavalieri  obbligati  a  servire  effettivamente  per  non  più 
di  dieci  campagne,  mentre  i  fanti  potevano  essere  coscritti  i3er 
sedici  (4).  Certo  non  si  passò  ad  un  tratto  dai  trecento  cavalieri 
dell'ordinamento  antichissimo  ai  1800  della  costituzione  serviana; 
e  gli  annalisti  narravano  in  vario  modo  gli  incrementi  successivi 
della  cavalleria  (5),  riferendoli  naturalmente  tutti  all'età  regia, 
poiché  Romolo  aveva  già,  secondo  la  tradizione,  arrolato  trecento 
cavalieri  e  già  almeno  da  Servio  in  x^oi  si  erano  scelti  i  cavalieri 
nel  numero  rimasto  poi  fisso  di  1800.  Or  mentre  è  evidente  che 
tanti  non  son  divenuti  i  cavalieri  se  non  da  quando  si  son  co- 
scritte ogni  anno  due  legioni,  è  pure  evidente  che  già  dal  sec.  V 


(1)  Delbuueck  I  228  segg. 

(2)  Sui  cavalieri  romani  in  generale,  v.  Mommsen  Staatsrccht  III  p.  476  segg. 
Belot  Histoire  des  chevaliers  Romains  I.  II  (Paris  1866.  1873).  Kueuler  in  Pauly- 
WissowA  '  Real-Enciclopildie  '  VI  p.  272  segg. 

(3)  Liv.  XXVI  86,  6.  XXIX  37,  8. 

(4)  PoLYB.  VI  19,  2.  Plut.  C.  Gracch.  2.  Liv.  XXVII  11,  14. 

(5)  V.  i  testi  presso  Kueulkr  p.  274  segg. 


206  CAPO  xYii  -  l'ordinamento  centuriato 

debbono  essere  stati  insufficienti  i  trecento  cavalieri  deiretà  regia. 
E  si  cominciò  a  provvedere  ai  nuovi  bisogni  raddoppiando  le  tre 
centurie  dei  Tiziensi,  Ramnensi  e  Luceri  nel  modo  clie  vedemmo 
altrove  (I  p.  249).  Quando  siffatta  riforma  avvenisse  purtroppo  non 
sappiamo  ;  la  tradizione  l'ascrive  a  Tarquinio  Prisco  percliè  doveva 
essere  anteriore  alF  ordinamento  centuriato  die  s'attribuiva  a  re 
Servio. 

Con  la  istituzione  delle  diciotto  centurie  equestri  si  collega  la 
concessione  ai  cavalieri  di  prov\^edersi  il  cavallo  a  spese  dello 
Stato  (eqiius  publicus).  Nell'atto  cioè  clie  essi  venivano  iscritti  in 
quelle  centurie,  ricevevano  una  somma  fìssa  per  comperarsi  il  ca- 
vallo {aes  equestre)  (1),  alla  quale  s'aggiungeva  una  indennità 
annua  pel  suo  mantenimento  (aes  hordiarium)  (2).  Questo  stesso 
conferma  del  resto  ancora  una  volta  che  gli  ordini  attribuiti  a 
Servio  non  sono  anteriori  al  400  circa;  perchè  è  assurdo  che  si 
pagasse  una  indennità  ai  cavalieri,  che  erano  scelti  tra  i  più  ricchi, 
finché  non  avevano  stipendio  i  fanti.  La  indennità  dovette  intro- 
dursi quando  si  riconobbe  che  non  bastavano  più  i  patrizi  delle 
sei  antiche  centurie ,  e  si  cominciarono  ad  arrolare  in  copia  pel 
servizio  nella  cavalleria  i  plebei ,  ai  quali  non  si  i^oteva  imporre 
di  provvedersi  a  proprie  spese  di  cavalli  da  guerra,  come  avranno 
fatto  fino  allora. per  tradizione  e  per  grandigia  le  famiglie  pa- 
trizie. Quale,  fosse  peraltro  in  origine  la  indennità  assegnata  ai 
cavalieri,  ignoriamo;  perchè  le  somme  di  mille  o  persino  di  dieci- 
mila assi  per  la  compera  e  di  duemila  assi  all'anno  i)el  manteni- 
mento del  cavallo  che  troviamo  registrate  nelle  nostre  fonti  (3) 
non  solo  sono  assurde  per  l'età  di  Servio  e  pel  V  secolo,  quando 
un  bue  era  stimato  cento  assi,  ma  è  assai  diffìcile  che  possano 
anche  risalire  al  390  circa  e  forse  non  sono  anteriori  alla  riforma 
degli  ordinamenti  militari  verso  la  fìne  del  secolo  IV, 

Lifatti  con  l'accrescersi  dell'estensione  e  della  popolazione  dello 
Stato  romano  si  dovette  poi  aumentare  di  nuovo  la  forza  effettiva 
delle  milizie  cittadine;  e  sulla  fìne  della  seconda  guerra  sannitica 
si  cominciarono  a  levare  due  eserciti  consolari  di  due  legioni  per 
ciascuno.  Al  tempo  stesso  alla  divisione  della  falange  in  tre  parti 
diversamente   armate   secondo  il  censo  si  sostituì  la  divisione  in 


(1)  Fest.  epit.  p.  81. 

(2)  Fest.  p.  102. 

(3)  Liv.  I  43,  9.  Varrò  de  l.  l.  Vili  71:  eguitm  puhlician  mille  assarium  esse. 


NUOVE    RIFORME    MILITARI  207 

ire  parti  secondo  l'anzianità  di  servizio  (1),  benché  rimanesse  fino 
al  tempo  delle  guerre  pmiiclie  qualche  vestigio  del  diverso  arma- 
mento originario  delle  varie  classi  (2).  A  questo  punto  l'ordinamento 
militare  si  distaccò  dall'ordinamento  civile,  che  non  i^oteva  trasfor- 
marsi ad  ogni  istante  per  seguirne  tutti  i  progressi,  e  la  centuria 
come  suddivisione  della  cittadinanza  cessò  d'essere  in  rapporto  con 
la  centuria  come  suddivisione  dell'esercito  ;  mentre  le  classi  conser- 
varono invece  la  loro  importanza  per  la  formazione  delle  legioni, 
prescindendo  da  particolari  di  poco  conto,  nel  punto  capitale  che 
il  limite  tra  la  terza  e  la  quarta  classe  rimase  sempre  quello  stesso 
tra  il  servizio  nella  fanteria  pesante  e  nella  fanteria  leggera  (3). 
Intanto  che  aumentavano  l'esercito  nelle  guerre  sannitiche,  i  Ro- 
mani cominciarono  a  sciogliere  la  falange  in  miità  tattiche  minori. 
Presso  i  Grreci  è  bensì  probabile  che  la  falange  non  costituisse 
una  linea  ininterrotta  e  vi  fossero  qua  e  là  intervalli  maggiori 
tra  i  combattenti,  ma  la  tattica  greca  non  giunse  mai  a  render 
mobile  la  falange  di  fanteria  pesante  separandola  in  unità  tattiche 
minori  e  solo  ne  coordinò  sax3Ìentemente  i  movimenti  a  quelli  delle 
armi  siDeciaH.  Sembra  che  primi  i  Sanniti  dalla  stessa  natm-a  mon- 
tagnosa del  loro  territorio  fossero  indotti  a  far  meno  rigida  la 
falange,  sostituendo  nello  stesso  tempo  il  pilo  alla  lancia  che  si 
adopera  efficacemente  dalla  fanteria  solo  quando  procede  innanzi 
a  schiere  ben  serrate  tra  cui  non  può  insinuarsi  il  nemico.  Sul 
loro  esempio  i  Romani,  sempre  disposti  ad  accogliere  quelle  inno- 
vazioni di  cui  era  dimostrata  la  utilità  pratica,  armarono  del  pilo 
le  prime  linee  della  falange,  abolirono  lo  scudo  rotondo  sosti- 
tuendolo con  quello  oblungo  che  rendeva  meno  indispensabile  la 
corazza  e  con  dar  sempre  maggior  mobilità  alle  suddivisioni  della 
falange  crearono  la  tattica  manipolare  (4),  Ma  gli  stadi  dell'evo- 


(1)  Sopra  p.  199  n.  1. 

(2)  PoLYB.  VI  23,  14  (cfr.  sopra  p.  198  n.  1). 

(3j  Cfr.  PoLYf!.  VI  21,  7:  biaXéYOuai  tujv  dvòpàiv  toù<;  [xèv  v6ujt(Ìtou<;  koì  ire- 
vixpoTÓTOix;  el<;  Toùq  ypocjqpoiuàxouq. 

(4)  Ined.  Vatic.  'Hermes'  XXVII  (1892)  p.  121:  oùk  fjv  ó  Iouvitikò;  j^iuTv 
6upeò(;  TTÓrpioq  oùò'  ùaaovc,  eixo|U€v,  àW  àamaw  è^axóiueea  koì  bópaaiv  ...  àXXà 
Zauvixaiq  KaTaaxàvTec,  eì;  iróXeinov  Kai  toI<;  èKeivuuv  8up60ì(;  koì  ùaaolc,  ótiXia- 
Gévre;  ...,.  óXXotpiok;  ònXoiq  koI  Zì]\di}ji.aa\v  èòouXujactiueGa  xoùq  luéva  ècp'  éauTo!<; 
7Teq)povnKÓTa<;.  Cfr.  Diod.  XXIII  2  :  èrreiTa  TiàXiv  fiXXujv  è9viùv  Bupeoìq  xpi^M^viuv 
ole;  vOv  Ixouoi  Kal  aTreipaiq  |aaxo|aévujv,  óiurpÓTepa  |m|ur|aà,uevoi  TrepieYévovTO 
tOùv  e\or]yr]aajjié\/iuv  tò  KaXà  tujv  irapaòeiYMàTuuv.  Per  anticipazione  le  riforme 
nell'armamento  erano  almeno  in  parte  attribuite  a  Camillo,  v.  Plut.  Cam.  40. 


208  CAPO    XVII  -  l'ordinamento    CENTURIATO 

Itizione  che  fece  adottar  questa  nuova  tattica  ci  sono  ignoti,  e 
convien  quindi  rimandarne  lo  studio  all'età  in  cui  raggiunse  il  suo 
pieno  sviluppo,  quella  delle  guerre  puniche. 

Al  trasformarsi  della  fanteria  s'  accompagnò  quello  della  ca- 
valleria; o  per  dù'  meglio  solo  verso  la  fine  del  sec.  IV,  probabil- 
mente anche  qui  sull'  esempio  dei  Sanniti,  il  vecchio  equitatus 
romano,  che  era  più  che  altro  una  fanteria  montata  (I  p.  356),  si 
trasformò  in  una  vera  e  propria  cavalleria.  Ma  ora,  arrolandosi 
annualmente  quattro  legioni,  le  diciotto  centurie  di  cavalieri  di- 
vennero insufficienti  al  bisogno;  né  si  sarebbe  potuto  accrescerle 
senza  introdm-re  altre  modificazioni  sostanziali  nell'  ordinamento 
centuriato  per  ristabilire  queirequilibrio  tra  le  classi  che  s'era  stu- 
diato di  serbare  l'autore  di  esso.  Inoltre  era  già  grave  abbastanza 
la  spesa  che  importavano  le  diciotto  centurie  equestri.  Vero  è  che 
la  ricchezza  pubblica  s'era  notevolmente  aumentata  nella  seconda 
metà  del  sec.  IV;  ma  di  iDari  passo  con  l'accrescimento  della  cir- 
colazione metallica  procedeva  allora  il  rinvilimento  del  denaro  ; 
onde  appunto  in  quei  tempi  dovette  forse  cominciarsi  a  pagare  non 
meno  di  mille  assi  (librali)  per  la  compera  del  cavallo.  E  perciò 
convenne  provvedere  in  altro  modo  alle  esigenze  del  servizio  mili- 
tare. Secondo  narra  Livio  già  nel  403  av.  C.  durante  l'assedio  di 
Vei  furono  ammessi  a  servire  nella  cavalleria  volontari  che  si  for- 
nivano del  cavallo  a  prox^rie  spese  (v.  p.  141);  ed  altri  perfino  rife- 
rivano le  origini  di  quest'uso  ai  primordi  stessi  della  repubblica, 
ascrivendone  l'introduzione  al  dittatore  M'.  Valerio  del  494  (1).  Ma 
è  difficile  assai  che  sia  cosi  antico  siffatto  volontariato.  E  di  fatto 
X)er  molto  tem^jo  il  serxdre  nella  cavalleria  fu  x^rivilegio  patrizio, 
e  più  tardi  dovettero  a  lungo  bastare  le  diciotto  centurie  serviane; 
sicché  ai  cavalieri  volontari  non  convenne  ricorrere,  almeno  normal- 
mente, se  non  dalla  fine  del  sec.  IV.  Né  fu  difficile  trovarne.  Da 
molto  temi30  doveva  esser  verisimilmente  prescritto  dalla  legge  o 
almeno  dall'uso  che  solo  mediante  un  censo  determinato,  superiore 
a  quello  della  prima  classe,  si  potesse  avere  adito  alle  centurie 
equestri  (2).  Ma,  cresciuta  la  popolazione,  non  tutti  i  giovani  plebei 
agiati  riuscivano  ad  esservi  ammessi,  per  quanto  il  ridursi  del 
patriziato  rendesse  i3robabilmente  col  tempo  accessibili   anche  ai 


(1)  DioNYs.  VI  44. 

(2)  Liv.  V  7,  1  menziona  il  censo  equestre  già  nel  400.  Non  v'è  dubbio  che 
esso  esistesse  nel  II  sec.  av.  Cr.:  Liv.  XXXIV  31,  17.  Polyh.  VI  20,  9. 


BIFORME    NELLA    CAYALLEEIA  209 

plebei  le  sei  centurie,  in  origine  patrizie  (1),  dei  Tiziensi,  Ramnensi 
e  Luceri  primi  e  posteriori.  Ora  i  privilegi  dei  cavalieri,  quali  la 
dispensa  in  campo  di  certi  servizi  più  gravosi ,  Fuso  del  corto  man- 
tello con  righe  di  porpora  {trabea)  in  guerra  (2)  e  in  pace  della 
tunica  con  lunga  lista  purpurea  (clcwus)  (3),  il  diritto  di  portar 
Fanello  d'oro  in  luogo  del  comune  anello  di  ferro  (4),  il  soldo  triplo 
di  quello  della  fanteria  (5),  la  preferenza  nelle  distribuzioni  del 
bottino  e  nelle  assegnazioni  di  terreni  (6),  facevano  si  che  non 
mancassero  mai  i  volontari  a  cavallo.  E  cosi  fini  con  introdursi 
l'uso  che  i  censori  non  solo  stendessero  le  liste  dei  cavalieri  delle 
diciotto  centurie,  colmandone  man  mano  i  vuoti,  ma  anche  redi- 
gessero la  lista  di  tutti  quelli  che  per  censo,  per  età,  per  nascita 
ingenua,  per  fisico  erano  atti  a  servire  a  cavallo;  lista  che  serviva 
poi  alla  coscrizione  dei  volontari  di  cavalleria  (7),  o,  quando  i  vo- 
lontari non  si  presentavano,  per  effettuare  forzatamente  arrola- 
menti  di  cavalieri  obbligati  a  servire  con  cavallo  proprio,  il  che  si 
fece  almeno  a  partire  dalla  seconda  guerra  punica  (8).  Si  preparò 
così  la  formazione  di  quell'ordine  equestre  che,  già  ricordato  per 
anticipazione  dagli  annalisti  per  la  metà  del  V  secolo    o  ijersino 


(1)  Come  prova  il  nome  che  ad  esse  rimase  di  centurie  jrrocum  patì'icium, 
V.  sopra  I  p.  248  n.  1. 

(2)  DioNYs.  VI  13:  iTOpcpupa<;  cpoiviKo-rrapùopouc;  d|UTr6xó|uevoi  iri^évvac  -ràc,  ko- 
Xouuéva^  Tpa3éa<;. 

f3)  V.  MoMMSEN  Staatsrecht  III  513.  La  distinzione  tra  Vangustus  clavtts  dei 
cavalieri  e  il  latus  clavtis  dei  senatori  non  pare  anteriore  alla  metà  del  II  se- 
colo av.  Cr.  La  notizia  di  Livio  che  dopo  la  rotta  di  Gaudio  furono  lati  davi, 
anuli  aurei  positi  (IX  7,  8)  non  ha  alcun  valore.  La  prima  menzione  sicura  del 
latus  clavus  e  del  205  (Liv.  XXX  17,  13),  ma  senza  che  possa  ricavarsene  esser 
quella  già  insegna  senatoria.  Sulla  forma  del  clavus  v.  Marquardt  Privatleben 
der  Romei-  il  ^  p.  345  segg. 

(4)  Plin.  n.  h.  XXXIIl  29.  Cass.  Dio  XLVIII  45,  8.  Non  sappiamo  peraltro  ne 
quando  s'introducesse  l'uso  dell'anello  d'oro  pei  cavalieri  ne  quando  divenisse 
costante.  Mario  non  cambiò  l'anello  di  ferro  con  quello  d'oro  se  non  nel  suo 
terzo  consolato  :  Plin.  XXXIII  12. 

(5)  PoLYB.  VI  39,  12. 

(6j  Liv.  X  46,  16.  XXXIII  23,  7.  XXXIV  46,  3.  52,  11.  XXXVI  40,  13  etc.  — 
XXXV  9,  8.  XXXVII  57,  8.  XL.  84,  2. 

(7)  Così  nel  225  i  Romani  sarebbero  stati  secondo  Onos.  IV  13  in  numero 
di  26.600  cavalieri  (ossia  in  possesso  del  censo  equestre)  e  348.200  fanti.  Cfr, 
Beloch  Bevolkeruni/  p.  362  seg. 

(8J  Liv.  XX VII  11. 
G-.  De  Sanctis,  Storia  dei  Romani,  U.  14 


210  CAPO  xvn  -  l'ordinamento  centumato 

por  l'età  regia  (1),  acquistò  poi  in  effetto  importanza  sullo  scorcio 
dell'età  repubblicana. 

Ma  prima  che  i  progressi  dell'arte  militare  alterassero  così 
l'ordinamento  serviano,  esso  era  nello  stesso  tempo  un  ordinamento 
militare  e  civile,  in  cui  le  classi  erano  gravate  dal  tributo  esatta- 
mente nella  proporzione  stessa  che  su  di  esse  pesava  il  servizio 
militare.  Infatti  il  tributo,  prima  forse  eguale  per  tutti  quelli  che 
potevano  ser\'ire  in  guerra  con  armatura  pesante  (I  p.  346),  ora 
diviene  proporzionale  agli  averi  o,  jDer  dir  meglio,  al  censo  delle 
classi.  In  età  posteriore  i  censori  registravano  precisamente  gli 
averi  di  ciascuno,  e  quindi  ciascuno  era  tassato  in  proiDorzione  di 
ciò  che  possedeva  (2);  ma  in  origine  essi  probabilmente  si  limita- 
rono invece  a  distribuire  i  cittadini  secondo  le  loro  dichiarazioni 
nelle  varie  classi  ;  talché  quelli  della  prima  classe  a\a'anno  dovuto 
pagare  in  pro^jorzione  dei  loro  50  mila  assi  librali,  quelli  della 
seconda  in  proporzione  dei  loro  20  mila  e  cosi  via  (3).  Il  tributo 
non  serviva  che  a  sopperire  alle  spese  delle  spedizioni  militari: 
giacché  i  mezzi  per  provvedere  alle  non  molte  altre  spese  sia  ordi- 
narie sia  straordinarie  si  ricavavano  dai  redditi  dell'agro  pubblico, 
dai  dazi,  dalle  multe,  dalle  confische,  dal  monopolio  del  sale,  dalla 
"tassa  che  nel  357  fu  imposta  sulla  manumissione  degli  schiavi  {vi- 
cesima  libeìiatis)  (4).  E  può  ritenersi  che  il  tributo  cominciasse  a 
riscuotersi  in  specie  metalliche  anziché  in  natui'a  quando  fu  isti- 
tuito lo  stipendio  militare,  cioè  circa  il  tempo  in  cui  si  adottarono 
le  riforme  serviane  (5). 

n  nuovo  ordinamento  determinò  anche  il  trasformarsi  di  una 
delle  assemblee  popolari  romane,  i  comizi  centuriati.  Questa  as- 
semblea, che  era  in  origine  la  effettiva  riunione  del  popolo  in 
armi  (I  p.  355),  aveva  già  cominciato  a  crescer  d'importanza  col 
decimare  della  monarchia  (I  p.  428)  e  ne  aveva  acquistato  sempre 
più  man  mano  che  nel  corso  del  sec.  V  si  venne  moltiplicando  il 
numero  delle  centurie  e  si  spezzarono  i  legami  tra  esse  e  le  curie. 
Ora  l'ordinamento  centuriato  fece  d'una  adunanza  del  popolo  in 


(1)  Cass.  Dio  fr.  11,  4.  Liv.  IV  13,  1. 

(2)  Liv.  I  42,  5.  43,  13.  Dionys.  IV  9.  Varrò  de  l.  1.  V  181. 
(8)  Cfr.  E.  Meyeu  Geschichte  des  Altertums  II  654  seg. 

(4)  Liv.  VII  16,  7. 

(5)  Il  tributo  deirordinamento  serviano  suppone  lo  stipendio  militare.  In 
questo  senso  è  nel  vero  il  Soltau  quando  ritiene  il  tributo  non  anteriore  al 
406  (AU)'om.   Volksversammlungen  p.  404  segg.). 


I 


I   COMIZI    CENTURIATI  211 


Hi'ini  un'altra  assemblea  di  tutto  il  popolo  diviso  in  centuiie.  A 
quel  tempo  tutto  il  popolo  si  congregava  nei  comizi  curiati,  e  la 
plebe,  escluso  il  patriziato,  si  riuniva  nell'assemblea  tributa;  ma 
il  predominio  delle  genti  patrizie  coi  loro  clienti  scemava  d'assai 
l'autorità  dei  comizi  curiati,  ora  che  il  popolo  veniva  acquistando 
coscienza  di  sé,  e  l'esclusione  dei  patrizi,  nonostante  l'autorità  che 
davano  ad  essi  di  fatto  nello  Stato  le  loro  ricchezze,  l'opera  che 
prestavano  alla  difesa  comune  e  la  forza  delle  consuetudini,  rendeva 
incerta  e  vacillante  l' autorità  dell'  assemblea  tributa.  Il  trasfor- 
m.arsi  dell'adunanza  per  centm'ie  fece  sì  che  questa  fosse  di  fatto 
e  di  dii"itto  l'assemblea  predominante  della  repubblica  ;  poiché  non 
escludeva  i  patrizi,  mentre  non  dava  più  ad  essi  una  supremazia 
che  in  pratica  non  erano  più  in  grado  di  esercitare;  e  assicurava 
il  potere  a  quella  classe  che  le  circostanze  chiamavano  in  effetto 
ad  assumerlo,  la  classe  dei  contadini  proprietari,  che  appunto  allora 
col  tributo  del  denaro  e  del  sangue  salvava  la  repubblica  dalla 
rovina.  E  cosi  avvenne  che  la  nuova  assemblea  trasse  a  sé  quel 
che  rimaneva  dei  poteri  legislativi  ed  elettorali  dei  comizi  empiati 
e  potè  tener  testa  x^er  qualche  temx)o  all'assemblea  tributa  come 
ai  comizi  delle  curie,  esautorati,  non  sarebbe  riuscito. 

Non  v'ha  errore  più  grave  di  quello  che  si  commette  da  molti 
riguardando  i  comizi  centuriati ,  quali  si  raccolsero  in  virtù  del- 
l'ordinamento serviano,  come  la  cittadella  del  patriziato,  mentre 
è  evidente  che  anche  nella  prima  classe,  tra  non  meno  di  12  mila 
iscritti,  i  patrizi  non  potevano  costituire  che  una  minoranza.  Da 
ciò  stesso  si  vede  quanto  sia  errato  considerare  siffatti  comizi 
come  l'assemblea  principale  dello  Stato  patrizio  del  V  secolo.  Ohe 
anzi  alle  centurie  convocate  secondo  questa  riforma  dopo  l'incendio 
gallico  si  deve  se  i  patrizi  furono  costretti  ad  accordare  ai  plebei 
piena  parità  di  diritti.  Non  v'ha  dubbio  del  resto  che  nei  comizi 
centuriati  prima  delle  riforme  democratiche  del  sec.  HI  aveva 
assoluto  predominio  il  ceto  di  quei  proprietari  a  cui  i  loro  beni 
assicuravano  la  piena  indipendenza  economica.  E  bensì  vero  che 
tutti  griscritti  nelle  cinque  classi  avevano  teoricamente  pari  diritto 
di  voto  e  che  questa  eguaglianza  teorica  era  avvalorata  dalla  ap- 
prossimativa parità  numerica  tra  gl'iscritti  alle  centui-ie  di  ogni 
classe  (p.  202).  Ma  la  prima  classe  insieme  coi  cavalieri  non  solo 
disponeva  di  più  della  metà  dei  voti,  si  era  anche  chiamata  a 
votare  innanzi  alle  altre;  grande  privilegio,  perché  è  noto  quanto 
sempre  nelle  assemblee  numerose  influiscano  i  primi  votanti,  e 
inoltre  perchè  la  priorità  cronologica  del  voto  faceva  non  solo  che 
la  prima  classe,  se  era  concorde,  assicurasse  la  nomina  d'un  can- 


212  (Al'O    X\  Il  -  l\)J{1)ìXAMENT0   cexturiato 

didato  o  Tapprovazione  d'una  legge,  ma  che  le  altre  classi  non  s'in- 
terrogassero del  loro  parere,  usandosi  sospendere  la  votazione  non 
appena  una  proposta  avesse  raccolto  la  maggioranza  dei  suffragi. 
Così  i  cittadini  della  quarta  e  della  quinta  classe  avranno  eserci- 
tato assai  di  rado  il  loro  diritto  di  voto,  e  talvolta  non  saranno 
stati  chiamati  a  farne  uso  neppur  quelli  della  terza  e  della  se- 
conda (1).  Or  questa  inferiorità  era  compensata,  almeno  per  la  quarta 
e  la  quinta  classe,  dai  minori  sacrifìci  che  se  ne  chiedevano  a  van- 
taggio della  repubblica;  ma  ad  ogni  modo  con  tale  ordinamento 
dei  comizi  la  voce  della  minoranza  meno  abbiente  e  priva  della 
piena  indipendenza  economica  era  in  sostanza  soffocata  affatto  da 
quella  della  maggioranza  dei  piccoli  proprietari.  Questo  giovò 
senza  dubbio  a  quella  concentrazione  di  energie  di  cui  lo  Stato 
romano  aveva  allora  tanto  bisogno  e  che  la  minoranza  meno 
agiata  avrebbe  potuto  turbare  se  avesse  avuto  facoltà  di  far 
sentire  la  sua  voce,  per  quanto  fosse  pericoloso  per  gl'interessi  di 
una  classe  della  x^opolazione  che,  dopo  di  essere  stata  ])er  molto 
tempo  in  minoranza,  doveva  passo  passo  diventare  maggioranza. 
Ma  i  danni  dei  limiti  illiberali  posti  alla  manifestazione  legale  dei 
desideri  della  classe  meno  abbiente  non  apparvero  che  assai  più 
tardi,  quando  appunto  per  effetto  di  quei  limiti  rimase  diminuita 
l'efficacia  della  resistenza  che  i  comizi  centuriati  opponevano  ai 
concili  tributi  della  plebe.  Per  allora  della  riforma  dei  comizi  cen- 
turiati non  si  videro  che  gli  effetti  benefici. 

Primo  fu  l'ammissione  dei  plebei  al  consolato  (2).  Quando  l'eser- 


(1)  Cfr.  Cic.  de  re  p.  Il  22,  39. 

(2)  Si  è  asserito  recentemente,  partendo  dall'  esame  dei  fasti,  che  fin  dalle 
origini,  checche  dica  la  tradizione,  il  consolato  fu  accessibile  ai  plebei,  cfr. 
ScHAEFER  '  N.  Jahrbb.  f.  Phil.  '  CXIII  (1876)  p.  574  segg.  Infatti  nei  fasti  più 
antichi  si  trovano  nomi  che  in  età  storica  appartengono  esclusivamente  a  fa- 
miglie plebee  :  tali  sono  quelli  di  Bruto,  di  Sp.  Cassio  (cos.  502,  493,  489),  di 
P.  Volumnio  (461),  dei  Sempronì  (497,  491,  423),  dei  Minueì  (497,  492,  491,  458, 
457)  e  dei  Genucì  (451,  445).  Dopo  il  366  invece  non  son  registrati  nei  fasti  che 
lunì,  Cassi,  Volumnì,  Sempronì,  Minueì  e  Genucì  plebei  (rispettivamente  dal 
325,  171,  307,  304,  305,  365;.  Ora,  fatta  eccezione  pei  soli  Genucì,  in  tutti  gli 
altri  casi  tra  i  consoli  plebei  che  portano  questi  nomi  e  i  loro  omonimi  della 
prima  parte  dei  fasti  vi  ha  sempre  un  intervallo  di  più  d'un  secolo.  Questo 
si  spiega  assai  bene  ammettendo  che  i  Sempronì  o  Minuci  più  antichi  appar- 
tenessero a  famiglie  patrizie  estinte,  le  quali  con  le  famiglie  plebee  omonime 
non  avessero  attinenze  diverse  da  quelle  che  correvano  in  età  storica  tra  i 
Claudi  patrizi  e  i  plebei  Claudi  Marcelli,  mentre  non  sarebbe  facile  a  spiegare^ 


AMMISSIONE    DEI    PLEBEI   AL    CONSOLATO  213 

cito  romano  si  metteva  insieme  mediante  la  leva  annua  di  due 
legioni,  la  necessità,  tanto  più  sentita  quanto  più  le  condizioni  dello 
Stato  eran  pericolose,  di  dare  al  comando  tutta  l'unità  d'indirizzo 
compatibile  col  principio  repubblicano  della  collegialità  doveva 
ispirare  ad  ogni  Romano  ben  pensante  il  proposito  di  ristabilire  al 
di  sopra  dei  tribuni  militari  l'imperio  dei  consoli.  Ma  v'era  una 
duplice  difficoltà  :  da  un  lato  era  affatto  impossibile  che  i  plebei, 
dopo  aver  avuto  posto  per  tanti  anni  fra  i  tribmii  militari  con  po- 
testà consolare,  si  adattassero  a  sottostare  di  nuovo  ad  una  ma- 
gistratura suprema  esclusivamente  patrizia  ;  dall'  altra  i  patrizi 
amavano  meglio  che  il  consolato  andasse  in  disuso  di  quel  che 
dividerlo  coi  plebei. 

E  noto  come  la  storia  di  questo  grandioso  cozzo  di  tradizioni 
e  d'interessi  sia  stata  rimpicciolita  nell'  aneddoto  delle  figlie  di 
M.  Fabio  Ambusto,  di  cui  l'una  aveva  sposato  il  patrizio  Ser.  Sul- 
picio,  l'altra  il  plebeo  C.  Licinio  Stolone.  Le  due  sorelle  si  trova- 
vano insieme  nell'abitazione  di  Sulpicio  allorché,  tornando  costui  a 
casa  col  suo  sèguito,  un  littore  percosse,  come  èra  uso,  la  porta  con 
la  verga.  Ne  rimase  atterrita  la  sorella  minore,  mentre  la  sorella 
maggiore  che,  sposa  d'un  magistrato,  era  istruita  di  queste  usanze, 


dato  l'ossequio  che  sempre  i  Romani  ebbero  per  la  nobiltà,  se  si  fosse  trat- 
tato delle  stesse  famiglie  tornate  al  potere  dopo  averlo  lasciato  da  uno  o  più 
secoli.  Quindi  i  fasti  non  solo  non  contraddicono  la  tradizione  unanime  che  il 
consolato  fosse  in  origine  accessibile  ai  soli  patrizi,  ma  anzi  la  confermano. 
—  Del  resto  A.  Enmann  Die  àlteste  Redaction  der  rom.  Consularfasten  nella 
''  Zeitschrift  fiir  alte  Geschichte  '  I  p.  93,  cfr.  '  Rhein.  Museum  '  LVII  (1902) 
p.  520  n.  1,  ritiene  che  i  Volumnì,  Minucì,  Semproni  e  Genucì  che  compari- 
scono nei  fasti  consolari  piìi  antichi  sieno  stati  interpolati  a  maggior  onore 
dei  consoli  L.  Volumnio,  Ti.  Minucio,  P.  Sempronio  e  L.  Genucio  del  307-5  e 
quindi  che  la  nostra  redazione  dei  fasti  dipenda  da  quella  che  ne  fu  data  da 
un  compilatore  poco  coscienzioso,  forse  Cn.  Flavio,  sulla  fine  del  sec.  IV.  Ora 
prescindendo  qui  da  Flavio,  par  chiaro  che  un  falsario  di  quella  età  avrebbe 
introdotto  nei  fasti  i  nomi  plebei  più  famosi  della  seconda  metà  del  sec.  IV, 
Deci,  Marcì,  Poplili,  piuttosto  che  gli  oscuri  Volumnì  o  Semproni.  Inoltre  al- 
lora quali  fossero  le  famiglie  i  cui  avi  erano  stati  consoli  si  doveva  saper 
bene  da  tutti  ;  e  quindi  inventare  nuovi  consolati  di  famiglie  consolari  forse 
si  poteva,  ma  inventarne  di  homines  novi  doveva  essere  impossibile.  Sicché 
la  ipotesi  dello  Enmann  come  non  è  necessaria  a  spiegare  i  fatti,  così  non  è 
neppure  sufficiente  ;  e  però  va  respinta.  Al  metodo  fallace  dello  Enmann  ha 
il  torto  di  essersi  attenuto  anche  G.  Sigwabt  '  Beitràge  zur  alten  Geschichte  ' 
VI  a906)  p.  278  segg. 


21 4r  CAPO  XVII  -  l'ordixamento  centuriato 

se  ne  rise.  Di  ciò  si  sentì  offesa  l'altra;  e,  istigati  da  lei,  il  padre, 
il  marito  e  un  tal  L.  Sestio  deliberarono  d'iniziare  un'  agitazione 
che  aprisse  alla  plebe  la  via  degli  onori  (1).  Livio  riferendo  questo 
aneddoto  non  s'è  dato  la  briga  di  riflettere  che  la  figlia  d'un  Fabio, 
nata  in  una  famiglia  dov'erano  ereditarie  le  più  alte  magistrature^ 
doveva  ben  sapere  come  si  riconducessero  a  casa  i  m.agistrati;  che 
i  tribuni  militari,  patrizi  o  plebei,  non  mancavano  di  littori,  che 
Ser.  Sulpicio  non  era  stato  console,  ma  tribuno  militare;  e  che 
nulla  impediva  al  x^lebeo  Licinio  Stolone,  se  raccoglieva  i  neces- 
sari suffragi,  di  divenire  tribuno  militare  nel  modo  più  legale  e 
di  dar  così  alla  moglie  la  soddisfazione  di  vederlo  accompagnare 
a  casa  da  un  littore.  Onde  l'aneddoto,  privo  di  senso  com'è,  è  in- 
teressante solo  in  quanto  mette  in  chiaro  il  risparmio  di  lavoro 
intellettuale  che  si  credevano  lecito  gli  storici  antichi. 

La  tradizione  pertanto,  motivando  il  racconto  con  l'aneddoto 
or  nan-ato,  riferisce  che  C.  Licinio  e  L.  Sestio,  tribuni  della  plebe, 
presentarono  nel  377  tre  rogazioni,  una  per  cui  si  doveva  annual- 
mente creare  un  console  plebeo,  una  sui  debiti  e  una  sull'agro 
pubblico.  A  vincere  l'oiDposizione  patrizia  i  plebei  rielessero  per- 
tinacemente per  dieci  anni  gli  stessi  tribuni,  anzi  i3er  cinque  anni 
(375-371)  impedirono  che  si  nominassero  magistrati  forniti  d'im- 
perio. I  patrizi  ricorsero  in  questo  frangente  all'aiuto  estremo- 
delia  dittatura,  e  per  opera  loro  fu  eletto  dittatore  la  quarta  volta 
nel  368  Camillo;  ma,  costretto  ad  abdicare,  fu  sostituito  da 
P.  Manlio,  il  quale,  per  compiacere  la  classe  popolare,  scelse  a 
maestro  della  cavalleria  un  C.  Licinio,  che  secondo  alcune  fonti 
era  il  tribuno  stesso  della  plebe.  Finalmente  nel  367  Camillo  creato 
dittatore  per  la  quinta  volta  e  con  lui  il  senato  dovettero  i^iegarsi 
al  volere  della  maggioranza;  e,  adottate  le  rogazioni  Licinie,  si 
elesse  pel  366  il  primo  console  plebeo  L.  Sestio  (2). 

Vi  hanno  in  questo  racconto  non  pochi  punti  assai  incerti.  Cosi 
par  quasi  impossibile  che  si  rimanesse  per  cinque  anni  senza  capi 
forniti  d'imperio  in  uno  Stato  guerriero  come  il  romano  e  per  di  più 
circondato  allora  da  nemici;  e  già  s'è  visto  che  l'anarchia  annua 
registrata  da  qualche  fonte  più  fededegna  sembra  siasi  protratta 
arbitrariamente  a  cinque  anni  nella  redazione  rimasta  poi  canonica 
dei  fasti  (I  p.  9).  Poi  il  contrapposto   tra   Camillo  e  M.  Manlio,  i 


(1)  Liv.  VI  34.  Cass.  Dio  fr.  27.  Zon.  VII  24. 

(2)  Liv.  VI   34-42.  F.  Capit.  ad  a.  368-366.  Plut.  Cam.  89.  Dionys.  XIV   12, 
Ca88.  Dio  fr.  27,  5.  Zon.  VII  24. 


ROGAZION'I    LICINIE  '215 


leggendari  salvatori  del  Campidoglio,  sembra  rivivere  nel  contrap- 
posto dei  due  dittatori  del  368;  e  questo  e  il  nome  stesso  di  Li- 
cinio non  ci  fa  troppo  persuasi  della  realtà  storica  del  primo 
maestro  dei  cavalieri  plebeo,  die  potrebbe  anclie  esser  dovuto  alla 
fantasia  dell' annalista  Licinio  Macro,  colj)evole,  a  quanto  pare,  di 
non  poche  invenzioni  a  maggior  gloria  dei  Licini.  E  persino  intorno 
al  racconto  del  vecchio  Camillo  che,  rinunciando  a  difender  idìù 
oltre  i  privilegi  dell'aristocrazia,  salva  per  una  seconda  volta  la 
patria,  già  da  lui  salvata  al  tempo  dell'incendio  gallico,  può  sor- 
gere il  sospetto  che  questo  secondo  salvamento  sia  ricopiato  sul 
primo  e  quindi  al  pari  di  esso  di  scarso  valore  storico.  E  altresì 
incerto  se  Camillo  a  commemorare  la  pacificazione  fra  patriziato 
e  plebe  abbia  eretto  realmente  alle  falde  del  Cami3Ìdoglio  il  temx3Ìo 
della  Concordia  (1),  per  quanto  non  sia  dubbio  che  il  santuario  poi 
riedificato  dal  console  L.  Opimio  nel  121  (2)  era  abbastanza  antico 
e  che  non  deve  confondersi  con  l'edicola  della  Concordia  innalzata^ 
sulla  fine  del  sec.  lY  da  Cu.  Flavio  (3). 

Non  v'è  peraltro  ragione  sufficiente  per  negar  fede  p^^^r^  stessa 
rogazione  Licinia-Sestia  sul  consolato.  Se  anche  per  ^j^^  scrittore 
che  suol  seguire  una  tradizione  meno  interpo^^^-jj^  ojà  fin  dal  449 
fm^ono  ammessi  i  plebei  a  quella  ma2;Vstratura  (4),  questo  è  pro- 
babilmente perchè  la  leggenda,  non  cm-ante  di  documenti  né  di 
particolari,  ascriveva  ai  due  instauratori  della  libertà,  L.  V'alerio 
e  M.  Orazio,  gli  ordinamenti   posteriori  dell'età  repubblicana;   e 


(1)  OviD.  fast.  I  641  seg.  Plut.  Cam.  42.  Livio  ne  tace. 

(2)  Appian.  b.  e.  1  26.  Plut.   C.  Gracch.  17. 

(3)  Che  si  trattasse  d'una  aedicula  aerea  è  detto  da  Plin.  n.  h.  XXX] II  ly, 
Liv.  IX  46,  6  la  riguarda  come  aedes  e  come  templum,  il  che,  se  la  parola' 
temiiliim  e  presa  nel  suo  senso  rigoroso,  non  è  in  contraddizione  con  la  notizia 
di  Plinio,  la  quale  ad  ogni  modo  non  è  da  mettere  in  dubbio,  confermata 
com'era  dalla  iscrizione  posta  sulla  aedicula  da  Flavio.  Il  Pais  trattando  con 
una  certa  confusione  del  tempio  della  Concordia  (Storia  di  Roma  I  2  p  139  n  ) 
sembra  ritenere  che  il  tempio  edificato  da  Opimio  sia  stato  attribuito  per  an- 
ticipazione a  Camillo  od  a  Flavio;  ma  non  è  dubbio  che  un  importante 
edifizio  dedicato  alla  Concordia,  da  non  confondersi  con  la  aedicula  aerea  di 
Flavio,  sorgesse  già  nel  217  nell'area  Concordiae  sul  Poro  quando  se  ne  eresse 
un  altro  in  arce  (Liv.  XXII  33,  8).  Onde,  prescindendo  da  Camillo,  se  pur  era 
congettura  e  non  tradizione  che  fosse  stato  costruito  quando  si  chiuse  nel  367 
l'aspra  lotta  tra  plebe  e  patriziato,  era  certo  congettura  assai  felice. 

(4)  DioD.  XII  25,  2.  Delle  dissensioni  di  questi  anni  Diodoro  non  fa  che  un 
brevissimo  cenno,  XV^  6J_,  1.  75,  1. 


216  CAPO   XVn  -  l/ORDIXAMEXTO    CENTURIATO 

quindi  a  quella  notizia  non  è  da  attribuire  più  valore  che  alle  altre 
sulle  istituzioni  introdotte  dal  buon  re  Servio.  Che  se  pure  Licinio 
Macro  od  un  altro  annalista,  rilevando  che  dal  366  compaiono  nei 
fasti  consoli  plebei,  avessero  escogitato  una  legge  del  367  diretta  a 
chiamare  i  plebei  a  parte  di  quella  magistratiu'a,  non  sarebbe  da 
dir  questa  una  congettura  fuor  di  ragione;  è  difiicile  infatti  che 
senza  legge  si  potesse  attuare  una  riforma  cosi  importante  nella 
^'ita  costituzionale  della  città,  quale  era  quella  della  elezione  di 
consoli  plebei.  E  vero  che  anche  dopo  il  367,  stando  ai  fasti,  furono 
eletti  più  d'una  volta  due  patrizi  a  consoli  (1);  ma  forse  la  spie- 
gazione dell'  anomalia  sta  in  ciò  che  la  legge  rendeva  soltanto 
facoltativo,  non  obbligatorio,  di  nominare  uno  dei  due  consoli  tra 
i  plebei.  Insomma,  se  non  certo,  almeno  probabile  può  dirsi  che 
una  rogazione  Licinia  Sestia  sul  consolato  sia  stata  in  effetto  votata 
nel  367;  e  il  fatto  che  la;  legge  agraria  e  fors' anche  Taltra  legge 
di  Sestio  e  di  Licinio  sui  debiti  son  falsificazioni  può  addursi  più 
a  favore  che  contro  la  storicità  della  rogazione  sul  consolato,  la 
quale  sarebbe  stata  come  il  nucleo  intorno  a  cui  si  vennero  rac- 
cogliendo le  invenzioni  dell'annalistica. 

Vigeva  noniinalmente,  per  quanto  fosse  caduta  m  disuso  al 
tempo  di  Tiberio  Gracco,  ima  legge  che  ^detava  di  occu^jare  più  di 
cinquecento  iugeri  di  agro  pubblico  e  di  tenervi  più  di  cento  capi 
di  bestiame  grosso  e  cinquecento  di  bestiame  minuto  (2).  Or  questa 
legge,  che  è  senza  dubbio  una  sola  cosa  con  la  pretesa  rogazione 
Licinia  di  Livio,  viene  esplicitamente  ritenuta  da  altri  scrittori 
come  posteriore  alla  conquista  romana  dTtalia.  E  con  ragione; 
perchè  essa  mii-ava  a  limitare  il  moltiplicarsi  dei  latifondi  e  l'esten- 
dersi dei  pascoli  a  danno  dell'agricoltiu-a,  mentre,  con  una  dispo- 
sizione accessoria  che  obbligava  ad  impiegare  un  certo  numero  di 
agricoltori  liberi,  cercava  di  proteggere  questi  contro  la  concor- 
renza  degli  schiavi.   La  legge  pertanto    presupponeva  un  esteso 


(1)  Così  negli  anni  355,  354,  353,  351,  349,  345,  343. 

(2)  App.  b.  e.  I  8.  Plut.  Ti.  Gracch.  8,  che  attingono  sia  direttamente  sia 
indirettamente  da  Posidonio  Rodio.  Il  più  antico  accenno  a  questa  legge  è  in 
Cato  orig.  fr.  95  e  Peteb.  Su  tutto  ciò  v.  Niese  '  Hermes  '  XXIII  (1888) 
p.  410  segg.,  il  quale  per  primo  ha  chiarito  questo  punto  capitale  per  la 
storia  di  Roma.  Ritener  siffatta  legge  col  Maschke  Zur  Theoiic  und  Geschichte 
der  r'òin.  Agrargesetze  (Tiibingen  1906)  p.  50  sogg.  una  semplice  falsificazione 
ispirata  alla  legge  Sempronia  non  è  consentito  dalla  testimonianza  di  Catone, 
che  non  può  troppo  leggermente  mettersi   da  un  canto.    Cfr.  sopra  p.  7  n.  1 


ROGAZIONI    LICINIE  217 


agro  pubblico  e  abbondanza  di  scliiavi:  il  che  corrisponde  alle 
condizioni  d'Italia  dopo  la  seconda  gueiTa  punica,  non  a  quelle 
della  prìma  metà  del  IV  secolo,  quando  dei  2000  km'  che  abbrac- 
ciava il  territorio  romano  dopo  la  presa  di  Veì  ben  jjoco  poteva 
rimanere  all'agro  pubblico,  escluso  il  suolo  occupato  dalla  città  e 
dalle  saline,  i  boschi  sacri,  il  territorio  di  Ostia,  i  distretti  delle 
17  tribù  rustiche  più  antiche  e  quelli  delle  quattro  nuove  fondate 
nel  territorio  veiente.  E  se  l'acquisto  della  regione  pontina  è  an- 
teriore al  367,  anche  qui  le  tribù  Pomx)tina  e  Poplilia  istituite 
nel  358  (1)  provano  che  in  massima  parte  la  si  distribuì  fra  cit- 
tadini. Del  resto  anche  la  relativa  densità  della  popolazione  cit- 
tadina nel  ristretto  territorio  romano  e  la  scarsezza  dogli  schiavi 
esclude  che  vi  potessero  esser  centinaia  di  ricchi  possessori  di  più 
di  cinquecento  iugeri  d'agro  pubblico.  Rimane  così  dimostrato 
che  la  rogazione  agraria  Licinia  Sestia  anticipa  mia  legge  assai 
posteriore. 

Allo  stesso  ordine  di  falsificazioni  sembra  appartenere  anche 
l'altra  rogazione  Licinia  Sestia,  secondo  cui  dovevano  dedm'si  dal 
capitale  d'ogni  debito  gl'interessi  pagati  e  il  resto  liquidarsi  dai 
debitori  in  rate.  Questo  provvedimento  pare  infatti  troppo  rivolu- 
zionario per  un'età  conservatrice  e  rispettosa  dei  diritti  acquisiti 
come  il  principio  del  sec.  IV  (2).  Ma  non  sarebbe  in  forza  soltanto 
di  tale  considerazione  da  dubitar  della  realtà  storica  della  legge, 
se  non  ci  apparisse  collegata  strettamente  con  altre  sicure  o  pro- 
babili falsificazioni  di  Licinio  Macro. 

Non  s'arrestarono  del  rimanente,  do^jo  che  fu  ammessa  al  con- 
solato, i  trionfi  della  plebe.  Già  vedemmo  che  secondo  la  tradizione 
quando  si  rese  accessibile  ai  plebei  il  consolato  si  tolsero  ai  consoli 
parte  delle  loro  attribuzioni  per  conferirle  ad  un  pretore  creato 
esclusivamente  tra  i  patrizi.  Vedemmo  altresì  come  la  ragione  di 
questa  notizia,  probabilmente  errata,  stia  nell'  essersi  conservati 
dal  366  i  fasti  dei  pretori  urbani  (e.  XI);  ne  deve  stupù-e  che  i 
fasti  pretori  cominciassero  appunto  nell'anno  in  cui  fu  instaurato 
novamente  il  consolato  ;  poiché  quell'anno  dopo  lungo  intervallo  si 
dovette  ricominciare  ad  eleggere  il  pretore  ;  non  c'è  dubbio  infatti 
che  i  comizi  pretori  erano  stati  sospesi  al  pari  dei  consolari  quando 


(1)  Liv.  VII  15. 

(2)  Più  tardi  invece  si  fecero  in  questa  materia  leggi  anche  più  rivoluzio- 
narie, p.  es.  la  Valeria  dell' 86;  e  può  darsi  che  sull'esempio  appunto  di  leggi 
siffatte  si  sia  inventata  la  rogazione  Licinia. 


218  CAPO  XVII  -  l'ordinamento  centukiato 

in  luogo  dei  consoli  si  eleggevano  i  tribuni  dei  militi.  Ma  la  notizia 
clie  mentre  si  concedeva  ai  plebei  d'essere  eletti  consoli  non  potesse 
esser  plebeo  il  pretore,  collega  dei  consoli  con  imperio  minore, 
appare  affatto  inverisimile.  E  forse  la  legge  Licinia  Sestia,  dichia- 
rando clic  uno  dei  pretori  poteva  esser  plebeo,  si  riferiva  tanto  ai 
pretori  massimi  quanto  al  pretore  urbano.  Non  è  men  vero  però 
che  fino  a  quando  uno  solo  dei  tre  posti  di  pretore  fu  accessibile 
ai  xjlebei,  aspirando  essi  naturalmente  alla  pretura  massima,  la 
pretm'a  ui'bana  dovette  rimanere  in  mano  dei  patrizi. 

Ci  vien  riferito  che  un  plebiscito  Grenucio  nel  342  diede  facoltà 
di  nominare  ambedue  i  consoli  plebei  (1).  Di  questo  plebiscito 
alciuii  hanno  negato  la  storicità  o  almeno  hanno  esitato  ad  am- 
mettere che  potesse  aver  forza  di  legge;  e,  in  ogni  modo,  par 
molto  strano  che  la  plebe  lasciasse  poi  trascorrere  più  d'un  secolo 
prima  di  trar  xjartito  della  facoltà  che  esso  le  accordava;  dacché 
nel  215  si  elessero  per  la  prima  volta  a  consoli  due  plebei,  senza 
che  si  riuscisse  però  a  farne  entrare  in  carica  più  di  uno  (2),  e  solo 
nel  172  due  consoli  plebei  tennero  in  effetto  la  suprema  autorità 
nello  Stato  (3).  Sembra  quindi  che  il  plebiscito  Genucio  permet- 
tesse semplicemente  ai  plebei  d'occupare  due  dei  tre  posti  di  pre- 
tore; ed  accettando  questa  interpretazione  va  ritenuto  che  non 
molto  dopo  la  sua  promulgazione  riuscissero  infatti  i  plebei  a  gio- 
varsene nei  comizi,  quando  cioè  nel  337  fu  eletto  il  primo  pretore 
plebeo  Q.  Publilio  Filone  (4).  Divenuto  del  resto  accessibile  ai  plebei 
il  consolato  non  v'era  bisogno  di  legge  speciale  perchè  fossero 
ammessi  alla  più  importante  magistratm-a  straordinaria,  la  ditta- 
tm^a,  e  alla  più  imiDortante  magistratm-a  ordinaria  dopo  il  conso- 
lato, la  censura.  C.  Mario  Rutilo  fu  nel  356  il  primo  dittatore  e 
nel  351  il  primo  censore  plebeo  (5).  E  finalmente  nel  339  una  delle 
rogazioni  Publilie  stabili  che  uno  dei  censori  dovesse  e  ambedue 
potessero  esser  plebei  (6);  e  per  due  secoli  il  collegio  dei  censori 
fu  sempre  composto  d'un  patrizio  e  d'un  plebeo  (7). 

Cosi  nel  lasso  di  trent'anni  dopo  la  rogazione  Licinia  tutte  le 


(1)  Liv.  VII  42. 

(2)  Liv.  XXIII  31,  13. 

(3)  F.  Capii,  ad  a.:  ambo  primi  de  plebe. 

(4)  Liv.  VIII  15,  9.  X  8,  8. 

(5)  Liv.  VII  17.  22.  X  8,  8. 
(6j  Liv.  Vili  12,  16. 

(7)  Ambedue  i  censori  furono  plebei  per  la  prima  volta  nel  131  :  Liv.  epit.  59. 


NUOVE  YITTOKIE  DELLA  PLEBE  219 

magistrature  politiclie  divennero  accessibili  alla  plebe  (clie  alla 
questura  era  già  ammessa  da  prima),  con  una  sola  eccezione,  di 
pocliissimo  conto  del  resto,  quella  della  carica  d'interré.  Frat- 
tanto nella  Cmùa  avevano  cominciato  ad  entrare  in  misura  sempre 
più  larga  senatori  plebei.  Non  è  difficile  che  circa  la  metà  del 
sec.  IV  si  stabilisse  tra  i  senatori  plebei  ed  i  patrizi  quel  raj)porto 
numerico  die  la  tradizione  ripete  dai  primi  consoli  (1).  E  mentre 
il  patriziato  si  vedeva  costretto  a  rinunziare  a  poco  a  poco  ai 
suoi  pri\'ilegi,  la  X3lebe  cessava  al  tempo  stesso  di  formare  uno  Stato 
nello  Stato.  Un  esem^^io  caratteristico  di  questa  evoluzione  si  ha 
nel  trasformarsi  della  edilità.  Accanto  agli  edili  plebei,  ehe  con- 
tinuavano ad  esser  nominati  nelle  assemblee  tribute  della  plebe, 
dal  367  due  altri  edili  forniti  delle  medesime  attribuzioni  di  quelli 
si  presero  ad  eleggere  non  nei  concili  plebei  o  nei  comizi  centu- 
riati,  si  neir  assemblea  di  tutti  i  cittadini  riuniti  per  tribù,  che 
allora  si  convocò  per  la  prima  volta,  ossia  designandoli  al  moda 
stesso  degli  edili  plebei  con  la  sola  differenza,  capitale  del  resto 
dal  x)nnto  di  vista  giuridico,  qualunque  fosse  poi  la  sua  importanza 
pratica,  che  al  voto  prendevano  parte  anche  i  x)atrizi.  Questi  edili, 
detti  curuli  per  distinguerli  dagli  altri,  si  stabili  secondo  la  tradi- 
zione fin  dal  366,  mentre  erano  in  carica  i  due  primi  edili  cmnili 
patrizi,  che  dovessero  essere  scelti  un  anno  fra  i  patrizi  ed  uno  tra 
i  plebei  (2)  ;  e  siffatto  tmiio  fu  mantenuto  sin  verso  il  termine  della 
repubblica.  Gli  edili  curuli  si  occupavano  al  xDari  dei  loro  colleghi 
plebei  soprattutto  della  polizia  urbana  e  della  j)olizia  del  mercato, 
due  uffici  la  cui  importanza  col  trasformarsi  di  Roma  in  grande 
città  diveniva  sempre  maggiore;  sorvegliavano  insieme  con  quelli 
Tarcliivio  j)ubblico  nell'  erario  di  Saturno  (sembra  che  da  allora 
perdesse  d'importanza  l'archivio  plebeo  del  tempio  di  Cerere)  e 
dividevano  coi  colleghi  plebei  la  gimisdizione  criminale  di  grado 
inferiore.  Divenuti  di  fatto,  se  non  di  diritto,  colleghi  di  due  ma- 
gistrati dello  Stato,  gli  edili  della  plebe,  sebbene  alla  loro  elezione 
non  partecipassero  tutti  i  cittadini,  finirono  col  cessare  effettiva- 
mente d'esser  magistrati  rivoluzionari  e  quindi  al  pari  degli  altri 
pubblici  ufficiali  si  ridussero  a  sottostare  ai  consoli,  mentre  si  di- 
menticò volentieri  che  la  loro  potestà  era  sacrosanta  dal  momento 


(1)  Fkst.  p.  254  s.  V.  qui  patres:  P.  Valerius  cos.  propter  inopiam  patriciorum 
ex  plebe  adleyit  in  numerum  C  et  LX  et  IIII  ut  expleret  numerum  senutorum 
trecentorum.  Plut.  Popi.  11.  Cfr.  Liv.  Il  1,  10.  Diokvs.  V  13.  V.  sopra  p.  61  seg. 

(2)  Liv.  VII  1,  6,  cfr.  VI  42,  13  e  dig.  I  2,  2,  26.  V.  anche  sopra  I  p.  4  n.  2. 


220  CAPO  xvTi  -  l'ordinamento  centuriato 

che  era  divenuta  una  potestà  legittima.  Al  tempo  stesso  che  i  pa- 
trizi entravano  a  parte  delle  edilità,  cessavano  d'essere  esclusiva- 
mente plebei  i  giudici  decemviri  e  divenivano  in  tutto  pari  agli 
altri  magistrati  dello  Stato  (1). 

Intorno  a  questo  tempo  i  tribmii  della  plebe,  che  stavano  sino 
allora  alla  porta  del  senato  per  prender  cognizione  dei  senatus- 
consulti  e  potervi  immediatamente  opporre  il  veto  (2),  debbono 
aver  cominciato  ad  introdursi  nella  Curia  e  a  prendervi  la  parola  ; 
poi  acquistarono  il  diritto  di  riferire  al  senato  e  di  convocarlo 
come  i  magistrati  maggiori.  Il  primo  passo  si  fece  almeno  da 
quando  i  plebisciti  divennero  leggi  dello  Stato  aventi  però  bisogno 
della  ratifica  senatoria,  poiché  è  natm^ale  che  dovessero  difenderli 
innanzi  al  senato  quelli  stessi  che  li  avevano  proposti  all'assem- 
blea della  plebe  ;  il  secondo  era  pure  inevitabile,  data  la  indipen- 
denza dei  tribuni  dai  consoli,  da  quando  si  dimenticò  la  loro  ori- 
gine rivoluzionaria  e  si  presero  a  considerare  al  pari  dei  consoli 
come  magistrati  ordinari  dello  Stato  (3). 

Il  riconoscimento  della  validità  dei  plebisciti,  che  trasformò 
l'assemblea  della  plebe  in  un  organo  dello  Stato,  fu  graduale.  La 
tradizione  lo  ascrive  di  già  ai  consoli  Valerio  e  Orazio  del  449  (4), 
perchè  ad  essi  o  ai  loro  i^redecessori  omonimi  del  509  si  attribuirono 
gii  elementi  essenziali  delle  posteriori  istituzioni  repubblicane.  Ma 


(1)  Il  pi-imo  esempio  a  noi  noto  d"un  patrizio  che  sia  stato  decemvi)-  stUtihus 
iudicdndis  è  quello  di  Cn.  Cornelio  Scipione  Ispano,  il  pretore  del  139  av.  C. 
{CIL.  V  38). 

(2)  Val.  Max.  Il  2,7:  tribunis  plebis  intrare  curiam  non  licebat ;  unte  valvas 
autem  posifia  subselliis  decreta  patrum  attenti ss^ima  cura  examinabant.  Zon.  VII 
15:  TÒ  |uèv  ouv  irpObrov  oùk  eta^eaav  eU  tò  PouXeurripiov,  Ka0ri|uevoi  bè  èirì  Tf\c, 
elaóbou  TÒ  TTOioO|ueva  Traperripouv  koì  et  ti  |lui  aÙToT<;  fipeoKe  iTapaxp)ì|Lio  àv0i- 
OTavro  •  eira  koì  eìaeKaXoOvTo  évxóq.  eiaéTreixa  iiiévToi  Kaì  lueT^Xa^ov  Tfjq  PouX6Ìa<; 
ot  bri)iapxnoavT6(;  koì  TéXo;  KàK  tùjv  PouXeuTUJv  Tiveq  r)Eid)6riaav  òriMctPX^ìv  el  \xr\ 
Tiq  €ÙTTaTpiòr|(;  èTÙTxavev. 

(3j  Cic.  de  leg.  Ili  4,  10  :  tribunis  quos  sibi  j)lebes  rogassit  ììis  esto  ciim  pa- 
tribus  agendi.  Varrò  ap.  Gell.  n.  A.  XIV  8,  2  :  nam  et  tribunis  plebis  senatus 
habendi  ius  erut  quamquam  senatores  non  essent,  ante  Atinium  plebiscitum.  Zon. 

VII  15:  ToO  xpóvou   òè    npo'ióvTOc;    Kai    ti*)v  yepouaiav  óGpoiSeiv èTrerpàirriaav 

f^  éauTOiq  ènéxpevpav.  Il  primo  esempio  sicuro  è  del  216  (Liv.  XXII  61).  Mommsen 
Staatsrecht  II  •'  p.  813  segg.  e  p.  X  n.  2. 

(4)  Liv.  Ili  55.  La  terza  legge  Valeria  Grazia  stabiliva  ut  quod  tributim 
plebs  iussisset  populum  tenerci.  Cfr.  Dionys.  XI  45  :  Toùq  ùttò  toO  òriiuou  TeGevTaq 
èv  Tol;  rpuXexiKaìc;  èKKXriaiaiq  vó)aou<;  Siraoi  KeìaSai  'Puj|ua(oi(;  èS  ìffou,  xt'iv  aÙTi'iv 
^xovrai;  bùvaiaiv  toìq  èv  xaìq  XoxiTioiv  èKKXricfian;  Te9r|ao|aévoiq. 


I    PLEBISCITI  221 


è  assui"do  che  i  concili  tributi,  i  quali  riuscivano  appena  a  vivere, 
potessero  far  leggi  valide  per  tutti  nello  Stato  aristocratico  della 
metà  del  sec.  V.  Tutta  la  storia  delle  lotte  tra  patrizi  e  plebei 
mostra  chiaro  che  alle  rogazioni  tribunizie,  fino'  almeno  a  quelle 
di  Sestio  e  di  Licinio,  per  acquistar  valore  di  leggi  dello  Stato  non 
bastava  il  consenso  della  plebe.  Cominciò  a  mutar  questa  condi- 
eione  di  cose  il  dittatore  Q.  Publilio  Filone  (339)  riuscendo  ad  ot- 
tenere che  i  plebisciti  fossero  d'allora  in  poi  considerati  come  leggi 
dello  Stato  (1).  Era  xjeraltro  stabilito  esplicitamente  od  ini]Dlicita- 
mente  nelle  rogazioni  Publilie  che  per  divenir  leggi  dovessero  esser 
convalidati,  dojx)  la  loro  axjprovazione,-  dai  senatori  patrizi  per 
mezzo  dell'autorità  dei  iDadri  (I  p.  352),  come  sino  a  quell'anno  s'era 
fatto  con  le  deliberazioni  dei  comizi  centuiiati.  Era  senza  dubbio  un 
gran  passo,  e  i  tribuni  dovevano  prenderne  ansa  a  portar  dinanzi 
ai  plebei  raccolti  per  tribù  proijoste  intorno  ad  ogni  maniera  di 
pubblici  interessi.  Ma  la  necessità  della  convalidazione  susseguente 
conservava  la  inferiorità  di  prima  dei  comizi  tributi  a  fronte  dei 
comizi  centuriati;  poiché  diffìcilmente  Publilio  sarebbe  riuscito  a 
far  votare  dalle  centurie  la  sua  legge  sui  plebisciti  se  non  avesse 
provveduto  a  salvaguardare  la  superiorità  dell'assemblea  centmiata 
obbligando  i  senatori  patrizi  a  convalidarne  le  deliberazioni  prima 
che  fossero  prese,  ossia  riducendo  l'autorità  dei  padri  per  rispetto 
alle  leggi  centuriate  ad  un  ufficio  pm-amente  formale.  Ma  la  con- 
cessione fatta  da  Publilio  all'assemblea  tributa  era  di  quelle  che 
ne  portano  con  sé,  prima  o  dopo,  altre;  la  plebe,  superba  dei  tanti 
trionfi  riportati,  riconosciuto  ai  j)lebisciti  il  carattere  di  leggi 
dello  Stato,  alla  prima  occasione  d'un  rifiuto  opposto  dai  senatori 
alla  convalidazione  d'un  plebiscito  che  le  fosse  a  cuore  non  poteva 
mancare  di  togliere  al  senato  per  via  rivoluzionaria  la  facoltà  di 
cassare  i  x^lebisciti.  Cosi  poco  andò  che  fu  dovuta  approvare  circa 
il  287  la  legge  Ortensia,  la  quale  equiparava  interamente  i  plebi- 
sciti alle  deliberazioni  dei  comizi  centm-iati,  e,  obbligando  il  senato 
a  ratificare  la  votazione  della  plebe  prima  che  avesse  luogo,  ridu- 
ceva anche  qui  l'autorità  dei  padri  ad  un  ufficio  pm-amente  for- 
male (2). 


(1)  Liv.  Vili  12:  ut  plebiscita  omnes  Quirites  tenerent. 

(2)  Plin.  n.  h.  XVI  37:  Q.  Hortensiiis  dictator,  cum  plebes  secessisset  in  la- 
niculiim,  legem  in  aesculeto  tulit  ut  quod  ea  iussisset  omnes  Quirites  tenerci.  Gkll. 
n.  A.  XV  27,  4:  ut  eo  iure  quod  plebes  statuisset  omnes  Quirites  tenerentur.  Gai. 
1  2  :  lex  Hortensia  lata  est  qua  cautum  est  ut  plebiscita  universum  populum  te- 
nerent: itaque  eo  modo  legibus  exaequata  sunt.  Pompon,  dig.  I  2,  2,  8. 


222  ■  CAPO  XVII  -  l'ordinamento  centuriato 

Ma  la  piena  eguaglianza  politica  non  era  raggiunta  se,  oltre 
alle  magistratui^e  civili,  la  plebe  non  aveva  accesso  anche  alle 
magistrature  sacre,  perchè  il  valore  che  lo  Stato  attribuiva  alla 
pace  con  gli  dèi  (I  p.  283)  faceva  sì  che  i  pareri  richiesti  o  dati 
sjpontaneamente  dai  pontefici,  dagli  auguri  o  dai  sacrificatori 
(sacris  fachindis)  sui  mezzi  atti  a  conservarla  avessero  spesso 
grande  importanza  j)olitica.  Cosi  non  solo  un  segno  celeste  os- 
servato dagli  auguri  poteva  far  sospendere  una  dehberazione  dei 
comizi  e  fors'anche  dei  concili  della  plebe  (1),  ma  pur  un  "'vizio  ., 
da  essi  riconosciuto  nella  nomina  d'un  magistrato  rispetto  alle  for- 
malità che  si  collegavano  con  l'auspicazione  o  anche  pel  mancato 
riguardo  al  j)i"esentarsi  di  auspici  oblativi  poteva  mettere  quel 
magistrato,  fosse  pm^e  un  tribuno  della  plebe,  nella  necessità  di 
abdicare  (2).  Di  questi  collegi  sacerdotali  prima  di  tutto  i  i^lebei 
presero  di  mira  il  più  recente,  quello  dei  sacrificatori,  cui  con- 
feriva non  piccola  imjportanza  la  facoltà  che  avevano  di  interpre- 
tare i  libri  sibillini  e  di  trarne  quei  suggerimenti  che  ritenessero 
salutari  alla  città  (3).  A  Sestio  ed  a  Licinio  la  nostra  tradizione 
attribuisce  la  x)roposta  di  eleggere  i  sacrificatori  per  metà  pa- 
trizi e  per  metà  plebei  portandone  il  numero  da  due  a  dieci  (4); 
proposta  che  sarebbe  stata  accolta  nel  367,  mi  anno  prima  delle 
tre  rogazioni  Licinie-Sestie  ;  né  sembra  che  la  sostanza  della  cosa 
possa  revocarsi  in  dubbio,  prescindendo  dalla  notizia  sul  numero 
dei  sacrificatori  iDrima  del  367,  se  anche  non  sia  prudente  accogliere 
ciecamente  e  Tanno  preciso  e  il  nome  dei  proponenti.  Più  di  mezzo 
secolo  trascorse  innanzi  che  la  plebe  osasse  toccare  istituzioni  con- 


(1)  AscoN.  in  Pison.  p.  9:  ohnuntiatio  enim  qua  perniciosis  legibus  resistebatur, 
quam  Aelia  lex  confirmaverat,  erat  sublata  (nel  58  da  Clodio).  Cic.  in  Vat.  7,  17  : 
num  quem  post  urbem  conditam  scius  tribunum  plebis  egisse  ciim  plebe  cum  con- 
starei  seriatum  esse  de  coelo  ?  Per  l'ultimo  caso  però  mancano  esempì  sicuri. 
Cfr.  MoMMSEN  Staatsrecht  I'  113  seg. 

(2)  Gli  esempì  son  presso  Mommsen  Staatsrecht  III  364  seg.  Pei  tribuni  della 
plebe  abbiamo  il  solo  esempio  in  Liv.  X  47,  1  (a.  293). 

(3)  Di  consigli  politici  non  abbiamo  per  altro  sicuro  esempio  prima  del  187 
(Liv.  XXXVIIl  45,  3)  in  cui  i  carmi  della  Sibilla  furono  adoperati  per  impe- 
dire a  Cn.  Manlio  Vulsone  di  passare  il  Tauro. 

(4)  Livio  veramente  nel  riassumere  la  legge  si  esprime  con  un  po'  d'inde- 
terminatezza, VI  37,  12  :  novam  rogationem  promulgant  ut  prò  duumviris  sacris 
faciuiidis  decemviri  creentur  ita  ut  pars  ex  plebe  pars  ex  patribus  fìat:  parlando 
però  dell'approvazione  di  questa  proposta  (VI  42,  2)  aggiunge  subito  :  creati 
quinque  patriim  quinque  plebis. 


LA    PLEBE    E    I    SACERDOZI  223 

sacrate  dalla  veneranda  anticliità  com'erano  i  due  altri  collegi  sa- 
cerdotali dei  pontefici  e  degli  augui-i  composti  ciascuno  di  cinque 
membri  patrizi.  E  fu  gran  ventura  die  la  plebe  si  risolvesse  infine 
a  tal  passo,  poiché  i  patrizi,  mentre  politicamente  venivano  sover- 
chiati dalla  nobiltà  plebea,  se  fossero  rimasti  in  possesso  di  quei  due 
collegi  che  esercitavano  uffici  così  importanti  senza  che  lo  Stato 
si  ingerisse  della  loro  composizione  (cfr.  I  296),  avrebbero  potuto 
trasformarsi  in  una  casta  sacerdotale.  I  tribuni  cui  si  deve  dare  il 
merito  di  aver  riaffermata  l'autorità  dello  Stato  sui  supremi  collegi 
sacerdotali  fm^ono  Q.  e  Cn.  Ogulnio.  IsTel  300,  essendo  rimasto  vacante 
un  posto  nel  collegio  degli  auguri,  gii  Ogulni  proposero  che  il  nu- 
mero degli  auguri  si  portasse  a  nove  cooptando  nel  collegio  cinque 
plebei  e  che  si  cooptassero  al  tempo  stesso  quattro  x^lebei  tra  i 
pontefici  portandone  il  numero  parimente  a  nove.  La  proposta  che 
toglieva  ai  patrizi  uno  solo  dei  posti  che  avevano  nei  due  collegi 
e  che,  mentre  li  faceva  rimanere  in  minoranza  tra  gii  augmi, 
conservava  loro  però  la  maggioranza  nel  collegio  maggiore,  quello 
dei  pontefici,  potè  essere  approvata  e  continuò  poi  a  regolare  la  com- 
posizione dei  due  collegi.  Una  sola  modificazione,  gravissima  del 
resto,  vi  si  fece,  non  sappiamo  quando,  fra  il  292  e  il  218,  dando 
per  legge  o  per  abuso  mi  altro  posto  nel  collegio  pontificio  ai 
plebei,  che  vi  ebbero  cosi  la  maggioranza  (1)  :  la  quale  innovazione 
si  collega  forse  con  la  legge  che  in  questo  periodo  appunto-  attribuì, 
ai  comizi  di  scegliere  tra  i  pontefici  il  pontefice  massimo  (2).  I  plebei 
peraltro  se  mutarono  gli  ordinamenti  sacerdotali  quanto  era  ne- 
cessario perchè  il  sacerdozio  non  si  trasformasse  in  casta,  pel  resto 
evitarono  di  por%à  mano  lasciando  così  ai  patrizi  il  privilegio  di 


(1)  Liv.  X  6,  %:  rogationem  ergo  promulgar unt  ut  cum  quattuor  augiwes  q^uattuor 
pontifices  ea  temjyestate  essent  placeretque  augeri  sacerdotmn  numerum,  quattuor 
pontifices  quinque  augures  de  plebe  omnes  adlegerentur.  È  da  ritenere  con  Cice- 
rone de  re  x>.  II  14,  26  che  gli  auguri  e  i  pontefici  fossero  prima  del  300  cinque 
(che  poi  in  origine  gli  auguri  fossero  tre  non  è  se  non  una  congettura  fondata 
sul  numero  delle  tre  tribù).  I  collegi  di  pontefici  e  d'auguri  che  ci  sono  co- 
nosciuti per  mezzo  di  Livio  a  partire  dal  220  sono  tutti  composti  di  quattro 
patrizi  e  cinque  plebei  (C.  Baedt  Die  Priester  der  vier  grossen  Collegien, 
Berlin  1871).  Nel  testo  ho  cercato  di  conciliare  questi  dati  in  apparenza  con- 
traddittori. Potrebbe  supporsi  altresì  che  la  legge  Ogulnia  stabilisse  la  coop- 
tazione immediata  di  quattro  plebei  tra  i  pontefici  e  quella  d'un  quinto  non 
appena  vi  fosse  un  posto  vacante. 

(2)  Sul  modo  di  nomina  v.  Mom.m8en  Staatsrecht  II  ^  27  segg. 


224:  CAPO  xvji  -  l'ordinamento  centuriato 

rivestire  gli  uffici  di  re  dei  sacrifizi,  di  sali  e  di  flamini  delle  tre 
maggiori  divinità  (1). 

Questi  furono  dunque  sugli  ordini  costituzionali  gli  effetti  della 
lotta  tra  patrizi  e  plebei.  Dei  momenti  della  contesa  dopo  la  roga- 
zione  Licinia  siamo  poco  informati.  Uno  dei  più  importanti  par 
fosse  segnato  dalla  cosi  detta  terza  secessione  della  X3lebe  nel  342. 
Le  narrazioni  contraddittorie  degli  finalisti,  che  in  parte  la  tene- 
vano per  una  sommossa  cittadina,  in  parte  per  una  sedizione  mi- 
litare, e  non  convenivano  neppure  nel  nome  del  personaggio  die 
era  stato  a  capo  dei  sediziosi,  mostrano  che  ogni  tentativo  di  ri- 
costruire il  fatto  è  vano  (2);  ma  che  si  trattasse  d'una  ribellione 
militare  o  strettamente  collegata  con  gli  ordini  militari  sembra 
indubitato;  poiché  ci  vien  detto  che  in  conseguenza  di  essa  s'ap- 
provò una  legge  sacrata  militare.  Come  non  v'era  motivo  suffi- 
ciente per  inventare  una  legge  il  cui  significato  doveva  riuscir 
poco  chiaro  agli  stessi  annalisti  romani  che  la  riferivano,  va  rite- 
nuto che  quella  legge  è  autentica  :  tanto  più  che  la  sua  approva- 
zione è  insufficientemente  motivata  dal  racconto  tradizionale  della 
sommossa,  di  maniera  che  questo  potrebbe  fors' anche  esser  stato 
inventato  per  spiegare  alla  meglio  la  legge,  ma  non  viceversa  la 
legge  all'occasione  di  quello.  Ad  ogni  modo  la  legge  sacrata  del 
342,  che,  come  le  altre  leggi  simili,  traeva  la  sua  validità  dal 
giuramento  di  farla  osservare  ad  ogni  costo  pronunciato  dai  sedi- 
ziosi che  l'avevano  approvata  (sopra  p.  23),  determinando  che  non 
si  potesse  licenziare  un  soldato  (in  servizio  effettivo  negli  eserciti 
consolari)  se  non  quando  egli  desiderasse  il  congedo  e  vietando  di 
degradare  a  centiuione  clii  era  stato  tribuno  militare  (3),  mirava 
evidentemente  a  porre  un  limite  all'imperio  militare  del  magistrato 
supremo,  come  già  tanti  limiti  s'eran  posti   all'imperio  civile   per 


(1)  Cic.  de  domo  14,  38:  ita  (tolto    il    patriziato)  populus    Romanus ncque 

regem  sacrorum  neque  flamines  nec  salios  hahehit  nec  ex  parte    dimidia  reliquos 
sacerdotes.  Per  maggiori  particolari  v.  Wissowa  Religion  der  Romer  p.  422  n.  1. 

(2)  Liv.  VII  38  segg.  Cfr.  Dionys.  XV  8.  App.  Samn.  1.  Zon.  VII  25.  Auct. 
de  vir.  illiistrib.  29,  3. 

(8)  Liv.  VII  41,  4:  lex  quoque  sacrata  militar is  lata  est  ne  cuius  militis  scripti 
nomen  nisi  ipso  volente  deleretur:  additumqiie  legi  ne  quis  qui  tribunus  militum 
fuisset,  postea  ordinum  ductor  esset.  Livio  aggiunge  che  l'ultimo  comma  fu  ag- 
giunto perchè  i  soldati  volevano  vendicarsi  di  un  tale  P.  Salonio  che  un  anno 
era  tribuno  militare,  un  altro  centurione.  Dal  che  si  vede  quanto  gli  anna- 
listi capirono  poco  la  natura  e  il  significato  della  legge:  poiché  essa  ajizi  sa- 
rebbe tornata,  pare,  a  vantaggio   di  Salonio  impedendo  che  fosse  degradato. 


LA   SEDIZIONE   DEL   342  225 

mezzo  della  intercessione  tribunizia.  Ma  fortunatamente  per  Roma 
troppo  chiara  si  mostrò  in  tutte  le  guerre  posteriori  la  necessità 
d'una  severissima  disciplina  militare  per  la  salvezza  dello  Stato, 
perchè  questo  primo  tentativo  di  esautorare  il  comandante  di  faccia 
ai  soldati  fosse  seguito  da  altri  simili. 

Era  naturale  che  la  plebe  profittasse  della  sedizione,  qualunque 
ne  fosse  la  natura,  per  accrescere  la  somma  dei  propri  diritti  e 
migliorare  le  sue  condizioni  economiche.  E  non  par  che  sia  da 
mettere  in  dubbio  la  storicità  dei  tre  plebisciti  fatti  approvare 
.quell'anno  dal  tribuno  L,  Grenucio  (1).  Di  questi  l'uno  (su  cui  v.  al 
e.  XXTTT)  vietava  il  prestito  ad  interesse;  gli  altri  permettendo 
di  nominare  tra  i  plebei  due  dei  tre  pretori  (p.  218)  e  vietando  di 
rivestire  la  medesima  magistratura  se  non  dopo  un  intervallo  di 
dieci  anni,  erano  diretti  anche  a  far  posto  agli  uomini  nuovi  della 
plebe;  al  tempo  stesso  l'ultimo  mii'ava  a  non  render  troppo  auto- 
revole un  generale  coL  lasciargli  in  mano  per  più  anni  il  comando. 
Questo  plebiscito,  che  sembra  collegarsi  con  la  citata  legge  sacrata 
militare,  fu  ijeraltro  trasgredito  fin  dagli  anni  seguenti  341  e  40; 
onde  s'è  dubitato  della  sua  data  (2),  ma  forse  la  soluzione  della 
difficoltà  sta  in  ciò  che  i  plebisciti  non  essendo  ancora  leggi  dello 
Stato  non  vincolavano  ancora  in  modo  assoluto  il  popolo  votante 
nei  comizi  centuriati. 

Non  fu  pertanto  di  poca  conseguenza  la  sedizione  del  342.  Dopo 
di  essa  un  altro  momento  notevole  nella  contesa  tra  patrizi  e  plebei 
fu  quando  il  dittatore  plebeo  Q.  Pubblio  Filone  nel  339  riusci  a 
far  approvare  nei  comizi  centmiati  le  sue  tre  rogazioni,  due  ten- 
denti ad  affermare  sempre  più  la  sovi'anità  popolare  (sopra  p.  221), 
l'altra  ad  assicm'are  per  sempre  la  partecipazione  dei  plebei  alle 
operazioni  del  censimento  (sopra  p.  218).  Le  gravi  condizioni  dello 
Stato  dm'ante  la  guerra  latina  e  le  benemerenze  acquistate  dal 
popolo  sul  campo  di  battaglia  resero  possibile  questo  nuovo  trionfo 
della  causa  popolare. 

Poi  il  moto  contro  il   patriziato  pei  diritti  della  plebe   parve 


(1)  Liv.  VII  42:  praeter  haec  inverno  apud  quosdam  (il  silenzio  di  qualche 
fonte  qui  non  vuol  dir  nulla  contro  la  storicità  del  fatto)  L.  Genucium  trihuniim 
plebis  tulisse  ad  plehem,  ne  faenerare  liceret,  item  cdiis  plebiscitis  caututn  ne 
quis  emidem  magistratum  intra  decem  annosi  caperei  neii  duo  magistratus  %mo 
anno  gereret  idique  liceret  consules  ambo  plebeios  creavi. 

(2)  Cfr.  MoMMSEN  Staatsrecht  I  ^  519  n.  5,  dove  si  enumerano  i  casi  d'osser- 
vanza e  d'inosservanza  della  legge. 

G.  De  Sasctis,  Storia  dei  Romani,  U.  15 


226  CAPO  XVII  -  l'okdixamexto  centueiato 

posare.  La  catastrofe  gallica  aveva  esautorato  l'oligarchia  patrizia. 
Invece  le  maggiori  catastrofi  die  dopo  d'allora  fino  a  Pirro  ebbe 
a  soffrire  Roma,  quelle  di  Gaudio  e  di  Lautule,  non  sembra  ab- 
biano avuto  alcun  contraccolpo  a  vantaggio  della  plebe.  E  la  ragione 
è  che  ne  dovevano  rispondere  almeno  in  buona  parte  i  popolari  ; 
onde  l'effetto  di  esse  fu  anzi  di  rinvigorire  l'imperio  militare  e  di 
far  richiamare  frequentemente  al  comando  supremo,  nonostante  il 
X^lebiscito  Genucio,  i  duci  più  celebrati  fra  i  patrizi  o  fra  la  nobiltà 
plebea,  come  L,  Papirio  Cm'sore,  Q.  Publilio  Filone  e  Q.  Fabio 
Rulliano. 

Il  movimento  democratico  riprese  vigore  man  mano  che  nella 
seconda  samiitica  la  vittoria  cominciò  a  dichiararsi  pei  Romani. 
Così  intorno  al  310  fu  nominato  a  censore  col  plebeo  L.  Plauzio 
il  democratico  patrizio  Appio  Claudio  (1).  Tosto  i  due  censori  nella 
loro  revisione  delle  liste  dei  cittadini  presero  arditamente  di  mirn 
una  delle  maggiori  ingiustizie  sociali  sancite  dalle  istituzioni  vi- 
genti. Per  essere  inscritti  tra  i  cittadini  forniti  dei  diritti  politici 
conveniva  fino  allora  possedere  fondi  rustici  nel  distretto  di  una 
delle  tribù,  con  la  sola  eccezione  delle  cinque  centurie  dei  capi- 
tecensi;  e  quindi  chi  non  x)0ssedeva  terreni  non  aveva  voto  nei 
comizi  tributi  e  lo  aveva  j)iù  nominalmente  che  effettivamente 
nei  comizi  centmiati.  Or  questo  stato  di  cose  non  offriva  grandi 
inconvenienti  finché  ebbe  scarsa  imx)ortanza  l'industria  e  moltissima 
la  proprietà  fondiaria,  ma  divenne  intollerabile  allorché  Roma  co- 
minciò a  divenire  mi  grande  centro  di  popolazione  e,  coli' aumentare 
della  circolazione  metallica  e  con  l'incremento  dell'industria,  crebbe 
l'importanza  della  proprietà  mobile  e  aumentò  il  numero  di  quelli 
che  vivevano  soltanto  del  loro  lavoro,  mentre  moltiplicandosi  gli 
scliiavi  si  accrebbe  anche  la  proporzione  dei  liberti,  che  spesso, 
senza  beni  stabili,  traevano  sostentamento  dalle  piccole  industrie. 


(1)  Livio  discorre  della  censura  di  Appio  al  312  (IX  29)  e  di  nuovo  al  310 
(IX  33-34\  anzi  accenna  come  in  quihusdam  annalibus  si  riferisse  che  Appio 
conservò  la  censura  fino  al  308,  quando  chiese  il  consolato  pel  307  (IX  42,  3). 
DioDORo  ne  parla  al  310  (XX  36).  La  divergenza  può  provenire  da  un  diverso 
ragguaglio  dei  fasti  consolari  coi  censori.  L'opera  di  Ap.  Claudio  Ceco  è  stata 
per  la  prima  volta  degnamente  apprezzata  dal  Mommsen  Rom.  Forschungen  I 
30  segg.  Cfr.  Siebert  Ueber  Appius  Claudius  Caecus  (Kassel  1863).  Sieke  Appius 
Claudiìis  Caecus  censor  iMarburg  1890).  Non  par  da  approvare  la  critica  della 
censura  di  Appio  Claudio  presso  Pais  I  2  p.  546  segg.  ed  anche  meno  quella 
di  G.  SiGWABT  '  Beitrage  zur  alten  Gesehichte  '  VI  (1906)  p.  369  segg. 


LA    CENSURA   DI   APPIO   CLAUDIO   CECO  227 

L'inconveniente  era  tanto  più  grave  in  quanto  si  sentiva  più.  viva- 
mente la  necessità  di  accrescere,  per  superare  i  Sanniti,  le  forze 
militari  e  di  non  esentare  per  scru]Doli  costituzionali  nessuna  classe 
di  cittadini  dal  tributo.  Appio  Claudio  sparti  tutta  questa  "  turba 
forense  „  fra  le  tribù  e  la  iscrisse  in  proporzione  de'  suoi  averi 
nelle  centurie  (1).  Cosi  ebbe  x^rincipio  quella  evoluzione  diu^ata  fino 
alla  guerra  sociale  clie  svincolò  a  x30co  a  xdoco  la  tribù  personale 
dalla  tribù  locale.  E  frattanto  i  figli  di  liberti  arricchitisi  con 
qualche  industria,  anche  se  non  avevano  beni  stabili,  cominciarono 
a  prender  parte  ai  comizi  nelle  centurie  della  prima  classe  accanto 
ai  membri  della  nobiltà  patrizia  e  plebea  e  pagarono  al  tempo 
stesso  in  egual  proporzione  il  tributo  del  danaro  e  del  sangue. 
L'albo  dei  senatori  fu  compilato  da  ApiDio  e  dal  collega  coi  criteri 
stessi  secondo  cui  avevano  steso  le  liste  dei  cittadini.  Era  uso  che 
i  censori  x^er  vera  o  x^retesa  indegnità  cancellassero  dal  senato  un 
certo  numero  di  membri.  Appio,  per  non  intralciare  le  sue  riforme 
con  inutili  inimicizie  x^ersonali,  non  si  valse  di  questo  diritto,  che 
assai   sx)esso   doveva  essere  x^i'etesto  a  soddisfare  meschine  bizze 


(1)  DioD.  XX  36,  3  :  ^òuuk€  òè  toìi;  TroXitai^  Kaì  ir\v  èEouaiav  Òttoi  irpoaipotvTO 
Ti^riffaa6ai.  Ciò  può  voler  dire  soltanto  che  coloro  che  erano  privi  di  beni 
fondiari  furono  lasciati  iscriversi  nella  ti-ibù  che  vollero.  E  con  Diodoro  è  d'ac- 
cordo Livio  IX  46,  1  :  urbanis  humilihiis  per  omnes  tribus  divisis  forum  et 
campum  corrupit.  Questi  passi  sono  stati  rettamente  intesi  per  la  prima  volta 
dal  MoMMSEN  Rom.  Forschungen  I  305.  Cfr.  Staatsrecht  II  ^  402  segg.  Infondata 
affatto  è  l'opposizione  del  Pais  I  2,  551  n.  2.  Non  mi  accordo  peraltro  col 
Mommsen  nel  ritenere  che  tutti  costoro  fossero  prima  di  Claudio  aerarii  vale 
a  dire  {Staatsrecht  II  ^  392  seg.)  avessero  tutti  i  doveri,  ma  in  piccolissima 
parte  i  diritti  di  coloro  che  godevano  della  piena  cittadinanza  romana.  Aerarii 
erano  detti  i  Ceriti  e  quei  cittadini  romani  optimo  iure  che  per  punizione  cen- 
soria venivano  cancellati  dalle  liste  delle  tribù  ossia  privati  dei  diritti  politici 
(e  poi  anche  impropriamente  quelli  che  venivano  soltanto  degradati  da  una 
tribù  ad  un'altra  meno  apprezzata);  ma  tutti  gli  altri  che  non  possedevano 
terre  pare  dovessero  essere  registrati  tra  i  capitecensi  e  in  particolare, 
quando  non  erano  artigiani,  tra  gli  accensi.  Che  i  libertinorum  filii  di  cui 
parlavano  le  fonti  a  proposito  delle  riforme  di  Ap.  Claudio  fossero  i  figli,  non 
i  nipoti  dei  liberti,  dimostra  il  caso  di  Cn.  Flavio,  che  in  virtù  appunto  di 
quelle  riforme  riuscì  edile  Ttarpòc;  ùùv  òeòouXeuKÓToe;,  e  la  testimonianza  di  un 
erudito  discendente  da  Appio,  a  torto  notato  d'errore  da  Soeton.  Claud.  24  : 
latum  clavum...  libertini  filio  tribuit...  et  Appium  C'aecuin  censorem...  libertinorum 
filios  in  senatum  adleyisse  docuit  ignarus  temporibus  Appi  et  deinceps  aliquandiu 
libertinos  dictos  tion  ipsos,  sed  ingenuos  ex  Jiis  procreatos.  V.  Mommsén  Staatsrecht 
III  p.  422  seg. 


228  CAPO   XVII  -  I.'OKDINAMENTO    CENTURIATO 

private  ;  al  tempo  stesso  colmò  i  vuoti  clie  s'erano  fatti  nel  senato 
dalla  compilazione  dell'ultimo  albo  (318)  non  solo,  secondo  l'uso, 
con  coloro  che  negli  anni  j)recedenti  avevano  rivestito  magistra- 
ture, ma  con  un  certo  numero  di  ricchi  industriali,  anche  se  figli 
soltanto  di  liberti  (1).  La  nobiltà  plebea,  al  pari  del  patriziato,  gridò 
allo  scandalo,  e  i  nuovi  consoli  che  avrebbero  dovuto  convocare  il 
senato  secondo  l'albo  di  Ap.  Claudio  e  L.  Plauzio  si  guardarono 
bene  dal  far  ciò  e  si  attennero  invece  all'albo  dei  censori  del  318. 
Senonchè  i  disprezzati  figli  di  liberti  che  ormai  si  erano  assicurato 
il  pieno  esercizio  dei  diritti  politici,  cacciati  a  questo  modo  dal 
senato,  seppero  rientrarvi  facendosi  eleggere,  ora  che  avevano  voce 
effettiva  nei  comizi,  alle  magistrature  curali,  come  fece  appunto 
Cn.  Flavio  figlio  del  liberto  Annio,  che,  spalleggiato  da  Ap.  Claudio, 
divenne  edile  nel  304. 

Non  si  contenne  in  questo  solo  del  resto  l'attività  di  Ap.  Claudio  ; 
che,  valendosi  del  diritto  censorio  di  usare  entro  certi  limiti  per 
costruzioni  di  pubblica  utilità  delle  somme  disponibili  nell'erario, 
divisò  per  primo  di  fornire  la  città  di  acqua  che  fosse  più  salubre 
di  quella  del  Tevere  o  dei  pozzi  costruendo  il  primo  dei  molti 
acquedotti  romani,  quello  che  partendo  da  sette  od  otto  miglia  di 
distanza  da  Roma  portava  alla  città  l'acqua  detta  dal  nome  del  cen- 
sore Appia  (2).  Ma  l'opera  sua  più  famosa  fu  l'apertura  della  ]3rima 
tra  le  grandi  strade  militari  romane,  che  conserva  ancora  il  nome 
di  Appia,  tra  Roma  e  Capua.  Se  pure  essa  profittava  in  parte  di 
tronchi  già  esistenti  di  vie,  se  non  era  ancora  lastricata  con  grossi 
quadri  di  silice,  ma  soltanto  coperta  di  ghiaia,  nondimeno,  sia  per 
la  facilitazione  che  portava  nelle  comunicazioni  tra  Roma  e  la 
Campania  sia  perchè  trattavasi  d'opera  senza  precedenti  tra  gli  an- 
tichi popoli  occidentali,  rese  meritamente  glorioso  chi  la  costruì  (3). 


(1)  Questo  punto  è  peralti-o  alquanto  incerto.  Diodoro,  cui  mi  sono  attenuto, 
dice  che  Appio  non  cancellò  nessun  senatore  àWà  iroXXoùq  koI  tAv  óxreXeuGépujv 
uioù^  àvéjLiiEev,  nel  che  è  qualche  esagerazione.  Secondo  Livio  invece  furono 
praeteriti  ossia  cancellati  dalla  lista  jjotiores  aliquot  lectis.  Plutarco  parla  di 
ttXouoiouc;  Tivàq  è£  dtTreXeuBépajv  Y^TOvÓTac;  Kaì  KaxaXeXeYiuévouq  eì<;  ti'iv  aOyKXriTOv 
{l'omp.  13). 

(2)  DioD.  XX  36,  1.  Liv.  IX  29,  6.  Frontin.  de  aquis  ii.  B.  5.  Lanciani  /  coin- 
mentarii  di  Frontino  negli  '  Atti  dell'Acc.  dei  Lincei  '  1880  p.  34  segg.  Secondo 
LiTiNi  '  Bull.  Archeol.  Comun.  '  XXXI  (1903)  p.  243  segg.  XXXII  (1904)  p.  215  segg. 
il  testo  di  Frontino  sulle  scaturigini  dell'acqua  Appia  è  correttissimo  e  FAppia 
non  è  altro  che  l'acqua  Vergine  allacciata  ad  altezza  alquanto  maggiore. 

(3)  DioD.  XX  36,  2.  Liv.  IX  29,  6.  Cfr.  Strab.  V  282  seg.  Procop.  h.  Goth. 
I  14  e  le  osservazioni  del  Huelsen  in  P.  W.  '  RE  '  II  238  segg.  È  logico  il  Pais 


LA   CENSURA   DI   APPIO   CLAUDIO    CECO  229 


L'autore  d'innovazioni  cosi  geniali  e  ardite,  che  lasciarono  traccio 
anche  nel  campo  della  coltui'a,  spicca  come  la  prima  personalità 
viva  in  cui  ci  incontriamo  nella  storia  romana,  mentre  prima  di 
lui,  sfrondate  le  leggende,  non  rimangono  che  meri  nomi.  Che  le 
audacie  di  Appio  gli  attirassero  odi  era  inevitabile;  e  non  man- 
cano tradizioni  che  li  rispecchino.  Cosi  la  sua  cecità  che,  se  vera, 
fu  certo  molto  più  tarda,  ossia  posteriore  al  suo  secondo  conso- 
lato (296),  venne  attribuita  all'ira  di  Ercole  per  le  riforme  introdotte 
al  suo  culto  sull'ara  massima  (e.  XXV)  (1),  e  cosi  j)ure  si  narrò 
che,  avendo  abdicato  il  collega  per  non  aver  parte  all'  odiosità 
acquistatasi  da  Appio,  egli  tenesse  la  censura  da  solo  (2),  ovvero 
che  la  protraesse  oltre  il  termine  dei  diciotto  mesi  concessi  dalla 
legge.  Queste  ultime  notizie  son  da  tenere  per  congetture  fondate 
sull'avversione  alla  memoria  di  Appio  e  dirette  a  spiegare  sia  le 
diverse  determinazioni  cronologiche  che  si  davano  della  sua  cen- 
sura (3),  sia  come  la  tradizione  attribuisse  tutto  a  lui  ciò  che  i  due 
censori  avevano  operato  di  conserva  e  in  particolare  come  Apx^io 
avesse  dato  il  suo  nome  alla  via  ed  all'acquedotto  costruiti  insieme 
col  collega,  dei  quali  fatti  la  spiegazione  è  piuttosto  che  la  iDcrso- 


(I  2  p.  559  seg.)  ritenendo  che  la  via  Appia  eia  posteriore  (tra  Sinuessa  e 
Capua)  alla  guerra  annibalica,  poiché  secondo  lui  Capua  non  divenne  terri- 
torio soggetto  ai  Romani  prima  di  Annibale.  Ma  chi  non  voglia  sostituir  sempre 
l'arbitrio  alla  tradizione  troverà  piuttosto  nella  costruzione  dell'Appia  una 
conferma  che  Capua  appartenne  ai  Romani  prima  della  censura  di  Appio.  Che 
i  Romani  fossero  i  primi  a  costruire  in  Italia  (in  misura  notevole,  s'intende) 
strade  ampie  e  diritte  di  proprietà  pubblica  dipende  anche  dall' aver  essi 
costituito  il  primo  Stato  civile  d'  estensione  considerevole  in  Italia  (prescin- 
dendo dai  Sanniti  che  certo  non  furono  grandi  costruttori  di  strade).  Quanta 
alla  pretesa  via  tra  Spina  e  Pisa  (Ps.  Sctl.  17,  dove  del  resto  il  nome  di  Pisa 
è  stato  inserito  nel  testo  mediante  una  congettura  assai  discutibile),  è  affatto 
erroneo  il  ritenere  che  trattisi  di  una  via  jniblica  o  anche  soltanto  d'una  via 
costruita  nel  suo  insieme  artificialmente  da  uno  Stato  o  da  una  federazione 
di  Stati.  11  geografo  ha  voluto  dire  semplicemente  che  le  due  città  distano 
tre  giorni  di  viaggio. 

(1)  Liv.  IX  29,  11. 

(2)  Così  Liv.  IX  29,  7.  Ma  dagli  altri  accenni  all'abusivo  rimanere  in  carica 
di  Appio  (33,  4.  34,  10.  15.  22)  sembra  risultare  che,  secondo  le  sue  fonti,  il 
collega  rinunciasse  solo  allo  scadere  dei  diciotto  mesi,  come  appunto  asserisce 
Feontino  de  aquis  m.  R.  5.  Contraddice  implicitamente  all'una  ed  all'altra 
tradizione  Diodoro  dicendo  che  Appio  ebbe  ùtti'jkoov  il  collega  e  non  alludendo 
punto  alla  pretesa  usurpazione. 

(3)  V.  sopra  p.  226  n.  1. 


230  CAPO   XVII  -  l'oRDIK AMENTO    CENTURIATO 

nalità  di  Plauzio  rimase  oscurata  da  quella  ben  superiore  del  suo 
collega  patrizio. 

Le  riforme  di  Appio,  salutari  per  molti  lati,  ebbero  ijerò  alcuni 
effetti  ch'egli  non  era  in  grado  di  prevedere.  La  "  turba  forense  „, 
non  guari  pericolosa  nei  comizi  centuriati  dove  contavano  assai 
maggiormente  le  centm'ie  dei  più  ricclii,  poteva  divenir  tale  nei 
comizi  tributi,  che  acquistavano  del  continuo  autorità.  La  popo- 
lazione rurale  infatti  non  sempre  poteva  accorrere  alle  assemblee 
popolari  sufficientemente  numerosa  per  contraj)porsi  in  modo  effi- 
cace al  xDroletariato  urbano  diviso  oramai  fra  tutte  le  tribù;  onde 
il  predominio  dell'assemblea  tributa  rischiava  di  cadere  in  mano 
della  plebaglia  cittadina  cui  a^Dpunto  il  crescere  di  Roma  a  grande 
città  e  la  maggiore  frequenza  delle  manumissioni  contribuiva  ad 
infettare  d'elementi  torbidi.  Fortunatamente  la  popolazione  cam- 
pagnuola  aveva  ancora  la  superiorità  del  numero,  oltre  quella  del 
vigore  morale,  e  non  era  venuto  ]3er  essa  il  momento  di  lasciarsi 
])assivamente  sopraffare  dal  poi3olaccio.  D'altra  parte  tornare  alla 
condizione  di  prima  la  turba  forense  che  Appio  aveva  iscritto 
nelle  tribù  non  era  né  prudente  né  giusto.  Il  temperamento  oppor- 
tuno fu  trovato  dai  censori  del  304.  Q.  Fabio  RuUiano  e  P.  Decio 
Mure,  che  istituirono,  forse  giovandosi  di  antichi  ricordi  d'una  di- 
visione della  città  in  regioni,  quattro  tribù  urbane  destinate  a  quelli 
che  non  ^possedevano  stabili  nel  territorio  delle  tribù  rustiche  (1). 
Cosi  delle  ventun  tribù  che  allora  esistevano  quattro  sole  rimasero 
al  proletariato  urbano,  e  nelle  altre,  anche  se  i  buoni  contadini  in- 
tervenivano in  pochi,  non  rischiavano  d'essere  sopraffatti  dalla  turba 
di  quelli  che  in  qualsiasi  tumulto  non  avevano  nulla  da  perdere. 

Frattanto  un  altro  passo  per  l'elevamento  del  popolo  aveva 
fatto  Cn.  Fla\'io  pubblicando  le  "  azioni  „,  ossia  divulgando  i  for- 
mulari consacrati  dall'uso  per  introdiuTe  i  processi  e  dando  la  ta- 
bella dei  giorni  fasti,  cioè  di  quelli  in  cui  potevasi  agire  legalmente 
innanzi  ai  magistrati  romani.  Il  ''  diritto  flaviano  „  non  propa- 
lava in  realtà  nessun  segreto  di  Stato  (p.  64).  Quelle  formule,  pro- 
babilmente non  fissate  prima  d'allora  per  mezzo  della  scrittm-a  se 
non  in  quanto  ne  facevano  cenno  le  dodici  tavole,  non  erano  tenute 
l)unto   nascoste,  ma  si  udivano  ogni  giorno  al  tribunale  del  pre- 


(1)  Liv.  IX  46,  14:  Fabius  simul  concordiac  causa  simul  ne  huniìllimorum  in 
manti  comitia  essent  omnem  forensem  turbani  excretam  in  quattuor  tribus  coniecit 
urbanusque  eas  appellavit.  Val.  Max.  II  2,  9.  Auct.  de  vir.  ili.  32.  Cfr.  Plut. 
Pomp.  13. 


i 


CN.   FLAVIO,    l'ultima   SECESSIONE  231 

tore;  e  molto  meno  erano  un  segreto  i  giorni  fasti,  da  quando  ne 
avevano  dato  la  lista  le  dodici  tavole;  onde  se  anche  ignorava 
queste  cose  la  infima  plebe,  n'erano  istruiti  i  suoi  tribuni;  quindi 
non  v'ha  dubbio  che  l'importanza  dell'opera  di  Flavio  fu  esagerata 
per  questo  rispetto  da  antichi  e  da  moderni.  Flavio  non  fece  co- 
noscere cose  che  si  volessero  tenere  ignote,  bensì  divulgò  soltanto 
cose  note.  E  certo  tuttavia  che  la  sua  divulgazione  giovò  alla  plebe 
per  salvaguardare  i  propri  diritti  civili  e  rese  più  difficile  al  xJi'e- 
tore  d'abusare  della  ignoranza  deiruomo  del  popolo. 

Poco  stante,  nel  300,  furono  approvate  due  altre  leggi  popolari, 
la  Ogulnia,  (p.  223)  e  la  Valeria  suU'  appello  al  poxjolo.  A  dir 
vero,  r  uso  che  le  condanne  a  morte  fossero  pronunziate  nei 
comizi  vigeva  ab  antico  e  gli  avevano  dato  forza  di  legge  le 
dodici  tavole  (1).  Ma  la  legge  Valeria,  quella  che  ha  dato  origine 
alle  anticipazioni  sulle  leggi  Valerle  del  509  e  del  -449,  precisava 
anche  meglio  che  chiunque  si  appellasse  al  popolo  non  poteva 
esser  percosso  con  verghe  né  messo  a  morte  prima  del  verdetto 
popolare  (2).  Si  riconfermava  cosi  il  limite  ijosto  dalla  legge  all'au- 
torità giudiziaria  e  coercitiva  dei  magistrati  in  città;  solo  assai 
più  tardi  del  resto  si  posero  restrizioni  corrispondenti  all'esercizio 
dell'imperio  militare. 

L'ultimo  atto  della  lotta  due  volte  secolare  tra  patriziato  e 
plebe  fu  la  secessione  del  287  circa.  Il  popolo,  esasperato' ancora 
per  le  sofferenze  dovute  ai  debiti  ed  all'usura  e  perchè  proposte, 
non  sappiamo  precisamente  di  qual  sorta,  tendenti  a  lenirle  non 
potevano  divenir  leggi  per  1'  opposizione  del  senato ,  si  ritirò  di 
nuovo  sul  Gianicolo.  Fu  creato  allora  dittatore  Q.  Ortensio,  il 
([uale  apparteneva  a  una  famiglia  che  prima  di  lui,  stando  alle 
notizie  che  ci  son  pervenute^  era  stata  illustrata  solo  da  un  tri- 
buno della  plebe  (422  av.  C.)  (3),  la  cui  storicità  è  del  resto  di- 
scutibile. Si  richiedeva  appunto  un  uomo  nuovo  a  rinnovare  la 
concordia,  mentre  la  nobiltà  plebea  si  era  ormai  tropico  allontanata 
dalla  classe  onde  aveva  avuto   origine.   E  Ortensio    potè  riuscir 


(1)  I  p.  349.  411.  II  p.  23. 

(2)  Liv.  X  9,  3-5  :  M.   Valerius  consul  de  2>t'ovocatione  legem    tulit   diligentins 

sanctain Valeria  lex  cicm  eum    qui   provocaf^set    virgis    cuedi  securiqne  necari 

vefuisset,  si  quìs  adversiis   ea  fecisset  nihil    ultra  qiiam    improbe  factum    adiecit. 

(3)  Liv.  IV  42.  Val.  Max.  VI  5,  2.  S'intende  che  è  aft'atto  arbitrano  prendere 
di  qui  argomento  per  dubitare  della  storicità  della  dittatura  d'Ortensio  (Pais 
I  2,  573). 


232  CAPO  xvn  -  l'ordinamento  centuriato 

neirintento  facendo  approvare  una  legge  che  sanciva  la  validità 
dei  plebisciti  per  tutto  il  popolo.  Come  già  s'è  accennato,  il  non 
esservi  stata  ]3Ìù  d'allora  in  poi  contestazione  alcuna  sulla  validità 
dei  plebisciti,  prova  die  la  legge  Ortensia,  a  differenza  della  Pu- 
blilia,  obbligava  il  senato  a  convalidarli  anche  prima  che  fossero 
votati  (lì.  La  xjiena  sovranità  dei  comizi  anche  rispetto  alle  nomine 
dei  magistrati  fu  riconosciuta  probabilmente  intorno  a  questo 
tempo  stesso  per  mezzo  della  legge  Menia  che  obbligava  il  senato 
a  convalidare  anche  le  elezioni  prima  che  fossero  avvenute  (2). 

Mentre  a  poco  a  poco  diminuivano  d'intensità  le  vecchie  con- 
tese civili,  s'iniziava  il  periodo  più  splendido  della  storia  di  Roma, 
che  durò  circa  due  secoli,  periodo  in  cui  alla  prosperità  esterna 
fece  riscontro  l'ordine  all'interno  e  la  saviezza  di  coloro  che  ave- 
vano il  governo  della  cosa  pubblica.  Ora  i  felici  successi  delle 
guerre  non  si  sarebbero  certo  ottenuti  senza  la  pace  civile  e  senza 
i  nuovi  ordinamenti  che  proporzionavano  i  diritti  ai  gravi  sacri- 
fizi che  si  chiedevano  nell'interesse  del  paese  ;  ma  reciprocamente 
]ion  si  sarebbe  per  due  secoli  serbato  così  prosperoso,  senz'alcun 
mutamento  sostanziale,  il  regime  senatorio  ove  non  fosse  stato 
consolidato  da  una  serie  inaudita  di  trionfi  sui  nemici  esterni  in 
mezzo  ai  quali  i  disastri  da  Gaudio  a  Canne  non  fui'ono  che  mo- 
mentanei arresti  dopo  cui  l'aquila  romana  riprendeva  con  novello 
vigore  il  suo  slancio.  Questi  felici  successi  diedero  al  governo  la  sta- 
bilità e  al  popolo  la  fede  inconcussa  perchè  potesse  superare  senza 
rovinose  convulsioni  i  momenti  diffìcili;  che  se  i  nemici  avessero 
avuto  la  forza  o  la  fortuna  di  dettar  leggi  presso  il  Campidoglio, 
come  più  volte  presso  l'Acropoli  dettarono  legge  ad  Aten  egli  in- 


(1)  Liv.  2^e?'.  11:  plebs  propter  aes  alienum  post  graves  et  longas  seditiones  ad 
ultimum  secessit  in  lanicidum,  linde  a  Q.  Hortensio  dictatore  deducta  est,  isque 
in  magistratu  decessit.  Cass.  Dio  fr.  37  (purtroppo  molto  lacunoso,  cf'r.  Zon. 
Vili  2  init.).  Sulla  legge  stessa  v.  sopra  p.  221  n.  2.  La  data  della  dittatura 
di  Ortensio  non  può  precisarsi  :  cade  però  tra  il  290  e  il  286. 

(2)  Cic.  Brut.  14,  55:  possumus....  suspicari  disertuin....  M'.  Curium,  quqd  is 
tribunus  plehis,  interreye  Appio  Caeco  diserto  homine  comitia  contra  leges  ha- 
bente,  cuiu  de  plebe  consulem  non  accipiebat,  patres  ante  auctores  fieri  coegerit: 
qnod  fuit  permagnum,  nonduin  lege  Maenia  lata.  L'aneddoto  è  forse  inventato, 
ma  ci  dà  un  terminus  post  qiiem  per  la  legge  Menia,  termine  anch'esso  incerto, 
perche  possiamo  dire  soltanto  che  il  tribunato  di  Curio  è  anteriore,  non  di 
molto,  al  suo  consolato  del  290. 


IL    SENATO  233 


vasori,  si  sarebbe  dimostrato  che  alla  vigoria  degli  ordinamenti 
romani  conferivano  assai  le  condizioni  esterne  tra  cui  si  attua- 
rono. 

Secondo  questi  ordinamenti  Fautorità  sovrana  risiedeva  nel  po- 
polo. Al  popolo  spettava  infatti  la  pienezza  del  potere  legislativo 
e  la  nomina  di  coloro  cui  era  affidato  il  potere  esecutivo  ;  le  ultime 
restrizioni  clie  menomavano  la  integrità  di  questi  poteri  legisla- 
tivo ed  elettorale  furono  abrogate  con  le  leggi  Publilia,  Ortensia 
e  Menia.  Tuttavia  questa  sovranità  era  in  buona  parte  solo  nomi- 
nale :  ad  impedii'e  che  l'assemblea  popolare  divenisse  mai  in  Roma, 
com'era  p.  e.  in  Atene,  il  sovrano  effettivo  dello  Stato,  contribuì 
certamente  la  mancanza  della  libertà  di  discussione  nei  comizi  e  più 
ancora  quella  del  diritto  d'iniziativa  per  parte  di  chi  non  era  ma- 
gistrato ;  ma  queste  pastoie  della  sovranità  popolare  sarebbero  cer- 
tamente cadute  nella  età  in  cui  la  intera  cittadinanza  divenne 
nominalmente  sovi'ana  dello  Stato  se  apjpunto  in  quella  età  essa 
non  fosse  anche  divenuta  inabile  ad  esercitare  di  fatto  la  sua  sovra- 
nità. Conia  guerra  latina  fin  sulla  destra  del  Voltm-no  s'estese  il  terri- 
torio popolato  di  cittadini  romani  forniti  dei  pieni  diritti  politici.  Ora 
si  capisce  di  leggieri  che  il  piccolo  proprietario  della  tribù  Fa- 
lema  se  poteva  recarsi  in  Roma  un  paio  di  volte  all'anno  pei  co- 
mizi elettorali  e  per  le  votazioni  di  maggiore  momento,  non  poteva 
esercitare  in  permanenza  i  poteri  sovi^ani  come  il  popolo  ateniese 
che,  abitando  in  proporzione  considerevolissima  nella  città  e  pel 
resto  a  poche  miglia  di  distanza  nei  villaggi  dell'Attica,  era  sempre 
pronto  ad  esser  convocato  e  ad  usare  de'  suoi  diritti.  Cosi  di  fatto 
il  popolo  era  obbligato  a  tollerare  che  in  suo  nome  1'  autorità  so- 
\Tana  fosse  esercitata  da  altri.  Né  altri  poteva  governare  che  il 
senato.  Pròprio  allora  che  le  leggi  esautoravano  in  apparenza,  il 
senato  a  fronte  dei  comizi,  l'impossibilità  che  il  popolo  si  racco- 
gliesse in  tal  numero  e  con  tale  frequenza  da  poter  in  effetto  di- 
rigere lo  Stato  rafforzava  più  che  mai  F  autorità  senatoria.  11 
senato  non  era  più  ormai  un  consiglio  del  magistrato  di  cui  il  ma- 
gistrato stesso  potesse  variare  arbitrariamente  la  composizione.  Non 
sappiamo  precisamente  quando,  ma,  come  pare,  verso  la  metà  del 
sec.  IV,  ai  censori,  in  sostituzione  dei  consoli,  su  proposta  del  tri- 
buno Ovinio  passò  Fufficio  di  redigere  l'albo  senatorio.  L'esser 
delegata  questa  facoltà  a  due  magistrati  privi  d'imperio  contribuì 
non  poco  a  rendere  il  senato  indipendente  dal  potere  esecutivo  ; 
ed  ancor  più  Fuso  già  per  certo  vigente  e  che  col  plebiscito  Ovinio 
acquistò  vigore  di  legge,  che  i  censori  nel  costituire  il  senato  do- 
vessero avere  speciale  riguardo  a  quanti  avessero  rivestito  magi- 


234  '  CAPO  XVII  -  l'ordinamento  centukiato 

stratiire  ciiriili  (1).  A  poco  a  ijoco  questi  divennero,  al  posto  dei 
patrizi,  l'elemento  preponderante  nel  senato,  e  a  coloro  che  senza 
esser  stati  magistrati  vi  venivano  iscritti  per  compiere  il  numero 
legale  dei  senatori,  perduta  persino  la  facoltà  d'esporre  la  loro  sen- 
tenza, non  rimase  clie  quella  sola  di  dare  tacitamente  il  voto  (2). 
Cosi  il  senato  per  la  parte  più  importante  era  ormai  nominato, 
sia  pure  indirettamente,  dai  comizi.  E  ciò  da  una  parte  rendeva 
il  popolo  meno  riluttante  a  lasciarsi  governare  da  un  consesso  die 
era  l'emanazione  del  suo  voto  ;  dall'altra  faceva  si  che  il  senato 
fosse  meglio  edotto  dei  bisogni  del  popolo  ed  alieno  dal  far  poca 
stima  di  coloro  dal  cui  voto  sorgeva.  Fondato  sul  suffragio  popo- 
lare, ne  traeva  autorità  il  senato  per  imporre  con  sempre  maggior 
efficacia  la  sua  autorità  a  quei  magistrati  cui  il  suffragio  aveva 
affidato  il  potere  esecutivo.  Questo  poteva  riuscirgli  tanto  più  age- 
volmente in  quanto  la.  continuità  dell'azione  di  governo,  che  è 
Fesigenza  suprema  di  uno  Stato  bene  ordinato,  non  aveva  altra 
guarentia  che  per  l'appunto  nel  senato,  mentre  l'assemblea  popo- 
lare non  poteva  riunirsi  che  a  larghi  intervalli  e  i  singoli  magi- 
strati non  duravano  in  carica  oltre  un  anno.  E  la  grande  autorità 
che  acquistò  nel  IV  e  conservò  nel  ni  secolo  il  senato  fu  preci- 
samente quella  che  preservò  lo  Stato  romano  dalla  dispersione  di 
energie  e  dalla   jjolitica   contraddittoria  e  a  scatti  che    sono  pur- 


(1)  Fest.  p.  246  (I  p.  351  n.  1  e  6).  Secondo  il  Mommsen  l'attribuzione  della 
lectio  senatus  ai  censori  si  collega  con  la  censura  di  Ap.  Claudio  ed  avvenne 
nel  312  o  poco  prima  [Staatsrecht  II"  p.  418  n.  3).  Probabilmente  si  accosta 
più  al  vero  il  Lange  [R.  A.  Il  ^  p.  356)  ritenendola  di  parecchio  anteriore  ;  se 
quella  fosse  stata  la  prima  lectio  censoria  non  ne  tacerebbe  la  tradizione  in- 
torno ad  essa  così  diffusa,  la  quale  al  contrario  suppone  che  Appio  avesse 
usato  nella  lectio  un  metodo  nuovo,  disforme  dagli  usi  tramandati  da'  suoi 
predecessori,  prendendone  occasione  per  introdurre  nel  senato  i  figli  dei  liberti. 

(2)  Sui  pedarii  nel  senato  romano  v.  A.  Gell.  n.  A.  Ili  18.  Fest.  p.  210  M. 
Cic.  ad  Att.  I  19,  9.  20,  4.  Dissentono  intorno  ad  essi  i  critici,  v.  p.  es.  Mommsen 
Staatsrecht  III  p.  962  segg.  Willems  Sénat  de  la  Eépubl.  Romaine  I  p.  137  segg. 
Cantarelli  '  Riv.  ital.  per  le  scienze  giuridiche  '  I  (1886j  p.  353  segg.  L'opi- 
nione del  Mommsen  difesa  dal  Cantarelli  secondo  cui  i  pedarii  erano  i  senatori 
che  non  avevano  rivestita  alcuna  magistratura,  detti  così  perchè,  privi  del  ius 
sententiae  dicendae,  avevano  quello  solo  di  pedibus  ire  in  senteniiam  alicuius  par 
preferibile,  prescindendo  dalla  congettura  accolta  pur  dal  Mommsen,  ma  non 
confortata  d'alcuna  prova,  che  in  origine  i  senatori  plebei  fossero  tutti  pedarii 
(sopra  p.  62  n.  1). 


IL    SENATO.    I   MAGISTRATI  235 

troppo  l'effetto  più  usuale  della  sovranità  popolare.  Atti  così  a 
serbar  la  tradizione  del  governo,  i  senatori,  tra  cui  quelli  di  no- 
mina recente  erano  sempre  l'infima  minoranza,  non  erano  altret- 
tanto atti  a  tener  il  debito  conto  delle  variazioni  dell'opinione 
pubblica  e  del  modiiicarsi  degl'interessi  popolari.  Per  lungo  tempo, 
fincliè  gii  ordinamenti  politici  ed  economici  in  vigore  furono  ri- 
spondenti agl'interessi  del  popolo,  il  conservativismo  del  senato 
non  riuscì  dannoso.  E  solo  molto  più  tardi,  allorcliè  la  condizione 
delle  cose  mutò,  mancò  al  senato  l'abilità  a  pensare  e  a  sperimen- 
tare i  rimedi  arditi  e  pronti,  e  gli  amici  del  popolo  furono  costretti 
a  cercare  per  via  rivoluzionaria  il  riparo  ai  mali  sociali. 

In  uno  Stato  in  cui  i  funzionari  non  lianno  stipendio,  gli  uf- 
fici pubblici  sono  naturalmente  in  mano  della  classe  abbiente; 
tanto  più  die  col  corpo  elettorale  disperso  in  un  vasto  territorio, 
una  efficace  pro^Daganda  elettorale,  anche  se  non  accomi)agnata 
da  vera  e  propria  corruzione^  richiede  tempo  e  denaro.  Due  o  tre 
discorsi  demagogici  nell'assemblea  popolare,  sempre  iDronta  a  rac- 
cogliersi, potevano  essere  ad  Atene  sufficiente  propaganda  eletto- 
rale per  un  candidato  povero  cui  l'ingegno  e  l'ambizione  istigassero 
a  farsi  innanzi.  Ed  appunto  perciò  il  magistrato  supremo  che 
per  non  andare  a  iDÌedi  nudi  è  costretto  a  mettere  in  conto  al  po- 
polo qualche  obolo  i^er  le  sue  scarpe  è  una  figura  caratteristica 
di  Atene;  non  però  di  Roma,  dove  questo  modo  di  aprirsi  una 
via  non  poteva  adoi3erarsi  presso  i  tardigradi  e  silenziosi  comizi. 
Or  se  la  compirà  del  voto  i^uò  dentro  certi  limiti  imi^edù-si  finche 
i  costumi  politici  non  sien  troppo  corrotti  in  una  grande  città, 
dove  la  sorveglianza  è  facile,  essa  è  stata  sempre  usuale,  do- 
vunque hanno  avuto  luogo  elezioni ,  nei  xdìccoIì  collegi  rurali 
distanti  dalle  città.  E  tale  inconveniente  non  tardò  a  manifestarsi 
anche  in  Roma,  mano  mano  che  s'accresceva  il  suo  territorio.  Chi 
poteva  infatti  sorvegliare  i  candidati  quando  si  recavano  ad  ac- 
caparrar voti  nella  tribù  Ufentina  e  nella  Falerna?  Perciò  si  ri- 
corse assai  presto  a  leggi  contro  l'ambito.  Quella  del  432,  che  se 
aveva  un  senso,  non  poteva  avere  che  l'intento  di  vietare  ai  candi- 
dati l'uso  della  toga  candida  con  cui  appunto  segnalavano  sé  stessi 
al  popolo  e  onde  hanno  preso  il  nome,  non  è  probabilmente  che 
una  invenzione  ridicola  di  qualche  annalista  (1);  ma  è  certamente 
storica  la  rogazione  Petelia  del  358  sull'ambito,  che    tendeva   ap- 


(1)  Liv.  IV  25,  13:  ne  cui  album  in  vestimentum  addere  petitionisliceret  causa. 


236  CAPO  XVII  -  l'ordinamento  centuriato 

punto  a  regolare  la  propaganda  elettorale  fuori  di  Roma  (1).  Meno 
sicura  è  la  notizia  sull'  inchiesta  del  dittatore  C.  Menio  del  314 
intorno  alle  associazioni  elettorali  (2).  Ma  che  associazioni  di  quel 
genere  si  formassero  per  manipolare  le  elezioni  quando  gii  elet- 
tori iscritti  cominciarono  ad  accostarsi  al  centinaio  di  migliaia  era 
inevitabile.  Ad  ogni  modo,  più  o  meno  repressi  dalla  legge  gii 
abusi  elettorali,  la  conseguenza  necessaria  di  quello  stato  di  cose 
fu  il  formarsi  di  una  nobiltà  in  cui  erano  ereditarie  le  cariche  più 
alte,  costituita  appunto  in  generale  dai  più  ricchi  possidenti  fon- 
diari, patrizi  e  i^lebei.  Non  era  una  casta  chiusa,  e  ciò  la  rendeva 
assai  più  vitale  dell'antico  patriziato.  Una  famiglia  che  riusciva  a 
prender  posto  tra  i  grandi  possidenti  fondiari  aveva  non  solo  il 
diritto  teorico,  ma  anche  la  possibilità  pratica  di  asjjirare  alle  ca- 
riche più  alte,  e  guardata  prima  di  traverso  dalle  altre  famiglie 
meglio  fornite  d'antenati,  finiva  poi  col  farsi  trattare  da  quelle 
da  pari  a  pari,  mentre  cominciava  a  guardare  dall'alto  la  classe 
popolare  che  forse  appunto  in  odio  alla  superbia  dei  nobili  le  aveva 
aperto  col  suo  suffragio  la  via  agli  onori.  Ija  stabilità  delle  con- 
dizioni che  è  propria  degli  ordinamenti  sociali  a  base  agricola 
com'era  il  romano  del  IV  e  del  III  secolo  faceva  si  che  la  prosperità 
economica  d'una  famiglia  si  trasmettesse  di  generazione  in  gene- 
razione e  che  la  circolazione  della  ricchezza  fosse  lenta;  la  qual 
condizione  di  cose  doveva  bensì  in  x^arte  modificarsi  con  l'incre- 
mento del  traffico,  ma  frattanto  contribuì  a  rendere  incontrastato 
il  xDotere  della  nobiltà  insieme  col  disprezzo  che  il  -piccolo  pro- 
prietario nutriva  assai  spesso  pel  commerciante  arricchito,  che  di- 
sx3oneva  bensì  di  mezzi  molto  maggiori  dei  suoi,  ma  non  poteva 
mostrare  sulla  mensa  la  saliera  d'argento  già  adoperata  dal  bis- 
avolo; onde  all'uomo  nuovo  era  preferito,  anche  se  x^ersonal- 
mente  valesse  assai  meno,  uno  che  fosse  provenuto  dai  magnanimi 
lombi  dei  Claudi  o  dei  Cornell.  Del  resto  anche  questo  non  era  in 
tutto  dannoso  allo  Stato;   poiché  se  non    s'eredita  la  vigoria  del- 


(1)  Liv.  VII  15,  12  seg.  :  et  de  amhitii  ab  C.  Poetelio  tribuno  plebis  auctorìhuH 
patribns  tum  jtrhnum  ad  jjopulum  latmn  est  eaque  rogatione  novorum  maxime 
hominum  ambitionem  qui  nuiidinas  et  conciUabiila  obire  soliti  erant  compressam 
credehant  :  dove  altro  valore  ha  la  notizia  sulla  legge,  altro  naturalmente  il 
commentario  aggiuntovi  almeno  due  secoli  dopo  da  qualche  annalista,  che  essa 
cioè  fosse  diretta  contro  i  novi  homines.  Non  era  dieci  anni  dopo  l'ammissione 
della  plebe  al  consolato  che  i  plebei  potessero  agitarsi  contro  i  novi  homines. 

(2)  Liv.  IX  26  :  coitiones  honorum  adipiscetidorum  causa. 


I   MAGISTRATI  237 


r  ingegno  e  del  carattere,  le  tradizioni  di  famiglia  e  il  consiglio  au- 
torevole dei  parenti  più  vecchi  che  avevano  rivestito  magistrature 
curali  impedivano  al  giovane  nobile  che  sedeva  al  timone  di  fare 
una  rotta  pericolosa.  E  d'altra  parte  i  giovani  nobili  che  potevano 
asph'are  alle  magistratui'e  erano  ben  conosciuti  dai  maggiorenti 
del  senato  anche  perchè  si  preparavano  alla  loro  carriera  cercando 
di  farsi  iscrivere  dai  censori  nell'albo  senatorio;  e  cosi  si  poteva 
opportunamente  provvedere,  data  anche  la  non  x^iccola  influenza 
che  la  nobiltà  aveva  ne'  comizi  per  mezzo  dei  magistrati  che  li  diri- 
gevano, a  chiudere  la  via  degli  onori  a  quelli  che  si  dimostrassero 
inetti  o  pericolosi.  Tutto  ciò  contribuiva  con  la  perenne  sorve- 
glianza del  senato  a  far  si  che  il  potere  esecutivo  agisse  in  Roma 
con  una  continuità,  con  una  coerenza,  con  una  logica  di  cui  non 
vi  è  forse  altro  esempio  nelle  repubbliche  antiche.  E  si  spiega 
anche  per  tal  modo  come  in  questo  periodo  il  console  romano 
fosse,  in  media,  un  brav'uomo,  fedele  custode  degl'interessi  della 
patria,  discreto  comandante  sul  campo  di  battaglia  e  al  tempo 
stesso  sufficiente  diplomatico,  superiore  spessissimo  personalmente 
ai  supremi  magistrati  delle  rei^ubbliche  greche;  ma  al  tempo  stesso 
ciò  spiega  il  difetto  j)i"edominante  degli  uomini  più  eminenti  di 
Roma  del  IV  e  m  secolo,  la  mancanza  assoluta  di  genialità.  In 
mezzo  a  intriganti,  bricconi  ed  inetti,  tra  gli  strateghi  ateniesi 
troviamo  figure  geniali  e  vive;  i  consoli  romani  son  come  quella 
serie  di  figTQ'e  rigide,  eguali,  che  stancano  l'occhio  nei  monumenti 
orientali,  in  confronto  col  moto  libero  e  vario  che  ci  fa  apparire 
viventi  gli  efebi  ateniesi  del  fregio  del  Partenone. 

Frattanto,  man  mano  che  il  teatro  delle  guerre  dei  Romani 
cresceva  d'ampiezza,  l'autorità  di  questi  comandanti  militari  in 
campo,  nonostante  qualche  tentativo  di  poco  conto  per  limitarla 
(solerà  pag.  224j,  s'accresceva  ancora.  Era  impossibile  da  Roma 
dirigere  le  guerre  che  si  combattevano  nel  Sannio  o  nell'Apulia; 
e  il  senato  che  prima  poteva  facilmente  mandar  consiglieri  a  ge- 
nerali che  campeggiavano  a  Tivoli  o  ad  Anzio  doveva  tenersi 
pago  ora  ad  intei"venire  co'  suoi  pareri  dopo  partito  il  console  da 
Roma  quando  gli  pareva  che  ve  ne  fosse  assoluto  bisogno;  e  il 
destinatario,  il  quale  del  resto  per  ciò  che  concerne  la  condotta 
della  guerra  non  era  punto  tenuto  ad  eseguire  le  istruzioni  del 
senato,  aveva  anche,  per  cansare  la  nota  d'indocilità,  il  facile  ri- 
piego di  dichiarare  che  gli  erano  giunte  troppo  tardi.  Inoltre  dava 
maggiore  autorità  ai  comandanti  l'essersi  di  molto  aumentate  le 
forze  di  cui  disponevano,  sicché  dal  termine  della  seconda  sanni- 
tica  ogni  console  comandava  normalmente  in  guerra  due  legioni, 


238  CAPO  XVII  -  l'ordinamento  centueiato 

ciascuna  col  proprio  contingente  d'alleati,  ossia  allora  forse  un  quin- 
dicimila uomini  in  tutto.  Con  questi  era  spesso  dato  ai  duci  ro- 
mani di  riportare  vittorie  al  cui  confronto  non  reggevano  certo  le 
scaramuccie  con  qualche  centinaio  o  migliaio  di  Volsci  o  d'Equi 
che  riempiono  la  storia  del  sec.  V.  Con  tutto  ciò  nessun  console 
tentò  mai  fino  al  tempo  di  Siila  di  valersi  del  potere  acquistato 
sui  soldati  da  lui  condotti  alla  vittoria  per  ambire  un'autorità  che 
la  legge  non  consentiva.  Grli  è  che  un  generale  vincitore  divien 
pericoloso  in  una  repubblica  solo  quando  i  suoi  soldati,  l'opinione 
Xjubblica  e  lui  stesso  possono  darsi  a  credere  che  la  vittoria  non 
debba  ascriversi  a  merito  del  governo  ch'egli  serve,  anzi  che  siasi 
vinto  a  malgrado  del  governo  per  virtù  del  duce.  La  convinzione 
invece  di  tutti  i  Romani,  a  cominciare  dagli  stessi  comandanti 
vittoriosi,  fino  almeno  ai  tempi  di  Scipione  Emiliano,  doveva  es- 
sere generalmente  l'op^josta:  che  la  vittoria  cioè  si  doveva  alla 
bontà  degli  ordinamenti  civili  e  militari,  al  valore  dei  soldati, 
ai  savi  consigli  del  senato,  e  che  qualsiasi  capitano  non  troppo 
inetto  né  trascurato,  si  chiamasse  Claudio  o  Fabrizio,  aveva  perciò 
il  modo  di  vincere.  Questo  conteneva  in  limiti  molto  moderati  la 
devozione  degli  eserciti  pei  generali  vincitori;  e  inoltre,  quando 
si  cambiava  di  comandante  ogni  anno,  non  era  a  temere  che  l'af- 
fetto per  un  duce  mettesse  radici  troppo  salde  nel  cuore  delle 
milizie  ;  tanto  più  che  nelle  guerre  d'allora  si  richiedevano  in  ge- 
nerale molte  e  molte  di  queste  campagne  d'un  anno  a  raggiun- 
gere la  vittoria  definitiva.  Tuttavia  il  primo  germe  del  male  che 
trasformò  la  repubblica  alcuni  secoli  dopo  in  monarchia  militcìre, 
si  vide  a]3punto  in  questa  età;  e  fu  la  prima  proroga  all'imperio 
annuo  di  un  magistrato  militare;  poiché  appunto  l'abuso  delle  pro- 
roghe nell'ultimo  secolo  della  repubblica  rese  possibile  ai  generali 
ambiziosi  di  formarsi  quegli  eserciti  fedeli  con  cui  mossero  poi  ad 
opprimere  la  libertà.  D'altra  parte  da  che  Roma  iniziò  guerre  di 
una  certa  mole,  la  proroga  dell'imperio  era  spesso  affatto  indi- 
sx)ensabile,  ed  appariva  anzi  un  male  minore  che  non  fosse  la  rie- 
lezione immediata  d'un  assente  al  potere  supremo. 

Se  si  paragona  la  magistratm-a  romana  con  l'ateniese  del  se- 
colo IV  si  nota  subito  come  fossero  relativamente  scarsi  i  funzio- 
nari in  Roma,  sebbene  alla  fine  del  secolo  l'estensione  dello  Stato 
romano  superasse  di  non  poco  quella  dello  Stato  ateniese.  Questa 
scarsezza  procede  da  ciò  che  lo  Stato  in  Roma  non  aveva  assunto, 
né  assunse  fin  nell'età  imperiale  tutti  quegli  uffici  di  cui  s'inca- 
ricava in  Atene.  Due  consoli  pel  comando  delle  milizie,  un  pre- 
tore poT  hi  gimisdizione,  due  questori  per  custodii-*^  il  tesoro  pub- 


I    MAGISTRATI  239 


blico  in  città  e  due  per  accompag-nare  come  ragionieri  i  consoli 
al  campo,  due  edili  curali  e  due  plebei  per  la  polizia  della  città 
e  del  mercato,  dieci  tribuni  per  prendere  la  difesa  dei  plebei  e 
sorvegliare  nell'interesse  della  plebe  l'azione  dello  Stato,  dieci 
giudici  delle  cause  liberali  {decemviri  stlitibus  iudicandis,  v.  s. 
p.  33);  eran  questi  trentuno  magistrati  che  dovevano  provvedere 
annualmente  alla  guerra,  alla  gimis dizione,  alla  polizia,  alla  fi- 
nanza pubblica;  a  intervalli  x)OÌ  i  due  censori  redigevano  le  liste 
dei  cittadini,  dei  cavalieri  e  dei  senatori,  e  provvedevano  ad  af- 
fittare o  appaltare  i  beni  o  i  redditi  dello  Stato.  Reca  meravi- 
glia elle  si  pochi  pubblici  ufficiali  bastassero  allo  Stato  romano. 
E  vero  che  i  loiù  importanti  tra  questi  magistrati  erano  normal- 
mente assistiti  da  consiglieri  di  grado  senatorio  e  avevano  nume- 
rosi subordinati,  parte  servi  pubblici,  j)arte  inservienti  liberi,  come 
littori,  viatori,  scribi,  accensi,  i)arte  ufficiali  nominati  da  loro  stessi 
o  anche  di  nomina  popolare,  come  prima  sei  e  poi  sedici  dei  tribuni 
militari  pei  consoli.  Altri  pubblici  ufficiali  poi,  in  parte  almeno 
di  nomina  iDopolare,  si  vennero  istituendo  sulla  fine  del  IV  o  nella 
prima  metà  del  III  secolo,  come  i  quatuorviri  che  i  pretori,  a  par- 
tii-e  dal  318,  delegarono  iDcr  l'amministrazione  della  giustizia  in 
Camj)ania  (1),  e  i  triumviri  capitali  cui  era  attribuita  la  cura  delle 
esecuzioni  e  il  provvedere  alla  difesa  contro  i  malfattori,  istituiti 
nel  290  circa  (2). 

Ad  ogni  modo,  se  il  cittadino,  non  circondato  da  tanti  epime- 
leti,  agoranomi,  astinomi,  metronomi  e  così  via,  doveva  x)ensar  di 
più  da  se  stesso  ai  casi  propri,  in  compenso  l'organismo  dello  Stato, 
più  semplice,  agiva  anche  meglio;  la  gerarcliia  poi  tra  la  mag- 
giore e  la  minore  potestà  dei  magistrati  contribuiva  all'unità  del- 
l'indirizzo  di  governo  e  facilitava  al  senato  il  suo  compito  di  ac- 


(1)  Liv.  IX  20:  eodem  anno  primum  praefecti  Ca2)uain  creavi  coepti  legihus 
ah  L.  Furio  praetore  datis.  È  incerto  quando  cominciassero  ad  essere  eletti 
dal  popolo.  Cfr.  e.  XXII. 

(2)  Liv.  ep.  11:  triumviri  capitales  tunc  primum  creati  sunt.  Fest.  p.  347  s.  v. 
sacramento  :  qua  de  re  lege  L.  Papiri  tr.  pi.  sanctum  est  his  verbis:  qiiicumque 
praetor  liosthac  factus  erit  qui  inter  civis  ius  dicet,  tres  viros  capitales  j)opulu>n 
rogato  hique  tres  viri  [capitales]  quicumque  \_2)0sthac  faceti  erunt  sacramenta 
exiigunto]  iudicuntoque  eodemque  iure  sunto  uti  ex  legihus  i)lebeique  scitis  exigere 
iudicareque  esseque  oportet.  Di  qui  parrebbe  che  non  fossero  divenuti  di  no- 
mina popolare  se  non  dopo  la  istituzione  del  ])raetor  peregrimis  (Mosimskn 
Staatsrecht  ir*  595  n.  2). 


240  CAPO  XVII  -  l'ordinamento  centuriato 

centrare  la  direzione  della  cosa  pubblica.  Anclie  il  tribunato  della 
plebe,  nonostante  la  sua  origine  rivoluzionaria,  era  divenuto  dopo 
le  leggi  Publilia  ed  Ortensia  piuttosto  un  istrumento  di  governo 
pel  senato,  essendo  facile  a  questo  per  mezzo  del  veto  di  un  tri- 
buno impedire  atti  cbe  non  avessero  la  sua  approvazione,  sia  degli 
altri  magistrati  sia  degli  stessi  tribuni  della  plebe.  Ed  era  quasi 
impossibile  che  non  si  trovasse  almeno  un  tribuno  disposto  ad 
ascoltare  i  consigli  del  senato  quando  una  buona  parte  dei  tribuni 
doveva  appartenere  alle  stesse  famiglie  della  nobiltà  plebea  che 
erano  più  largamente  rappresentate  in  quel  consesso.  Onde  appare 
chiaro  che  i  tribuni,  dopo  aver  proceduto  compatti  alla  demolizione 
dei  privilegi  del  patriziato  quando  nell' interesse  del  popolo  e  più 
nel  proprio  si  erano  proposte  questo  intendimento  tutte  le  mag- 
giori famiglie  plebee,  divennero  inetti  a  promuovere  efficacemente 
qualsiasi  riforma  a  vantaggio  del  popolo  minuto  quando  si  era 
formato  uno  stato  di  cose  che  soddisfaceva  le  aspirazioni  della 
nobiltà  plebea;  di  che  Ti.  e  C.  Grracco  dovettero  avvedersi  più 
tardi  con  proprio  danno.  Ma  anche  per  questo  rispetto  il  danno 
della  trasformazione  non  venne  alla  luce  che  assai  più  tardi;  per 
allora  l'addomesticamento  del  tribunato  conferi  a  quella  meravi- 
gliosa coerenza  d'indirizzo  governativo  che  ebbe  tanta  parte  nei 
trionfi  di  Roma. 


.g\S\SNS\S\S^N©\S'.S\§r<S\S\S\S"^SN.S'.^\S\S\®>>§\S^.SN^>,§\S"sS^ 


CAPO  xvni 


La  dissoluzione  della  lega  latina. 


Xja  lega  a  piena  parità  di  dii'itti  clie  Roma  aveva  concluso  coi 
Latini  sul  principio  del  sec.  V  si  era  lentamente  trasformata  nella 
egemonia  di  Roma  sul  Lazio.  Mentre  i  Latini  si  erano  assuefatti 
a  fornire  i  loro  contingenti  agli  eserciti  romani,  è  dubbio  se  sulla 
fine  del  V  sec,  avessero  più  luogo  le  riunioni  federali  alla  fonte 
dell'acqua  Ferentina  e  se  venisse  più  nominato  il  dittatore  latino. 
Quando  Roma  fu  presa  dai  Gralli,  la  lega  si  trovò  di  fatto  di- 
sciolta. Non  vi  fu  per  parte  dei  Latini  una  esplicita  dicliiarazione 
di  guerra,  né  i  Romani  si  ritennero  in  stato  di  guerra  coi  loro  an- 
tichi alleati;  soltanto  le  città  latine  o  per  lo  meno  molte  di  esse 
sospesero  V  invio  degli  aiuti  federali  ai  Romani  (1).  Sicché  i  Ro- 
mani si  trovarono  di  dovere  da  soli  o  quasi  combattere  coi  loro 
nemici  ;  ed  anzi  talvolta  alcune  delle  città  latine  che  non  avevano 
più  legame  con  Roma,  si  strinsero  in  amicizia  con  gli  avversari 
dei  Romani.  Non  che  Roma  in  questo  periodo  avesse  a  sostenere  una 
guerra  latina,  come  quella  in  cui  si  era  combattuto  al  Regillo  o 


{ì)  Liv.  VI  2,  3  (all'a.  389):  novus  quoque  terror  accesserat  defectionis  Lati- 
norum Hernicorumque  qui  post  pugnam  ad  lacum  Re</illum  factum  per  annon 
prope  centutìi  numquam  ambigua  fide  in  amicitia  jwpuli  Romani  fuerant.  Questa 
notizia  non  è  in  Diodoro;  ma  tutta  la  storia  degli  anni  seguenti  induce  a 
ritenerla  autentica. 

Gr.  De  Sanctis,  Storia  dei  Roìnani,  II.  16 


242  CAPO   XYHT  -  LA   DISSOLUZIONE   DELLA   LEGA   LATINA 

come  fu  poi  quella  del  340,  bensì  dovette  combattere  molte  gueiTe, 
i]  cui  esito  fu  vario,  con  una  o  più  città  latine.  Date  le  condizioni 
della  nostra  tradizione  sulla  prima  metà  del  sec.  TV,  s' intende  di 
leggieri  che  essa  non  fornisca  alcuna  idea  chiara  di  queste  intral- 
ciate guerricciuole  che  s'aprono  col  racconto  leggendario  su  quella 
Tutela  cui  è  pur  dato  il  nome  greco  di  Philotis  (1).  Profittando 
della  umiliazione  di  Roma,  i  vicini  e  in  particolare  i  Fidenati 
sotto  la  guida  del  dittatore  Postumio  Li-vao  si  presentano  in  armi 
presso  la  città,  e  intimano  ai  Romani  di  ceder  loro  vergini  e  ma- 
trone o,  secondo  una  versione  più  onesta,  di  riammetterli  effetti- 
vamente al  connubio,  dando  loro  in  matrimonio  donne  romane. 
Impotenti  a  resistere  con  la  forza,  i  Romani  inviano  loro,  vestite 
signorilmente,  un  certo  numero  d'ancelle.  Ed  una  di  queste,  Tu- 
tela, nel  cuor  della  notte  salita  su  d'un  caprifico,  fa  un  segnale 
convenuto,  avvertito  il  quale  i  cittadini  piombano  sui  nemici  e  li 
oi3primono,  immersi  nel  sonno  e  nella  crapula.  Questa  storiella, 
narrata  con  parecchie  varianti,  è  per  la  maggior  parte  un  mito 
etiologico  diretto  a  spiegare  le  ceremonie  della  festa  di  Giunone 
Caprotina,  che  aveva  luogo  il  7  luglio  (none  caprotine)  e  teneva 
dietro  all'altra  dei  poplifugi  (5  luglio)  che  la  leggenda  collegava 
pure  con  questi  fatti.  Ma  i  poplifugi,  che  non  possono  separarsi 
dal  regifugio,  hanno  un'origine  i3uramente  religiosa  senza  rela- 
zione con  fatti  storici  determinati;  e  la  solennità  delle  none  ca- 
protine non  era  soltanto  romana,  ma  comune  a  tutto  il  Lazio  (2), 
e  quindi  non  i)oteva  aver  nulla  a  fare  con  un  mito  specificamente 
romano  ;  nel  quale  del  resto,  oltre  l'elemento  etiologico,  deve  rico- 
noscersi un  elemento  novellistico  che  ha  riscontro  nella  leggenda 
ebraica  di  Griuditta  ed  Oloferne.  Di  storico  v'è  al  più  il  languido 
ricordo  di  quei  giorni  in  cui  Roma  giaceva  accasciata  dopo  il  di- 
sastro gallico,  esposta  agli  insulti  di  ogni  nemico.  Ma  del  suo  lento 
risorgere  guerreggiando  senza  posa  la  tradizione  non  serba  netta 
memoria,  sicché  quasi  inaspettata  ci  giunge  la  notizia  del  rinno- 
vamento del  trattato  cassiano,  un  trentennio  cn-ca  dopo  l'invasione 
gallica.  Come  si  venisse  a  codesto  rinnovamento  potremo  intendere 
soltanto  studiando  le  relazioni  dei  Romani  con  le  singole  città  la- 
tine in  questo  periodo:  ricerca  spinosa,  ma  indispensabile. 


(1)  I  testi  son  raccolti  nel  voi.  I  p.  400. 

(2)  Varrò  de  l.  l.  Yl  18:  Nonae  Caprotinae  quod  eo  die  in  Latto  lunoni  Ca- 
protinae  mulieres  sacrifìcantur .  Cic.  de  deor.  fiat.  I  29,  82.  Sul  significato  della 
festa  V.  RoscnER  nel  '  Mythol.  Lexikon  'Hip.  598  segg. 


J 


LA   LEGGENDA   DI   PHILOTIS.   TUSCOLO  243 

Nel  390,  mentre  fuori  della  lega  si  teneva  ancora  un  potente 
Stato  latino,  Preneste,  le  antiche  città  della  lega  si  dividevano  in 
gruppi  separati  tra  loro  da  territorio  romano  (p,  153).  Seguivano 
più  a  sud  città  di  nazionalità  volsca  che  allora  facevano  parte 
della  confederazione  latina,  Anzio,  Satrico,  probabilmente  anche 
Velletri  ed  Anxui-,  e  città  latine  in  paese  volsco,  Cora,  Norba,  Si- 
gnia,  Circei,  a  cui  poco  dopo,  colmando  la  lacuna  tra  le  due  ul- 
time, si  aggiunse  Sezia  (1). 

Dopo  la  catastrofe  gallica,  tra  le  prime  a  rompere  le  relazioni 
con  Roma  fu  probabilmente  Tivoli,  la  più  importante,  dopo  Roma, 
delle  città  alleate  (v.  s.  e.  XV),  con  cui  non  è  difficile  che  abbiano 
proceduto  d'accordo  le  due  città  vicine  di  Nomento  e  di  Pedo. 
Tuttavia  a  guerra  aperta  coi  Tiburtini  non  si  venne  se  non  pa- 
recchi anni  dopo,  intorno  al  360,  quando  i  Romani,  tentando  di 
ricostituire  a  loro  profitto  l'antica  lega  latina,  si  disposero  a  co- 
stringere ad  entrarne  a  parte  con  la  forza  delle  armi  i  Tibm'tini. 

Assai  diverse  furono  le  relazioni  con  la  vicina  Tuscolo.  Tuscolo, 
fin  da  quando  i  Romani  nella  lotta  con  gli  Equi  ebbero  acquistato 
Labico  e  Boia,  era  circondata  da  territorio  romano.  Essendo  quindi 
ansiosa  della  propria  indipendenza,  dopo  l'incendio  gallico  credette 
venuto  il  momento  di  staccarsi  interamente  da  Roma.  Ora  Roma 
non  aveva  potuto  annettere  Tuscolo  al  proprio  territorio  finché 
sussisteva  la  lega  latina.  Rotti  i  vincoli  di  questa  lega,'  dato  il 
pronto  risorgere  della  potenza  romana  dopo  la  catastrofe  del  390, 
era  naturale  che  a  Tuscolo  prima  d'ogni  altra  città  latina  toccasse 
d'essere  incorporata  allo  Stato  romano.  Dovremmo  legittimamente 
congetturar  ciò  se  anche  non  fosse  riferito  dalla  tradizione,  che  è 
qui  sostanzialmente  fededegna.  Ed  è  pur  notevole  che  essa  ci  con- 
serva memoria  altresì,  sia  pure  in  veste  leggendaria,  della  nes- 
suna resistenza  che  i  Tuscolani  poterono  opiDorre  alle  forze  pre- 
ponderanti di  Roma.  Quando,  deliberata  la  guerra,  Camillo  muove 
con  l'esercito  contro  Tuscolo,  trova  aperte  le  porte  della  città, 
mentre  tutti  in  città  e  in  campagna  attendono  pacificamente  ai 
loro  uffici  e  perfino  si  sentono  dalle  scuole  le  voci  dei  fanciulli  che 
studiano;  di  guisa  che  i  Romani  accordano  senz'altro  la  pace  e 
poco  dopo  la  piena  cittadinanza  ai  Tuscolani  (2).  Premesso  ciò,  è 


(1,  Fondata  secondo  Vell.  I  14,2  nel  382;  secondo  Liv.  VI  30,  9  arricchita 
nel  379  di  nuovi  coloni. 

(2)  Liv.  VI  26,  8  :  pacem  in  praesentia  nec  ita  multo  post  civitatem  etiam  ini- 
petraverunt.  Plut.  Cam.  38  :  Kal  TrapaiTou|uévoi<;  auv^iTpa?€v   aCiTÒc;  óqpeGfìvai  te 


244  CAPO  xvni  -  la  dissoluzione  della  lega  latina 

questione  secondaria  se  l'incorporazione  di  Tuscolo  nello  Stato 
romano  sia  avvenuta  nel  381,  nel  377  o  anche  nel  370  (1),  e  solo 
importa  stabilire  che,  quando  si  ricostituì  la  lega  latina,  Tuscolo 
faceva  già  parte  del  territorio  di  Roma.  S'è  voluto  negare  che  in- 
torno al  380  Tuscolo  abbia  potuto  conseguire  la  cittadinanza  ro- 
mana perchè  nel  340  prese  parte  alla  guerra  latina  (2).  Ma  la  cit- 
tadinanza romana  nella  x^rima  metà  del  sec.  IV  non  era  tal 
beneficio  da  compensare  la  perdita  dell'  autonomia ,  anzi  il  suo 
effetto  in  un  periodo  in  cui  i  Romani  conducevano  con  la  più 
disperata  energia  la  guerra  per  l'esistenza  coi  vicini  era  soprat- 
tutto quello  di  lasciarsi  sfruttare  a  tal  uopo  al  pari  dello  stesso 
popolo  romano  più  direttamente  interessato  (3). 


Triv  TTÓXiv  aÌTiaq  àiTdar|(;  koì  )ui6TaXa$eìv  ìooiroXiTeiai;.  Dionys.  XIV  6.  Val.  Max. 
VII  3  ext.  9.  Cass.  Dio  fr.  28.  Cfr.  Cic.  prò  Piane.  8,  19:  tu  es  ex  municipio 
antiquissimo  Tusculano. 

(1)  Al  377  Liv.  VI  33  narra  che  i  Latini,  irritati  perchè  Tuscolo  ha  abban- 
donato la  loro  causa,  assalgono  i  Tuscolani  e  s' impadroniscono  di  Tuscolo, 
salvo  la  rocca.  I  Romani  muovono  al  soccorso  e  liberano  la  città  sotto 
L.  Quinzio  e  Ser.  Sulpicio.  Può  sorgere  il  dubbio  che  questa  fosse  adunque 
un'alti-a  forma  del  racconto  della  incorporazione  di  Tuscolo  allo  Stato  romano, 
in  cui  le  cose  erano  rappresentate  in  modo  più  favorevole  pei  Tuscolani.  E 
un  dubbio  analogo  può  nascere  a  proposito  del  racconto  (Liv.  VI  36)  che  nel 
370  di  nuovo  i  Velliterni  furono  respinti  dalle  mura  di  Tuscolo. 

(2)  Pais  I  2,  120. 

(3)  Il  Pais  giunge  al  punto  di  dire  che  non  prima  del  323  può  parlarsi  di 
cittadinanza  accordata  singolarmente  a  qualcuna  delle  genti  di  Tuscolo.  La 
tradizione  assevera  invece  concordemente  che  a  molte  città  latine  fu  accordata 
la  cittadinanza  nel  338  ed  a  Tuscolo  fu  allora  riconfermata.  II  Pais  si  fonda 
sul  passo  di  Liv.  VIII  37,  secondo  cui  nel  323  il  tribur.o  della  plebe  M.  Flavio 
propose  per  punire  i  Tuscolani  dell'aiuto  dato  ai  Velliterni  e  ai  Privernati  di 
uccidere,  dopo  averli  vergheggiati,  tutti  gli  adulti  di  Tuscolo  e  di  vendere 
schiave  le  donne  e  i  bambini.  La  j^roposta  fu  respinta  da  tutte  le  tribìi  fuoi'chè 
dalla  tribù  Pollia.  Di  qui  un  odio  mortale  fra  questa  e  la  tribù  Papiria,  in 
cui  votavano  i  Tuscolani.  Ma  si  tratta  qui  probabilmente  d'un  semplice  mito 
etiologico  destinato  a  spiegare  la  ruggine  che  v'era  tra  la  tribù  Pollia  e  la 
tribù  Papiria,  la  quale  si  spiega  invece  sufficientemente  da  beghe  di  cattivo 
vicinato;  mito  etiologico  senza  cronologia  come  tutti  i  miti,  riferito  a  que- 
.st'anno  arbitrariamente  forse  perchè  si  trovava  nei  fasti  dei  tribuni  della 
plebe  il  nome  del  presunto  autore  della  crudele  proposta.  Infatti  di  guerra 
con  Velletri  e  Priverno  non  c'è  traccia  negli  anni  precedenti  alla  catastrofe 
di  Gaudio  e  nulla  c'induce  a  inserire  una  simile  guerra  nelle  lacune  della  tra- 
dizione, poiché  Velletri,  dopo  aver  preso  parte  alla  guerra  latina  del  340-338^ 


LE    CITTÀ    LATINE    DEL   MEZZOGIORNO.    I    VOLSCI  245 

Invece  dopo  il  390  rimase  fedele  a  Roma  il  gruppo  meridio- 
nale delle  città  latine,  quello  clie  più  era  stato  minacciato  dai 
Volsci  e  più  aveva  sperimentato  nella  lotta  contro  di  essi  il  valido 
aiuto  di  Roma,  cioè  Aricia,  Ardea,  Lavinio,  Lanuvio  (1).  Fedeli 
furono  altresì  le  città  latine  in  i^aese  volsco,  F  antichissima  Cora, 
Norba,  Signia  e  Sezia  (2).  Assai  diversamente,  com'è  naturale,  si 
comportarono  le  città  volsche.  Il  paese  volsco,  con  la  confisca  dei 
territori  dove  si  fondarono  le  colonie  di  Sezia  e  di  Circei  (393),  era 
stato  separato  in  due  parti  :  da  un  lato  i  Volsci  Anziati  con  Sa- 
trico,  che  appare  strettamente  a  loro  unita,  i  quali  davano  la  mano 
ai  Velliterni,  dall'altra  i  Pri vernati  coi  Volsci  della  valle  del  Sacco 
«  del  Liri.  I  volsci  Ecetrani,  che  erano  stati,  insieme  con  gli  An- 
ziati, i  maggiori  avversari  dei  Romani  nel  sec.  V,  scompaiono 
nella  tradizione  (3j,  e  al  loro  posto  subentrano  i  Privernati,  di  cui 
però  si  fa  parola  per  la  prima  volta  nel  358  (4).  Grli  è  che  nella 
prima  metà  del  sec.  IV  i  Romani,  lasciando  da  parte  i  Volsci  che 
abitavano  al  di  là  della  linea  Cora,  Sezia,  Cii'cei,  diressero  il  loro 
sforzo  di  guerra  contro  i  Volsci  più  occidentali,  che  quelle  colonie 


gravemente  punita,  era  rimasta  in  pace;  Priverno  poi  s'era  sollevata  prima 
della  guerra  latina  o  secondo  un'altra  tradizione  nel  329  (v.  p.  273).  Di  guerra 
isolata  con  Tuscolo  non  pare  in  quel  momento  possa  parlarsi.  E  vero  che 
l'anno  seguente  (322)  fu  console  L.  Fulvio  e  che  di  questo  Fulvio  Flin.  n.  h. 
VII  136  dice  che  fu  Tusculanortvn  rebellantium  consul  eodemque  honore  cum 
iransisset  exornatus  confestim  a  popolo  Romano  qui  soltis  eodem  anno  quo  fuerat 
hostis  Romae  triumphavit  ex  iis  quorum  consul  fuerat.  Ma  qui  son  varie  inesat- 
tezze. Prima  di  tutto  i  magistrati  supremi  di  Tuscolo  non  si  chiamavano  con- 
soli; poi  Fulvio  non  trionfò  dei  T uscolani  :  il  silenzio  dei  fasti  trionfali  è 
argomento  sufficiente,  perchè  per  questa  età  possono  registrare  trionfi  falsi, 
ma  assai  difficilmente  omettere  trionfi  veri.  È  probabile  quindi  che  si  tratti 
■di  una  leggenda  municipale  diretta  ad  infamare  il  trasferirsi  dei  Fulvi  da 
Tuscolo  a  Roma,  leggenda  che  potrebbe  aver  qualche  fondamento  di  vero  se 
i  Fulvi  si  erano  stabiliti  a  Roma  nel  381  o  nel  888  e  che  poi,  esagerando 
•sempre  più  i  fatti,  si  collegò  col  primo  consolato  d'un  Fulvio. 

(1)  Ciò  è  provato  precisamente  dal  silenzio  della  tradizione.  Un  solo  accenno 
ad  ostilità  con  Lanuvio  è  in  Liv.  VI  21,  2  (a.  383):  Lanuvini  etiam,  quae  fide- 
lissima  urbs  fuerat,  subito  exorti.  Anche  le  lotte  dei  Romani  coi  Volsci  sup- 
pongono che  fosse  fedele  ai  Romani  questo  gruppo  di  città. 

(2)  Di  Cora  e  Norba  la  tradizione  per  questi  anni  non  fa  il  più  piccolo 
cenno.  Dei  Signini  ricorda  soltanto  che  nel  362  (Liv.  VII  8,  6)  avrebbero  di- 
sperso i  fuggiaschi  Ernici. 

(8j  Tolta  una  menzione  insignificante  al  378  (Liv.  VI  31). 
(4)  Liv.  VII  15,  11.  Cfr.  sopra  p.  107. 


246  CAPO  xvni  -  la  dissoluzione  della  lega  latina 

latine  separavano  dai  loro  connazionali  in  modo  da  poterne  diffi- 
cilmente ricevere  soccorsi.  Di  fatto  gli  Anziati  e  i  Satricani,  che 
solo  forzatamente  avevano  acceduto  alla  lega  latina,  se  ne  erano 
distaccati  tosto  dopo  la  catastrofe  gallica;  e  al  pari  di  essi  i  Vel- 
literni,  se  pure  la  loro  ribellione  del  393  era  stata  domata  prima 
di  quella  catastrofe.  Tra  tutti  costoro  i  più  potenti  erano  gli  An- 
ziati, per  modo  clie  ad  essi  dobbiamo  ritenere  che  si  alluda  quando 
nella  nostra  tradizione  in  questo  periodo  si  parla  senz'altro  di 
Volsci.  In  mezzo  a  siffatte  ribellioni  vien  ricordata  ripetutamente 
la  malfida  alleanza  di  Circei  (1).  A  differenza  delle  altre  colonie 
latine,  questa,  ch'era  stata  dedotta  nel  393,  vacillò  nella  fede  forse 
perchè,  costretti  allora  molti  dei  Volsci  ad  entrare  nella  lega  la- 
tina, ne  avevano  apx3rofittato  per  prendere  una  parte  preponde- 
rante alla  colonizzazione  d'una  città  posta  nel  loro  i^roprio  territorio. 
Non  ci  è  dato  di  conoscere  i  particolari  di  questa  nuova  guerra 
tra  Romani  e  Volsci  che  ebbe  termine  con  la  distruzione  di  Sa- 
trico  e  con  1'  ascriversi  novamente  di  Anzio  e  di  Velletri  nella 
lega.  Ad  essa  le  nostre  fonti,  compresa  la  più  fededegna,  sono 
d'accordo  nel  riferire  una  battaglia  decisiva  contro  i  Volsci  com- 
battuta sotto  la  guida  del  dittatore  Camillo  immediatamente  dopo 
la  invasione  gallica,  a  un  venticinque  miglia  da  Roma,  presso 
una  terra  non  lontana  da  Lanuvio  detta  Mecio  o  Marcio  (2).  Le 
notizie  che  abbiamo  su  questo  combattimento  sono  insufficienti  e 
di  valore  incerto.  Forse  un'antica  tradizione  riportava  l'incendio  del 
campo  volsco  narrato  concordemente  dagli  scrittori;  meno  atten- 
dibile è  il  racconto  diffuso  che  troviamo  in  una  delle  fonti  sui  tri- 
buni militari  assediati  dai  Volsci  e  salvati  dallintervento  del  dit- 
tatore (3),  che  sembra  una  variazione  sopra  un  ben  noto  motivo  (4). 
Più  importante  del  resto  è  notare  che  tutti  riguardano  la  vittoria 
come  definitiva  (5),  sebbene  la  tradizione  registri  poco  dopo  nuove 
vittorie  sui  Volsci.  In  sostanza,  se  j^ur  quella  battaglia  non  ebbe 


(1)  Liv.  VI  12.  13.  17.  21. 

(2)  DiOD.  XIV  117:  èv  tiù  Ka\ou|névuj  MopKiip.  Plut.  Cam.  33:  Trepi  tò  MdpKiov 
òpo^.  Liv.  VI  2,  8  ad  Mecium  (al.  codd.  Mestinm,  Metiuni).  Forse  il  nome  è  da 
collegare  con  quello  della  tribù  Maecia. 

(3)  Plut.  1.  e. 

(4)  Cfr.  sopra  p.  117  seg.  121. 

(5)  DioD.  1.  e:  òióirep  tòv  IfiirpoaBev  xpóvov  iaxvJpoì  ÒOKOuvrec;  elvai  òià  tì^v 
ou^qpopàv  ToÙTnv  àaSevéaroTOi  tiIjv  uepioiKoùvxujv  èGvuùv  èyevrieriaav.  Liv.  1.  e: 
ad  deditionem  Volscos  septuagesimo  demum  anno  subegit.  Plut.  1.  e.  :  TTpoaaY<3|H€vo^ 
Toù?  OùoXovjaKoui;. 


1   VOLSCI.    DISTKUZIONE    DI   SATKICO  247 

effetti  di  tanto  momento,  par  clie  a  riconoscere  la  sua  realtà 
storica  e  la  sua  importanza  si  possa  tanto  poco  esitare  quanto  per 
rispetto  ai  combattimenti  del  Regillo,  del  Cremerà  e  dell'Allia  o 
alla  vittoria  di  Postumio  Tuberto  sull'  Algido  ;  poiché  essa  è  uno 
dei  fatti  clie  si  rispeccliiano  più  nettamente  nella  tradizione  sul 
sec.  rV  distinguendosi  dalle  notizie  contraddittorie  o  non  ciliare 
die  la  cii'condano.  E  si  potrà  discutere  se  spetti  per  l'appunto 
al  389,  ma  è  diffìcile  negare  che  debba  riputarsi  realmente  po- 
steriore all'invasione  gallica.  Quanto  jjoi  alla  sorte  delle  sin- 
gole città  volsche,  non  ne  mancano  notizie  nella  tradizione. 
Cosi  nel  382  essa  parla  di  una  vittoria  riportata  presso  Vel- 
letri  sui  Venitemi  aiutati  dai  Prenestini  (1)  e  nel  380  della  con- 
quista di  Velletri  per  opera  di  T.  Quinzio  (2).  Ma  questa  è  pro- 
babilmente un'anticipazione,  tanto  più  che  nella  epigrafe  ricordante 
le  sue  conquiste  sembra  che  Quinzio  non  ciarlasse  punto  di  Velletri, 
bensì  di  terre  del  paese  prenestino  ;  e  di  fatto  si  torna  a  discorrere 
nel  370,  nel  369  e  nel  367  dell'assedio  di  Velletri  (3)  e  finalmente 
ancora  nel  358  d'una  incm-sione  ostile  di  Velliterni  (4).  Checche  ne 
sia,  non  sappiamo  con  precisione  quando,  ma  certo  poco  dopo  che  si 
fu  ricostituita  la  lega  latina,  i  Velliterni  debbono  avervi  fatto  indu- 
bitatamente adesione,  circondati  com'essi  erano  allora  da  territorio 
latino.  D'un'altra  città  volsca,  Satrico,  la  jDresa  è  narrata  non 
meno  di  quattro  volte  (5),  e,  per  quanto  possa  in  realtà  essersi 
disputata  tra  i  contendenti,  le  condizioni  della  nostra  tradizione 
danno  a  pensare  che  quei  racconti  facciano  tutti  capo  ad  una 
stessa  notizia  sulla  caduta  della  città  ;  tanto  ciò  è  vero  che  per 
due  volte,  nel  377  e  nel  346,  si  dice  che  Satrico  fu  distrutta  salvo 
il  tempio  della  Madre  Matuta,  in  occasione  di  una  spedizione  ro- 
mana condotta  da  un  Valerio,  una  volta  per  opera  dei  Romani, 
l'altra  per  opera  dei  Latini.  Par  dunque  che  si  tratti  dello  stesso 
fatto  il  cui  vanto  veniva  ascritto  ora  ai  Romani,  ora  ai  loro  al- 
leati. Gli  annalisti  tardi,  che  non  si  facevano  un'idea  chiara  delie 
relazioni  tra  Romani  e  Latini,  non  riuscivano  ad  intendere  come, 
se  i  Latini  qui  combattevano  da  alleati  coi  Romani,  l'onore  della 
conquista  dalla  tradizione  fosse  ascritto  ai  Latini.  E  così  si  appi- 


(1)  Liv.  VI  22. 

(2)  Liv.  VI  29,  6. 

(3)  Liv.  VI  86,  5.  .37,  12.  38,  1.  42,  4. 

(4)  Liv.  VII  15,  11. 

(5)  Liv.  VI  8  (a.  386).  22  (a.  382).  32  (a.  377).  VII  29  (a.  346). 


24:8  CAPO   XVIII  -  LA    DISSOLUZIONE    DELLA    LEGA    LATINA 

gliarono  alla  congettura  insensata  die,  dopo  una  battaglia  com- 
battuta da  Volsci  e  Latini  contro  Roma,  i  Latini,  irritati  perchè 
i  Yolsci  si  erano  arresi  ai  Romani,  tornando  in  patria  avessero 
dato  Satrico  alle  fiamme.  Anche  la  passeggera  colonizzazione  ro- 
mana di  Satrico  merita  poca  fede:  colonie  di  cittadini  con  vero 
diritto  comunale  non  ne  fondarono  i  Romani  che  dopo  la  guerra 
latina  del  340-338,  e  di  regola  sul  mare.  Del  resto  fra  tutte  le 
date  attribuite  alla  distruzione  di  Satrico  la  meno  lontana  dal  vero 
non  è  quella  più  recente  del  346,  sebbene  abbia  il  suffragio  dei 
fasti  trionfali  che  registrano  al  1°  febbraio  di  quell'anno  il  trionfo 
di  M.  Valerio  Corvo  sui  Volsci  Anziati  e  sui  Satricani.  Allora  infatti 
da  qualche  tempo  gii  Anziati  avevano  compito  la  loro  sottomissione 
ed  erano  rientrati  nella  lega  latina,  rinunciando  a  una  parte  del 
loro  territorio,  com'è  provato  dalla  istituzione  delle  tribù  Pomptina 
e  Poplilia  nel  358  e  dal  trattato  romano-cartaginese  del  348,  ove 
son  ricordati  tra  gli  alleati  latini  di  Roma.  E  da  notare  del  resto 
che  mentre  nelle  precedenti  guerre  volsche  il  paese  conquistato  era 
stato  incorporato  per  intero  alla  lega  latina,  in  questa,  di  cui  i 
Romani  avevano  portato  quasi  soli  il  peso,  tennero  per  sé  anche 
buona  parte  del  guadagno,  tanto  più  che  per  qualche  decennio  una 
lega  latina  cui  donarlo  non  esisteva,  e  distribuirono  in  lotti  il  ter- 
ritorio confiscato  tra  cittadini,  di  cui  poi  costituirono  nel  358  le 
due  tribù  sopra  menzionate. 

Mentre  per  tutta  la  prima  metà  del  sec.  IV  dm^ò  la  guerra  coi 
Volsci,  la  tradizione  fa  apx3ena  un  cenno  dell'altro  nemico  seco- 
lare, gli  Equi.  Nel  389  gli  Equi,  secondo  le  nostre  fonti  (1),  pro- 
fittarono dell'indebolimento  di  Roma  per  un  nuovo  assalto,  ma 
furono  rotti  da  Camillo  presso  Boia,  e  Boia  ricuperata  o  liberata 
dai  Romani.  L'anno  appresso  abbiamo  notizia  (2)  d'una  spedizione 
contro  gii  Equi  per  domarli  a  pieno,  che  può  anche  essere  una 
semplice  reduplicazione  della  precedente.  E  da  allora  degli  Equi 
non  occorre  più  menzione  fino  al  304,  al  termine  della  seconda 
g:uerra  sannitica  (3).  Questo  vuol  dire  che,  convintisi  gii  Equi  con 
proprio  danno  subito  dopo  la  catastrofe  gallica  della  impossibilità, 
di  prendere  una  rivincita  sui  Romani,  si  rimasero  tranquilli  fra  i 
loro  monti,  dove  i  Romani  non  avevano  per  allora  alcun  motivo 
di    andarli   a   cercare,   mentre  i  loro    antichi   campi    di    battaglia 


(1)  Liv.  VI  2,  14.  DiOD.  XIV  117,  4. 

(2)  Da  Liv.  VI  4,  8. 

(3)  V.  e.  XIX. 


C4LI    EQUI.    PKEXESTE  249 


erano  contesi  tra  Eomani  e  Prenestini.  Preneste,  la  quale  proba- 
bilmente nel  sec.  Y  non  aveva  fatto  parte  della  lega  latina,  non 
è  ricordata  punto  nella  nostra  tradizione  prima  dell'invasione  gal- 
lica (1),  sia  che  si  tenesse  neutrale  tra  Romani  ed  Equi,  sia  che, 
,pui-  favorendo,  come  par  più  probabile,  gli  Equi,  le  sue  lotte  con 
Roma  in  quel  periodo,  poco  importanti  o  poco  onorevoli  pei  Ro- 
mani, sieno  cadute  in  dimenticanza  (2).  Ad  ogni  modo  ora  la  tra- 
dizione ricorda  che  i  Prenestini  sostituendosi  agii  Equi  diedero  la 
mano  ai  Volsci  ribelli  e  che  i  Romani  impresero  contro  Preneste 
una  lotta  che  si  chiuse  solo  dopo  un  trent'  anni  (3).  Pm'troppo  i 
particolari  di  questa  guerra  sono,  secondo  il  consueto  di  questo 
periodo,  poco  degni  di  fede.  Ci  si  parla  p.  es.  dell"  avanzarsi  elei 
Prenestini  sino  alla  porta  Collina  (4),  che  per  se  non  ha  nulla  di 
impossibile  ,  ma  è  da  aver  sospetto  perchè  il  medesimo  si  narra 
altrove  dei  Tibm'tini.  Anche  meno  credibile  è  la  battaglia  ijresso 
TAllia  in  cui  i  Prenestini  sarebbero  stati  sconfitti  dal  dittatore 
T.  Quinzio  Cincinnato  (5)  ;  è  molto  difficile  infatti  che  i  Prene- 
stini, traversando  il  territorio  di  parecchie  altre  città  latine,  siano 
andati  a  battersi  in  un  luogo  cosi  distante  dalla  via  tra  Roma  e 
Preneste  ;  ma  è  invece  molto  facile  che  un  annalista  mediante 
un'invenzione  oziosa  abbia  voluto  contrapporre  alla  clade  Alliense 
una  grande  vittoria  romana  suU'Allia.  Tuttavia  non  par  dubbio 
che  intorno  al  380  i  Romani  abbiano  ottenuto  sui  Prenestini  suc- 
cessi vittoriosi  rilevanti  sebbene  non  definitivi  (6),  dopo  i  quali  le 


(1)  Eccetto  il  passo  di  Livio  citato  sopra  a  p.  92  n.  3. 

(2)  V.  sopra  p.  120. 

(3)  La  prima  menzione  di  Preneste  dopo  la  battaglia  al  Regillo  è  in  Liv.  VI 
21,  9  :  de  PraenesHnorum  quoque  defectione  eo  anno  prinium  fama  exorta  (a.  383); 
poi  all'  anno  seguente  Livio  ricorda  che  i  Prenestini  aiutarono  i  Velliterni  e 
che  insieme  coi  Volsci  presero  parte  alla  occupazione  di  Satrico  (VI  22). 

(4)  Liv.  VI  28  (a.  380). 

(5)  Liv.  VI  29. 

(6)  Ciò  par  provato  dalla  testimonianza  di  Diod.  XV  47  (a.  382):  'Puj,uaìoi 
TTpòc;  TTpaiveoTivouq  TTapaTaE<i,Lievoi  koì  viKnaavxe;  toùc;  irXeiOTOue;  tOùv  àvrixato- 
Ijéviijv  KOTéKov|jav.  e  dalla  iscrizione  del  dittatore  T.  Quinzio  Cincinnato  (a.  880). 
Questa  era  secondo  Livio  Ms  ferme  incisa  litteì'ia  (VI  29,  9)  sulla  base  della 
statua  di  Giove  Imperatore  da  lui  dedicata  nel  Campidoglio:  lupiter  utque  ditn 
omnes  hoc  dederunt  ut  T.  Quinctius  dictator  oppida  novem  caperei.  Fest.  p.  363 
M  ne  dà  un  testo  alquanto  diverso:  trientem  tertium  pondo  (due  libbre  e 
quattro  oncie)  coronam  atiream  dedisse  se  lovi  donum  scripsit  T.  Quinctius  di- 
ctator quoni  per  novein  dies  totidem  urbes  et  decimavi  Praeneste  cepisset.  Per  con- 


250  CAPO   XYIII  -  LA   DISSOLUZIONE    DELLA   LEGA   LATINA 

ostilità"  dei  Prenestini  contro  Roma  o  cessarono  del  tutto,  ovvero 
perdettero  ogni  importanza,  lincile  intorno  al  354  essi  furono  co- 
stretti ad  entrare  nella  lega  latina  ricostituita  (1). 

Le  città  meridionali  dei  Prisci  Latini  e  le  colonie  latine  in 
paese  volsco  fui'ono  il  nucleo  della  lega  clie  Roma  prese  a  rico- 
stituire intorno  al  358  (2),  dopo  aver  affermato  novamente  nella 
lotta  coi  Volsci  e  coi  Prenestini  la  superiorità  delle  proprie  armi. 
S'intende  che,  se  allora  il  trattato  cassiano  venne  formalmente 
rinnovato,    in    effetto  la  nuova   lega  non  fu  che  l'istrumento  per 


fondere  maggiormente  i  critici,  in  un  passo  delle  Verrine  {ad.  sec.  IV  58,  129) 
Cicerone  parla  del  simulacro  di  Giove  Imperatore  quod  ex  Macedonia  captum 
in  Capitolio  posuerat  Flamininus.  Anche  Flaminino  chiamandosi  T.  Quinzio, 
non  c'è  dubbio  che  Cicerone  ha  inteso  parlare  della  stessa  statua  che  fu  se- 
condo Livio  dedicata  da  Cincinnato.  Però  molti  ritengono  che  statua  e  iscri- 
zione siano  state  riferite  erroneamente  al  dittatore  T.  Quinzio  (Burger  Sechzig 
Jahre  p.  176.  Pais  I  2,  109).  Ma  Festo  e  Livio,  i  quali  da  fonti  diverse  attin- 
gono le  loro  notizie  sulla  iscrizione,  convengono  nel  dire  che  essa  ricordava 
Quinzio  come  dictator  e  gli  attribuiva  la  conquista  di  nove  oppida.  Ora  Flami- 
nino non  fu  punto  dittatore  e  ricevette  la  sottomissione  di  ben  più  che  nove 
terre.  E  quindi  da  ritenere  che  Cicerone,  ricordando  che  sulla  base  della  statua 
era  il  nome  di  Quinzio,  prendesse  abbaglio  riferendo  la  iscrizione  a  Flaminino. 
Quanto  poi  alle  divergenze  tra  Livio  e  Festo,  in  parte  si  conciliano  facilmente. 
La  notizia  della  corona  poteva  benissimo  stare  nella  epigrafe  sulla  base  della 
statua.  Del  resto  una  corona  di  2  libbre  e  4  oncie,  che  era  un  dono  votivo  stra- 
ordinario pel  principio  del  IV  secolo,  sarebbe  stata  una  miseria  per  Flaminino 
il  quale  portò  nel  suo  trionfo  3714  libbre  d'oro  (Liv.  XXXIV  42).  —Importe- 
rebbe- sapere  se  nell'iscrizione  era  realmente  et  decimavi  Praeneste.  Se  vi  era, 
non  poteva  essere  senz'altro  citata  tra  gli  oppida  capta,  ma  piuttosto  nel  senso 
stesso  in  cui  parla  della  cosa  Livio  nelle  frasi  che  precedono  il  ricordo  della 
iscrizione  :  novem  oppidis  vi  captis ,  Praeneste  in  deditionem  accepto.  Purtroppo 
dobbiamo  lasciare  nell'incertezza  questo  punto  che  sarebbe  di  capitale  impor- 
tanza. Ad  ogni  modo  se  sottomissione  di  Preneste  vi  fu,  fu  di  breve  durata, 
cfr.  Liv.  VI  30,  8:  Praenestini  concitatis  Latinorum  populis  rehellarunt. 

(1)  La  data  della  pace  si  ricava  da  Diod.  XVI  40  (ad  a.  354):  'Puj|uaioi  -npòi; 

Mèv  TTpaiveoTivouc;  àvoxà; ènoiriaavio,    ed    è    confermata    dall'accordo    che 

nello  stesso  anno  secondo  Livio  e  la  cronaca  di  Oxyrhynchos  (v.  oltre)  si  fece 
coi  Tiburtini. 

(2)  Liv.  VII  12,  7  (ad  a.  358):  sed  inter  multos  teì-rores  solacio  fiiit  pax  La- 
tinis  petentibus  data  et  magna  vis  militam  ah  iis  ex  foedere  vetusto,  quod  multis 
intermiserant  annis,  accepta.  Cfr.  Polyb.  II  18,  5  (dove  parla  del  periodo  tra  la 
catastrofe  gallica  e  la  nuova  invasione  di  Galli  avvenuta  |ueTà  Tt^v  xf)^  itó- 
Xeuj^  KatdXrmJiv  éxei  xpiaKoaTÓj):  év  Jj  Kaipuj  'Puj]naioi  Triv  re  ocpetépav  bóva|uiv 
óvéXapov  Koi  rà  kotò  toù^  Aarivóuq  aOBic;  irpaYMaxa  ouveaxnaavTo. 


LA    NUOVA    LEGA   LATINA  251 

cui  i  Romani  poterono  riunire  di  nuovo  le  forze  latine  sotto  la 
propria  egemonia  come  nei  decenni  precedenti  alla  invasione  gal- 
lica. Di  dare  ai  Latini  per  turno  il  comando  degli  eserciti  fede- 
rali naturalmente  non  si  parlò  più:  la  lega  ricostituita  ebbe  come 
supremo  magistrato  non  più  secondo  Fuso  antico  un  dittatore,  ma 
a  somiglianza  di  Roma  due  pretori  (1),  i  quali  peraltro  negli  eser- 
citi federali  non  fm^ono  clie  subordinati  dei  comandanti  romani. 
Nella  lega  fm'ono  costrette  a  rientrare  le  città  volsclie  clie  già  ne 
avevano  fatto  parte,  dalla  distrutta  Satrico  in  fuori,  cioè  Velletri, 
Anzio  e  Terracina  (2).  E  per  costringere  Tivoli  a  tornarvi,  i  Ro- 
mani le  mossero  guerra  (3)  ;  e  secondo  la  tradizione,  fatta  due 
volte  battaglia  coi  Tiburtini  alla  porte  di  Roma  (360  e  359)  (4), 
obbligarono  nel  354  quella  città  a  sottomettersi  (5).  Contempora- 
neamente entrava  nella  lega  anche  Preneste  ;  insieme  con  la  quale, 
se  non  x)rima,  vi  accedettero  Nomento  e  Pedo. 

Un  documento  importantissimo  delle  condizioni  del  Lazio  circa 
la  metà  del  sec.  R^  è  il  j)i'inio  trattato  romano-cartaginese.  In 
questo  trattato  concluso  tanto  dai  Romani  quanto  dai  Cartaginesi 
a  nome    anclie  dei  rispettivi  alleati  (6)  i  Romani    s'impegnano    a 


(1)  Liv.  Vili  3,  9  (ad  a.  340/  :  praetores  ttim  duos  Latiiim  habebat,  L.  Annium 
Setinum  et  L.  Numisium  Cerceiensem.  Per  anticipazione  la  fonte  di  Dionisio 
riporta  i  due  pretori  all'età  regia,  III  34:  aipoOvxai  òuo  o-rparriYoù^  aÙTo- 
KpÓTopai;  eìprivr]-  t€  koI  TrùXéjuou  'Aykov  TToutTXiKiov  èk  TTÓXeujq  Kópac;  Kai  ZTroO- 
aiov  OÙ6KÌXiov  ÈK  Aaouiviou.  Cfr.  anche  V  61.  VI  4.  Sul  dictator  Latinus  v.  I 
p.  422  seg. 

(2)  Terracina  è  ricordata  tra  le  città  latine  nel  trattato  romano  cartaginese 
del  348. 

(3)  La  tradizione  ignora  al  solito  l'occasione  vera  delle  ostilità.  Livio  (VII  9) 
al  361  riferisce  che  i  Tiburtini  chiusero  le  porte  ad  un  esercito  romano  che 
tornava  dal  paese  degli  Ernici  e  che  perciò  fu  loro  dichiarata  la  guerra.  Ma 
la  via  per  cui  dal  paese  degli  Ernici  si  torna  a  Roma  non  passa  punto  per 
Tivoli. 

(4)  A.  360:  Liv.  VII  11,  cfr.  f.  triumph.:  [C.  Poetelius...]  ...cos.  de  Galleis  et  Ti- 
hurtibm.  Ad  alleanza  dei  Tiburtini  coi  Galli  accenna  anche  Livio,  sia  qui  sia 
per  l'anno  precedente,  ma  la  sua  cronologia  di  queste  pretese  invasioni  gal- 
liche non  s'accorda  bene  con  le  notizie  di  Polibio.  A.  359  :  Liv.  VII   12. 

(5)  Dopo  l'occupazione  nel  territorio  tiburtino  di  Empulum  (Ampiglione) 
nel  355  (Liv.  VII  18)  e  di  Sassula  nel  354  (Liv.  VII  19).  Anche  la  cronaca  di 
Oxyrhynchos  (Grenfell  e  Hunt  The  Oxijrhyncìnis  l'apyri  1  25  segg.),  che  rap- 
presenta una  tradizione  meno  guasta  della  liviana,  registra  alla  ol.  106,  3  = 
354/3:  TijioupTeivoi  ùirò  L'Puuiaaiiuv]  KaTaTToX€)un6é[vTec;  éauToJù^  Ttapéòoaav. 

(6)  PoLYB.  Ili  22:  èni  TOìaòe  cpiXiav  elvai  'Puj)uaioi(;  Kai  toì^  'Pujuaiuuv  au|ii- 
ILidxoi^  Kol  Kapxn^ovioK;  xai  toìc;  Kapxn^oviuuv  au,U|uaxoi(;. 


252  CAPO  xvni  -  la  dissoluzione  della  lega  latina 

non  navigare  sulla  costa  ad  occidente  del  capo  Farina,  tenendosi 
paghi  a  esercitare  il  commercio  nel  territorio  cartaginese  ad  oriente 
di  quel  capo  e  nei  possedimenti  di  Sardegna  e  di  Sicilia,  in  Africa 
e  Sardegna  con  certe  restrizioni,  in  Sicilia  con  piena  libertà.  In 
cambio  i  Cartaginesi  si  obbligano  a  non  recare  alcun  danno  agli 
Ardeati,  agli  Anziati,  ai  Laurentini,  a  quei  di  Circei  e  di  Terra- 
cina  e  agli  altri  Latini  soggetti  a  Roma,  e  a  non  occupare  alcuna 
fortezza  sulla  costa  del  Lazio  ;  e  se  vengano  ad  ostilità  con  città 
latine  clie  non  siano  soggette  a  Roma,  si  impegnano  a  non  ese- 
guire che  brevi  sbarchi  nel  territorio,  tornando  prima  di  notte  alle 
loro  navi  e  non  assalendo  le  città  ;  se  pur  tuttavia  accada  che  se 
ne  impadroniscano,  sono  tenuti  a  rimetterle  intatte  ai  Romani  (1). 
Se  anche  lo  scrittore  greco  che  ci  ha  tramandato  questo  docu- 
mento ha  commesso  una  lieve  inesattezza  di  versione  allorché  ci 
parla  di  Latini  sudditi  à  Roma,  il  testo  mostra  chiaramente  che 
Roma  esercita  una  supremazia  che  non  esclude  la  possibilità  di 
qualche  ribellione  su  tutta  la  costa  latina  da  Laurento  a  Circei. 
S'è  discusso  a  lungo  sulla  data  di  questa  convenzione,  perchè 
lo  storico  onde  ne  abbiamo  contezza  la  riporta  al  consolato  di 
Bruto  e  di  Orazio  ossia  al  x)rimo  anno  della  repubblica  (509  av. 
Cristo  secondo  il  computo  tradizionale)  (2),  mentre,  se  pure  Bruto 
è  mi  personaggio  reale,  il  suo  cognome  difficilmente  poteva  tro- 
varsi in  un  documento.  E  del  resto  il  Lazio  intorno  al  500  era  in 
ribellione  contro  Roma  e  non  comprendeva  certo  Terracina,  che 
fu  sempre  tenuta  come  fuori  del  Lazio  antico  (3),  ne,  a  quanto 
j)are,  Circei,  dove  la  colonia  dedotta  da  Tarquinio  Superbo  (4) 
sembra  solo  un'anticipazione  della  storica  colonia  del  393  ;  all'in- 
contro faceva  parte  della  lega  latina  Pomezia,  che  fu  poi  distrutta 
dai  Volsci  e  la  cui  assenza  nel  trattato  stupirebbe  se  questo  spet- 


(1)  PoLYB.  1.  c:  Kapxn^óvioi  he  pif]  àbiKeiroiaav  òn|utov  'Apòeaxujv  'AvriarOùv 
AopevTivuuv  KipKauTUJv  TappaKiviriliv,  |urib'  àXXov  |ir)béva  AaTivuuv,  òaoi  Sv  òtth- 
Kooi .  èdv  òé  Tiv€<;  |Lii^  (laiv  ÙTtt'iKOOi,  TÙJv  iTÓXeujv  àTr6xé00ujffav  .  civ  bè  Xa^ujoi, 
'Pu)|uaioi(;  ÒTTobiòÓTUjaav  ÓK^paiov.  qppoùpiov  ^■f]  èvoiKoòo|U6ÌTUjaav  èv  xrj  Aarivri . 
èàv  ùjc,  iToXé)uioi  elq  ti^v  x<Jupav  eìaéXBuuaiv,  èv  Trj  x^P'^  M^*!   èvvuKxepeuéTujaav. 

(2)  PoLYB.  1.  e:  Yivovtai  TOiYOpoOv  avJvOnKai'PujiaaioK;  koì  Kapxrjòovion;  irpiÙTai 
Karò  AeuKiov  'loùviov  BpoOrov  kuì  MdpKov  Qpdxiov  toùc,  irpubrouq  KaToara- 
eévToi;  ÙTTÓTOui;  jaerà  tì^v  tujv  pacriXéujv  KardXuaiv,  ùqp'  u»v  avvé^t]  KaGiepujSfìvai 
Kal  TÒ  ToO  Aiòq  iepòv  toO  KaireTujXiou.  Cfr.  1  p.  412    seg. 

(3)  [SoYLAx]  8:  TÒ  ToO  'EXiTt'ivopoi;  luvriiaà  éari  Aativujv.  Strah.  V  231.  Plin. 
n.  h.  Ili  56.  70. 

(4)  Liv.  I  56. 


TRATTATO  CON  CARTAGINE  253 

tasse  realmente  al  509  (1).  Ma  poi  il  testo  della  convenzione  mostra 
Roma  nel  possesso  della  egemonia  sul  Lazio,  mentre  sul  principio 
della  repubblica  tale  predominio  non  pare  esistesse.  Ed  anclie  per 
ciò  che  concerne  i  Cartaginesi  il  testo  sembra  dimostrare  che  i  Car- 
taginesi non  possedevano  in  Sicilia  due  o  tre  porti,  come  intorno 
al  500  (2),  ma  una  vera  provincia,  come  nel  sec.  IV.  Se  a  ciò  si 
aggiunga  che  la  tradizione  annalistica  attribuisce  concordemente 
al  348  il  primo  trattato  tra  Roma  e  Cartagine  (3),  è  da  indurne 
che  a  quell'anno  spetta  sicuramente  il  nostro  documento  (4). 

Insieme  con  quella  dei  Latini  la  tradizione  ricorda  tosto  dopo 
la  invasione  gallica  la  defezione  degli  altri  antichi  e  fedeli  alleati 
dei  Romani,  gii  Ernici  (5).  Nonostante  la  defezione  però  e  gli 
aiuti  che  avrebbero  fornito  ai  Volsci  ribelli  (6) ,  non  s'  accenna 
prima  del  362  a  guerra  aperta  dei  Romani  contro  di  essi.  Questo 
sembra  dimostrare  che  non  prima  d'aver  iniziato  la  ricostituzione 


(1)  V.  sopra  p.  100.  104. 

(2)  Cfr.  I  p.  332.  II  p.  85  segg. 

(3)  Dioi).  XVI  69:  éirì  òè  toùtuuv  (i  consoli  del  848) 'Piu|uaioi(;  |uèv  irpòc;  Kap- 
Xr|bov(ou(;  irpÙJTOv  auv9fJKai  èfévovTO.  Liv.  VII  27,  2  (ad  a.  348):  et  cum  Car- 
thaginiensihus  legatis  Romae  foediis  ictum,  cuni,  amicitiam  ac  societatem  petentes  ve- 
nissent.  Livio,  sebbene  non  dica  esplicitamente  che  fu  quello  il  primo  trattato, 
ne  discorre  però  come  di  cosa  affatto  nuova,  onde  sembra  averlo  interpretato  a 
dovere  Orosio  III  7,  1  che  riguarda  questo  trattato  del  348  come  il  primo  tra 
Romani  e  Cartaginesi;  ne  importa  che  egli  lo  attribuisca  all'a.  u.  e.  402,  poiché 
si  tratta  certo  o  d'un  errore  di  cifra  o  d'un  errore  di  calcolo.  Confrontisi  poco 
sopra  (III  6,  1)  dove  al  388  di  R.  attribuisce  la  vittoria  del  dittatore  Quinzio 
sui  Galli,  che  secondo  i  fasti  spetta  al  360  av.  Cr.  È  vero  che,  senza  aver  men- 
zionato esplicitamente  il  secondo  trattato,  Livio  parla  poi  al  306  (IX  43)  del 
terzo  e  al  278  {ep.  13)  del  quarto.  Ma  i  trattati  conclusi  prima  delle  guerre 
puniche  stando  a  Polibio  son  tre,  non  quattro.  Forse  Livio  numera  per  una 
svista  come  secondo  fra  essi  l'invio  per  parte  dei  Cartaginesi  d'  una  corona 
aurea  e  d'una  ambasciata  gratulatoria  nel  343  (VII  38);  ma  può  anche  darsi 
che  i  trattati  siano  stati  realmente  quattro.  Par  difficile  che  dopo  l'unione 
dei  Campani  a  Roma  non  si  sia  modificata  la  convenzione  precedente,  che  non 
corrispondeva  più  allo  stato  delle  cose. 

(4)  La  letteratura  su  questo  trattato  è  amplissima.  Vedi  le  citazioni  presso 
R.  von  Scala.  Die  Staat-svertràge  des  Altertums  I  (Leipzig  1898)  p.  30.  Una  me- 
moria riassuntiva  è  quella  di  A.  Pikro  II  primo  trattato  fra  Roma  e  Cartagine 
(Pisa  1892)  p.  30  segg. 

(5)  Liv.  VI  7.  8  (a.  386).  12.  13  (a.  385). 

(6)  Liv.  VII  6. 


254:  CAPO  xvin  -  la  dissoluzione  della  lega  latina 

della  lega  latina  i  Romani  presero  l'offensiva  contro  gli  Ernici. 
Dal  362  al  358  la  tradizione  enumera  vari  trionfi  su  questo  popolo  (1). 
Si  parla  di  un  console  I-..  Genucio  caduto  in  un  agguato,  ripetendo 
troppo  davvicino  Favventm'a  del  tribuno  militare  Cn.  Grenucio  in- 
cappato in  mia  imboscata  nelFultima  guerra  coi  Veienti  (2j,  che  sa- 
rebbe stato  vendicato  da  un  dittatore  Ap.  Claudio,  poi  della  presa 
di  Ferentino,  che  però  i  Romani  in  ogni  caso  non  debbono  aver 
conservata,  ma  restituita  ancora  agli  Ernici,  e  infine  della  cam- 
pagna vittoriosa  condotta  contro  gli  Ernici  nel  358  da  C.  Plauzio  (3). 
Coi  Latini  jjertanto  anche  gii  Ernici  rientrarono  nell'alleanza  ro- 
mana, e  formalmente  si  rinnovò  forse  anche  con  essi  l'antico  trat- 
tato. S'intende  che  il  patto  d'alleanza  secondo  cui  il  bottino  fatto 
in  comune  dai  tre  popoli  alleati  doveva  dividersi  nella  mism^a  di 
un  terzo  per  ciascuno  era  destinato  a  rimanere  lettera  morta  ora 
che  il  territorio  e  le  forze  romane  e  latine  superavano  immensa- 
mente quelle  degli  Ernici.  Con  gli  Ernici  o  poco  dopo  debbono 
anche  aver  fatto  la  loro  forzata  accessione  alla  lega  i  A^olsci  di 
Priverno,  che  si  trovavano  stretti  fra  gli  Ernici,  i  Latini  di  Sezia 
e  i  Volsci  pacificati  di  Anxm\  Non  si  allontana  quindi  dal  vero  la 
tradizione  che  ci  narra  la  xjrima  loro  sottomissione  nel  357  (4). 

Mentre  i  Romani  combattevano  in  questo  modo  sulla  sinistra 
del  Tevere,  sulla  destra  i  Tarquiniesi  ed  i  Falisci  cercavano  di 
profittare  della  catastrofe  gallica  per  ricuperare  il  territorio  ove  i 
Romani  avevano  i  loro  avamposti  di  Sutri  e  di  Nepi.  Ma  questo 
assalto  (5)  fu  ributtato,  e  Sutri  e  Nepi  vennero  rinforzate  ordi- 
nandole a  colonie  latine  (6).  Infatti  i  Romani  erano  esausti,  e  solo 
chiamando  i  Latini  a  popolare  quelle  città  e  assicurando  loro  a  tal 
uopo  r  autonomia  spettante  secondo  V  uso  alle  colonie  di  diritto 
latino  si  poteva  sperare  di  costituire  colà  due  baluardi  che  potes- 
sero stabilmente  resistere  agli  Etruschi.  Poi  per  quasi  trent'anni  la 
nostra  tradizione  non  parla  più  di  guerre  oltre  il  Tevere.  Gli 
Etruschi,  fallito  il  tentativo  di  riconquistar  con  la  opportunità  del- 


(1)  Liv.  VII  7.  8.  15.  F.  triumph.  ad   a.  359  e  358. 

(2)  Liv.  V  18.  V.  sopra  p.  142. 

(3)  Lrv.  VII  15,  9  :  Hernici  devicti  suhactique  snnt;  espressione  certo  esagerata, 
perchè  essi  compaiono  poi  come  alleati  autonomi. 

(4)  Liv.  VII  16,  cfr.  Dionys.  XIV  13.  F.  triumph.  ad  a.  357. 

(5)  Ricordato  una  volta  sola  in  Diodoko  XIV  117,  4,  due  volte,  per  una  re- 
duplicazione, in  Livio  al  389  ed  al  386  (VI  3.  9). 

(6)  V.  sopra  p.  149  n.  3. 


GLI   ERNICI.    SOTTOMISSIONE    DI    CERE  255 

l'incendio  di  Roma  qualche  lembo  del  territorio  tolto  ad  essi  poco 
prima,  si  rimasero  dalle  offese,  non  parendo  loro  d'  aver  a  te- 
mere dai  Romani  ;  dacché  in  generale  dopo  la  rotta  di  Aricia  non 
s'impegnarono  nell'offensiva  se  non  quando  credettero  di  correre 
manifesto  pericolo.  Impugnarono  poi  di  nuovo  le  armi  allorché, 
ricostituitasi  la  lega  latina,  la  cresciuta  potenza  romano-latina  pa- 
reva formidabile  per  l'Etruria  (1).  La  tradizione  registra  così  tra 
il  358  e  il  351  una  guerra  coi  Tarquiniesi,  Falisci  e  Ceriti,  i  cui 
particolari  peraltro  son  poco  degni  di  fede.  Vien  detto,  ad  esempio, 
che  nel  358  il  console  C.  Fabio  ebbe  la  peggio  combattendo  coi  Tar- 
quiniesi e  questi  trucidarono  307  prigionieri  romani  (2)  ;  ma  il  fatto 
ricorda  trox3po  davvicino  la  strage  dei  306  Fabì  al  Cremerà  per 
non  apparirne  un  duplicato.  Anche  al  356  si  registra  un  momen- 
taneo successo  felice  dei  Tarquiniesi  e  dei  FaKsci  sui  Romani  dovuto 
allo  spavento  che  incutono  i  sacerdoti  etruschi  armati  di  serpenti  e 
di  faci  accese,  cui  segue  la  immancabile  rivincita  romana  (3)  ;  ma 
come  un  caso  simile  si  racconta  anche  pel  426  a  proposito  della 
guerra  con  Fidene  (4),  è  lecito  dubitare  che  si  tratti  della  ripeti- 
zione di  uno  stesso  motivo  leggendario.  Né  molto  fededegna  è  la 
vittoria  del  dittatoi'e  C.  Marcio  Rutilo  sui  Tarquiniesi  ricordata  allo 
stesso  anno  (5)  ;  perché  la  migliore  delle  nostre  fonti,  che  appunto 
sotto  quell'anno  dà  notizia  della  guerra  etrusca,  non  ne  fa  alcun 
cenno.  E  sospetta  perfino  la  battaglia  del  354,  dove  furono  uccisi 
molti  Tarquiniesi  e  358  scelti  per  essere  scannati  nel  Foro  ;  giacché 
potrebbe  anche  essere  stata  inventata  per  contrapporla  all'altra 
dopo  cui  i  Tarquiniesi  avevano  trucidato  307  prigionieri  romani  (6). 
Tuttavia  quel  che  ai  Romani  succedette  d'ottenere  nella  guerra, 
ossia  la  sottomissione  dell'antica  città  etrusca  di  Cere,  é  espresso 
chiaramente  nella  tradizione.  Dal  351  al  311  poi  gli  Etruschi  si 
astennero  da  qualsiasi  ostilità  contro  Roma,  e  questa  lunga  pace 


(1)  Liv.  VII  12,  6  (ad  a.  358):  iis  [Tarquiniemihiis)  C.  Fabius  et  C.  Plautha: 
iussu  populi  hellutn  indixere.  Diod.  XVI  31  (ad  a.  357):  'Pu)|Liaioi<;  òè  irpò^  <t>a- 
XiaKOu;  auvéOTTi  TióXeiaoq  koI  |uéTa  \xkv  oòòèv  oùò'  fiEiov  |uvr))uri^  èTeXéoGr),  koto- 
bpoiaaì  òè  Kai  -rropGriaei^  rvf,  X'JÙpa;  tùjv  OaXiaKujv  éyévovTO. 

(2)  Liv.  VII  15,  10. 

(3)  Liv.  VII  17. 

(4)  Liv.  IV  33. 

(5)  Liv.  1.  e.  Fasti  triiunph.  ad  a.  356.  Diod.  XVI  36,4:  Tupprivol  òè  òiaiio- 
A€)no0vT6(;  'Piu|iaioi(;  èiTÓpGrioav  ttoXXi>iv  tiìc;  iroXenioq  x^paz,  koì  néxpi  toO  Tipépeuuq 
KaTaòpa|aóvT€(;  èuavfiXeov  eie;  t^m  olKeiav. 

(6)  Liv.  VII  19,  2.  Dioo.  XVI  45,  8.  Cfr.  I  p.  360  n.  4. 


256  CAPO'  XVIII  -  LA    DISSOLUZIONE    DELLA    LEGA    LATINA 

che  permise  ai  Romani  di  svihipxjare  meravigliosamente  la  loro  po- 
tenza nel  centro  d'Italia  è  l'effetto  della  guerra  sfortunata  impresa 
contro  Roma  dai  Tarquiniesi  e  Falisci;  né  v'è  difficoltà  alcuna  a 
credere  che  la  guerra  terminasse  appunto,  come  dice  la  tradizione, 
con  una  jjace  di  quarant'  anni  che  poi  i  Falisci  cambiarono  in 
un  trattato  di  alleanza  (1).  Quanto  a  Cere,  è,  a  dir  vero,  assai 
difficile  che  la  lotta  coi  Ceriti  cominciasse  e  finisse  nel  353;  ma 
è  indubitato  invece  che  in  conseguenza  del  procedere  \dttorioso 
dei  Romani  contro  gii  alleati  di  Cere,  i  Tarquiniesi  e  i  Falisci,  i 
Ceriti  furono  costretti  a  sottomettersi  (2).  Privati  della  loro  indi- 
pendenza, non  si  potevano,  per  essere  etnicamente  troppo  diversi 
dai  Latini,  né  incorporare  allo  Stato  romano  coi  pieni  diritti  di 
cittadinanza  come  i  Tuscolani,  né,  come  Anzio,  ascrivere  alla  lega 
latina.  A  distragger  Cere  come  Veì  i  Romani  non  si  risolvettero, 
sia  i3er  timore  della  resistenza  disj)erata  che  avrebbero  potuto  op- 
porre i  Ceriti,  sia  per  riguardo  alle  antiche  tradizioni  d'amicizia 
che  legavano  Cere  con  Roma  (3).  E  cosi  costrinsero  i  Ceriti  a  ri- 
nunciare al  diritto  sovrano  di  pace  e  di  guerra  e  al  supremo  po- 
tere legislativo  e  giudiziario,  sottomettendosi  airautorità  legislativa 
dei  comizi,  alla  giurisdizione  del  pretore,  all'imperio  militare  dei 
magistrati  romani,  alla  coscrizione  ed  al  tributo  secondo  liste  re- 
datte dai  censori.  Pur  conservando  certe  effettive  franchigie  co- 
munali e  un'ultima  ajDparenza  d'autonomia  per  cui  giurarono  di 
rimaner  fedeli  a  questi  patti  a  Roma  per  cento  anni  (4),  i  Ceriti 
erano  stimati  ormai  cittadini  romani  privi  dei  diritti  politici,  e 
nelle  tavole  in  cui  i  censori  tenevano  il  loro  registro  e  che  si  di- 
cevano tavole  dei  Ceriti,  si  registravano  anche   tutti    quegli   altri 


(1)  Liv.  VII  22:  Tarqiiinienses...indutias...  in  quadraginta  annos  impetraverunt. 
La  data  della  pace  si  è  calcolata  probabilmente  partendo  da  quella  dell'inizio 
di  nuove  ostilità  nel  310.  —  Dei  Falisci  vien  detto  (VII  38,  1)  che  nel  343 
avrebbero  cambiato  le  loro  indutiae  con  un  foedus.  Se  il  Pais  (I  2,  240  n.) 
crede  che  qui  Livio  '  presenti  (ed  in  ciò  in  fondo  le  sue  fonti  paiono  meritar 
fede)  i  Falisci  in  atto  ostile  verso  i  Romani  ',  sembra  che  egli  fraintenda  il 
passo  liviano. 

(2)  Liv.  VI  20,  8  :  Itaque  pax  populo  Caeriti  data  indutiasqne  in  centum  annos 
factas  in  aes  referri  placiiit. 

(3)  Cfr.  CIL.  I  1  ■'  p.  191  el.  VI.  Liv.  V  40,  10,  cfr.  50,  3.  Val.  Max.  I  1,  10. 
Strab.  V  220.  V.  sopra  p. 

(4)  Cfr.  il  simulacro  di  foedus  che  si  conservò  coi  Laurentini  quando  vennero 
nel  338  incorporati  nello  Stato  romano,  v.  p.  282.  Pei  municipi  federati  vedi 
oltre  e.  XXII. 


SOTTOMISSIONE   DI   CERE  257 

cittadini  che,  per  demerito  o  per  qualsiasi  altra  ragione,  erano  de- 
stituiti della  facoltà  di  votare  nei  comizi  (1).  Non  v'ha  dubbio, 
per  quanto  sia  stato  negato  recentemente,  che  i  Ceriti  furono  ri- 
dotti in  questa  condizione  sin  dal  353  e  non  dal  273  quando 
ebbero  confiscata  una  parte  del  territorio  (2),  poiché  il  nome  di 
tavole  dei  Ceriti  dato  alle  liste  dei  cittadini  senza  suffragio  si 
spiega  soltanto  se  i  Ceriti  per  primi  avevano  ricevuto  questa  cit- 
tadinanza con  minori  diritti,  che  poi,  a  tacere  dei  Campani,  ebbero 
Fondi  e  Formie  nel  338  ed  Anagni  nel  306  (3).  Con  ciò  del  resto 
s'accorda  il  fatto  che  di  Cere,  reputata  al  pari  d'Ostia. parte  in- 
tegrante dello  Stato  romano,  non  fa  esplicita  menzione  il  trattato 
romano-cartaginese  del  348,  il  quale  enumera  invece  le  città  alleate 
della  sponda  laziale  da  Laurento  fino  a  Terracina  (4). 

Coi  nuovi  acquisti  di  Cere,  di  Tuscolo  e  dell'agro  pontino  il  ter- 
ritorio romano  abbracciava  ormai  un  3100  km^  (5).  Non  molto 
inferiore  era  il  territorio  della  lega  latina  (6),  mentre  solo  un  mi- 


fi)  Strab.  V  220:  troXiTeiav  yàp  bóvjec,  oùk  àvéypa^jav  eie,  roùq  -rroAiTac;  àWà 
Koì  Toùq  fiX\ou<;  TOù^  |ui^  lueTéxovToq  Tfì<;  taovo|uia<;  etq  jàc,  òéXxouq  èEuOpiZiov  Tà<; 
KaipeTavuJv.  Gell.  n.  A.  XVI  13,  7:  Primos  autem  municipes  sine  suff'rugii  iure 
Caerites  esse  factos  accepinius  concessumque  illis  ut  civitatis  Romanae  honorem 
quidem  caperent  sed  neyotiis  tamen  atqiie  oneribtis  vacarent  prò  sacris  bello  Gal- 
lico receptis  cnstoditisque.  Jiinc  tabulae  Caerites  apptellatae,  versa  vice,  'in  qiias 
censores  referri  iubebant.  V.  sopra  p.  237  ii.  1  e  oltre  e.  XXII. 

(2)  Cass.  Dio  fr.  33  (I  p.  138  Boiss.ì,  su  cui  v.  e.  XXI. 

(3)  Si  può  aggiungere  che  ai  Ceriti  s'allude  forse  col  nome  di  Romani  nel 
passo  di  Teofrasto  hist.  jylant.  V  8,  2  (I  p.  455  n.  5).  Alla  concessione  della 
cittadinanza  nel  353  allude  evidentemente  [Acro]  ad  Hor.  epist.  I  6,  62  :  Cae- 
ritibus  civitas  Romana  sic  data  ut  non  liceret  iis  suffragium  ferre  quia  post 
datum  (353)  ausi  sunt  rebellare  (273).  Naturalmente  che  i  Ceriti  abbiano  goduto 
i  pieni  diritti  tra  il  353  e  il  273  è  un  autoschediasma  senza  valore. 

(4)  Anche  il  trattato  concluso  ai  tempi  di  Pirro  non  stipulava  nulla  intorno 
a  Cere;  e  questo  dimostra  all'evidenza  che  prima  del  273  già  quella  città  fa- 
ceva parte  integrante  del  territorio  romano  :  altrimenti  non  poteva  non  esservi 
menzionata  come  alleata  dipendente. 

(5)  Estensione  precedente  km^  2220.  Cere  380.  Tuscolo  100.  Agro  pon- 
tino 400.  Totale  km^  3100. 

(6)  Estensione  precedente  km-  2940  (sopra  p.  153  n.  2).  Da  sottrarre  Tu- 
scolo km^  100;  agro  pontino  400.  Rimanenza  2440.  Da  aggiungere  Preneste  325; 
Pri verno  245  (V).  Totale  3010.  Queste  cifre  sono  in  generale  desunte  dall'/if. 
Bund  del  Beloch  o  (in  qualche  raro  caso)  sono  calcolate  con  lo  stesso  metodo 
seguito  in  quel  libro.  C'è  appena  bisogno  di  dire  che  sono  ben  lontane  dalla 
precisione  e  che  farebbe  cosa  assai  utile  chi  valendosi  di  tutti  i  sussidi  che 
oggi  si  hanno  ve  ne  sostituisse  di  migliori. 

Gr.  Dk  Sanctis,  Storia  dei  Romani,  II.  17 


258  CAPO    XYIII  -  LA   DISSOLUZIONE    DELLA   LEGA    LATINA 

gliaio  di  chilometri  quadi'ati  o  poco  più  comprendeva  pm-  sempre 
il  territorio  degli  Ernici.  Adunque  Latini  ed  Ernici  insieme  supe- 
ravano alquanto  in  estensione  di  territorio  Roma,  ma  Roma  aveva 
per  se  a  fronte  dei  suoi  alleati  il  vantaggio  di  costituire  uno  Stato 
unitario,  densamente  popolato  e  senza  discontinuità  nel  territorio, 
che  aveva  per  centro  una  fra  le  città  più  importanti  dell'  Italia 
non  greca. 

Cosi  era  risorto,  più  potente  di  prima,  dalle  ruine  dell'incendio 
gallico,  lo  Stato  romano.  Né  pare  che  nuove  invasioni  barbariche 
fossero  d'impedimento  al  suo  risorgere  (1).  La  pseudostoria  del 
sec.  IV  narra,  è  vero,  non  poche  di  queste  invasioni.  Una  sarebbe 
avvenuta  nel  367,  e  in  quell'anno,  secondo  alcuni,  i  Romani  avreb- 
bero vinto  una  battaglia  al  ponte  dell'Aniene,  e  T.  Manlio,  superando 
in  singolare  tenzone  un  guerriero  gallo,  avrebbe  guadagnato  il  co- 
gnome di  Torquato  (2).  Nel  366  poi  si  sarebbe  sparsa  la  voce  che 
un  esercito  di  Galli  si  raccoglieva  nell'Apulia,  senza  che  il  senato 
volesse  darvi  credito  perchè  l'esercito  romano  non  fosse  coman- 
dato da  un  console  plebeo  (3).  Nel  361,  essendo  dittatore  T.  Quinzio, 
secondo  alcmii  sarebbe  avvenuto  il  duello  che  rese  celebre  Tito 
Manlio  Torquato,  seguito  dalla  fuga  dei  Gralli  rimastine  atter- 
riti (4).  Nel  360  il  console  C.  Petelio  avrebbe  sconfitto  innanzi  alla 
porta  Collina  i  Galli  collegati  coi  Tibm'tini  (5)  ;  infine  nel  358  dal 
dittatore  C.  Sulpicio  sarebbero  stati  vinti  i  Galli  nelle  vicinanze 
di  Pedo  (6).  Ma  tutte  queste  notizie  sono  assai  sospette.  La  fonte 
meno  impura  che  s'abbia  intorno  alle  guerre  galliche  non  conosce 
nessuna  vittoria  romana  del  sec.  TV  e  nessmia  invasione  gallica 
fra  il  390  e  il  rinnovamento  dell'alleanza  coi  Latini.  La  vittoria 
del  367  fu  inventata  forse  perchè  in  quell'  anno  cadeva  l'.ultima 
dittatura  di  Camillo;  e  il  combattimento  di  Manlio  col  guerriero 


(1)  Il  racconto  più  degno  di  fede  sulle  guerre  galliche  dei  Romani  è  in 
PoLYB.  Il  18  segg.  Esso  è  illustrato  soprattutto  dal  Mommsen  Edm.  Forschungen 
II  p.  352  segg.  V.  anche  Niese  '  Hermes  '  XIll  (1878)  p.  401  segg.  Unger 
'  Sitzungsber.  der  miinchen.  Akad.  '  1876  I  p.  531  segg.  '  Hermes  '  XIV  (1879) 
p.  77  segg. 

(2)  Clàud.  fr.  10  a  ap.  Liv.  VI  42,  5  (cfr.  Gell.  ti.  A.  IX  13).  Plvt.  Cam.  41. 
Cass.  Dio  ap.  Zon.  VII  24.  Dionys.  XIV  8-9. 

(3)  Liv.  vn  1. 

(4)  Liv.  vn  9-11. 

{5)  Liv.  VII  11.  11  trionfo  di  Petelio  de  Galleis  et  Tiburtibus  e  registrato 
anche  nei  f.  triumph. 

(6)  Liv.  VII  12-15.  F.  triinnph.  ad  a. 


INVASIONI   GALLICHE  259 


gallo  si  riferi  a  quell'anno  forse  per  la  tendenza  a  contrapporre 
o  ad  accoppiare  un  Manlio  con  Camillo,  il  leggendario  vincitore 
dei  Galli.  In  quel  duello  del  resto  è  forse  da  vedere  uno  dei  pochi 
frammenti  d'antica  e  genuina  poesia  popolare  che  ci  siano  perve- 
nuti intorno  alle  invasioni  galliche  posteriori  al  390;  ma  appunto 
per  ciò  non  può  darsene  una  cronologia  sicura.  Quanto  ai  timori 
del  366,  essi  non  sono,  altro  che  invenzioni  d'annalisti,  perchè  na- 
turalmente delle  voci  che  correvano  nel  366  av.  Cr.  e  dei  segreti 
propositi  del  senato  non  poteva  conservarsi  alcun  ricordo.  E  in- 
fine sulle  pretese  vittorie  degli  anni  seguenti  il  silenzio  della  tra- 
dizione più  attendibile  permette  di  pronunciare  una  generica  con- 
danna. Certo,  che  incursioni  nel  Lazio  facessero  i  Galli  fra  il  390 
e  il  358  non  può  ne  affermarsi  né  negarsi  ;  ma  se  ne  fecero,  furono 
di  poco  momento,  perchè  senza  che  i  Romani  riportassero  vittorie 
e  senza  che  pur  affrontassero  in  camj30  il  nemico,  esse  non  impe- 
dirono il  rassodarsi  delia  potenza  romana.  Non  sax^piamo  con  si- 
curezza perchè  s'arrestò  per  molti  anni  dopo  l'incendio  di  Roma 
rimpeto  della  invasione  gallica.  Non  fu  certo  per  la  leggendaria 
vittoria  di  Camillo,  né  solo  forse  per  le  discordie  tra  i  barbari  o  le 
lotte  con  gli  Italici  e  gli  Illirici  dell'Italia  settentrionale  (1).  Ma 
ampio  era  il  territorio  occux)ato  dai  Celti  e  sufficiente  agli  inva- 
sori, e  probabilmente  senza  imxjellente  necessità  essi,  ignari  del- 
l'aite degli  assedi,  non  erano  disposti  a  sottostare  ai  disagi  e  ai 
rischi  d'assediare  senza  m.olta  speranza  di  vittoria  le  forti  città 
etrusche,  umbre  e  latine  dell'Italia  centrale.  E  per  di  più  la  cor- 
rente migratoria  dei  Celti  in  quegli  anni  non  j)iù  pei  valichi  alpini 
si  riversava  nella  pianura  padana,  ma  cominciava  a  trovare  uno 
sbocco  appunto  allora  nel  settentrione  della  penisola  balcanica, 
ove  assai  xdìù  facile  era  sujjerare  gli  indigeni,  bellicosi  bensì,  ma 
inesperti  dell'arte  e  dell'architettm^a  militare  (2). 

Checché  ne  sia,  la  ijrima  incursione  gallica  nel  Lazio  storica- 
mente accertata  dopo  il  390  avvenne  nel  357  (3).  I  barbari  non  si 


(1)  Cfr.  PoLYB.  II  18. 

(2)  Cfr.  sopra  p.  159  n.  5. 

(3)  A  questo  anno  ci  riporta  Polyiì.  II  18  secondo  cui  accadde  TpiaKOOTiù  èxei 
dopo  la  presa  di  Roma,  ossia,  riducendo  ad  uno  i  cinque  anni  tradizionali 
d'anarchia  (375-71.  v.  sopra  p.  214),  appunto  nel  857.  Vero  è  che  Livio  non 
registra  al  357  nessuna  invasione  gallica;  ma  egli  stesso,  accennando  nel  367 
secondo  Claudio  al  duello  di  T.  Manlio  col  Gallo,  aggiunge  (VI  42,  6)  :  2>^"- 
ribus  auctoribus  magis  adducor  ut  credain  decerti  haud  tninus  post  annos  ea 
acta,  sebbene  poi  dimenticandosi  di  ciò  lo  narri  al  361  (sopra  p.  258  n.  4). 


260  CAPO   XVIII  -  LA   DISSOLUZIONE    DELLA    LEGA    LATINA 


arrischiarono  sotto  Roma  né  assalirono  alcuna  delle  città  latine, 
ma  s'avanzarono  per  saccheggiare  nella  jjarte  più  fertile  del  Lazio, 
la  regione  attorno  alle  sponde  del  lago  Albano.  Ne  i  Romani,  che 
non  avevano  avuto  spazio  di  chiamare  a  raccolta  i  contingenti 
della  ricostituita  lega  latina,  osarono  provocarli  a  battaglia.  Ma  la 
procella  si  dissipò  senza  aver  avuto  altro  effetto  che  una  di  quelle 
devastazioni  dei  camici  cui,  fra  le  guerre  interminabili,  dovevano 
essere  ormai  assuefatti  i  xjazienti  agricoltori  latini.  Se  non  che,  non 
potendo  registrar  vittorie  autentiche,  la  tradizione  più  interpolata  ne 
riferisce  di  immaginarie.  Tale  quella  del  350  che  il  console  plebeo 
M.  Popilio  Lenate  avrebbe  riportato  sui  Galli  che  occupavano  il 
monte  Albano  (1);  e  tale  parimente  quella  guadagnata  nel  349  nel- 
l'agro pontino  da  L.  Furio  Camillo,  il  fìgho  del  vincitore  dei  Ve- 
ienti  (2),  con  la  quale  vien  collegato  il  racconto,  attinto  anch'esso 
alla  poesia  popolare,  del  duello  tra  un  guerriero  gallo  e  M.  Valerio 
che  ebbe  allora  il  soprannome  di  Corvo  o  Corvino  per  l'aiuto  da- 
togli da  uno  di  questi  uccelli  (3).  La  tradizione  più  genuina  rife- 
risce invece  soltanto  d'una  invasione  fatta  dai  Galli  nel  Lazio  il 
dodicesimo  anno  dopo  la  precedente,  ossia  nel  346  o  45  (4).  Questa 
volta  i  Romani,  rinforzati  dagli  alleati,  mossero  contro  i  barbari, 
desiderosi  di  mism^arsi  in  battaglia.  Ma  i  Galli  atterriti  e  discordi 
tra  loro  x^rofittarono  della  notte  per  ritirarsi  o  meglio  per  fuggire  ; 
e  dopo  di  ciò  non  osarono  mai  più  invadere  il  Lazio.  E  poiché  la 
tradizione  interpolata  non    conosce   neppure  essa  altra  invasione 


(1)  Liv.  VII  2.3-24.  Anche  i  f.  triumph.  registrano  il  trionfo  di  M.  Popillio 
de  Galleis. 

(2j  Liv.  VII  25-26.  (Flor.  I  8,  20.  Oros.  Ili  6,  4.  Val.  Max.  Ili  2,  6).  Cfr.  Claud. 
fr.  12  ap.  Gell.  n.  A.  IX  11.  Dionys.  XV  1.  Di  questa  vittoria  non  c'è  traccia 
nei  f.  triumph.  Non  può  desumersi  da  Zon.  VII  25  la  cronologia  di  Cassio 
Dione,  il  quale  peraltro  faceva  riportare  la  vittoria  da  L,  Camillo  come  dittatore. 

(3)  V.  su  M.  Valerio  Corvo  Muenzer  De  gente  Valeria  p.  25  segg. 

(4)  Che  la  fonte  di  Polibio  intendesse  collocare  questa  ultima  invasione 
nell'a.  consolare  346  si  può  stabilire  anche  così.  La  battaglia  di  Sentino  (295) 
fu  combattuta  nel  4"  anno  dopo  una  invasione  gallica  che  tenne  dietro  ad  una 
pace  di  trent'anni  (Polyb.  II  19).  Quella  invasione  spetta  dunque  al  298,  e  la 
pace  durata  trent'anni  si  concluse  non  nel  328,  ma,  se,  com'è  da  credere,  la 
fonte  di  Polibio  ometteva  i  tre  anni  dittatoriali  che  cadono  in  questo  lasso 
di  tempo,  nel  331.  La  pace  tenne  dietro  ad  una  tregua  di  fatto  che  era  du- 
rata 13  anni,  ossia  era  cominciata,  tenendo  conto  dell'anno  dittatoriale  333, 
non  nel  344,  ma  nel  345.  Al  345  o  al  346  si  riferisce  quindi  l'ultima  inva- 
sione gallica  nel  Lazio. 


INVASIONI   GALLICHE.    SFACELO    DELL'iMPERO   DI   DIONISIO  261 

dopo  quella  fronteggiata  da  L.  Furio  Camillo,  è  da  ritenere  clie 
ambedue  le  tradizioni  rispecchino  uno  stesso  fatto:  sol  che  all'una 
di  esse  non  bastando  la  fuga,  vi  aggiunse  anche  una  rotta  gallica. 
Quanto  alla  lieve  divergenza  cronologica,  la  ragione  sta  probabil- 
m.ente  in  ciò  che  Funa  di  esse  riferiva  il  fatto  al  consolato  (349) 
di  L.  Fmno  Camillo,  l'altra  alla  sua  dittatm-a  (345)  (1). 

Ad  ogni  modo  la  ritirata  dei  Gralli  circa  la  metà  del  sec.  IV 
segna  pel  Lazio  la  fine  del  pericolo  gallico.  Senza  mai  aver  ten- 
tato un  assedio,  riconosciutisi  ora  inferiori  anche  in  campo  aperto, 
i  Galli  non  xjoterono  riprendere  le  offese  contro  Roma  che  assai 
più  tardi  e  in  condizioni  affatto  diverse.  Per  allora  non  solo  ri- 
nunciarono a  nuove  incm^sioni,  ma  essi,  o  per  dir  meglio  i  più 
meridionali  tra  essi,  cioè  i  Senoni,  strinsero  con  Roma  alcuni  anni 
dopo  (331)  un  trattato  di  pace  per  cui  Roma  si  trovò  libera  da 
ogni  pericolo  dei  Gralli  negli  anni  diffìcili  della  seconda  guerra 
sannitica  (2).  Frattanto  la  fuga  dei  Gralli  fu  riguardata  come  un 
rilevantissimo  successo  di  Roma:  né  mancò  forse  d'influire  sul- 
l'animo dei  Campani  quando  poco  dopo  invocarono  la  protezione 
romana. 

Contemporaneamente  era  dileguato  ogni  pericolo  per  parte  dei 
Grreci  di  Sicilia.  La  monarchia  militare  ripugnava  troppo  ad  un 
popolo  assetato  di  libertà  come  i  Greci,  perchè  jDotessero  a  lungo 
tollerarla;  e  la  sicm^ezza  stessa  dai  nemici  esterni  che  essa  gua- 
rentiva, faceva  si  che  si  credesse  di  non  averne  più  bisogno.  Tut- 
tavia finché  visse  il  vecchio  Dionisio  nulla  faceva  prevedere  il 
prossimo  sfacelo.  Il  tiranno  del  resto  non  dimenticava  mai  che  la 
giustificazione  dell'opera  sua  era  solo  nella  difesa  degli  interessi 
ellenici  contro  i  barbari.  C^osi  nel  383  egli  riprese  la  guerra  con 
Cartagine  (3),  e  combattè  a  lungo  e  con  varia  fortuna  non  solo 
in  Sicilia,  ma  anche  nell'Italia  meridionale,  ove  i  Cartaginesi 
avevano  guadagnato  l'alleanza  della  lega  italiota  mal  disposta 
verso  Dionisio  che  l'aveva  combattuta  aspramente  e  ne  aveva  di- 


(1)  Su  cui  V.  Liv.  VII  28,  2.  L'auticipaziono  è  fors'  anche  determinata  dal 
primo  consolato  di  M.  Valerio  Corvo,  che  cade  nel  348. 

(2)  Livio  non  menziona  questo  trattato,  ma  un  vano  timore  di  guerra  gal- 
lica nel  332  (333)  e  tra  la  tìne  del  330  e  il  principio  del  329  (Vili  17.  20). 
A  torto  a  quest'ultimo  tumultus  Gallicus  il  Pais  I  2  p.  363  n.  2  propone  di 
riferire  il  fr.  21  di  Cassio  Emina. 

(,3)  Questa  guerra  è  narrata  da  Diod.  XV  15-17  sotto  il  solo  anno  383/2, 
ma  non  v'è  dubbio  che  ebbe  durata  assai  più  lunga. 


262  CAPO    XVIII  -  LA   DISSOLUZIONE    DELLA   LEOA    LATINA 

strutto  una  città ,  Eeoio  (sopra  p.  190).  A  questa  guerra  si  col- 
lega la  [)rima  notizia  che  abbiamo  di  un  intervento  dei  Cartaginesi 
nella  penisola,  ov'essi  ricostituirono  la  colonia  greca  d'Ipponio  ri- 
conducendovi  gli  antichi  abitanti  (379)  (1),  mentre  Dionisio  s' im- 
padroniva della  seconda  città  della  lega  italiota,  Crotone  (2).  La 
rotta  sanguinosa  che  il  tiranno  toccò  a  Kronion,  forse  presso  Pa- 
lermo, dopo  la  sua  vittoria  presso  Kabala,  lo  costrinse  a  smettere 
anche  questa  volta  il  pensiero  di  cacciare  i  Cartaginesi  dall'isola; 
e  nella  pace  che  seguì,  egli,  pur  conservando  sostanzialmente  in- 
tatto il  suo  impero  in  Sicilia,  e  assicui"andosi  il  possesso  delle  sue 
nuove  conquiste  in  Italia,  dovette  rilasciare  ai  Cartaginesi  un 
lembo  di  territorio  confinante  alla  loro  provincia  con  le  città 
greche  di  Selinunte,  d' Eraclea  Minoa  e  di  Terme ,  accettando  i 
confini  delFAlico  (Platani)  nel  suo  corso  medio  e  dell' Imera  set- 
tentrionale (Fiume  G-raride).  Ma  queste  paci  non  erano  nei  pro- 
positi del  perdurante  tiranno  altro  che  tregue;  che  ancora  una 
volta  (368)  egli  riprese  la  guerra  col  nemico  della  nazione,  con 
miglior  speranza  di  felice  successo,  perchè,  pago  degli  acquisti 
fatti  in  Italia,  eragli  riuscito  finalmente  di  stringere  buone  rela- 
zioni con  la  lega  italiota,  e  quindi  non  aveva  a  temere  che  questa 
s'alleasse  di  nuovo  ai  Fenici  con  poco  riguardo  agli  interessi  na- 
zionali ellenici  (3), 

La  morte  tolse  al  signore  di  Siracusa  di  colorire  i  suoi  disegni 
di  conquista  (367);  e  il  suo  successore  ed  erede,  Dionisio  il  gio- 
vane, j)ensò  che  bastava  quel  che  contro  il  nemico  della  nazione 
aveva  o^jerato  il  padre,  e  che  si  potevano  conservare  tranquilla- 
mente gli  acquisti  da  lui  fatti  senza  esporsi  alle  sorti  incerte  di 
altre  guerre,  cercando  il  pubblico  favore,  se  non  con  la  gloria 
delle  vittorie,  col  rimettere  alquanto  della  severità  usata  fino 
allora  all'interno  (4).  Non  trascm-ò  i)eraltro  il  tiranno  di  promuovere 
gli  interessi  greci  e  l'onore  della  monarchia,  quanto  si  poteva  senza 
rischi  troppo  gravi,  come  mostrò  con  la  fondazione  di  due  colonie 
sulle  sponde  della  lapigia  (5),  col  ricostruire  la  distrutta  Eegio  (6), 


a)  DioD.  XV  24. 

(2)  Liv.  XXIV  3,  8.  DioNYs.  XX  7,  3. 

(3j  DioD.  XV  78.  IcsTiN.  XX  5. 

(4)  Per  la  pace  da  lui  fatta  coi  Cartaginesi  v.  Diod.  XVI  5.  Plut.  Dio  6.  14. 

(5)  DioD.  XVI  5.  Una,  secondo  il  Bkloch  Gr.  G.  II  179  n.  4,  sarebbe  Nea- 
pulis  nella  Peucezia. 

(6)  Sthau.  vi  p.  258. 


SFACELO    dell'impero    DI    DIONISIO  263 

guerreggiando  i  Lucani  (1)  e  inviando  ancli'egii  soccorsi  in  Grecia 
alla  vecchia  alleata  del  padre  suo,  Sparta  (2).  Ma  presto  si  vide 
quanto  avesse  torto  il  giovane  Dionisio  d'adagiarsi  in  una  fallace 
sicurezza  e  di  disconoscere  che  solo  modo  di  dar  stabilità  alla 
monarchia  era  quello  di  tener  desto  perennemente  il  sentimento 
nazionale  dei  Greci  lottando  contro  Cartagine  e  che  solo  sul 
campo  di  battaglia  egli  poteva  dimostrare  il  suo  buon  diritto.  E 
cosi  un  esule  siracusano,  Dione,  figlio  di  Ipparino,  partendo  dalla 
Grecia  con  poche  forze,  ma  accompagnato  dal  favore  dell'o]3Ìnione 
pubblica  e  in  particolare  della  scuola  di  Platone  che  lo  salutava 
restauratore  di  libertà  (356),  dopo  il  suo  sbarco  ad  Eraclea  Minoa, 
ove  fu  accolto  amichevolmente  dai  Cartaginesi,  ben  lieti  che  si 
l)reparasse  la  rovina  della  monarchia  militare  siceliota,  ebbe  pron- 
tamente rovesciato  l'impero  di  Dionisio  in  Sicilia.  Ma  se  distrug- 
gere fu  facile,  ricostruire  non  riusci  ne  a  Dione  ,  ne  a  quelli  che 
presero  il  suo  posto;  e  l'effetto  della  liberazione  fu  una  orribile 
anarchia,  in  cui  si  combatteva  accanitamente  tra  città  e  città  e 
nella  stessa  città,  e,  mentre  invece  di  un  solo  si  contendevano  il 
potere  molti  tiranni ,  i  Cartaginesi  profittavano  della  impotenza 
vergognosa  in  cui  la  riscossa  repubblicana  aveva  ridotto  la  Sicilia 
greca  per  riprendere  le  loro  conquiste  sulla  sponda  meridionale 
dell'isola. 

Al  tempo  stesso  ricominciavano  nella  penisola  i  progressi  degli 
Italici  a  danno  dei  Greci;  e  gl'Italioti,  stremati  dalla  lunga  lotta 
(•on  Dionisio  il  Vecchio,  non  fm-ono  più  in  grado  di  porvi  un  ri- 
paro. Un  nuovo  nemico  essi  ebbero  a  combattere,  i  fieri  e  selvaggi 
abitanti  della  Sila  settentrionale  che,  staccatisi  dalla  lega  lucana 
e  costituitisi  in  federazione  indipendente  col  nome  di  Bruzì,  circa 
la  metà  del  secolo  IV  s' impadronirono  di  Sibari  sul  Traente,  di 
Terina  e  d'Ipponio  (3).  Ormai  ai  Greci  d'Italia  non  restava  che 
l'estrema  penisola  della  Sila  con  Caulonia,  Locri  e  Regio,  l'angolo 
settentrionale  del  golfo  tarentino  con  Eraclea,  Metapontio  e  Ta- 


li) DioD.  1.  e.  Cfr.  lusTiN.  XXI  3,  3. 

(2)  Nel  366,  Xenoph.  Hell.  VII  4,  12. 

(3)  DioD.  XVI  15.  lusTiN  XXI  1.  Stkau.  VI  p.  255.  La  più  antica  allusione 
sicura  ai  Bruzi  è  in  un  fr.  di  Aristofane  (629  Kock):  juéXaiva  òeivi")  -fX&aaa 
BpeTTÌa  iraprìv,  citato  da  Steph.  Byz.  s.  v.  Bperria.  Il  frammento  di  Antioco, 
citato  pure  da  Stefano  ibid.,  sembra  alterato.  —  Terina  era  città  greca  ancora 
nel  356,  v.  la  lista  dei  GeapoòÓKoi  d'Epidauro  presso  Michel  Recueil  d'inscr. 
grecques  862  =  /.  Gr.  Pelo/j.  I  1504. 


264  CAPo'xviir  -  LA  dissoluzioxe  della  lega  latina 

ranto  e,  affatto  isolate,  Crotone  e  Turi  sul  mar  Ionio,  Napoli  e 
Velia  sul  TiiTeno,  Ancona  sull'Adriatico. 

In  tal  condizione  di  cose,  lungi  dal  potere  con  forze  pioprie  re- 
sistere agritalici  ed  ai  Fenici,  i  Grreci  d'Italia  e  di  Sicilia  furono 
costretti  a  rivolgersi  per  aiuto  alla  madrepatria.  Poco  prima  clie 
i  Tarentini  s'appigliassero  al  partito  d'invitare  in  Italia  il  re  di 
Sparta  Arcliidamo,  i  Siracusani  chiesero  ai  Corinzi  d'  intervenire 
in  Sicilia  per  ristabilirvi  ordine  e  pace  (3-15/4).  E  il  corinzio  Ti- 
moleonte  riuscì  nell'ardua  impresa  di  provvedere  alla  tutela  degli 
interessi  ellenici  nell'isola,  ponendo  termine  all' anarchia  e  obbli- 
gando i  Cartaginesi  a  rientrare  nei  confini  stabiliti  doi)o  la  terza 
guerra  con  Dionisio  il  Vecchio,  senza  che  perciò  i  Greci  di  Sicilia 
dovessero  rinunciare  ne  alla  libertà  repubblicana,  ne  all'autonomia 
delle  varie  città.  Ma  l'ordine  che  Timoleonte  era  riuscito  a  creare 
col  suo  disinteresse  a  tutta  prova,  con  le  sue  attitudini  poco  comuni 
d'uomo  politico,  col  suo  straordinario  genio  militare  che  gli  fece 
vincere  la  battaglia  del  Crimiso,  la  maggiore  vittoria  che  dopo 
Imera  i  Sicelioti  guadagnassero  sui  Cartaginesi  (1),  non  poteva  avere 
stabilità  alcuna:  troppo  grande  era  il  concorso  di  circostanze  fa- 
vorevoli che  si  richiedeva  i^er  conservarlo;  e  ad  ogni  modo  esso 
non  i^ermetteva  di  riprendere  offensivamente  la  guerra  col  Fenicio, 
la  sola  via  di  salvezza  con  un  nemico  tenacissimo  che,  convinto 
a  ragione  essere  ormai  impossibile  la  pacifica  coesistenza  delle  due 
nazioni  in  Sicilia,  spiava  sempre  l' opportunità  d' opprimere  Y  el- 
lenismo. 

Mentre  il  particolarismo  e  le  aspirazioni  repubblicane  riduce- 
vano all'impotenza  la  Sicilia  greca,  non  senza  meraviglia  leggiamo 
in  Livio  sotto  1'  anno  349  di  armate  greche  che  infestavano  le 
spiaggie  laziali,  e  di  predoni  greci  che,  scesi  a  terra  s'azzuffarono 
coi  Galli  provenienti  dai  monti  Albani,  senza  che  poi  ai  Romani 
riuscisse  di  reprimere  in  alcun  modo  le  loro  ph-aterie  (2).  Del  fatto 
non  i)ar  che  sia  da  dubitare:  gli  annalisti  romani  potevano  in- 
ventare vittorie  dei  loro  avi,  ma  non  uno  sbarco  nel  Lazio  di 
Greci  che  non  si  sapeva  onde  venissero  e  su  cui  ai  Romani  non 
venne  fatto  di  riportare  alcuna  vittoria;  mentre  invece  non  è 
punto  singolare  che  della  cosa  si  conservasse  ricordo  per  mezzo 
delle  annotazioni   dei  pontefici.   Non  facile  è   determinare  donde 


(1)  Plut.  Timol.  25-29.  Diod.  XVI  77-80.  Beloch  Gì:  G.  II  584. 

(2)  Liv.  Ili  25,  4.  26,  13.  Pais  La  flotta  greca   che  nel  349  av.  C.  comparve 
davanti  alle  coste  del  Lazio  in  '  St.  storici  '  II  (1893)  p.  429  segg. 


PIRATI   GRECI   NEL    LAZIO.    ROMA   E    GLI    AURUNCI  205 

provenissero  quei  Cireci;  e  forse  i  critici  inoderni  avrebbero  dovuto 
prendere  esempio  di  prudenza  da  Livio,  che  pur  proponendo  una 
ipotesi,  si  guarda  dall'  asserire  alcuncliè  con  sicurezza  intorno  a 
quei  predoni.  Glie  si  trattasse  di  navi  mandate  da  Timoleonte  o 
da  Archidamo,  mentre  combatteva  in  Italia,  non  par  facile  (1), 
l'uno  e  r altro  avendo  cui^e  assai  più  gravi.  Ma  avventmieri  greci 
che  pirateggiassero  nei  mari  occidentali ,  non  potevano  mancare 
allora,  dopoché  s'era  disgregato  l'impero  di  Dionisio  ed  era  de- 
clinata la  potenza  marittima  etrusca;  e  in  specie  quando  il  chiu- 
dersi della  guerra  sacra  aveva  lasciato  senza  stabile  occupazione 
tanti  dei  mercenari  che  in  quella  guerra  avevano  fatto  le  loro 
prove.  Pii'aterie  simili  peraltro  non  erano  prova  della  potenza 
dei  Grreci,  si  della  mancanza  d'una  marina  da  guerra  romana,  di 
che  una  prova  evidente  è  pur  nel  trattato  romano-cartaginese 
del  348  (sopra  p.  251),  il  cui  presupposto  è  che  i  Cartaginesi  si 
tengono  come  padroni  del  mare  e  che  solo  nel  proprio  interesse  si 
impegnano  a  non  infestare,  come  liberamente  potrebbero,  le  coste 
laziali. 

La  lega  romano-latina,  con  un'estensione  di  7000  km""  e  una 
relativamente  densa  popolazione,  era  ormai  una  delle  maggiori 
potenze  della  penisola  italiana.  Da  ogni  parte  la  fronteggiavano 
vicini  assai  più  deboli:  a  settentrione  gii  Etruschi  che  Roma  da 
molto  tempo  aveva  imparato  a  vincere;  ad  oriente  varie  bellicose, 
ma  piccole  e  povere  tribù  montanare.  Sebbene  peraltro  la  conquista 
fosse  agevole  con  tali  \'icini,  lo  Stato  romano  cercò  invece  di  dilatare 
i  suoi  termini  verso  mezzogiorno  lungo  le  coste  del  Tirreno;  perchè 
era  facile  vedere  che  nessun  rischio  serio  minacciava  Roma  per 
parte  degli  Etruschi  e  delle  piccole  tribù  montanare;  ma  occor- 
reva provvedere  aftinché  non  divenissero  troppo  pericolosi  i  fio- 
renti Stati  oschi  del  mezzogiorno.  A  sud  del  Lazio  presso  il  Tir- 
reno al  di  là  della  colonia  latina  di  Ch-cei  e  della  volsca  Anxui-, 
che  faceva  parte  della  lega,  si  trovavano  le  due  città  di  Fondi  e 
di  Formie,  volsche  o  miste  d'elementi  volsci  ed  am^unci  (2),  che  en- 
trarono a  far  parte  anch'esse,  non  sappiamo  quando,  della  lega  la- 
tina, e  più  oltre  il  popolo  degli  Amumci  od  Ausoni  che  costituiva 
una  piccola  federazione   con  le  tre  città  di  Minturne,  Aurunca  e 


(1)  Va  ricordato  che  l'anno  349  (di  Roma  40ó)  secondo  Varrone  corrisponde 
in  realtà  al  343  circa  av.  C. 

(2)  Ad    affinità    tra    la    lingua  dei  Volsci  tì  quella  di  Formie  pare  alludere 
Fest.  p.  293. 


266  CAPO   XVIll  -  LA    DISSOLUZIONE    DELLA    LEGA    LATINA 

Vescia  (1).  Degli  Aiirimci  gli  annali  romani  dopo  nn  accenno  al 
503  e  al  495  (2),  dove  si  tratta  probabilmente  di  una  semplice  con- 
fusione dovuta  allo  scambio  tra  Suessa  Aurunca  e  Suessa  Pomezia, 
tacciono  per  un  secolo  e  mezzo.  Ma  i  posteriori  contatti  tra  Ro- 
mani e  Campani  suppongono  che  intorno  alla  metà  del  sec.  IV  i 
Romani  si  fossero  già  messi  in  relazione  con  gli  Aurunci.  E  appunto 
al  345  la  tradizione  riferisce  clie  furono  debellati  gli  Aurunci  e 
che  nello  stesso  anno  fu  presa  Sora  ai  Volsci  (3).  Sora  veramente 
è  nell'alta  valle  del  Liri,  e  non  pare  che  i  Romani  si  siano  inol- 
trati in  questa  direzione  se  non  verso  i  tempi  della  seconda  guerra 
sannitica;  e  però  non  è  da  stupire  che  al  314,  essendo  console  come 
nel  345  un  Sulpicio,  registri  la  tradizione  novamente  con  la  sotto- 
missione degli  Aurunci  anche  la  presa  di  Sora  (4).  Par  quindi  in- 
dubitato che  si  tratti  nel  primo  caso  di  una  reduplicazione  degli 
stessi  avvenimenti;  ma  è  del  pari  sicuro  che  già  intorno  al  345, 
prima  cioè  deirintervento  romano  in  Campania,  si  erano  stabilite 
relazioni  di  amicizia  tra  Romani  ed  Aurunci. 

Frattanto  il  moto  unitario  che  aveva  costituito  a  danno  dei 
Greci  la  potente  confederazione  lucana  (v.  sopra  p.  189)  si  era  pro- 
pagato nei  monti  del  Sannio,  onde  i  Lucani  erano  discesi.  Ci  è 
ignota  la  storia  del  formarsi  della  lega  sannitica.  Sappiamo  sol- 
tanto che  alla  metà  circa  del  secolo  IV  i  Sanniti,  ossia  le  tre  tribù 
confederate  dei  Pentri,  Caudini  ed  Irpini  (cfr.  I  p.  103  seg.)  ave- 
vano dominio  non  soltanto  nel  Sannio  x^ropriamente  detto,  ma 
anche  sulla  costa  del  golfo  di  Salerno  da  Amalfi  al  Silaro  e  su 
quella  dell'Adriatico  da  Ortona  al  Grargano  (5),  che  era  abitata 
dalla  popolazione  affine  dei  Frentani.  Era  per  estensione  con  18 
o  20  mila  km'^  di  superficie,  prescindendo  dalla  lega  etrusca,  lo 
Stato  maggiore  della  penisola,  ma  certo  per  popolazione  relativa 
era  inferiore  alla  meno  estesa  confederazione  romano-latina  a  cui 
divenne  probabilmente  inferiore  anche  per  popolazione  assoluta 
non  appena  vi  furono  incorporati  i  Campani.  La  forza  e  la  debo- 


(1)  V.  I  p.  107.  Liv.  Ili  25,  3. 

(2)  Liv.  II  16.  17.  26.  DioNYs.  VI  32.  37.  Cfr.  sopra  p.  105. 

(3)  Liv.  VII  28. 

(4)  È  degno  di  nota  che  anche  nel  837,  essendo  console  pure  un  C.  Sulpicio, 
si  parla  di  disastri  degli  Aurunci,  cagionati  però  non  dai  Romani,  ma  dai  Si- 
dicini,  Liv.  VIII  15,  4:  fama  adfertur  Auruncos  inetu  oppidum  deseruisse... 
moenia  antiqua  eorum  iirbemque  ab  Sidicinis  deletam, 

(5)  Ciò  risulta  dalla  testimonianza  del  Ps.  Scyl.  11.  15. 


IL    SANNIO  267 

lezza  dello  Stato  sannita  consisteva  in  ciò  clie  non  vi  era  nel 
Sannio  distinzione  di  dominatori  e  dominati:  eguali  le  tribù,  in 
ciascuna  tribù  pari  i  diritti  di  ogni  uomo  atto  alle  armi,  tutti  gli 
abitanti  soldati,  agricoltori  e  pastori,  scarsi  i  x^roletarì  e  gli  schiavi. 
Solo  fuori  dei  confini  di  quelle  tre  tribù  vi  erano  alleati  più  o 
meno  dipendenti:  tale  era  il  caso  dei  Frentani,  che  fecero  fin 
dalla  seconda  sannitica  una  politica  per  conto  proprio  e  con  grande 
facilità  si  distaccarono  dai  connazionali  per  accostarsi  a  Roma. 
Invece  i  Pentri,  i  Caudini  e  gli  Ii^pini  erano  cosi  strettamente  uniti, 
che  i  nomi  dei  due  ultimi  popoli  non  compaiono  mai  nella  storia 
delle  guerre  sannitiche  e  apx3ena  un  j)aio  di  volte  quello  dei 
Pentri  (1);  eppure  questi,  la  cui  capitale  Boviano  (Boiano)  era  la 
più  importante  città  del  Sannio,  eran  la  principale,  a  quanto  pare, 
delle  tribù  sannitiche,  e  posteriormente  conservarono  soli,  o  quasi, 
la  denominazione  di  Sanniti.  Ma  appunto  la  X3arità  tra  le  tribù  do- 
veva rendere  più  debole  il  potere  centrale,  rappresentato  dall'annuo 
■'  meddix  tuticus  „  della  lega  (2),  che  non  sappiamo  se  fosse  assi- 
stito da  mi  consiglio  federale  e  che  ad  ogni  modo  non  avrà  po- 
tuto convocare  se  non  con  difficoltà  l'assemblea  sovi'ana  dei  liberi 
Sanniti.  E  in  difetto  di  un  potere  centrale  stabilito  solidamente 
come  in  Roma,  quanto  riusciva  facile  raccogliere  forze  per  difen- 
dere con  eroico  valore  la  j)atria  in  pericolo  o  imprendere  scorrerie 
che  x^rocm^assero  lauto  bottino,  altrettanto  era  difficile  sostenere 
con  un  piano  prestabilito  una  lunga  guerra,  e  specialmente  con- 
dm're  con  costanza  di  propositi  un'offensiva  aspra  e  promettente 
più  fatiche  e  pericoli  che  bottino.  Questa  è  una  delle  ragioni  per 
cui  i  Sanniti  dopo  fiera  lotta  soggiacquero  ai  Romani;  e  cosi  an- 
zitutto si  spiega  come  i  Romani  riuscissero  tanto  facilmente  nella 
prima  sannitica  a  cacciare  il  nemico  fuori  del  territorio  campano. 
La  Campania  nel  IV  secolo  era  politicamente  dominata  da 
tribù  d'origine  sannitica,  sebbene  qua  e  là  restassero  vestigia  della 
nazionalità  etrusca,  che  poi  sparirono  a  poco  a  poco  (3).   Faceva 


(1)  Liv.  IX  31.  DioNYs.  XVII-XVIir  4,  4. 

(2)  Il  meddix  tuticus  è  ricordato  in  iscrizioni  di  Pittrabbondante  d' età  ro- 
mana. Ma  che  questo  magistrato  federale  debba  essere  anteriore  alle  lotte  con 
Roma  non  ha  bisogno  di  dimostrazione.  Sulla  distinzione  del  meddix  (su- 
premo magistrato  comunale)  dal  meddix  tuticus  (supremo  magistrato  federale) 
cfr.  Bklocu  '  Arch.  stor.  napol.  '  II  293. 

(3)  Sulla  Campania  un'utilissima  raccolta  di  materiali  è  in  Beloch  Cuin- 
panien  (Breslau  1879,  con  appendici  aggiunte  nel  1890);  inoltre  v.  Nissen  Ital. 
Lnndeskunde  II  2  p.  680  segg. 


268  PAPO  xvm  -  la  dissoluzione  della  lega  latina 

eccezione  la  greca  Napoli;  ma  anche  a  Napoli  s'era  formata  una 
colonia  camiDana,  a  cui  i  Grreci  avevano  dovuto  accordare  la  cit- 
tadinanza (1).  I  Sanniti  della  Campania  però  non  s'ordinarono  in 
uno  Stato  solo,  e  ciò  fu  per  essi  cagione  di  debolezza  a  fronte  dei 
loro  connazionali  del  Sannio  stretti  in  unità  politica.  Prima  a  set- 
tentrione fra  le  tribù  sanniticlie  di  questa  regione  era  quella  dei 
Sidicini,  il  cui  centro  era  Teano.  Veniva  poi,  sotto  l'egemonia  di 
Capua,  la  lega  campana  (2)  comprendente  Calazia,  Atella,  Casi- 
lino  e  Puteoli,  al  cui  territorio  apparteneva  sulla  destra  del  Vol- 
turno l'agro  Falerno  e  Stellate,  e  sulla  costa  quella  regione  ove 
poi  i  Romani  fondarono  Volturno  e  Literno.  Seguivano  a  sud 
Cuma,  Suessula  ed  Acerre,  clie,  sebbene  non  partecipassero,  a  quel 
elle  sembra,  alla  lega  campana,  ne  divisero  per  lungo  tempo  le 
sorti.  Più  oltre  era  Nola,  forse  collegata  colla  vicina  Abella,  e 
sulla  sponda  meridionale  del  golfo  i  Nucerini,  costituenti  una  con- 
federazione che  aveva  per  centro  nelV  interno  Nuceria  Alf aterna 
e  possedeva  sul  mare  Ercolano,  Pompei,  Stabia  e  Sorrento  (3>. 
Oltre  il  capo  Campanella,  sul  golfo  di  Salerno  cominciava  il  terri- 
torio appartenente  alla  confederazione  sannitica.  Di  questi  Stati 
il  più  considerevole  per  estensione  e  popolazione  '  era  indubitata- 
mente la  lega  campana  che  j)ossedeva  un  territorio  fertilissimo  di 
1100  km^  nel  quale  sorgeva  una  delle  prime  città  d'Italia,  Capua, 
che  forse  in  questo  momento  non  era  seconda  per  popolazione  e 


(1)  Strab.  V  p.  246  :  {larepov  òè  Kaiuiraviùv  Tivac;  èòéEavTO  ouvoìkouc;  òixoaxa- 
Tf\aavTec,  ■  koì  rivayKÓaGrioav  toT^  ^x^ìcJtok;  ùjq  oÌKeioTàxoK;  xP^'JcoBai  eireiòì')  Toùt; 
oÌKeiouc;  óXXoTpiouc;  èoxov  •  |utìvu6i  he  tò  tùjv  bruadtpxtuv  òvóiuara  tò  |uèv  irpùira 
'EXXriviKÒ  óvxa,  tò  ò'  uOTepa  toIi;  EXXrjviKoTi;  àva.ulE  tò  KaiurraviKa.  Osco  è  p.  es. 
il  nome  di  quel  Nipsio  napoletano  che  si  segnalò  come  ufficiale  di  Dionisio 
il  giovane  (Diod.  XVI  18).  E  confermano  le  asserzioni  di  Strabone  tanto  l'epi- 
grafia quanto  la  numismatica,  v.  Sambon  Monnaies  de  l'Italie  1  177  seg. 

(2)  L'  esistenza  della  lega  campana  è  dimostrata  da  j^rove  numismatiche  e 
da  molte  altre  considerazioni  tra  cui  quella  che  un  Atellano  fungeva  nel  214 
da  meddix  titticus  a  Capua  (Liv.  XXIV  19),  v.  Mommsen  Riìm.  Munzwesen  p.  335. 
BfeLOCH  Campanien  314  segg. 

(3)  La  mancanza  di  storia  e  di  monete  di  questa  città  messa  a  confronto 
col  passo  di  Polibio  che  attribuisce  ai  Nucerini  la  sponda  meridionale  del 
golfo  di  Napoli  (PoLYB.  Ili  91  :  'vf]v  |uèv  napaXiav  oùtuùv  —  dei  Campani  — 
Zevo\)€aaavoi  koì  Kuinaìoi  koì  AiKaiapx'ìTai  véiiovrai,  izpòc,  bè.  toOtok;  NeairoXìTOi, 
TeXeuraìov  bè  xò  xùjv  NouKepivuuv  ?0vo<;)  e  con  quello  liviano  che  parla  di  ope- 
razioni dell'armata  romana  contro  i  Nucerini  (IX  38)  dimostra  sufficientemente 
l'esistenza  di  questa  confederazione,  v.  Belocu  Campanien  p.  240  seg. 


LA    CAMPANIA.    PKIMA    GUERRA    SANNITICA  269 

liccliezza  iieppiu-e  a  Roma.  Assai  inferiore,  ma  pui"  non  priva  cVim- 
portanza  era  la  confederazione  nucerina,  il  cui  territorio,  con  una 
estensione  di  670  km^  era  eguale  press' a  poco  a  quelli  di  Nola  e 
di  Abella  miiti. 

Secondo  la  tradizione,  causa  occasionale  della  guerra  tra  il 
Sannio  e  Roma  furono  le  ostilità  mosse  dai  Sanniti  ai  Sidicini  di 
Teano.  I  Sidicini  chiesero  soccorso  ai  vicini  Campani;  ma  Capua 
non  valse  da  sola  a  resistere  alle  forze  dei  Sanniti,  clie  riuscirono 
ad  occupare  con  un  presidio  il  monte  Tifata,  donde  potevano 
scendere  a  devastare  la  pianura  campana.  Allora  i  Campani  si  ri- 
volsero per  aiuto  a  Roma.  Ma  i  Romani,  legati  fin  dal  354  da  un 
trattato  di  amicizia  coi  Sanniti  (Ij,  esitavano  a  violarlo  senza  mo- 
tivo. Se  non  clie  avendo  i  Campani  fatto  i^iena  dedizione  di  se  e 
della  loro  città  ai  Romani,  si  credettero  questi  ormai  in  diritto  di 
difendere  mi  poi^olo  ed  un  territorio  divenuto  romano.  I  consoli 
M.  Valerio  Corvo  ed  A.  Cornelio  Cosso  condussero  le  loro  legioni 
in  Camj)ania,  dove  l'uno  si  accampò  alle  falde  del  monte  Gaui'o, 
l'altro  procedette  fino  a  Saticula.  Valerio  vinse  con  facilità  i  San- 
niti in  battaglia,  mentre  Cornelio,  lasciatosi  imprudentemente  rin- 
cliiudere  in  una  gola,  riusci  a  liberarsi  solo  per  la  vii'tù  del  tribuno 
militare  P.  Decio,  dopo  di  che  sbaragliò  anch' egli  il  nemico,  che 
fu  per  una  terza  volta  battuto  presso  Suessula  dal  console  Va- 
lerio. Dopo  una  sedizione  militare  (342)  i  Romani  ripresero  e  con- 
dussero a  termine  la  guerra  nel  341.  I  Sanniti,  stanchi  dalle  de- 
vastazioni del  loro  paese  fatte  dal  console  L.  Emilio,  chiesero  ed 
ottennero  pace  promettendo  di  lasciar  tranquilli  i  Campani  e  ri- 
servandosi soltanto  di  combattere  i  Sidicini,  che  non  avevano  fatto, 
al  pari  di  Capua,  dedizione  di  sé  ai  Romani  (2). 

Questo  racconto  è  si  ricco  d'inverisimigiianze  che  ha  indotto  vari 
critici  a  negar  fede  alla  realtà  storica  della  stessa  prima  guerra 


(1)  Liv.  VII  19,  4. 

(2)  Liv.  VII  29.  Vili  2.  Di  questa  guerra  tace  Diodoro,  il  che  naturalmente 
non  vviol  dire  che  la  guerra  non  fosse  menzionata  nella  sua  fonte.  Diodoro 
stesso  mostra  apertamente  che  la  sua  fonte  romana  conteneva  assai  più  di  quel 
che  egli  non  credesse  opportuno  di  riferire  al  lettore,  cominciando,  com'  egli 
confessa  (XIX  10),  la  storia  della  seconda  guerra  sannitica  nel  suo  nono  anno. 
Ne  fa  menzione  però  la  cronaca  di  Oxyrhynchos  (sopra  p.  251  n.  5)  alla 
ol.  110,1  =  340/39:  [ZaJuveiTai  ['Puj|Lia]i[oi]<;  Tt[ap]e[T(i]EovTO,  e  i  fasti  trionfali 
che  registrano  al  343  il  trionfo  dei  due  consoli  de  Samnitibus.  V.  anche 
Cic.  de  diviii.  I  24,  51.  Dionys.  XV  3,  2.  App.  Sainn.  1.  Frontin.  strat.  1  5,  14. 
IV  5,  9.  AucT.  de  vir.  ili.  26. 


270  CAVO   XVIII  -  LA    DISSOLUZIONE    DELLA    LEGA    LATINA 

sannitica.  Pure  non  v'è  dubbio  die  un  accordo  coi  Campani  (di 
qualunque  natui'a  si  fosse)  precedette  tanto  F  assedio  di  Napoli 
quanto  ancbe  la  guerra  latina  ;  e  la  supi^osizione  clie  i  Sanniti  ab- 
biano senza  guerra  lasciato  i3or  piede  ai  Romani  nella  Campania 
è  più  inverisimile  dello  stesso  racconto  tradizionale.  Clie  x)oi  prima 
della  guerra  i  Romani  avessero  un  trattato  di  amicizia  coi  Sanniti, 
l'altra  grande  potenza  del  mezzogiorno  d'Italia,  a^Dpar  tanto  natu-. 
rale  clie  dovremmo  supporlo  ancorché  non  fosse  asserito  esplicita- 
mente dalla  tradizione.  La  quale  del  resto  è  su  questo  punto  fede- 
degna  anche  perchè  la  confessione  che  le  guerre  sannitiche  comin- 
ciarono per  parte  dei  Romani  con  la  palese  rottura  d'un  trattato 
vi  appar  velata  appena;  or  quale  annalista  si  sarebbe  permesso 
una  invenzione  così  odiosa  per  la  patria?  Quel  che  non  può  in- 
vece accettarsi  in  alcun  modo  è  che  fin  d'allora  uno  Stato  ricco 
e  i^otente  come  la  lega  campana  facesse  senza  guerra  piena  dedi- 
zione a  Roma.  La  tradizione  tenta  spiegare  ciò  dipingendo  a  vivi 
colori  là  mollezza  di  Capua.  Ma  i  Ca^juani,  se  pare  che  amassero 
talvolta  quegli  eccessi  sfrenati  di  lusso  e  di  godimento  che  con- 
traddistinguono specialmente  i  periodi  di  transizione  tra  barbarie 
e  civiltà,  sa]3evano  però  battersi  da  prodi  e  per  poca  moneta  si 
lasciavano  arrolare  nelle  truppe  dei  Sicelioti;  anzi  non  andò  guari 
che  in  Sicilia  soldati  campani  col  nome  di  Mamertini  sparsero  il 
terrore  tanto  fra  i  Grreci  quanto  fra  i  Fenici  che  si  contendevano 
l'isola.  In  condizione  di  dediticì  i  Campani  non  si  vennero  a  tro- 
vare che  per  effetto  della  guerra  annibalica  dal  211  in  poi.  Pare 
chiaro  quindi  che,  con  un  procedimento  usuale,  la  tradizione  an- 
nalistica anticipi  e  duplichi  la  dedizione  dei  Campani  riferendola 
sin  dal  343  e  attribuendo  a  magnanimità  romana  se,  per  quanto 
dediticì,  i  Camx)ani  non  fm-ono  trattati  troppo  male,  mentre  con 
questa  anticipata  dedizione  si  trovava  anche  un  pretesto  per  giu- 
stificare in  qualche  modo  la  rottm^a  del  trattato  coi  Sanniti.  In 
tale  condizione  di  cose,  dobbiamo  ammettere  che  i  Campani  si 
unissero  a  Roma  non  per  dedizione,  né  ricevendo  subito  il  poco 
ambito  favore  della  cittadinanza  senza  suffragio,  ma  con  un  trat- 
tato d'alleanza  del  quale  qualche  ricordo  sembra  conservare  anche 
la  tradizione  (1),  E  impossibile  infatti  che  prima  d'aver  debellato 
i  Sanniti  i  Romani  facessero  a  Capua    condizioni    assai  peggiori 


(1)  Ijiv.  XXIII  5,  9:  (in  un  discoriso  di  Terenzio  Varrone  ai  Campani)  adi- 
cite  ad  haec  qtiod  foedus  aequuni  deditis,  quod  leges  vestras  (dal  343  al  340),  quod 
ad    extremum,    id    quod    ante    Cannensem  certe  cladem  maxumnm  fuit,  civitatem 


PRIMA   GUERRA   SANNITICA  271 

di  quelle  che  presumibilmente  avrebbe  potuto  ottenere    entrando 
in  lega  co'  suoi  connazionali. 

Adunque  quando  i  Romani,  rompendo  il  trattato  da  loro  con- 
cluso poco  prima  coi  Sanniti,  intervennero  a  favore  dei  Campani 
non  avevano  punto  il  misero  pretesto  della  dedizione;  e,  quel  che 
più  importa,  non  avevano  neppm-e  alcun  interesse  immediato  ad 
impedire  che  i  Campani  fossero  obbligati  ad  ascriversi  alla  lega 
dei  loro  connazionali  del  Sannio.  Nel  Lazio  Roma  aveva  finito  di 
combattere  coi  vicini  una  lotta  per  l'esistenza  che  l'aveva  con- 
dotta fatalmente  ad  assumere  l'egemonia.  Ora  si  trattava  d'inter- 
venute senza  apiJarente  necessità  in  una  regione  dove  non  s'era 
estesa  sino  allora  la  sua  attività  politica.  E  tuttavia  fa  onore  al 
senno  degli  uomini  dirigenti  di  Roma  d'avere  visto  chiaramente  lo 
stato  delle  cose  e  afferrato  l'opportunità.  Crii  è  che  l'Italia  non  era 
giunta  a  quel  grado  d' incivilimento  che  permette  la  coesistenza 
pacifica  di  più  Stati  indipendenti,  e  tra  Stati  vicini  indipendenti 
non  si  facevano  che  tregue  più  o  meno  lunghe,  quando  l'uno  non 
si  sentiva  in  forze  bastanti  jDsr  soggiogare  l'altro.  Se  il  Sannio  si 
annetteva  la  Campania  sarebbe  senz'  altro  divenuto  la  maggiore 
IDotenza  d'Italia,  né  era  punto  da  sxDerare  che  pensasse  a  coesistere 
pacificamente  con  la  vicina  lega  romano-latina;  sicché  quella  lotta 
che  sarebbe  stata  inevitabile  lasciando  ai  Sanniti  conquistare  la 
Campania  era  assai  meglio  iniziarla  ora  con  la  opportunità  dell'al- 
leanza campana.  E  poco  importa  cercare  come  i  Romani  rassicu- 
rassero la  loro  coscienza  per  la  rottm-a  del  trattato;  i30Ìché  é  evi- 
dente che  non  vi  ha  trattato  il  quale  possa  obbligare  un  popolo  a 
trascm-are  tutti  quei  provvedimenti  che  ritiene  indispensabili  ad 
assicm-are  la  propria  esistenza.  La  fedeltà  con  cui  osservarono  i 
loro  trattati  con  le  città  etrusche  del  mezzogiorno,  sebbene  rom- 
pendoli avessero  poco  da  temere  e  molto  da  sperare,  mostra  a  ogni 
modo  che  gli  uomini  politici  romani    non   si  lasciavano  guidare 


nostrani  magnae  parti  vestrum  dedimus  communicavimusque  vohiscum  (allude 
alla  concessione  dei  pieni  diritti  di  cittadinanza  —  che  questo  intende  quasi 
sempre  Livio  parlando  semplicemente  di  civitas  —  agli  eqnites  Campani  I  v.  sotto 

p.  287  n.  4).    XXXI  31,  10:    ctim ipsos    (Campanos)  foedere  primum   (343), 

deinde  conubio  atque  cognationibus  (forse  il  ius  conubii  fu  per  i  Campani  come 
per  i  Latini  compreso  nel  foedus,  cfr.  sopra  p.  102,  ma  naturalmente  non  se 
ne  usò  in  pratica  se  non  qualche  tempo  dopo  la  conclusione  di  esso),  postremo 
civitate  (338)  nobis  coniuiixìssemus ad  Hannibàlem  defecerunt. 


27*2  CAPO   XVITI  -  l.A    DISSOLUZIONE   DELLA   LEGA   LATINA 


tlalla  brama  di  conquiste  e  di  guadagni,  ma  da  intendimenti  assai 
più  alti  e  più  saggi. 

Quanto  ai  particolari  sulle  campagne  del  31:3  e  del  341,  par 
chiaro  clie  i  Romani  non  ebbero  i3unto  la  temerità  di  prendere 
quella  offensiva  nel  Sannio  che  tentarono  poi,  e  sulle  prime  con 
sì  mediocre  successo,  venti  anni  più  tardi  ;  quindi  il  loro  avanzarsi 
a  Saticula  e  la  loro  sorpresa  nelle  gole  sembra  una  ripetizione 
anticipata  della  battaglia  di  Gaudio,  il  cui  poco  scrupoloso  autore 
ha  colto  l'occasione  per  sbizzarriate  la  sua  fantasia  strategica  ed 
insegnare  come  i  Romani  avrebbero  potuto  a  Gaudio  cavarsi  dal 
mal  ijasso  prendendo  ispirazione  da  quel  che  era  tramandato 
sull'eroismo  d\in  tribuno  militare  dell'età  della  prima  guerra  iju- 
nica  (1).  Invece  le  battaglie  di  Suessula  e  del  Grauro  corrispondono 
benissimo  alla  reale  condizione  delle  cose,  né  si  possono  in  alcun 
modo  spiegare  come  duplicati  di  altre  battaglie  ;  e  una  critica  tem- 
perata dovrà  quindi  ritenere  che  realmente  ebbero  luogo.  Erano 
appunto  due  le  vie  per  cui  i  Sanniti  potevano  cercare  di  avanzarsi 
nella  Gam^jania,  l'una  da  Benevento  verso  Gapua,  l'altra  sulla  costa 
da  Napoli,  che  allora,  come  nel  327,  doveva  essere  loro  alleata,  verso 
Cuma,  che  senza  dubbio  al  pari  di  Gapua  aveva  fatto  alleanza 
con  Roma.  Sull'una  e  sull'altra  via  presso  Suessula  e  sotto  il  Gauro 
si  scontrarono  con  gli  eserciti  consolari  pronti  alla  difesa  e  raf- 
forzati natm-almente  dalla  leva  campana.  Fm-ono  quelli  i  primi 
scontri  tra  Romani  e  Sanniti,  e  in  essi,  come  in  quasi  tutte  le  bat- 
taglie campali  delle  guerre  sannitiche,  la  superiorità  della  disci- 
plina e  l'esercizio  continuo  delle  armi  diedero  la  vittoria  ai  Romani. 
Dopo  ciò  i  Sanniti  s'indussero  facilmente  a  rinunciare  per  allora 
ad  mia  guerra  offensiva,  rischiosa  e  poco  profìcua.  E  fu  ventura 
pei  Romani,  i)erchè  l'accessione  della  Gampania  alla  lega  romano- 
latina  alterò  l'equilibrio  di  forze  tra  i  contraenti  e  ne  spezzò  la 
compagine. 

Quanto  fosse  pericolosa  la  sedizione  del  342  non  sappiamo, 
perchè  tutti  i  particolari  contraddittori  con  cui  vien  narrata  non 
sembrano  altro  che  invenzioni  degli  annalisti  fondate  sulla  nuda 
notizia  d'una  sedizione  registrata  negli  annali  dei  pontefici  (2). 
Più   esattamente    siamo    informati    sulla   lotta   con  Priverno  che 


(1)  Cato  orig.  fr.  83,  cfr.  Liv.  ep.  17. 

(2)  Liv.  VII  42,  7:  adeo  nihil  praeterquam  seditiotiein   fuisse   eamqiie    compo- 
s-ifani  inter  antiquos  rerum  auctores  constai.  Cfr.  sopra  p.  224  seg. 


GUERRA    LATINA  273 


scoppiò,  secondo  la  tradizione,  nel  341  fi).  A  dir  vero  anche  al  829 
('-  ricordata  la  sottomissione  dei  Privernati  ribelli  (2),  e  Tuna  e 
l'altra  volta  son  consoli  C.  Plauzio  e  L.  Emilio  Mamercino.  Onde 
paT  chiaro  che  si  tratta  d'un  fatto  medesimo  tramandato  sotto  il 
nome  dei  consoli  Planzio  ed  Emilio  ed  ascritto  da  annalisti  diversi 
all'uno  o  all'altro  degli  anni  in  cui  ambedue  quei  nomi  apparivano 
nei  fasti  consolari.  Viene  in  generale  preferita  dai  critici  la  data 
del  329.  perchè  più  recente;  ma  sembra  assai  più  accettabile  quella 
del  341.  E  di  fatto  una  sollevazione  dei  Privernati  s'intende  assai 
1  iene  quando  perdurava  tuttora  la  guerra  tra  Romani  e  Sanniti  e 
tra  i  popoli  latini  si  a\^^ertivano  già  i  segni  della  x^rossima  ribel- 
lione; assai  meno  invece  si  intenderebbe  quando  il  Lazio  era  in- 
tieramente sottomesso  e  jjosavano  le  armi  tra  Sanniti  e  Romani. 

Avevano  avuto  appena  il  tempo  i  Romani  di  soggiogare  Pri- 
verno  che  già  nell'anno  seguente  (340)  s'iniziò  la  guerra  latina. 
I  Sidicini,  secondo  il  racconto  liviano,  erano  stati  dai  Romani  ab- 
bandonati nel  trattato  di  pace  ai  Sanniti.  Per  salvarsi  essi  offri- 
rono al  pari  dei  Campani  la  propria  dedizione  a  Roma.  Respinta 
dai  Romani  questa  dedizione  perchè  tarda,  venne  invece  accettata 
dai  Latini,  che  si  prepararono  per  proi3rio  conto  alla  guerra  coi 
Sanniti,  spalleggiati  dai  Campani,  dimentichi  della  dedizione  poco 
prima  fatta  a  Roma.  Anzi  giungono  i  Latini  a  tanto  di  tracotanza 
che  si  apparecchiano  ormai  apertamente  alla  lotta  con  Roma.  In- 
\itati  a  Roma  per  dare  spiegazioni  i  capi  della  confederazione,  vi 
si  recano  personalmente  i  due  pretori  latini  di  quell'anno,  L.  Annio 
di  Sezia  e  L.  Numisio  di  Cu-cei;  e  là,  alla  richiesta  del  console 
T.  Manlio  d'astenersi  dalla  guerra  coi  Sanniti,  rispondono  riven- 
dicando a  sé  stessi  piena  parità  di  diritti  coi  Romani,  e  chie- 
dendo che  uno  dei  consoli  e  metà  dei  senatori  siano  d'ora  innanzi 
scelti  tra  i  Latini.  Dopo  ciò  non  restava  che  risolvere  la  questione 
con  le  armi  (3). 

E  però  evidente  che  in  tutto  questo  racconto  abbiamo  soltanto 
i]  riflesso  della  speculazione  degli  annalisti  sul  semplice  fatto  tra- 


(1)  Liv.  Vili  1. 

(2)  Liv.  Vili  19-20.  Anche  i  f.  trionfali  registrano  il  trionfo  dei  due  consoli 
il  1°  di  marzo  de  Privernaiihus.  La  presa  di  Priverno  per  opera  di  C.  Ipseo  (è 
il  cognome  che  porta  il  Plauzio  console  nel  841,  non  quello  del  329)  è  glo- 
rificata anche  nelle  monete  battute  da  P.  Plauzio  Ipseo  edile  curule  nel  58 
av.  Cr..  V.  Bahelon  Monnaifin  de  la  rrp.  rom.  II  p.  322  setf. 

(3)  Liv.  Vili  2-6. 

G.  De  Sanctis,  Storia  dei  Romani,  IT.  18 


274  CAPO   XVITI  -  LA   DISSOLUZIONE    DELLA   LEO  A   LATINA 

mandato  della  guerra  romano-latina  iniziatasi  nel  340.  Che  i  Eo- 
mani  avessero  lasciato  braccio  libero  ai  Sanniti  contro  i  Sidicini 
appare  affatto  impossibile,  mentre  l'occupazione  di  Teano  all'ebbe 
dato  ai  Sanniti  un  posto  dominante  nel  settentrione  della  Cam- 
j)ania  e  menomato  gli  effetti  delle  fattorie  del  Grauro  e  di  Snessula 
che  avevano  chiuso  ad  essi  gli  aditi  della  regione  campana;  del 
resto  dopo  la  guerra  latina,  A-inta  dai  Romani,  alleati  come  si 
pretende  coi  Sanniti,  non  solo  non  ebbe  alcun  effetto  la  pretesa 
facoltà  lasciata  ai  Sanniti  di  impadronirsi  di  Teano,  ma  anzi 
proprio  a  guardia  del  paese  dei  Sidicini  venne  dedotta  la  colonia 
di  Cales.  Parimente  infondata  è  l'altra  motivazione  della  guerra, 
indipendente  affatto  dalla  inima  e  non  bene  fusa  con  essa,  che 
cioè  i  Latini  chiedessero  in  sostanza  d'essere  ammessi  con  xileni 
diritti  alla  cittadinanza  romana.  Era  questa  una  richiesta  che  i 
Latini  facevano  istantemente  nel  100  circa  av.  C,  quando  si  i^re- 
parava  la  guerra  sociale;  e  un  annalista  di  quella  età  può  Ijene 
avere  immaginato  che  tale  fosse  stato  anche  il  motivo  della  guerra 
latina  del  340  av.  C.  Cosi  aveva  anzi  un'occasione  opportuna  l'ignoto 
annalista  per  esprimere  col  discorso  di  T.  Manlio,  che  Livio  non 
inventa,  ma  riassume,  il  suo  orrore  per  una  simile  pretesa,  e  per 
mostrare  che  essa  era  in  odio  anche  al  protettore  divino  di  Roma, 
Giove  Ottimo  Massimo,  mediante  l'aneddoto  di  Annio  che  dopo 
aver  fatto  una  richiesta  sì  sacrilega,  sdrucciola  e  s\àene  o  muore 
sui  gradini  del  tempio.  Ma  nel  340  non  si  combatteva  per  avere 
la  cittadinanza  romana,  bensì  per  salvaguardare  l'autonomia  mi- 
nacciata dalla  egemonia  di  Roma,  come  prova  anche  l'aver  preso 
parte  alla  lotta  i  Tuscolani  cui  quella  cittadinanza  era  stata  già 
concessa.  Il  momento  non  poteva  dai  Latini  essere  meglio  scelto. 
L'accessione  di  Capua  alla  lega  romano-latina  pareva  dovesse  di- 
struggere l'equilibrio  tra  Romani  e  Latini  facendo  pendere  la  bi- 
lancia dall'uno  o  dall'altro  lato  secondo  che  i  Campani  avessero 
[)referito  Roma  od  il  Lazio.  Ora  i  Campani,  che  dovevano  la  propria 
salvezza  dai  Sanniti  alle  armi  romano-latine,  nello  spezzarsi  della 
lega  tra  ì  loro  confederati  si  trovarono  in  condizione  di  poter  sce- 
gliere liberamente  tra  l'uno  e  l'altro;  e  preferirono  i  Latini.  Questa 
scelta  s'intende  di  leggieri.  I  Latini  erano  più  deboli,  e  nessuna 
delle  loro  città  poteva  mism-arsi  anche  lontanamente  con  Capua. 
Alleata  coi  Latini  Capua  poteva  aver  piena  fiducia  che  nulla 
avrebbe  messo  a  pericolo  la  sua  indipendenza;  collegata  con  Roma 
essa  dipendeva  di  fatto  dalla  alleata  più  potente.  Senonchè  stava 
ora  ai  Romani  il  mostrare  se  l'unità  di  comando,  la  continuità  del 
territorio,  la  consuetudine  di  sfruttare    nella  lotta  per  l'esistenza 


GUERRA    LATINA  275 


tutte  le  forze  fino  al  limite  estremo  senza  alcuna  comj)assione  di 
se,  erano  tali  elementi  di  vittoria  da  controbilanciare  la  maggiore 
estensione  e  popolazione  della  lega  latino-campana,  a  cui,  come 
riferisce  la  tradizione,  si  erano  accostati  e  Sidicini  ed  Aurunci. 
I  due  consoli  T.  Manlio  Torquato  e  P.  Decio  Mm^e  (340)  inizia- 
rono la  guerra  conducendo  le  legioni  attraverso  al  paese  dei  Marsi 
e  dei  Peligni  presso  Capua,  e  di  là  alle  falde  del  Vesuvio  presso 
il  Veseri  (1).  La  battaglia  che  colà  ebbe  luogo  fu  memorabile  per 
la  severità  di  Manlio,  che  poco  prima  aveva  condannato  a  morte 
il  figlio  reo  d'essere  uscito  dalle  file  contro  gli  ordini  a  combat- 
tere vittoriosamente  in  duello  col  tuscolano  Cremino  Mecio;  ed 
anche  più  pel  sacrifizio  del  console  Decio  che,  ammonito  da  un 
sogno  e  dagli  aruspici  essere  indispensabile  alla  vittoria  la  morte 
d'uno  dei  duci,  non  apxDena  vide  piegare  le  sue  truppe,  consacratosi 
agli  dèi  infernali  si  precipitò  fra  le  schiere  nemiche  e  vi  trovò  la 
morte.  La  vittoria,  sebbene  pagata  a  caro  prezzo,  fu  dei  Romani, 
nonostante  che  il  soccorso  dei  Sanniti  giungesse  loro  come  il  soc- 
corso di  Pisa  dopo  terminato  il  combattimento.  I  Latini  fuggiaschi 
si  raccolsero  a  Vescia  od  a  Minturne  (2),  dove  misero  insieme  un 
altro  esercito.  Segui  tra  Sinuessa  e  Minturne  una  nuova  battaglia, 
dopo  la  quale  Latini  e  Campani  si  arresero  a  Roma  e  furono  pu- 
niti con  la  confìsca  d'una  parte  del  territorio  (3).  Irritati  per  questa 
confisca  i  Latini  si  ribellarono  novamente  l'anno  appresso  (339),  e 
dai  consoli  Ti.  Emilio  Mamercino  e  Q.  Publilio  Filone  furono  bat- 


(1)  La  battaglia  avvenne  ad  Veserim  secondo  Liv.  Vili  8,  19.  X  28,  15.  Cic. 
de  fin.  I  7,  23.  de  off.  Ili  31,  112.  Val.  Max.  VI  4,  1;  secondo  I'Auct.  de  vii: 
Ulustrih.  26,  4.  28,  4  apud  Veserim  fluvium.  Veseris  non  è  menzionato  altrove. 
Che  si  trattasse  d'un  fiume  potrebbe  essere  anche  un  autoschediasma  del  ps. 
Aur.  Vittore  ;  si  combattè  alle  falde  del  Vesuvio  secondo  Liv.  1.  e.  e  secondo 
Val.  Max.  I  7,  2,  che  qui  dipende  da  Livio.  Fonte  di  Livio  pare  Valerio  Anziate 
a  giudicare  dalla  menzione,  al  tutto  indegna  di  fede,  del  pontefice  M.  Valerio 
che  avrebbe  prescritto  a  Decio  il  rito  della  devotio.  Secondo  Dionys.  XV  4  la 
battaglia  avvenne  sì  in  Campania,  ma  àirò  TCTTapÓKovra  araòiuiv  KaTTiir|(;, 
dunque  non  alle  falde  del  Vesuvio.  Forse  questa  ultima  notizia  deriva  da  una 
confusione  tra  Suessa  e  Suessula  (v.  oltre). 

(2)  Livio  riferisce  (Vili  10,  9):  Latini  ex  fuga  se  Minturnas  contuleriint,  e 
poco  dopo  (VII!  11,  5)  dimentica  il  già  detto,  probabilmente  attingendo  ad 
un'altra  fonte:  qui  Latinorum  pugnae  superfuerunt  multis  itinerihus  dissipati 
4^um  se  in  unum  conglohassent,   Vescia  urhs  eis  receptaculum  fuit. 

(3)  I  fasti  trionfali  registrano  il  trionfo  di  T.  Manlio  Torquato  de  Latincis 
Cnmpaneis  Sidicineis  Aurunceis  XV  k.  iunias. 


276  CAPO    XVITI  -  LA   DISSOLUZIONE    DELLA    LEGA    LATINA 

tuti  ai  campi  Fenectani.  Dopo  ciò  i  Romani  cominciarono  a  rice- 
vere separatamente  la  sottomissione  dei  singoli  popoli  latini.  Non 
cedette  però  all'intimazione  di  resa  Pedo,  clie  ebbe  soccorsi  da 
Tivoli,  Preneste,  Lavinio  ed  Anzio.  L'assedio  di  Pedo  fn  iniziato 
Tanno  dopo  (338)  da  L.  Furio  Camillo,  che,  sconfìtto  presso  Pedo 
l'esercito  dei  Tibm-tini  venuti  al  soccorso,  espugnò  la  città,  mentre 
il  collega  C.  Menio  sbaragliava  con  un  assalto  improvviso  i  con- 
tingenti degli  Aricini,  Lanuvini,  Velliterni  ed  Anziati  clie  si  con- 
gi'egavano  presso  il  fiume  Astura.  Con  ciò  eblDe  termine  la  guerra 
latina. 

Questo  racconto  dimostra  quante  falsificazioni  e  quanti  errori 
anche  per  una  età  relativamente  recente  si  siano  insinuati  nella 
tradizione.  E  prima  di  tutto  la  marcia  delle  legioni  romane  attra- 
verso il  paese  dei  Marsi  e  dei  Peligni  per  giungere  a  Capua  indica 
che  Livio  si  faceva  un'idea  assai  singolare  della  topografìa.  Ed  è 
facile  congetturare  che  a  quel  tempo  il  territorio  dei  Peligni  si 
estendesse  verso  il  Liri  in  direzione  di  Fregelle  e  di  Arpino;  ma 
di  ciò  uè  Livio  fa  alcun  cenno,  né  v'ha  traccia  nella  tradizione  (1). 
Pare  quindi  che  sia  stata  qui  erroneamente  anticipata  la  marcia 
attraverso  il  x^aese  dei  Marsi,  Peligni,  Marrucini  e  Frentani,  con  cui 
una  ventina  d'anni  dopo  i  Romani  si  aprirono  la  via  della  Puglia, 
dove  sulle  prime  tentarono  invano  di  giungere  per  mezzo  il  Sannio. 
Ed  è  inoltre  impossibile  che  la  battaglia  più  fiera  avvenisse  presso 
il  Yesu^do,  ossia  a  sud  del  territorio  romano,  latino  e  campano,  in 
una  regione  in  cui  le  armi  romane  non  cominciarono  a  penetrare 
che  dalla  seconda  guerra  sannitica.  Livio,  attingendo  a  due  scrit- 
tori diversi,  dà  alternativamente  Minturne  e  Vescia  come  i  luoghi 
ove  si  raccolsero  i  Latini  sconfìtti  ;  onde  pare  evidente  che  non  lon- 
tano da  Minturne  e  da  Vescia  ponevano  (]uegli  scrittori  il  campo  di 
battaglia.  Ora  come  la  migliore  delle  nostre  fonti  (2)  parla  appunto 
d'una  sola  battaglia  presso  Suessa,  in  cui  le  sorti  della  giornata 
furono  salvate  dal  console  Manlio,  dobbiamo  ricavarne  che  la  sto- 
rica battaglia  in  cui  Manlio  vinse  i  I^atini   è  precisamente  quella 


(1)  La  guerra  dei  Latini  coi  Peligni  cui  accenna  Liv.  VII  38,  1  (ad  a.  343) 
è  un  malinteso  o  una  invenzione.  Forse  questi  Peligni  vicini  al  Lazio  sono 
un'anticipazione  di  quelli  che  intorno  al  177  (Liv.  XLI  8i  emigravano  realmente 
a  Fregelle. 

(2)  DiOD.  XVI  90:  'PiJLi)uaioi  bè  Trpòc;  Aarivouc;  xaì  Ka.uTravoù;  TrapaTaEdiuevoi 
Tiepl  TTÓXiv  Zoùeaaav  èviKriaav  koI  tuùv  l'jTTriOévTUJv  .uépoq  tv)^  KiJ^Pc*;  dinpeiXovTO- 
ó  ^è  KaTiupftLUKÙx;  T^v  urtxnv  MdXXioq  ó  ÙTraroc;  èSpidupcuaev. 


BATTAGLIA   DI   TKIFANO  277 


clie  Livio  racconta  per  seconda  e  quasi  senza  particolari,  combat- 
tuta a  Trifano  nel  paese  degli  Am-unci,  alle  falde  del  monte  Ve- 
scino,  fra  Suessa,  Sinuessa  e  Mintm-ne,  e  clie  una  confusione  tra 
il  monte  Vescino  e  il  monte  Vesuvio  ve  ne  ha  fatto  accoxDpiare 
un'altra  presso  il  Vesuvio. 

Il  luogo  del  combattimento  permette  alcune  congetture.  Come 
Trifano  è  press'a  poco  al  confine  tra  la  lega  latina  e  la  Campania, 
i  Romani  debbono  aver  scelto  quella  posizione  per  impedire  ai 
Latini  di  congiungersi  coi  Campani.  Ma  è  difficile  clie  vi  siano 
pervenuti  traversando  il  territorio  nemico  nella  direzione  della 
posteriore  via  Appia.  Pare  invece  probabile  che  pel  paese  degli 
Ernici,  i  quali  erano  rimasti  fedeli,  come  prova  il  silenzio  della 
tradizione  e  le  relazioni  immutate  fino  al  306,  e  pel  territorio  delle 
tribù  volsclie  del  Liii,  più  clie  ai  Romani,  ostili  alle  vicine  colonie 
latine,  siano  scesi  poi  lungo  il  basso  Liri  nel  paese  degli  Aurunci. 
Qui  i  Romani,  se  trovavano  sgombro  il  terreno,  potevano  muovere 
dii'ett amente  su  Capua,  tentando  subito,  secondo  la  loro  consueta 
strategia,  di  distruggere  il  nucleo  principale  delle  forze  nemiche. 
Ma,  non  sappiamo  se  antivenendo  i  Romani  ovvero  riuscendo  ad 
effettuare  la  loro  congiunzione  in  presenza  del  nemico.  Latini  e 
Campani  si  fecero  a  Trifano  incontro  alle  legioni.  La  leggenda 
ebbe  ragione  d'abbellire  de'  suoi  colori  la  vittoria  romana,  perchè 
fu  vittoria  decisiva,  che  rassodò  definitivamente  la  supremazia  di 
Roma  sul  Lazio  e  sulla  Campania.  Forse  se  la  cavalleria  campana 
avesse  sostenuto  vigorosamente  la  fanteria,  la  giornata  poteva  es- 
sere come  quella  di  Canne  fatale  pei  Romani,  che  erano  in  quel- 
l'arma assai  inferiori  al  nemico  ;  ma  i  cavalieri  campani  ci  sono 
rappresentati  fin  d'allora,  probabilmente  non  a  torto,  quali  parti- 
giani di  Roma,  come  poi  a  tempo  della  guerra  annibalica.  Del  resto 
quasi  tutti  i  Campani  avrebbero  certo  preferito  la  vittoria  latina, 
ma  poca  voglia  dovevano  avere  di  imj)egnarsi  a  fondo  in  una 
guerra  che  non  li  interessava  in  modo  diretto  come  i  Latini,  pei 
quali  trattavasi,  politicamente,  di  vita  o  di  morte.  E  cosi  la  scon- 
fitta di  Trifano  determinò  le  sorti  della  guerra,  perchè  Capua,  la 
cui  via  era  ormai  aperta  alle  legioni  vincitrici,  si  ritii'ò  dalla  lega 
accordandosi,  come  vedremo,  a  condizioni  discrete,  con  Roma. 

Ma  è  affatto  inverisimile  che  i  Latini  facessero  la  loro  sotto- 
missione nel  339  per  sollevarsi  di  nuovo  l'anno  dopo.  La  guerra 
doveva  continuare,  perchè  è  evidente  che  i  Romani,  assicurata 
ormai  la  loro  superiorità  dopo  l'accordo  con  Capua,  non  avrebbero 
fatto  pace  coi  Latini  se  non  riducendoli  in  condizione  di  non  poter 
mai  più  collegarsi  contro  Roma.  Il  racconto  sommario  di  qualche 


278  CAi'o  xvjn  -  la  dissoluzione  della  leoa  latina 

annalista  che  riferiva  la  pace  conclusa  coi  Latini  dopo  la  principale 
battaglia,  deve  aver  dato  origine  alla  storiella  della  doppia  sotto- 
missione. Purtroppo  i  particolari  ulteriori  della  lotta  son  molto 
oscuri  né  possiamo  farne  con  sicurezza  la  critica,  dacché  non  ci  è 
dato  correggere  il  racconto  liviano  per  mezzo  d'altre  fonti  (1). 
Quanto  al  secondo  anno  della  guerra,  ignoriamo  persino  la  posi- 
zione dei  campi  Fenectani  ove  sarebbero  stati  rotti  i  Latini,  che 
ormai  combattevano  senza  l'aiuto  campano.  Nel  terzo  anno,  se 
dobbiamo  accettare  nelle  linee  generali  la  tradizione,  pare  che 
mentre  assediando  Pedo  i  Romani  minacciavano  le  due  ijiù  ])o- 
tenti  città  latine  Tivoli  e  Preneste,  abbiano  mandato  al  tempo 
stesso  un  esercito  verso  Anzio  per  impedire  che  i  contingenti  delle 
città  meridionali  del  Lazio  e  delle  città  volsche  si  congiunges- 
sero coi  Tibiu'tini  e  Prenestini  alla  difesa  di  Pedo.  Se  questo  era 
il  fine  delle  mosse  dei  Romani,  sembra  che  fosse  conseguito,  poiché 
i  Latini  meridionali  e  settentrionali  furono  vinti  (stando  alla  tra- 
dizione) separatamente,  e  Pedo  cadde  in  mano  del  vincitore.  Ma 
checché  ne  sia  dei  particolari  di  questa  campagna,  è  certo  che^ 
stremati  di  forze  e  sfiduciati,  i  Latini  fecero  nel  338,  non  collet- 
tivamente, ma  città  per  città,  la  loro  sottomissione. 

Di  questa  guerra  si  credeva  in  Roma  d'avere  nel  Foro  due 
monumenti:  i  rostri  delle  navi  degli  Anziati  confìtti  come  orna- 
mento al  muro  del  suggesto  onde  parlavano  gli  oratori  nel  Co- 
mizio (2j  e  la  colonna  Menia.  Anche  sull'  antichità  dei  rostri  s'è 
proposto  qualche  dubbio,  perchè  le  piraterie  degli  Anziati,  non 
ostante  la  riferita  distruzione  della  loro  marina  da    guen^a,  conti- 


li) Poca  luce  danno  infatti  i  fasti  trionfali,  i  quali  registrano  al  339  la  vit- 
toria di  Q.  Publilio  Filone  de  Latineis  e  al  338  quelle  di  L.  Furio  Camillo 
de  Pedaneis  et  Tiburtibus  e  di  C.  Menio  de  Antiatibus  Lainnieis  Veliterneis.  Può 
solo  osservarsi  che  secondo  i  fasti  trionfali  Lavinio  resistè  fino  all'ultimo, 
mentre  Livio  parla  qui  invece  di  Lanuvio  e  dà  come  colpa  dei  Laurentini 
quella  sola  d'essersi  messi  in  via  per  soccorrere  i  Latini  al  Vesei'i,  il  che 
avrebbe  fatto  dire  al  loro  pretore  Milionio  prò  panluln  via  magnam  mercedem 
esse  Romanis  solvendam  (Liv.  VIH  11,  4).  Ma  è  probabile  che  anche  nei  fasti 
jAivinieis  vada  corretto  in  Lanivineis,  cfr.  Dessau  CIL.  XIV  p.  187.  La  cro- 
naca di  Oxyrhynchos  registra  alla  ol.  110,2  =  389/8:  AaTeì[voi  éul  toù]? 
■Ptjuf Lijaiou!;  auv[0TàvTe^  i]-KÌ.^r\aav ,  ed  alla  ci.  110,3-338/7:  'PujiiiaToi  èiri  Aa- 
TÌvouq  èaxpdreuoav. 

(2)  Vabro  de  l.  l.  V  155.  Pmn.  n.  h.  XXXIV  20.  Liv.  Vili  14,  12:  naves  An- 
tiatum  partiin  in  narulia  Romae  subductae  jjcirtim  incensae  rostrisque  earum  siig- 
gestum  in  foro  exstructum  adornari  2}l(icutt  Rostraque  id  tevtplum  appellatum. 


SOTTOMISSIOXK    DKL    LATINI  279 


nuarono  anche  dopo  il  338  (1).  Ciò  importa  die  un  divieto  agli 
Anziati  di  tener  navi  da  guerra  (2)  o  non  si  fece  o  non  fu  osser- 
vato troppo  rigorosamente  o  non  si  riferì  ai  coloni  romani  che  vi 
furono  dedotti  i^oco  dopo;  ma  come  allori  navali  i  Romani  non 
ne  raccolsero  fino  al  consolato  di  Duilio,  par  verisimile  che,  con- 
forme alla  tradizione,  i  rostri  del  Foro  ricordassero  che  Anzio, 
nonostante  la  sua  marina  da  guerra,  aveva  dovuto  piegare  il  capo 
a  Roma. 

Terminata  la  guerra  ebbero  i  Romani  ad  avvisare  alla  maniera 
da  tenere  coi  vinti.  Conveniva  innanzi  tutto  togliere  per  l'avve- 
nire ai  Latini  qualsiasi  opportunità  di  una  nuova  ribellione  col- 
lettiva, che,  se  scoppiava  quando  lo  Stato  romano  fosse  impegnato 
con  tutte  le  forze  in  una  guerra  pericolosa,  poteva  esser  cagione 
di  romàna.  Ma  al  tempo  stesso  era  indispensabile  giovarsi  come  e 
più  di  prima  delle  energie  inesamibili  della  stir^je  latina  nelle 
lotte  che  era  facile  prevedere  con  Sanniti,  Etruschi  e  Gralli.  Or  qui 
stava  la  difficoltà:  perchè  non  si  possono  aspreggiare  senza  x^eri- 
colo  coloro  cui  si  chiede,  e  in  larga  misura,  il  tributo  del  sangue. 


(1)  Plin.  1.  e:  antiquior  columnarum  (celebratio)  sicuH  C.  Maenio  qui  devi- 
cerat  priscos  Latinos  ..  eodeniqne  in  consulatu  in  suggestu  vostra  devictis  Aniia- 
tihus  fixerat  anno  urbis  CCCCLXVI.  Ma  sembra  che  la  colonna  avesse  tutt'altra 
origine.  Pare  infatti  più  degno  di  fede  il  Ps.  Ascon.  ad  Cic.  divinai,  in  Caec. 
16,  50  p.  120  Orelli  :  Maenius  cum  domum  suam  venderei  Caiani  ei  Fiacco  cen- 
soribus  (a.  184)  ui  ibi  basilica  aedificaretur  exceperat  ius  sibi  unius  columnae 
super  quam  tectum  proiiceret  ex  provolaniibus  tabulatis,  cfr.  Non.  s.  v.  Maenius 
p.  65  M.  PoRPHYR.  in  HoRAT.  semi.  I  3,  28.  Un  passo  di  Pesto  p.  134  M  colle- 
gherebbe la  colonna  con  la  censura  di  Menio  nel  818,  ma  non  col  suo  conso- 
lato ne  con  la  vittoria  sui  Latini.  Livio  Vili  13,  9  non  parla  di  colonna,  ma 
di  due  statue  equestri  innalzate  ai  due  consoli  nel  Foro.  Eutkop.  II  7  le  dice 
poste  in  rostris.  Ma  le  statue  dei  Rostri  pare  fossero  piccole  e  non  equestri. 
D'altra  parte  Eutropio  sembra  avere  ragione  per  ciò  che  concerne  la  colloca- 
zione, giacché  nei  Rostri  esisteva  una  statua  di  Camillo  (Ascon.  in  Scaur.  p.  29 
Baitkr.  Plin.  n.  h.  XXXIV  23)  senza  tunica.  Questa  statua  attribuita  (proba- 
bilmente a  torto)  al  console  del  338  diede'forse  origine  al  malinteso  delle 
statue  dei  due  consoli,  che  poi  divennero  per  un  altro  malinteso  equestri  come 
quella  di  Marcio  Tremulo  di  cui  parla  Plin.  1.  e.  La  questione,  più  compli- 
cata che  importante,  della  statua  e  della  colonna  Menia,  è  discussa  più  di 
quel  che  meriti  da  Osann  Commentatio  de  columna  Maenia  (Giessen  1844  progr.) 
e  da  Clason  Rom.  G.  II  245  segg. 

(2)  Liv.  Vili  14,  8  :  nuves  inde  lonyae  abactae  interdictuinque  mari  Aniiati 
populo  est  et  civitas  data. 


280  CAPO  xvin  -  la  dissoluzione  della  lega  latina 

Questo  dà  ]a  ragione  della  relativa  mitezza  che  1  Romani  usarono 
verso  il  Lazio,  ben  diversa  dalla  sistematica  crudeltà  con  cui  oj)- 
pressero  quei  nemici  onde  il  tributo  del  sangue  non  si  pretese.  Ma 
con  la  sola  mitezza  è  pericoloso  governare.  Il  tentativo  che  i  Ro- 
mani avevano  fatto  nel  358  di  risuscitare,  come  istrumento  di  do- 
minio, la  morta  lega  latina  era  interamente  fallito  ;  una  ricostitu- 
zione della  lega  sarebbe  stata  grave  errore  politico  perchè  avrebbe 
reso  inutili  i  sacrifizi  fatti  sui  campi  di  battaglia  dal  340  al  338. 
Perciò  i  Romani  disciolsero  definitivamente  la  confederazione,  e  tol- 
sero anche,  per  eliminare  ogni  comunanza  d'interesse  fra  le  città 
latine  cui  lasciarono  F  indipendenza,  ogni  scambievole  diritto  di 
connubio  e  commercio  (1).  Questo  provvedimento,  che  del  resto  ri- 
mase forse  obliterato  non  molto  di  poi,  non  era  tanto  grave  come 
potrebbe  sembrare,  poiché  lasciava  a  tutti  i  Latini  il  diritto  di 
connubio  e  commercio  coi  cittadini  romani,  che  costituivano  ormai 
una  buona  metà  della  stù-pe  latina  (2).  Rimasero  però  nella  con- 
dizione di  Stati  indipendenti,  alleati  ciascuno  per  proprio  conto 
con  Roma,  delle  città  dei  Prisci  Latini  solo  Tivoli,  Preneste  e  Cora, 
città  che  a  queste  condizioni  accettarono  la  pace,  ma  alle  quali 
difficilmente  si  sarebbe  potuto  imporre  una  piena  sottomissione 
senza  assedi  per  l'arte  militare  d'allora  di  somma  difficoltà.  Inoltre 
si  lasciarono  immutate,  con  le  restrizioni  di  cui  s'è  fatto  cenno, 
le  condizioni  di  tutte  le  colonie  latine  dedotte  dal  j)rincipio  del 
V  secolo,  cioè  Signia,  Norba,  Ardea,  Circei,  Sutrio,  Nepi  e  Sezia. 
Queste  città,  prive  tutte,  eccetto  Ardea,  di  antiche  tradizioni  di 
piena  indipendenza,  use  a  contare  da  lungo  tempo  sull'aiuto  ro- 
mano nelle  lotte  contro  i  loro  vicini,  rimaste  in  generale  fedeli 
nelle  precedenti  contese  coi  Latini  tranne  l'ultima  guerra  e  in 
qualche  caso  anche  in  questa,  poiché  Sutrio  e  Nepi  non  vi  pre- 
sero probabilmente  alcuna  parte,  potevano  senza  pericolo  per  Roma, 
disciolta  ogni  lega  tra  loro,  conservare,  riconoscendo  come  avevan 
fatto  fin  qui  la  egemonia  militare  romana,  la  piena  autonomia. 
Rimanevano  le  altre  città  minori  dei  Prisci  Latini,  Aricia,  Lanuvio, 
Lavinio,  Nomento,  Pedo,  Tuscolo,  già  occupate,  com'è  da  credere, 
dai  Romani  sul  termine  della  guerra.  Ora  distruggere  queste  città 
vendendone  schiava  o  esiliandone  la  popolazione  ripugnava  ai  Ro- 
mani che  tante  volte  avevano  combattuto  a  fianco  degli  Arici  ni  <• 


(Ij  Liv.  Vili  14,   10:  ceteria  Latinin  populis  conuhia  commerciuque  et  concilia 
inter  se  ademerunt. 
(2)  V.  sopra  p.  257. 


SOTTOMISSIONE    DEI   LATINI  281 

dei  Tuiscolaiii  e  die  avevano  nelle  loro  file  stesse  molti  nativi  cV Alicia 
e  di  Tuscolo  e  molti  imparentati  con  gli  abitanti  di  quelle  città. 
Senza  dii'e  che  qualsiasi  tentativo  di  quel  genere  a\'Tebbe  potuto 
eccitare  i  Latini,  che  del  loro  valore  avevano  fatte  tante  prove 
sui  campi  di  battaglia,  a  iniziare  una  nuova  lotta  disperata  e  mor- 
tale. Oltre  di  che  si  sarebbe  così  privato  lo  Stato  romano  del  va- 
lido aiuto  che  era  atto  a  dargli  il  fiore  della  gioventù  latina. 
Sarebbe  stato  indubitatamente  in  facoltà  dei  Romani  di  ridurre 
quelle  città  alla  condizione  di  suddite  rendendole  tributarie,  pri- 
vandole del  potere  legislativo,  sottoponendole  per  la  leva  come 
per  la  giurisdizione  a  magistrati  inviati  da  Roma.  Il  desiderio  di 
vendetta,  la  superbia  della  vittoria,  la  tendenza  egoistica  a  sfrut- 
tare il  vinto  sospingeva  i  Romani  per  questa  via  rovinosa,  come 
mdusse  ad  apijigiiarvisi  tanti  Stati  greci.  Ma  il  retto  apprezza- 
mento della  condizione  delle  cose  li  consigliò  a  procedere  diver- 
samente. Se  a  quel  modo  avessero  umiliato  i  vinti,  i  Romani 
avi'ebbero  potuto  disporre  dei  loro  contingenti  finché  fosse  du- 
rato lo  sgomento  della  sconfitta;  ma  attenuato  appena  questo  ri- 
cordo dal  tempo,  alla  prima  occasione  i  Latini  sarebbero  insorti 
chiamando  alla  riscossa  i  loro  fratelli  trattati  con  minor  diu'ezza; 
e  al  tempo  stesso  la  cittadinanza  romana,  decimata  del  continuo 
sul  campo  e  non  rinsanguata  d'elementi  nuovi  e  vitali,  si  sarebbe 
assottigliata  lentamente,  ma  senza  rimedio,  come  la  cittadinanza 
spartana.  Fu  questo  il  momento  critico  della  storia  di  Roma.  E 
della  superbia  umana  trionfò  la  logica  ferrea  della  necessità.  Nella 
lotta  disperata  per  l'esistenza  che  i  Romani  avevano  sostenuto  dopo 
l'invasione  gallica  contro  tutti  i  vicini  congiurati  ai  loro  danni, 
il  patriziato  le  cui  file  s'erano  diradate  nella  lotta  aveva  dovuto 
fare  appello  a  tutte  le  energie  della  cittadinanza  e  pagare  i  sa- 
crifizi che  chiedeva  accordando  alla  plebe  piena  parità  di  diritti. 
La  concessione  della  cittadinanza  a  Tuscolo  nel  381  dimostra  che 
i  governanti  romani  avevano  già  avvertito  la  necessità  di  non  fer- 
marsi su  questa  via.  Ma  era  un  fatto  isolato  e  per  sé  solo  di  poca 
conseguenza.  Ora  la  concessione  dei  pieni  diritti  di  cittadinanza 
a  quell'intero   grupj)0  di  città  latine  (1)  da  un  lato  costituiva  un 


(1)  Liv.  Vili  14,  2-3:  Lanuvinis  civitas  data  sai'raque  .sua  reddita  cion  eo  ut 
aedes  lucusque  Sospitae  lunonis  cominunis  Lanuvinis  mìinicipibnn  cuin  popido 
Romano  esset.  Aricini  Nonientanique  et  Pedani  eodem  iure  quo  Lanuvini  in  ci- 
vitatein  accepti,  Tusculanif:  servata  civitas  quain  habebant.  Yell.  I  14,2:  Aricini 
in  civitatem  recepii.  L'accordo  delle  due  fonti  nel  tacere  di  qualsiasi  limitazione 


282  CAPO   XYIII  -  LA    DISSOLUZIONE    DELLA    LEGA    LATINA 

legame  cV  interessi  tra  i  loro  abitanti  ed  i  Romani  che  non  era 
facile  spezzare,  legame  a  cui  presto  si  sarebbero  uniti  ogni  sorta 
di  vincoli  morali;  dall'altro,  creando  fra  gran  parte  dei  Prisci  La- 
tini e  i  Latini  delle  colonie  una  profonda  disparità  di  condizione, 
ne  spezzava  la  solidarietà  ;  mentre  rinvigoriva  la  cittadinanza  ro- 
mana colmando  i  vuoti  che  vi  avevano  aperto  le  battaglie  coi 
Sanniti  e  con  gli  stessi  Latini  (1). 

Non  potevasi  certo  procedere  in  egnal  modo  rispetto  ai  Volsci, 
secolari  nem.ici  che,  nonostante  le  sconfitte  e  la  forzata  accessione 
alla  lega  latina,  conservavano  ancora  tenacemente  la  propria  nazio- 
nalità. I  Roinani  fecero  ora  deliberazione  di  provvedere  con  tutta 
r  energia  a  latinizzarli.  A  Velletri  la  massima  parte  dell'  aristo- 
crazia ribelle  fu  espulsa,  e  i  beni  confiscati  si  assegnarono  a  cit- 
tadini romani  (2)  ;  lo  stesso  si  fece,  come  pare,  con  Priverno, 
che,  occupata  dai  Romani  poco  prima  (sopra  p.  273),  non  aveva 
probabilmente  preso  parte  alla  guerra  latina.  (3)  Ad  Anzio  (338)  e 
a  Terracina  (329)  (4)  il  territorio  confiscato  si  distribuì  fra  i  coloni 


mostra  che  si  tratta  dei  pieni  diritti  di  cittadinanza.  11  trattato  che  annual- 
mente si  rinnovava  tra  Roma  e  Laurento  vien  datato  in  Liv.  Vili  11,  15  da 
questa  guerra.  Ma  la  data  non  pare  ammissibile,  sia  per  l'arcaicità  d'un  simile 
rinnovamento,  sia  perchè  ora  i^er  l'appunto  ebbe  fine  la  indipendenza  dei  Lau- 
rentina Onde  è  probabile  che  si  tratti  d' un  uso  assai  più  antico  conservato 
prò  forma  in  vigore  anche  dopo  che  i  Laurentini  ebbero  la  cittadinanza.  E 
quindi  si  accosta  assai  piìi  al  vero  Livio  stesso  quando  par  riportarne  le  ori- 
gini ai  tempi  di  Romolo  (1  14).  Altri  invece  le  ascrivevano   ai    libri  sibillini, 

CIL.  X  797  :  Sp.  Turranius in  urbe  Lavinia  pater  patratus  popiili  Laurentis 

foederis  ex  libris  Sibullinis  perait ioidi  rum  p(o})ido)  R(oȓano).  Cfr.  Dessau  CIL. 
XIV  p.  187. 

(1)  Cfr.  Cic.  prò  Balbo  13,  31:  illud  vero  sine  alla  duhitatione  maxime  nostrum 
fundavit  imperium  et  populi  Romani  nomen  aitxit  quod  princeps  ilìe  creator 
huius  urbis,  Romulus,  foedere  Sabino  docuit  etiam  hostibus  recipiendis  augeri  hanc 
civitatem  oportere;  cuius  auctoritate  et  exemplo  ntimquam  est  intermissa  a  ma- 
ioribus  nostris  largitio  et  comunicatio  civitatis;  ifaque  ex  Latio  multi  ut  Tuscu- 
lani  et  Lanuvini  et  ex  ceteris  regìonibus  gentes  universae  in  civitatem  sunt  receptae 
ut  Sabinorum   Volscorum  Hernicorum.  DioNrs.  II  17.  XIV  6. 

(2)  Liv.  Vili  14,  5-7. 

'3)  Per  Priverno  si  parla  della  espulsione  dei  senatori  trcms  Tiberini 
(VITI  20,  9)  come  per  Velletri,  ma  non  della  confisca  e  distribuzione  dei  loro 
boni.  L'una  cosa  però  suppone  l'altra. 

(4)  Liv.  VITI  21,  11.  Anche  Vell.  I  14  concorda  nella  data  registrando  la 
colonia  di  Terracina  post  triennium  dal  consolato  di  Publilio  Filone  e  Sp.  Po- 
stumio  (332). 


LE    CITTÀ    VOLSCHE  283 


romani,  permettendosi  però  l'iscrizione  nella  colonia  agli  indigeni  (1) 
0  per  meglio  dire  a  quelli  tra  essi  clie  non  erano  mal  veduti  dal 
governo  romano.  Così  in  queste  quattro  città,  accanto  ad  un  numero 
limitato  di  cittadini  romani  con  pienezza  di  diritti,  si  trovava  una 
abbondante  popolazione  suddita  a  cui,  accordando  quel  che  si  chia- 
mava cittadinanza  romana  senza  suffragio,  s'era  con  ciò  stesso  tolto 
ogni  diritto  sovi-ano  e  che  per  la  giurisdizione  e  la  leva  dipendeva 
esclusivamente  da  Roma.  Che  questo  stato  di  cose  potesse  esser 
soltanto  transitorio,  i  primi  ad  avvedersene  dovettero  essere  quelli 
stessi  che  lo  fondarono.  Presto  la  reciprocità  del  connubio  e  del 
commercio  doveva  stringere  insieme  i  pochi  nuovi  venuti  coi  molti 
indigeni  in  un  solo  popolo  e  rendere  impossibile  tanta  diversità 
di  trattamento.  Ma  allora  lo  scopo  era  raggiunto,  perchè  l'unione 
non  poteva  sorgere  che  sulla  base  delle  leggi  e  delle  istituzioni 
romane;  e  cosi  gl'indigeni  di  Veli  etri,  Priverno,  Anzio  e  Terra- 
cina  ottennero,  non  sappiamo  con  precisione  quando,  ma  certo  prima 
e  probabilmente  molto  prima  della  guerra  annibalica,  la  pienezza 
dei  diritti  (2).  Frattanto  le  due  città  marittime  d'Anzio  e  di  Terra- 
cina  fui'ono  ordinate  a  comuni  di  coloni  romani  (3),  mentre  lo  stesso 
ordinamento  si  dava  ad  Ostia,  aumentata  di  popolazione  (4). 

Fino  a  Terracina,  i  Romani  assegnarono  ai  vinti  la  piena  cit- 
tadinanza o  li  posero  in  una  condizione  transitoria  che  doveva 
presto  metterli  in  grado  di  ottenerla.  Più  a  mezzogiorno  essi  non 
largheggiarono  a  questo  modo,  perchè  la  differenza  di  nazionalità 


(1)  È  detto  esplicitamente  degli  Anziati  (Liv.  Vili  14,  8),  e  a  maggiore  ra- 
gione deve  supporsi  di  quelli  di  Terracina. 

(2)  Il  tenninus  ante  quem  e  la  concessione  del  diritto  di  suffragio  alle  più 
lontane  Arpino,  Fondi  e  Formie  nel  188  (Liv.  XXXVIH  36).  Dacché  notizie 
l^articolareggiate  sulle  cose  romane  ci  son  date  nella  terza  deca  di  Livio  dal 
principio  della  guerra  annibalica,  è  chiaro  che  la  concessione  dei  pieni  diritti 
a  Velletri  e  Priverno  dev'essere  anteriore.  È  bene  notare  che  gli  Ottavi,  fa- 
miglia velliterna,  compaiono  circa  il  230  nei  fasti  (v.  Suet.  Aug.  1),  e  che  un 
frammento  di  Lucilio  (799  Baiohrens)  mostra  i  Privernati  iscritti  nella  tribù 
Ufentina. 

(3)  Non  subito  dopo  l'invio  dei  coloni.  La  difficoltà  di  determinare  in  Anzio, 
prima  che  avesse  un  regolare  ordinamento  comunale,  i  rapporti  tra  i  coloni 
e  gl'indigeni  è  rappresentata  chiaramente  dalla  tradizione,  v.  Liv.  ad  a.  317 
(IX  20,  10)  :  Antiatibus  quoque  qui  se  sine  legibuft  certis  sine  magistratibus  agere 
querebantur  dati  ab  senatu  ad  tura  statuenda  ipsius  coloniae  patroni.  Cfr.  anche 

al  e.  xxn. 

(4)  Cfr.  l  p.  388. 


I^yi  CAPO   X\IU  -  LA   DISSOLUZIONE    DELLA    LEGA    J.ATLN'A 

si  face\'a  as^sai  più  sensibile  e  poi  percliè  credevano  di  aver  rinvi- 
4>orito  abbastanza  lo  Stato  romano  pei  compiti  nuovi  che  l'avve- 
nire prossimo  gli  presentava.  Non  v'era  bisogno,  per  ora  almeno, 
di  altri  cittadini  con  parità  di  diritti,  né  tanti  ad  una  volta  se  ne 
potevano  creare  senza  mettere  a  pericolo  gli  ordinamenti  e  la  coe- 
sione dello  Stato;  e  così  le  popolazioni  a  sud  di  Terracina  e  di 
Priverno  fm'ono  per  allora  o  riconosciute  come  alleate  o  ascritte 
alla  cittadinanza,  ma  senza  diritto  di  suffragio.  Era  quest'ultima, 
senza  dubbio,  mia  condizione  gravosa  ;  ma  era  un  trattamento  mite 
in  confronto  dell'uso  clie  facevano  allora  del  diritto  di  conquista 
anche  popolazioni  più  civili;  perchè  non  comportava  pesi  mag- 
giori di  (pielli  che  gravavano  sui  cittadini  romani  stessi  forniti  dei 
pieni  diritti.  La  cittadinanza  senza  suffragio  fu  data  pertanto  a 
Fondi  e  Formie  nel  338  o  pochi  anni  dopo  (1).  Incerta  è  invece  la 
condizione  cui  si  ridussero  allora  gli  Aurunci,  che  avevano  preso 
parte  anch'essi  alla  guerra  latina;  ma  fosse  o  no  analoga  a  quella 
di  Fondi  e  Formie,  certo  fu  tale  che  non  soddisfece  questo  piccolo 
popolo,  il  quale  peri  interamente  pochi  anni  dopo  nel  tentativo  di 
ricuperare  la  liberta  con  le  armi  (2).  Livio  narra,  con  patente  con- 
traddizione, di  cui  al  solito  non  s'avvede,  che  gli  Aurunci  chiesero 
nel  337  il  soccorso  dei  Romani  contro  i  Sidicini  di  Teano  che  li 
avevano  obbligati  ad  abbandonare  la  loro  città  (non  è  detto  quale) 
per  fondare  Suessa  Aui'unca  (3j  e  che  nel  335  i  Romani  fecero 
guerra  agli  Ausoni  alleati  dei  Sidicini  (4j.  Per  cui  non  è  chiaro 
se  Cales,  che  cadde  allora  in  mano  dei  Romani  e  fu  ordinata  a  co- 
lonia latina,  fosse  tolta  ai  Sidicini  o  agli  Aurunci  (5).  Checché  ne 
sia,  questa  città,  ove  si  dice  fossero  inscritti  non  meno  di  2500  co- 
loni, costituì  un  importante  baluardo  della  latinità  al  confine  tra 
i  Cami)ani,  i  Sidicini  e  gli  Aurunci.  Quanto  ai  Sidicini,  la  tradi- 
zione li  mostra  in  armi  contro  Roma  fino  al  334  (6),  poi  li  dimen- 
ti'M  d"l    tutto.    Ciò  prova  che   la    città  di  Teano  fu  fin  da  allora 


(1)  Liv.  Vili  14,  10  (a.  338).  Vell.  1  14,  4  (a.  333).  Una  ribellione  dei  Fon- 
dani  e  Forniiani  al  329  è  menzionata  da  Liv.  Vili  20,  ma  in  connessione  con 
la  pretesa  ribellione  dei  Privernati  (sopra  p.  273  n.  2). 

(2)  Liv.  Vili  2.D. 
13)  Vili  15,  16. 

(4)  1  fasti  trionfali  all' a.  335  registrano  il  trionfo  di  M.  Valerio  Corvo  de 
Cdlenein  idibus  Murt. 

(5)  La  colonia  di  Cales  è  notata  tanto  da   Livio   quanto  da  Velleio  al  334. 
'6)  Liv.  Vili  16,  12.  17,  2. 


AUKUNCI   E    SIDICINI.    LA    CITTADINANZA   DATA   AI   CAMPANI        285 

imita  a  Roma:  se  fosse  stata  mi  avamposto  del  Samiio  (1),  diffì- 
cilmente la  tradizione  ne  avi^ebbe  taciuto;  poiché  essa  trascura  i 
soccorsi  prestati  dagli  amici,  non  le  vittorie  ri])ortate  sui  nemici. 
Tal  silenzio  è  del  resto  un  indizio  che  i  Sidicini  non  ebbero  la 
cittadinanza  né  piena  né  senza  suffragio,  dacché  delle  città  ridotte 
in  questi  anni  a  tal  condizione  abbiamo  piena  contezza.  E  però 
va  ritenuto  che  fin  d'allora  ottennero  quel  trattato  d'alleanza  con 
Roma  che  conservarono  fino  alla  guerra  scoiale  (2). 

Regolando  la  condizione  dei  vinti  dal  Tevere  al  confine  cam- 
pano, i  Romani  non  avevano  avuto  a  consultare  che  i  propri  in- 
teressi. Più  oltre  dovevano  tener  conto  dei  riguardi  dovuti  alla 
ricca  e  non  imbelle  popolazione  campana,  solo  di  recente  entrata 
in  relazione  con  Roma  e  che  un  trattamento  troppo  severo  poteva 
far  propendere  verso  i  Sanniti.  Tuttavia  i  Romani  si  sentirono 
abbastanza  forti  per  obbligarla  ad  abbandonar  loro  il  fertile  agro 
Falerno  tra  il  Savone  ed  il  Volturno  (3),  per  modo  che  oltre  il 
Volturno  rimase  ai  Cami^ani  solo  l'agro  Stellate  ad  oriente  di 
Casi  lino,  che  conservarono  fino  alla  seconda  guerra  punica  (4).  Non 
può  del  resto  revocarsi  in  dubbio  che  questa  annessione  di  terri- 
torio campano  avesse  luogo  i^er  effetto  della  guerra  latina  ;  perchè 
chiunque  non  voglia  sostituire  il  proprio  arbitrio  alla  tradizione 
dovrà  accettare  la  data  del  318  come  quella  sotto  cui  s'istituì  la 
tribù  Falerna.  Or  la  istituzione  di  questa  tribù,  che  ebbe  luogo 
sotto  la  censiu'a  di  L.  Papii'io  e  C.  Menio  (5),  presuppone  che  da 


(1)  Così  MoMMSEN  R.  G.  \*  360,  il  quale  del  resto  ritira  implicitamente  al- 
trove questa  sua  asserzione. 

(2)  Che  Teano  fosse  città  alleata  è  provato  dalle  sue  monete  in  argento  e 
bronzo  con  la  iscrizione  osca  Teianud  o  Teianud  Sidikinud  e  dalle  monete  in 
bronzo  con  la  iscrizione  latina  Tiano  Nessun  altro  municipio  romano  battè 
moneta,  fatta  eccezione  per  Capua  e  alcune  alti-e  città  minori  della  lega  cam- 
pana che  si  trovavano  in  una  condizione  particolarissima  (v.  e.  XXII).  Inoltre 
vedasi  il  frammento  di  C.  Gracco  presso  Gell.  «.  ^.  X  3  il  quale  cita  i  mal- 
trattamenti inflitti  a  un  magistrato  sidicino  evidentemente  allo  scopo  di  di- 
mostrare la  prepotenza  dei  Romani  verso  i  loro  alleati.  Su  ciò  giudicano 
rettamente  Buboer  Neue  Forschiingen  1  23  segg.  e  Pais  St.  di  Roma  I  2,  247 
n.  4,  come  già  (prescindendo  dalla  pretesa  latinità  di  Teano)  Mommskn  Riim. 
Munzwesen  p.  323.  È  invece  senza  dubbio  in  errore  Mommsen  CIL.  X  p.  471. 

(3)  Liv.  Vili  11,  13. 

(4)  Beloch   Canipanien  369  seg. 

(5)  Liv.  IX  20. 


286  CAPO    XVIII  -  LA    DISSOLUZIONE    DP^LLA   LEGA    LATINA 


qualche  tempo  si  fosse  cominciato  ad  assegnare  individualmente 
quei  terreni  a  cittadini  romani;  e  però  non  si  può  in  alcun  modo 
collegare  con  la  ribellione  di  Capua,  che  avvenne  qualche  anno 
dopo  il  disastro  di  Gaudio. 

Ma  non  si  limitarono  i  Romani  a  pretender  territorio.  La  tra- 
dizione afferma  esplicitamente  che  i  Capuani  ricevettero  la  citta- 
dinanza romana  senza  suffragio  (1),  e  due  scrittori  registrano  questa 
concessione  l'uno  al  338  e  l'altro  al  334,  confermandosi  a  vicenda 
tanto  più  in  quanto  la  lieve  divergenza  di  data  mostra  che  attin- 
gono a  fonti  diverse  (3).  Una  prova  se  ne  ha  pm-e  in  ciò  che  am- 
bedue gli  scrittori  notano  al  332,  essendo  censori  Publilio  Filone  e 
Postumio  Albino,  la  concessione  della  cittadinanza  senza  suffragio 
ad  Acerre  (3);  or  come  sarebbe  contro  la  buona  critica  revocare  in 
dubbio  quest'ultima  data,  così  non  pare  che  i  Romani  possano 
aver  incorporato  nel  loro  Stato  Acerre  se  prima  non  lo  avevano 
esteso  nel  più  vicino  territorio  campano.  Vi  ha  del  resto  un  argo- 
mento che  par  vinca  ogni  obbiezione.  I  Campani,  al  tempo  del 
tumulto  gallico  del  225,  erano  senza  dubbio  censiti  fra  i  cittadini 
romani  (4).  Ma  non  i^ossono  aver  mutato  la  lor  condizione  di  al- 


(1)  Sulla  questione  c'è  una  vasta  letteratura.  Le  varie  opinioni  son  bene 
riassunte  da  Rudert  De  iure  municipum  Romanonim  belli  Latini  tempore  Cam- 
panis  dato  '  Leipziger  Studien  '  II  (1879)  p.  73  segg.  Cfr.  Pais  I  2  p.  229  segg. 

(2)  Liv.  VIII  14,  10:  Campanis  equitum  honoris  causa  quia  cum  Latinis  re- 
bellare  noluissent....  civitas  sine  suffragio  data.  Cumanos  Suessulanosque  eiusdem 
iiiris  condicionisque  cuius  Capuani  esse  placuit.  Vell.  I  14,  3:  Sp.  Postumio, 
Veturio  Calvino  consulibus  Campanis  data  est  civitas  partique  Samnitiuni  sine 
suffragio.  Che  devesi  intendere  per  questa  pars  Saninitium  ?  Il  Mommsen  ha 
pensato  ai  Sidicini,  che  son  però  da  escludere,  v.  sopra  p.  285  n.  2.  Forse 
si  hanno  da  intendere  i  Cumani  e  Suessulani,  che  erano,  come  del  resto  i 
Campani,  di  stirpe  sannitica.  Cfr.  anche  il  fr.  di  Ennio  (118  Baehrkns):  cit^es 
Roìiiani  tane  facli  sunt  Campani,  che  è  però  d'incerta  collocazione.  Anche  nella 
cronaca  di  Oxyrhynchos  all'ol.  111,4  =  33.3/2  par  debba  leggersi:  'P[iwJ|uaToi 
[KaiuTTaJvoùc;  ènoinaavTO  ■rT[oXiTaq]  ktX. 

(3)  Liv.  Vili  17,  12:  Romani  facti  Acerrani  lege  ah  L.  Papirio  praetore  lata. 
Vki.l.  1  14,  4  :  «  Sp.  Postumio,  Philone  Publilio  censoribus  Acerranis  data  ci- 
vitas. 

(4)  Ciò  risulta  dallo  specchio  delle  forze  militari  dei  Romani  e  degli  alleati 
che  Polibio  (II  24)  dà  per  quell'anno  attingendolo  a  Fabio  Pittore,  cfr.  Oros. 
IV  13,  6-7.  Del  resto  anche  la  procedura  seguita  dopo  la  presa  di  Capua  nella 
guerra  annibalica  mostra  che  i  Campani  erano  cittadini  :  Liv.  XXVI  33.  10 
(ad  a.  210):  per  semitum  mii  de  Campanis,  qui  cives  Romani  sunt,  iniussu  pò- 
2)uli  non  video  poss, 


LA    CITTADINANZA    DATA    AI    CAMPANI  287 


leati  con  quella  di  cittadini  senza  .suffragio  se  non  jjer  effetto  di 
qualche  loro  ribellione  a  Roma.  Capua  peraltro  non  si  sollevò 
più  dal  314  in  poi  iìno  alla  battaglia  di  Canne.  Supporre  la  pos- 
sibilità che  Capua  sia  insorta  nella  guerra  di  Pirro  (1)  può  solo 
chi  non  intenda  come  quella  guerra  avrebbe  avuto  tutt' altro  corso 
se  Pirro  come  Annibale  avesse  potuto  por  piede  nella  seconda 
città  d'Italia.  Quindi  il  conferimento  della  cittadinanza  senza  suf- 
fragio ai  CaiDuani  non  può  spettare  che  al  314  al  più  tardi  (2).  Ma 
il  pieno  silenzio  della  tradizione  al  314  (3)  e  le  notizie  concordi 
dopo  «la  guerra  latina,  per  quanto  la  nostra  tradizione  sull'età  della 
seconda  guerra  sannitica  sia  relativamente  abbondante  e  fededegna, 
mostrano  che  la  data  da  preferire  è  quella  tramandataci  del  338-34. 
Senonchè  la  condizione  fatta  allora  ai  Camp)ani  in  confronto  di 
quella  degli  altri  municipi  che  allora  o  poi  ebbero  la  cittadinanza 
senza  suffragio  fu  per  molti  rispetti  privilegiata.  La  tradizione 
dice  anzitutto,  e  non  c'è  ragione  per  metterlo  in  dubbio,  che  a  parte 
dell'aristocrazia  campana  vennero  concessi  i  pieni  diritti  di  cittadi- 
nanza (4).  Inoltre,  non  pochi  dù-itti  sovrani  conservò  Capua,  tra 
cui  quello  di  batter  moneta  sia  pure  iscrivendovi  il  nome  di  Roma  ; 
poi  rimase  la  confederazione  campana  col  suo  senato  e  col  suo  capo 


(1)  Come  sembra  faccia  il  Pais  I  2  p.  233  d. 

(2)  Ciò  è  confermato  dal  censimento  sul  quale  v.  sotto  p.  290  n.  1,  le  cui 
cifre,  che  paiono  certamente  autentiche,  costringerebbero  ad  attribuire  al  ter- 
ritorio romano  una  popolazione  oltre  ogni  credere  esuberante,  se  non  v'erano 
compresi  i  Campani. 

(3)  Anche  Diodoro  a  quell'anno  nota  (XIX  76,  5):  ai  òè  ttóXcic;  (tlùv  Kaiuiravuiv) 
TUxoOaai  ouyyvujilht;  ek  ^riv  irpouTTapxouaav  au|Li|uaxiav  àiroKaTéOTriaav,  dove 
naturalmente  au)U|uaxict  non  va  preso  in  senso  troppo  stretto.  Lo  scrittore  si- 
celiota  può  aver  tradotto  così  un  "  eadem  condicione  '  della  sua  fonte. 

(4)  Liv.  Vili  11,  16:  equitibus  Campanis  civitas  Romana  data,  monumentoque 
ut  esset  aeneam  tabulam  in  aede  Castoris  Romae  fecerunt ,  vectigal  quoque  eis 
Campanus  j^opulus  iiissus  i^endere  in  singulos  quotannis  —  fuere  aiitein  mille  et 
sexcenti  —  denarios  nummos  quadringenos  et  quingenos.  Probabilmente  è  l'avola 
che  all'intervento  romano  dovessero  i  cavalieri  Campani  l'indennità  loro  con- 
tribuita dal  popolo.  E  può  anche  esser  falso  che  a  tutti  venisse  concessa  la 
cittadinanza  con  pieni  diritti.  Potrebbe'  trattarsi  d'un'anticipazione  della  con- 
cessione realmente  fatta  nel  215  a  300  cavalieri  Campani  rimasti  fedeli,  Liv. 
XXllI  80,  10.  Peraltro  che  parziali  concessioni  in  questo  senso  avvenissero  sin 
d'allora  tra  i  Campani  è  credibilissimo  e  confermato  anche  da  Liv.  XXlll  5,  9 
(sopra  270  p.  n.    1). 


2SS  (AI'O    XVTTl  -  T,\    DISSOLUZIONE    DELLA    LEGA    LATINA 

annuo  (uìeddix  tiificits)  (1).  incaricato  delja  direzione  amministra- 
tiva. Perdette  naturalmente  Capua  il  diritto  di  fare  per  ]iroprio  conto 
pace  e  guerra,  ma  conservò  il  potere  legislativo  per  ciò  che  si  ri- 
feriva alle  cose  interne;  e  sembra  persino  che  l'adozione  del  diritto 
civile  romano  fosse  soltanto  graduale,  e  che  i  magistrati  indigeni 
avessero  una  estesa  giurisdizione  (2).  Col  tempo  (secondo  Livio 
nel  318)  furono  istituiti  quattro  magistrati  incaricati,  in  rappresen- 
tanza del  pretore  urbano,  della  giurisdizione  nel  territorio  della 
lega  campana  e  nelle  città  vicine  (3),  ma  è  da  credere  che,  almeno 
fino  alla  seconda  punica,  la  giurisdizione  non  spettasse  integral- 
mente a  (piesti  quatuorviri,  bensì  soltanto  nelle  cause  di  massima 
importanza  o  in  quelle  attinenti  alle  relazioni  tra  i  Campani  e  Roma. 
S'è  affermato  che  questi  quatuorviri  siano  stati  creati  posterioi'- 
mente  alla  ribellione  di  Capua  nella  guerra  annibalica;  ma  è  un 
grave  errore,  perchè  in  questo  caso  nella  loro  titolatura  ufficiale 
Capua,  privata  d'ogni  autonomia  locale,  non  avrebbe  preceduto 
Cuma;  al  più  può  discutersi  se  l'istituzione  di  essi  si^etti  al  318 
o  al  314,  o  in  altri  termini  se  sia  stata  causa  od  effetto  della  ri- 
bellione di  Capua  in  quegli  anni. 

Roma  dall'invasione  gallica  era  stata  condotta  pressoché  a  ro- 
vina. Dopo  cinquant'anni,  mediante  un  intenso  e  quasi  illimitato 
sfruttamento  delle  proprie  forze,  senza  precedenti  nella  storia,  era 
divenuta  una  grande  potenza.  Il  paese  in  cui  dominava  si  esten- 
deva dai  monti  Ciminì  alle  falde  del  Vesuvio.  Di  esso,  6000  km^ 
almeno  aiipartenevano  allo  Stato  romano,  il  quale  dal  340  era  rad- 
do[)piato  ormai  d'estensione  e  poco  men  che  triplicato  dal  390,  parte 
per  le  concessioni  dei  diritti  cittadini  ai  vinti,  parte  pei  territori 
ad  essi  tolti,  onde  si  istituirono  in  questi  anni  le  tribù  Mecia  e 
Scapzia  nel  Lazio  (332)  e  non  molto  dopo  (318)  la  Ufentin a  presso 
Pri verno  e  la  Falerna  in  Campania.  Questa  regione  era  divisa 
in  due  parti,  di  cui  alquanto  maggiore  la  prima,  occupate  Funa 
dai  cittadini  forniti  dei  pieni  diritti,  l'altra  da  quelli  che  ne  eran 


(1)  Ricordato  frequentemente  da  Livio  nella  storia  della  guerra  annibalica: 
XXIT  3.  XXm  7.  35.  XXIV  19.  XXVI  6. 

i2)  Vedasi  quel  che  Livjo  (XXIIT  4)  dice  dei  senatori  di  Capua  (217)  ante- 
riormente alla  ribellione  :  c«s  crt»srt,s  suscipere,  et  semper  parti  adesse,  secundum 
fftm  [literti]  ìndiccs  dare,  quae  magis  popularis  aiytiorqìie  in  rolgiis  favori  conci- 
liando esset. 

:!>  11  loro  titolo  era  praeferti  Capn.am  Ciimas.  CIL.  XI    3717.    V.    anche    al 
'^  '^■"   "  MoMMSKN  Sfiinfsrrchf  IP  608  segg. 


CONCLUSIONE  289 


])rivi  (1).  Inoltre  sopra  un  gran  numero  di  città  alleate  e  di  co- 
lonie cui  s'erano  accordati  diritti  sovrani  pari  press'a  poco  a 
{juelli  delle  città  alleate  esercitavano  i  Romani  il  loro  dominio. 
Questi  alleati  e  coloni  legati  solo  con  Roma,  ma  non  più  costi- 
tuenti poderose  leghe  tra  loro  ad  eccezione  della  lega  ernica,  il 
cui  territorio  superava  x)erò  di  poco  un  migliaio  di  km^,  ormai, 
data  r  immensa  sproporzione  delle  loro  forze  con  Roma,  erano  di 
fatto  dipendenti  quando  anche  i  loro  trattati  d'alleanza  nominal- 
mente guarentissero  la  piena  egualità;  e  non  avevano  modo  di  fare 
Lina  politica  estera  per  conto  projjrio  quand'anche  ciò  fosse  stato 
permesso  dai  trattati  d'alleanza.  I  Romani  del  resto  ne  esigevano 
il  solo  tributo  del  sangue  e  probabilmente  in  misura  minore  di 
quel  che  non  lo  prestassero  essi  stessi.  Così  oltre  quei  legami  che 
risultavano  dal  militare  a  lungo  sotto  le  stesse  insegne  vittoriose, 
non  mancavano  tra  alleati  e  Romani  vincoli  d' interesse,  perchè 
le  frequenti  vittorie  comuni  recavano  anche  agli  alleati  guadagno, 
e  sia  pure  non  nella  misura  stessa  che  ai  Romani  (2).  Del  resto 
non  esisteva  ancora,  come  fu  poi,  una  vera  muraglia  di  separa- 
zione tra  Romani  ed  alleati  ;  perchè  gli  alleati  eran  per  la  mas- 
sima parte  di  diritto  latino  e  potevano  sotto  certe  condizioni  ac- 
quistare con  relativa  facilità,  se  vi  aspiravano,  la  cittadinanza 
romana,  mentre  i  Romani  poco  favoriti  dalla  fortuna  che  pren- 
devano una  parte  preponderante  alla  deduzione  delle  colonie  la- 
tine passavano  in  una  condizione  analoga  a  quella  degli  alleati, 
n  territorio  degli  alleati,  comprese  le  colonie  latine,  era  inferiore, 
ma  non  di  molto,  a  quello  dello  Stato  romano  "propriamente  detto, 
e  saliva  forse  ad  un  5000  km^  (3)  ;  era  i3erò  assai  meno  densa- 
mente popolato,  perchè  lo  Stato  romano  comprendeva  due  delle 
città  più  popolose  dell'Italia  d'allora,  Roma  e  Capua,  e  una  buona 
parte  della  fertile  Terra  di  Lavoro,  mentre  gii  alleati  abitavano 
in  generale  nell'interno,  dove  la  scarsezza   d'industrie  e  di  coni- 


ci) Circa  di  .3500  km'  la  prima,  di  2500  la  seconda. 

(2)  Sulla  distribuzione  del  bottino  e  dei  territori  confiscati  tra  cittadini  e 
soci,  V.  al  e.  XXII. 

(3)  Questa  cifra  è  incerta  poiché  non  sappiamo  bene  in  quale  misura  fos- 
sero entrati  nell'alleanza  romana  i  popoli  che  abitavano  verso  l'Appennino. 
È  da  supporre  che  vi  avessero  acceduto  gli  Equi  che  la  nostra  tradizione  non 
ricorda  più  dal  389  al  804;  avevano  inoltre  chiesto  l'alleanza  romana  nel  330 
i  Fabraterni,  e  nel  328  era  stata  fondata  la  colonia  latina  di  Fregelle  (v.  cap. 
seguente). 

G.  De  San(;tis,  storia  dei  Romani,  II.  19 


290  CAPO  xvni  -  la  dissoluzione  della  lega  latina 

merci  impediva  il  formarsi  d'una  densa  popolazione.  Un  censimento 
appartenenente  a  questa  età  fa  salire  a  150  mila  il  numero  dei 
cittadini  romani  atti  alle  armi  (1),  il  che  presuppone  una  popola- 
zione cittadina  totale  di  quasi  mezzo  milione.  Sommativi  i  pochi 
schiavi  e  stranieri  e  gli  alleati,  non  ci  allontaneremo  dal  vero  de- 
terminando a  sette  od  ottocento  mila  abitanti  la  intera  popola- 
zione del  territorio  dominato  direttamente  o  indii-ettamente  dai 
Romani.  Lo  Stato  romano  era  cosi  divenuto  per  estensione  uno 
dei  primi  e  per  popolazione  il  primo  tra  gli  Stati  italiani  ;  talché 
si  appressava  il  momento  in  cui  Roma  non  avrebbe  avuto  più  in 
mano  i  fati  soltanto  dell'Italia  centrale,  ma  quelli  di  tutta  Italia. 


(l)  Lrv.  IX  19  (a  proposito  della  età  di  Alessandro  Magno):  censehantur  eius 
aetatis  lustris  ducena  quinquagena  millia  capittim.  Plut.  de  fortìina  Eomanormn 
13  parlando  dei  Romani  della  stessa  età  :  irXtìeoq  |nèv  yàp  fjaav  outoi  xpiaKOibeKa 
inupidòujv  oÙK  è\aTTOu^.  Cfr.  Oeos.  V  22,  2,  il  quale  dice  che  nella  guerra  so- 
ciale e  nella  prima  civile  perirono  più  di  150  mila  Romani,  quanti  ne  regi- 
strava il  censo  al  tempo  di  Alessandro  Magno.  Sembra  che  i  tre  scrittori  si 
riferiscano  ad  uno  stesso  censimento.  Vi  è  però  nei  loro  testi  o  vi  era  in 
quelli  delle  loro  fonti  qualche  errore  di  cifra.  La  cifra  vera  delle  centinaia 
è  assicurata  dalla  concordia  di  Orosio  e  Plutarco,  quella  delle  decine  dalla 
concordia  di  Orosio  e  Livio  (in  Plutarco  IT  è  da  correggere  in  lE).  Il  numero 
non  appar  punto  esagerato.  Questo  è  il  primo  censimento  romano  su  cui  ab» 
bÌRmo  dati  degni  di  fede,  cfr.  Beloch   Bevolkerung  I  341  seg. 


»    «♦* — — 


CAPO  XIX. 


La  lotta  tra  Oschi  e  Latini  per  l'egemonia  (1). 


Frattanto  sui  Greci  dell'Italia  meridionale  continuavano  a  gra- 
vare le  vicine  stirpi  italiche  e  iapigie:  tanto  più  liberamente  in 
quanto  l' anarchia,  in  cui  dopo  lo  sbarco   di  Dione  erano  caduti  i 


(1)  La  seconda  guerra  sannitica  è  narrata  con  molti  particolari  da  Liv. 
Vili  22  -  IX;  col  318  cominciano  i  cenni  sommari  di  Diodoro  lib.  XIX  e  XX. 
Poco  si  trova  nei  frammenti  di  Dionisio  lib.  XV  e  XVI,  di  Appiano  Samn.  4 
e  di  Cassio  Dione  (fr.  36,  cfr.  Zon.  VII  26  -  Vili  1).  Relativamente  scevro  di 
falsificazioni  annalistiche  è  il  racconto  di  Diodoro;  abbondano  queste  invece 
in  Livio,  il  quale,  pur  riferendo  tal  quale  ciò  che  legge,  o  anzi  rivestendolo 
coi  lenocinì  dell'arte,  non  se  ne  nasconde  il  poco  valore  storico,  v.  Vili  40  • 
nec  facile  est  aut  rem  rei  aut  auctorem  auctori  praeferre.  vitiatam  memoriam  fune- 
bribus  landibus  reor  falsisque  imaginum  titulis  dum  familiae  ad  se  qiiaeque  famam 
rerum  gestarum  honorumque  fallenti  mendacio  trahunf.  inde  certe  et  singuloriim 
gesta  et  piiblica  monumenta  rerum  confusa  :  nec  quisquam  aequnlis  temporibus 
illis  scriptor  extat  quo  satis  certo  auctore  stetur.  Dei  moderni  è  sempre  da  con- 
sultare NiEBUHR  III  214  segg.  V.  anche  Burger  De  bello  cum  Samnitibus  secando 
(Harlemi  1884  diss.).  Der  Kampf  zwischen  Rom  und  Samnium  bis  zum  vollstan- 
digen  Siege  Roms  (Amsterdam  1898).  Binneboessel  Untersuchungen  iiber  Quellen 
und  Geschichte  des  zweiten  Samniterkrieges  (Halle  a.  S.  1893  diss.).  Kaerst  Krit. 
Untersuchungen  zur  Geschichte  des  zw.  Samniterkrieges  negli  '  Jahrbb.  f.  Phil.  ' 
Supplbd.  XII  (1884)  p.  725  segg.  Utile  come  riassunto  è  Pirro  La  seconda  guerra 
sannitica  (I.  II.  III.  Salerno  1898).  Qualche  buona  osservazione  si  trova  qua  e 
là  in  Pais  II  2,  375  segg. 


292      CAPO    XIX  -  LA    LOTTA    TRA   OSCHI   E    LATINI    PER    L  EGEMONIA 


Sicelioti,  impedì  che  per  molti  anni  potessero  recare  qualsiasi  aiuto 
ai  loro  connazionali  oltre  il  Faro.  Onde  i  Tarentini  stretti  dai 
Lucani  e  dai  Messapì  si  rivolsero  per  soccorsi  a  Sparta,  poco  tempo 
dopo  che  Tintervento  corinzio  per  %drtù  di  Timoleonte  (345/4)  aveva 
salvato  Siracusa  dalla  rovina.  E  Sparta  inviò  re  Archidamo,  il 
figlio  d'Agesilao,  alla  cui  attività  e  airesi^erienza  di  guerra  scarso 
campo  offriva  la  Grecia,  distrutta  senza  speranza  di  risorgimento, 
regemonia  spartana.  Ma  dopo  un  cinque  anni  di  lotte,  Archidamo, 
che  aveva  raccolto  un  corpo  di  mercenari  tra  i  reduci  della  guerra 
sacra,  cadde  combattendo  a  Manduria  nella  penisola  sallentina, 
Tanno  o  persino,  come  si  pretese,  il  giorno  stesso  in  cui  Filippo 
\nnse  gli  Ateniesi  a  Cheronea  (338)  (1).  Dei  successi  da  lui  otte- 
nuti non  abbiamo  idea  cliiara  ne  ci  è  dato  sapere  se  le  sue  im- 
prese abbiano  a^alto  un  contraccolpo  nell'Italia  centrale,  per  quanto 
possa  darsi  che,  solo  dopo  liberati  dal  timore  delle  sue  armi,  i 
Sanniti  abbiano  i3ensato  ad  intervenire  in  Campania  (2). 

Senonchè  presto  sorse  per  gli  Italici  del  mezzogiorno  un  ne- 
mico assai  x>iù  terribile  di  Archidamo.  Dopo  la  morte  del  re  spar- 
tano i  Tarentini  non  eran  più  riusciti  ad  arrestai-e  i  progressi  dei 
Lucani,  tanto  che  la  stessa  Eraclea,  la  sede  del  congresso  delle 
città  italiote,  era  caduta  nelle  mani  degl'indigeni  (3).  Cosi  Taranto, 
ridotta  ad  invocare  novamente  soccorso,  si  rivolse  al  re  Ales- 
sandro d'Epiro,  lo  zio  materno  d'Alessandro  Magno.  Per  tal  modo 
mentre  il  re  di  Macedonia  si  apparecchiava  a  fondare  un  impero 
ellenico  nell'Oriente,  il  re  d'Epii-o  con  non  minori  speranze  sbarcava 
a  Taranto  (4).  Era  Alessandro  un  valente  guerriero  della  scuola 


(1)  DioD.  XVI  82,  4.  88,  3.  Theop.  fr.  259-260.  Pj.ut.  Acpsd:  'ApxiòaiLio.;  ó  uepl 
Mavòóviov  xf\e^  'iTaXiaq  ùtrò  MeaaaTriiuv  ànoSaviiv.  La  correzione  in  Mavbùpiov 
(o  forse  meglio  Mavòópiov)  è  giustificata  appunto  da  quel  passo  di  Plinio  n.  h. 
Ili  98  con  cui  Beloch  Gr.  G.  Il  593  vorrebbe  combatterla:  Mardoniam  {con: 
Mnndoriam)  Lucanorum  iirhem  fuìsse  Theopompus  (auctor  est)  in  qua  Alexander 
Kpirotes  occubuerit,  dove  Plinio  cita  Teopompo  a  memoria  confondendo  Archi- 
damo  con  Alessandro ,  e  pei'ciò  appunto  parlando  erroneamente  dei  Lucani. 
Cfr.  Pais  1  2  p.  490  n. 

(2)  L'intervento  sannitico  in  Campania,  che  provocò  alla  sua  volta  l'inter- 
vento romano,  spetta,  secondo  i  fasti,  al  343  av.  Cr.  Ma  le  date  dei  fasti  anti- 
cipano per  questo  periodo  di  circa  cinque  anni  (cfr.  I  p.  14).  Verremmo  dunque 
approssimativamente  al  338. 

(3)  Ciò  risulta  dal  passo  di  Livio  citato  a  p.  293  n.  3. 

:4i  Sulla  .sua  spedizione  v.  soprattutto  Liv.  1.  e.  e  Iustin.  Xll  2. 


SPEDIZIONI   DI   ARCHIDAMO   E    DI   ALESSANDRO   IL    MOLOSSO         293 

di  Filippo  il  Macedone,  alla  cui  corte  era  stato  educato;  e  aveva 
su  Arcliidamo  il  vantaggio  che  il  suo  regno,  assai  più  vicino  alla 
penisola,  ijoteva  fornirlo  con  maggior  copia  e  più  agevolmente  di 
soldati  e  di  mezzi.  E  gli  effetti  parvero  corrispondere  all'asi^etta- 
zione:  perchè,  iniziata  la  guerra  con  una  campagna  vittoriosa  contro 
gli  Iapigi,  si  avanzò  Alessandi'O  fin  presso  Arpi  e  riusci  ad  occu- 
parne persino  il  porto,  Siponto.  Dopo  di  che  egli  s'  accordò  con 
gli  Iapigi,  anzi  con  parte  di  essi,  i  Pediculi  o  Peucezì,  strinse  al- 
leanza contro  il  comune  nemico,  le  stirpi  sabelliche  (1).  Infatti  dal 
nord  nel  paese  dei  Daunì  erano  penetrati  forse  non  molto  prima 
i  Sanniti,  e  mentre  i  Danni  continuavano,  da  Arpi,  a  dominare 
la  parte  maggiore  del  Tavoliere  di  Puglia,  avevano  occupato 
Teano  e  la  regione  delle  Murgie  a  nord  dell'Aufido  fino  ad  Ascoli 
Apulo  (2).  Ed  ora  contro  i  Grreci  sostenuti  dagli  Iapigi  fecero 
causa  comune  le  tribù  sabelliche,  dimentiche  delle  loro  rivalità, 
dalla  Sila  al  Sangro.  Tuttavia  Alessandi'O  riusci  a  strappare  ai 
Lucani  Eraclea,  ai  Bruzì  Terina,  e  persino  la  loro  capitale  fede- 
rale Consenzia  (3),  e  forse  nella  speranza  d'instaui-are  Tellenismo 
a  Posidonia,  inoltratosi  fino  al  Silaro,  ruppe  colà  in  battaglia  Lu- 
cani e  Sanniti.  Erano    gli    anni  in  cui  i  Romani,  vinti  i  Latini  e 


(1)  lusTix.  XII  2,  i-i:  Priinton  UH  hellum  ciiin  Apulis  fuif...  brevi  post  tem- 
pore pacem  et  amicitiam  cum  rege  eorum  fecit.  Cfr.  2,  12:  ciim  Mefapontinis  et 
Poediculis  et  Romanis  foedus  amicitiamque  fecit. 

(2)  Cfr.  MoMMSEN  Die  unteritaliscJten  Dialekte  p.  103.  Sui  Daunì  e  sulla  loro 
nazionalità  iapigia  v.  I  p.  163  segg.  S'intende  che  non  si  può  escludere  che 
anche  ad  Arpi  si  fossero  infiltrati  elementi  oschi,  ma  non  abbiamo  diritto  di 
farne  una  città  sannitica  col  Pais  (Storia  della  Sicilia  I  374),  il  quale  fraintende 
nel  modo  più  singolare  Liv.  IX  13. 

(3)  Liv.  Vili  24,  4  :  cum  saepe  Bruttias  Lucanasqae  legiones  fudisset,  Heracleam 
Tarentinorum  coloniam  Consentiam  ex  Lucanis  Siponttimque  Bruttiorum  ac  Te- 
rinatn,  alias  inde  Messapioriim  ac  Lucanoriim  cepisset  tirbes  etc.  Questo  passo, 
che  è  stato  tormentato  variamente  dai  critici,  può  sanarsi  con  due  semplici 
trasposizioni  :  Heracleam  Tarentinorum  coloniam  ex  Lucanis,  Consentiam  Sipon- 
tumque  ac  Terinam,  alias  inde  Bruttiorum  M.  ac  L.  cepisset  urhes.  Beloch  Gr.  G. 
II  595  crede  che  Alessandro  abbia  conquistato  Eraclea  sui  Tai'entini  ;  ma  è 
ipotesi  arbitraria  :  prima  perchè  non  sappiamo  che  egli  abbia  fatto  guerra  con 
Taranto,  anzi  ciò  sembra  escluso  da  Stkab.  VI  p.  280,  poi  perchè  se  avesse 
posseduto  Eraclea  (che  invece  tolse  ai  Lucani  solo  per  restituirla  ai  coloni 
Tarentini)  non  avrebbe  punto  pensato  a  trasferire  altrove  il  congresso  federale 
delle  città  italiche. 


294      CAPO   XIX  -  LA    LOTTA    TKA    OSCHI   E   LATINI   PER   l'eGEMONIA 

i  Campani  a  Trifano  (1),  consolidavano  novamente  la  loro  antorità 
nella  Campania;  ed  era  perciò  natm^ale  che  Romani  e  Greci,  av- 
versi del  pari  ai  Sanniti,  stringessero  alleanza.  Ma  quest'alleanza 
non  giovò  in  realtà  che  ai  Romani,  i  qnali  poterono  indisturbati 
pro\^edere  all'  assetto  dei  territori  occupati  nella  guerra  latina, 
mentre  Alessandi'O  teneva  a  bada  i  Sanniti  nell'Italia  meridionale. 
Ad  ogni  modo  i  G-reci  non  eran  mai  penetrati  vittoriosamente 
cosi  innanzi  come  a  lui  riusci  nell'interno  della  penisola.  Senonchè 
(juesto  appunto  ridestò  nei  Tarentini,  che  cominciavano  a  temere 
neiralleato  di  oggi  il  padrone  di  domani,  l'indomabile  sentimento 
particolaristico  ch'era  il  cancro  della  nazione  ellenica.  Allora  il  re 
cominciò  a  trovarsi  in  condizioni  difficili,  poiché  l'alleanza  fedele 
di  Turi  e  di  Metapontio  e  gli  aiuti  del  re  dei  Peucezì  e  degli 
esuli  lucani  non  erano  in  realtà  di  gTande  miomento,  e  sui  Romani, 
distanti  e  usi  ad  occultarsi  dei  propri  interessi  più  che  dei  casi 
altrui,  era  poco  da  contare.  Restavano  i  suoi  Epiroti;  ma  le  rela- 
zioni incerte  coi  Tarentini  fecero  che,  non  più  assistito  da  essi 
di  navi  e  di  denaro,  gli  tornasse  assai  meno  agevole  trasportare 
in  Italia  altre  milizie.  Il  tentativo  che  fece  allora  Alessandro  per 
meglio  assicm-arsi  Taiuto  degli  Italioti,  di  trasferire  il  centro  della 
loro  lega  da  Eraclea,  dove  i  delegati  rischiavano  di  subir  troj)po 
rinfluenza  tarentina,  nel  territorio  della  fedele  Turi  (2),  non  valse 
che  ad  alienargli  maggiormente  i  Tarentini.  Di  che  ripresero 
animo  Lucani  e  Bruzì,  e,  riguadagnato  terreno,  sulla  fine  del  331 
o  al  princix3Ìo  del  330  sorpresero  il  re  che,  probabilmente  per  im- 
pedù"e  che  i  due  xDopoli  potessero  congiungere  le  loro  forze,  pren- 
deva i  suoi  quartieri  d'inverno  a  Pandosia  nella  valle  del  Crati. 
Le  pioggie  invernali  avevano  fatto  gonfiare  i  rigagnoli  che  sej)a- 
ravano  i  vari  accampamenti  delle  sue  truppe,  sicché  venne  fatto 
agli  indigeni  di  assalire  e  di  opprimere  separatamente  i  diversi 
riparti  epiroti.  Cadde  anche  Alessandro  nella  ritirata,  e  gli  alleati 
lioterono  soltanto  riscattarne  il  corpo,  che  fu  sepolto  in  Epiro  (3). 


(1)  La  battaglia  di  Trifano  spetta,  secondo  i  fasti,  al  340  av.  Cr.  Va  quindi 
riferita  al  334  circa  (questa  riduzione  è  data  secondo  la  tabella  del  Holzapfei. 
Rdm.  Chronol.  p.  106,  v.  I  p.  16  n.  1).  La  battaglia  di  Posidonia  non  può  esser 
molto  posteriore. 

(2)  Stiuiì.  vi  280. 

1,3)  Livio  (Vili  3,  6.  17,  9.  24)  ricorda  lo  sbarco  di  Alessandro  in  Italia  al  341 
(  335),  la  battaglia  di  Posidonia  nel  332  (=  328/7).  la  morte  di  Alessandro  al 
:;28  0  al  327,  secondo  il  senso  che  si  dà  a  eodem  anno  Vili  24,  1  (=  324 '3  o  323/2). 
Che  queste  date  siano  contraddittorie  tra  loro  e  attinte  a  diverse  fonti  non  è 


SPEDIZIONI  DI   ARCHIDAMO   E    DI   ALESSANDRO   IL   MOLOSSO        295 

Cosi  nel  momento  che  si  apriva  tra  Romani  e  Sanniti  quella 
guerra  da  cui  doveva  dipendere  l'avvenire  d'Italia,  il  particola- 
rismo greco  aveva  fatto  fallire  una  impresa  clie  avi'ebbe  potuto 
metter  gli  Italioti  in  grado  d'intervenire  efficacemente  in  una  lotta 
alle  cui  sorti  era  legata  la  loro.  Ma  non  del  tutto  inutile  rimase 
l'opera  di  Alessandro:  per  qualclie  anno  cessò  infatti  il  regresso 
dell'ellenismo  in  Italia,  anzi  i  Tarentini,  alleati  con  gli  Iapigi  che 
si  erano  reso  ragione  della  conformità  dei  loro  interessi  con  quelli 
dei  Grreci,  lottarono  efficacemente  contro  i  Lucani  a  difesa  di 
Eraclea  (1). 

Ad  occidente  dello  spartiacque  tra  il  Tirreno  e  l'Adriatico, 
dov'esso  separa  i  bacini  del  Sangro  e  del  Liri,  i  Sanniti  si  erano 
avanzati  a  poco  a  poco  in  quella  regione  che  dovette  essere  la 
culla  del  popolo  volsco,  occupando  Atina  (2)  nel  bacino  del  Melpi, 
Casino  più  a  sud  (3),  probabilmente  anche  ad  ovest  Sora  sul 
Liri  (4)  ed  Arpino  a  sinistra  (5),  Satrico  a  destra  (6)  di  quel  fiume; 


ohi  non  veda;  perchè  Alessandro  venne  in  Italia  nel  336-333  e  morì  nell'in- 
verno 331/0  (come  si  ricava  da  Aesch.  c.  Ctesiph.  242).  Tra  esse  la  sola  da 
non  trascurarsi  è  la  prima.  Purtroppo  non  ci  è  dato  sapere  se  il  sincronismo 
tra  lo  sbarco  d'Alessandro  e  la  fine  della  prima  sannitica  sia  dovuto  a  fonte 
greca.  La  cronica  di  Oxyrhynchos,  che  però  per  la  precisione  delle  date  lascia 
alquanto  a  desiderare,  nota  alla  ol.  Ili,  3  (334/3):  tòte  KJal  'AXéSavbpJo;  ó 
MoXoffoòt;  [eie;  'iTaXiav  bijépri  3orieri(Jat[v  to\c,  èKet]  "EXXrjOi.  —  Sulla  sua  morte 
v.  Idstin.  Liv,  1.  e.  Strab.  vi  256. 

(1)  Qui  sembra  da  riferire  Strab.  VI  281  :  irpòi;  òè  MeoaaTriout;  (nominati  per 
equivoco  in 'cambio  dei  Lucani)  i-no\i\xr\aav  Ttepl  'HpaKXeiaq  Èxovxec;  auvepYOÙc; 
TÓv  xe  TUJv  Aauviujv  koI  tòv  tùiv  TTeuKeTituv  PaaiXéa.  Cfr.  il  passo  di  Giustino 
citato  s.  p.  293  n.  1  sul  rex  Apuìorum. 

(2)  Occupata  dai  Romani  nel  313  secondo  Liv.  IX  28  (v.  olti-e);  faceva  parte 
del  Sannio  nel  293  (Liv.  X  39,  5). 

(3)  Posseduta  dai  Sanniti  secondo  Varr.  de  l.  l.  VII  29. 

(4)  La  presa  di  Sora  nel  345  è  una  favola  (sopra  p.  266  n.  3).  Essa  non 
cadde  in  mano  dei  Romani  che  nel  314  ijer  essere  tosto  dopo  riperduta  e 
ripresa. 

(5)  Nella  tradizione  Arpino  passava  come  originariamente  volsca,  il  che  per- 
mise agli  ammiratori  di  Cicerone  di  dargli  per  progenitori  i  re  volsci  (Plut. 
Cic.  1.  SiL.  It.  Pun.  Vili  404  etc).  Ma  nel  305  fu  conquistata  sui  Sanniti 
(DioD.  XX  90.  Liv.  IX  44,  16). 

(6)  Fu  occupata  dai  Romani  durante  la  guerra  latina.  È  possibile  che  i  Sa- 
tricani  siano  la  pars  Samnitium  che  secondo  Velleio  I  14  ricevette  la  cittadi- 
nanza nel  334  (v.  sopra  p.  286  n.  2). 


296      CAPO   XIX  -  LA   LOTTA   TKA   OSCHI   E    LATINI    PER   l'eGEMONIA 

finalmente  avevano  distrutto  la  volsca  Fregelle  che  dominava  il 
confluente  del  Liri  e  del  Sacco  (1).  Ma  ora  aiiclie  i  Romani  do- 
vevano provvedere  ad  aprirsi  lungo  il  corso  del  Sacco  e  del  Liri 
una  \àa  verso  il  paese  degli  Aui'unci  e  il  salto  Vescino,  che  assi- 
cm"asse  le  comunicazioni  con  la  Campania  quando  per  qualsiasi 
ragione  non  si  potesse  seguire  la  direzione  della  posteriore  via 
Appia,  togliendo  ad  un  tempo  ai  Sanniti  la  opportunità  di  penetrare 
da  quella  parte  nel  Lazio.  E  cosi  dopo  esser  riusciti  già  durante 
la  guerra  latina  con  trattati  o  con  minacele  a  far  ijassare  da  quella 
parte  le  legioni,  negli  anni  seguenti  incorporarono  nel  loro  teri'i- 
torio  Satrico  (2),  strinsero  alleanza  coi  Fabraterni  (3),  riedificarono 
come  colonia  Fregelle  (4),  la  eguale  divenne  insieme  con  Cales  uno 
degli  estremi  avamposti  dello  Stato  romano. 


(1)  Liv.  Vili  23,  6  :  ceterum  non  posse  dissimulare  aegre  pati  civitatem  Sani- 
tiitium  quod  Fregellas  ex  Volscis  captas  diridasque  ab  se  restitiierit  Romanus 
populus  coloniamque  in  Samnitium  agro  im])Osuerint  quam  coloni  eorum  Fregellas 
appellent.  Dionys.  XV  8,  5. 

(2)  Cfr.  n.  6  a  pag.  prec.  I  Satricani  defezionarono  ai  Sanniti  dopo  la  rotta 
di  Gaudio  (Liv.  IX  12,  5  ad  a.  320)  e  furono  risottomessi  poco  dopo  (IX  16 
ad  a.  319)  e  severamente  puniti  (XXVI  33,  10).  Si  conservava  persino  la  rota- 
zione del  tribuno  Antistio  che  dava  al  senato  facoltà  di  determinare  la  loro 
sorte.  Questa  città  di  Satrico,  da  non  confondersi  con  la  omonima  presso 
Anzio,  sussisteva  tuttora  come  villagio  al  tempo  di  Cicerone  {ad  Q.  fr.  Ili  1,  4). 
V.  NissEN  Landesktinde  II  674. 

(3)  Liv.  VIII  19,  1  (a.  330):  legati  ex  Volscis  Fabraterni  et  Lucani  Romani 
venerimi  orantes  ut  in  fidem  reciperentur.  Che  non  possano  essersi  alleati  a 
Roma  allora  i  Lucani  d'oltre  il  Silaro  è  evidente.  Al  326  è  detto,  ed  anche 
qui  la  cosa  non  merita  in  tutto  fede  :  Lucani  atque  Apuli  quibus  gentìbus 
nihil  ad  eam  diem  cuni  Romano  populo  fuerat  in  fidem  venerunt  (VIII  25,  8). 
Nel  primo  caso,  meglio  che  prendere  i  Lucani  per  gli  abitanti  di  una  obli- 
terata Luca  nella  valle  del  Liri,  convien  ritenere  che  si  tratti  di  una  di  quelle 
reduplicazioni  a  distanza  di  pochi  anni  di  cui  abbiamo  veduto  abbondare  gli 
esempì. 

(4)  Cfr.  sopra  n.  1.  Liv.  Vili  22,  1  ad  a.  328:  Fregellas  (Segninorum  ager, 
deinde  Volscorum  fuerat)  colonia  deducta.  La  lezione  Segninorum,  che  è  proba- 
bilmente una  congettura  antica,  dacché  il  cod.  mediceo  ha  S...normn,  non 
pare  accettabile.  Signia  non  ci  è  nota  che  come  colonia  latina  ed  è  impossi- 
bile che  il  suo  territorio  si  sia  esteso  fin  là.  La  congettura  Sidicinorum  difesa 
dal  Pais,  che  la  prendo  a  torto  per  una  lezione  dei  codici  {l  2,  211),  è  da 
respingersi;  troppo  arbitraria  l'altra  Hernicoruni.  Pare  evidente  che  debba 
leggersi  Soranorum.  Cfr.  Sxkimi.  Byz.  s.  v.  Op^YC^^a  '  iróXii;  'iTaXiaq  y\  tò  juèv 
f'tpxaiov  f^v  "OiTiKiùv,  ?iTeiTa  OùoXouokujv  tyéveTO. 


ASSEDIO    DI    NAPOLI  297 


Stabilitisi  saldamente  sul  Liri,  i  Romani  divisarono  di  proce- 
dere innanzi  nella  Campania,  dove  prima  di  tutto  importava  as- 
sicui'arsi  di  Napoli,  remporio  del  commercio  greco  nell'Italia  cen- 
trale. Pretesti  per  assalirla  ai  Romani  non  potevano  mancare  ;  ma 
clie  i  Napoletani,  come  asserisce  la  nostra  tradizione,  si  arrischias- 
sero a  far  depredazioni  nell'agro  campano,  consci  come  dovevano 
essere  della  propria  debolezza,  par  molto  difficile  ad  ammettersi. 
Piuttosto  è  da  credere  che  i  Napoletani  pensassero  in  quel  mezzo 
di  prox^edere  alla  propria  sicurezza  stringendo  alleanza  coi  San- 
niti o  rinnovandola  se  già  l'avevano  conclusa;  perchè  l'esempio 
di  Capua  ridotta  in  pochi  anni  a  comune  dello  Stato  romano  non 
era  tale  da  affidarli  troppo  dell'avvenire.  Ma  probabilmente  questa 
alleanza  per  l'ajDpunto  provocò  l'intervento  dei  Romani,  che  vi- 
dero per  essa  riaperte  le  porte  della  Campania  ai  Sanniti  e  messi 
in  pericolo  i  loro  acquisti  recenti.  Ad  ogni  modo  nel  327  al 
console  Q.  Pubblio  Filone  fu  commesso  l'assedio  di  Napoli.  Di 
quest'assedio  rimangono,  tra  le  consuete  invenzioni  o  false  indu- 
zioni deir annalistica  romana,  alcuni  particolari  che  hanno  ogni 
apparenza  di  veridicità,  derivanti  da  fonti  greche  (1).  Cosi  non 
è  da  revocare  in  dubbio  che  i  vicini  Nolani  inviassero  duemila 
soldati  in  aiuto  dei  Napoletani  (2),  e  che  inoltre  fossero  stix)en- 
diati  dai  (.Ireci  quattromila  mercenari  sanniti:  dove  la  stessa  mo- 
derazione delle  cifre  ne  guarentisce  l'autenticità.  Ad  ogni  modo 
l'ingegneria  militare  dei  Romani  non  era  tanto  progredita  da  met- 
terli in  grado  di  battere  efficacemente  le  mura  d'una  città  forte 
come  Na^joli,  che  sconsigliarono  anche  Annibale  da  un  assalto  (3;. 
L'assedio  andava  in  lungo,  e  convenne  prorogare  il  comando  a 
Pubblio  Filone  che  l'aveva  iniziato,  per  non  danneggiare  con  un 
cambiamento  di  capitano  non  tanto  forse  i  progressi  dell'  azione 
militare,  quanto  quelli  delle  trattative  segrete  da  lui  condotte  coi 
Greci  ;  e  per  la  prima  volta  un  console  conservò  il  potere  in  qua- 


(1)  L'efficacia  di  fonti  greche  appare  innegabile.  E  del  resto  conviene  o 
ammetter  queste  fonti  o  negare  ogni  fede  alla  esistenza  di  Carilao  e  di  Ninfio, 
ai  2000  Nolani  e  4000  Sanniti  venuti  in  aiuto,  perchè  di  tutto  ciò  non  si 
poteva  conservare  alcuna  memoria  nei  documenti  romani.  Stupisce  che  ciò 
non  abbia  veduto  p.  es.  Beloch  Campanie»  p.  32  seg. 

(2j  Le  relazioni  tra  Napoli  e  Nola  nel  IV  secolo  sono  confermate  dalle  mo- 
nete, cfr.  Sambon  Monnaies  de  l'Italie  I   176  seg. 

(8)  Liv.  XXllI  1,  10:  ab  urbe  oppiignanda  Foenitin  abaterrnere  conspecta  moenia 
haudquaquam  proiiipta  oppiiynanti. 


298      CAPO   XIX  -  LA    LOTTA   TRA   OSCHI  E    LATINI   PER   l'eGEMONIA 

lità  di  proconsole  oltre  i  [termini  del  suo  anno  di  carica  (1).  Im- 
l^adronirsi  senza  navi  d'una  città  marittima  è  impresa  non  facile  ; 
onde  non  v'ha  dubbio  che  i  Napoletani  a\a^ebbero  potuto  resistere 
indefinitamente.  Senonchè  dopo  un  anno  cominciarono  a  essere 
stanchi.  Forzare  per  terra  le  linee  degli  assedianti  era  impossi- 
bile; e  per  quanto  il  blocco  potesse  essere  imperfetto  (Pubblio 
Filone  difficilmente  avrà  avuto  a'  suoi  ordini  più  di  una  legione 
romana  con  l'usuale  contingente  d'alleati  ossia  otto  o  nove  mila 
uomini),  bastava  però  a  chiudere  ogni  via  al  commercio  di  Napoli 
coll'interno  del  paese.  Rischiava  cosi  d'inaridire  la  fonte  della  ric- 
chezza dei  commercianti  napoletani;  né  lieve  era  per  essi  frat- 
tanto il  xDeso  della  guerra,  pur  limitata  alle  sole  difese:  giacché 
prescindendo  dalla  milizia  cittadina,  che  non  sarà  restata  inope- 
rosa, conveniva  stipendiare  e  nutrire  a  spese  pubbliche  gli  alleati 
nolani  e  i  mercenari  sanniti;  né  ridurre  il  i)residio  era  prudente: 
perchè  ammesso  pm-  che  Nolani  e' Sanniti  si  fossero. lasciati  licen- 
ziare senza  difficoltà,  si  correva  il  pericolo  di  qualche  spiacevole 
sorpresa  per  parte  del  vigile  nemico  sempre  pronto  a  profittare 
della  negligenza  o  della  stanchezza  dei  difensori.  Taranto,  secondo 
si  narra,  aveva  fatto  sperare  soccorsi  ai  Napoletani  (2)  ;  ma,  se 
anche  é  vero,  i  soccorsi  tarentini  sarebbero  stati  inutili.  Qualche  cen- 
tinaio di  soldati  in  più  non  poteva  mettere  i  Napoletani  in  grado 
di  cimentarsi  in  [campo  aperto  con  la  legione  di  Pubblio;  mentre 
per  tenersi  sulla  difensiva,  il  presidio  che  si  trovava  in  Napoli  si 
era  col  fatto  dimostrato  sufficiente.  Se  xDur  con  l'aiuto  di  un  paio  di 
triremi  tarentine  si  poteva  esercitar  meglio  la  pii'ateria  sulle  coste 
laziali,  non  era  da  sperarsi  che  mutassero  perciò  le  sorti  della 
guerra.  Del  resto  è  molto  dubbio  se  i  Tarentini  pensarono  mai  di 
mandare  a  Napoli  milizie  o  navi  ausiliarie"  che  avrebbero  avuto 
tutto  il  tempo  di  spedire;  perchè  Napoli  era  solidale  coi  Sanniti 


(1)  Liv.  Vili  23,  12.  26,  7,  cfr.  f.  tr.  ad  a.  326.  Pel  P.us,  il  quale  però  non 
dà  alcuna  ragione,  la  proroga  àeWimperium  ed  il  primo  proconsolato  di  Pu- 
blilio  Filone  '  rispecchiano  condizioni  storiche  di  età  assai  posteriore  '  (I  2, 
p.  490  seg.).  Ora  è  certo  che  nel  280  il  proconsolato  già  esisteva  avendo  in 
quell'anno  L.  Emilio  Barbula  trionfato  come  proconsole  de  Tarentineia  Sam- 
nitibus  et  Sallentineis  VI  idiifi  Qiiint.  (Fasti  trionfali;  sulla  attendibilità  della 
data  V.  oltre  e.  XXI).  È  quindi  da  ritenere  che  il  proconsolato  sia  stato  isti- 
tuito appunto  nella  prima  grande  gueri-a  che  i  Romani  avevano  avuto  da  so- 
.stenere  lungi  da  casa  propria,  ossia  nella  seconda  sannitica. 

(•2)  DioNvs.  XV  5,  2.  Liv.  Vili  25,  7. 


ASSEDIO   DI   NAPOLI  299 


mentre  non  era  ancora  venuto  il  momento  che  Sanniti  e  Tarentini, 
dimentielii  delle  loro  rivalità,  si  disponessero  a  stringersi  insieme 
contro  Roma  per  la  salvezza  comnne,  e  gli  accenni  ad  avversione 
dei  Tarentini  contro  Roma  in  questi  anni  non  son  forse  che  auto- 
schediasmi  di  qualche  annalista  il  quale  anticipa  la  posteriore  osti- 
lità tra  Roma  e  Taranto. 

I  Sanniti  frattanto  avevano  preso  le  armi  e  non  nascondevano 
il  loro  proposito  di  recare  aiuto  ai  Napoletani  (1)  ;  ma  una  legione 
romana  accampata  tra  Atella  e  Suessula  era  sufficiente  per  chiu- 
dere loro  la  via  della  Campania ,  dacché  essi  non  s' inducevano 
ad  affrontare  in  campo  aperto  i  Romani  dopo  le  prove  di  Sues- 
sula e  del  Graiu-o.  Del  resto  una  guerra  dei  Romani  con  una  città 
alleata  dei  Sanniti  e  da  essi  presidiata  non  implicava  necessaria- 
mente dal  punto  di  vista  giuridico  una  guerra  tra  Romani  e  San- 
niti. Ma  Ieraticamente  imjDortava  troppo  ai  Sanniti  di  conservarsi 
Talleanza  di  ISTai^oli  e  ai  Romani  d'acquistarsela,  perchè  non  si 
venisse  tra  i  due  popoli  a  guerra  i^alese,  come  di  fatto  accadde 
Tainio  seguente;  tanto  più  che  pretesti  o  motivi  di  guerra,  anche 
IDrescindendo  da  Napoli,  non  mancavano;  e  jdoco  rileva  di  sapere 
quale  dei  due  popoli  cominciasse  per  primo  apertamente  le  osti- 
lità. Certo  non  fm^ono  i  Sanniti,  bensì  i  Romani  che  presero  l'of- 
fensiva, da  Fregelle  senza  toccare  probabilmente  le  due  legioni 
che  stanziavano  in  Campania  movendo  con  un'altra  legione  lungo 
la  posteriore  via  Latina.  Qui  assicurate  con  roccuj)azione  di  Rufre 
le  commiicazioni  tra  Fregelle  e  Teano,  avanzando  x^iù  ad  oriente 
s'impadronii'ono  di  Allife,  importante  testa  di  ponte  al  di  là  del 
medio  Volturno  (2). 


(1)  Liv.  Vili  2-3,  13:  L.  Cornelio  (cos.  327),  quia  ne  eitm  qttidem  in  Samnitun 
iam  ingression  revocari  ab  impetx  belli  jìlacebat,  litterae  niissae  etc.  Poco  dopo 
in  piena  contraddizione  (25,  2):  novi  deinde  consules  (,a.  326)  iussu  popidi  cum 
misissent  qui  indicerent  Samnitfbus  hellum.  Vuol  dire  che  gli  annali  dei  pontefici 
davano  la  notizia  della  dichiarazione  di  guerra  al  326  :  l'assenza  di  L.  Cornelio 
è  stata  indotta  dal  dictator  creato  comitiorum  causa  e  dagli  inierreges  ;  e  l'in- 
duzione e  fondata,  pur  dovendosi  accogliere  con  la  riserva  fatta  nel  testo. 

(2)  Liv.  Vili  25,  4:  tria  oppida  in  potesfatein  venerunt,  Allifae  Callifae  Rufrium. 
Rufrium  o  Rufrae  va  cercata  presso  la  chiesa  di  S.  Felice  a  Rufo  (Presenzano) 
al  103"  miglio  della  via  Latina  (Nissen  li  2,  797).  Alife  conserva  tuttora  il 
nome  d' Allifae.  Callifae,  il  cui  nome  è  forse  corrotto,  non  è  menzionata  che  qui. 
Può  sorgere  il  dubbio  che  questa  presa  di  Allife  sia  una  anticipazione  di 
quella  che  avvenne  nel  310  (v.  oltre  p.  330  n.  1);  ma  forse  a  questo  dubbio 
non  e  da  dar  troppo  peso. 


300      CAPO   XrX  -  LA    LOTTA    TRA    OSCHI    E    LATINI    PER   L  EGEMONIA 

L'offensiva  dei  Romani  sui  confini  del  Saiinio  determinò  le 
sorti  di  Napoli.  I  Sanniti  avevano  avuto  tutto  il  tempo  di  speri- 
mentare le  loro  forze  contro  l'esercito  assediante;  se  non  s'erano 
arriscliiati  a  battaglia  avevano  con  ciò  stesso  riconosciuto  di  tenersi 
inferiori  in  campo  ai  Romani.  In  tali  condizioni  di  cose  i  Greci 
di  Napoli  avevano  ragione  di  pensare  clie  un  accordo  con  Roma 
valeva  meglio  della  continuazione  indeiìnita  di  uno  stato  di  guerra 
rovinoso  pei  loro  interessi  commerciali;  tanto  più  che  la  pace  si 
sarebbe  potuta  avere  a  buone  condizioni,  sapendo  bene  i  Romani 
che  se  a  Napoli  si  faceva  bene  la  guardia  alle  mui'a,  essi  non 
avrebbero  mai  potuto  prender  la  città  con  la  forza.  Forse  alla 
colonia  osca  di  Napoli  non  andava  a  grado  di  venire  a  x^atti  coi 
Romani,  ma  questo  alla  maggioranza  greca  non  importava  gran 
fatto;  anzi  può  darsi  benissimo  che  ai  Greci  di  Napoli  garbasse 
di  più  l'egemonia  di  Roma  che  l'intervento  dei  vicini  Nolani  nelle 
cose  loro.  E  quando  i  due  demarchi  napoletani  Carilao  e  Ninfio  (1) 
cominciarono  a  trattare  segretamente  con  Pubblio  Filone,  sape- 
vano di  agire  nell'interesse  e  secondo  il  desiderio  dei  loro  concit- 
tadini. Ma  la  difficoltà  delle  trattative  stava  nel  presidio  nolano 
e  nei  mercenari  sanniti,  i  quali  non  dovevano  vedere  di  buon 
occhio  un  accordo;  e  d'altra  parte  se  si  aprivano  le  porte  agli 
assedianti  e  si  lasciava  che  occupassero  una  parte  della  città,  sia 
pure  in  via  provvisoria,  conveniva  guarentirsi    bene  dal    pericolo 


(1)  L'autenticità  di  questi  nomi  è  provata  dalle  monete  napoletane  col  nome 
XapiXeuu  {Sambon  I  nr.  469),  sia  che  spettino  al  nostro  o  ad  un  altro  Carilao,  e 
da  nomi  come  quelli  del  generale  napoletano  Nuvi^ioq  di  Dionisio  II,  del  Nu|uvj;ioc 
ricordato  nella  iscrizione  di  Ischia,  K aibei.  IGS  et  I.  894  e  dell'altro  che  è  in 
un  titolo  napoletano,  Kaibel  726.  Da  Livio  vengono  chiamati  principes  civitatis. 
Non  può  trattarsi  però  di  privati,  perchè  se  un  tradimento  privato  avesse  dato 
Napoli  in  mano  dei  Romani,  la  città  non  avrebbe  davvero  ottenuto  il  vantato 
foedtts.  Si  ti-atta  dunque  di  magistrati  militari.  Ora  appunto  due  magistrati 
avevano  in  Napoli  il  comando  dell'esercito  come  mostra  la  citata  iscrizione 
d'Ischia:  rTÓKioq  NumjJiou  Mdio<;  TTaKÙXXou  fipEavxec;  (ìvé6r|Kav  tò  toixìov  kqì 
ot  OTpaTiuùxai.  Ed  è  da  ritenere  che  questi  duoviri  fossero  precisamente  i  de- 
marchi, che,  come  sappiamo,  erano  i  supremi  magistrati  di  Napoli.  Le  consi- 
derazioni precedenti  dimostrano  che  conviene  del  resto  attenerci  per  la  resa 
di  Napoli  alla  versione  preterita  da  Livio,  il  quale  ne  conosce  anche  -un'altra 
(26,  6):  haiid  ignavus  opinionis  alterins  qua  haec  proditio  ah  SamnUibus  facta 
traditar,  ciiin  uuctoribus  hoc  dedi  quibus  dignius  credi  est,  tiiin  foedus  Neapoli- 
tuniim  —  co  eniin  deinde  sninma  rei  Graecoruin  venit  —  similius  vero  facit  ipsos 
in  tiinicitiatn  redisse. 


NAPOLI    E    PALEPOLI  301 


che,  dimenticando  i  patti  segreti,  trattassero  Napoli  come  paese  di 
conquista,  Eran  certo  queste  difficoltà  assai  gravi;  ma  la  buona 
volontà  dei  Romani  e  elei  Greci,  che  vedevano  troppo  chiara  la 
convenienza  d'un  accordo,  riusci  a  superarle.  E,  licenziati  Nolani  e 
Sanniti  e  accolto  promissoriamente  un  presidio  romano,  i  Napole- 
tani conclusero  con  Roma  un  trattato  di  pace  assai  favorevole  che 
assicui^ava  loro  la  piena  autonomia  (1),  l'integrità  del  territorio  (2), 
il  diritto  di  batter  moneta  e  di  accogliere  gli  esuli  romani  (3),  e 
li  obbligava  soltanto  a  sovvenire  in  data  misura  i  Romani  di  navi 
da  guerra  (4),  rimanendo  essi  liberi  da  tributo  e  da  presidio  (5). 
A  questo  trattato,  che  senza  imporre  quasi  alcun  peso  guarentiva 
i  Napoletani  da  ogni  nemico  indigeno  e  ria^Driva  al  loro  com- 
mercio l'interno  d'Italia  in  quanto  era  posseduto  dai  Romani,  i 
Greci  di  Napoli  rimasero  fedeli  per  più  di  due  secoli,  e  solo  con 
grande  esitazione  si  risolvettero  poi  a  scambiare  con  la  cittadi- 
nanza romana  i  diritti  che  esso  guarentiva  (6). 

Agii  annalisti  romani  del  II  secolo  pareva  impossibile  che  la 
fedelissima  Napoli  (7)  avesse  osato  nel  327.  sfidare  Roma.  Ora  nei 
fasti  trionfali  era  registrato  il  trionfo  di  Pubblio  Filone  come 
riportato  sui  Sanniti  e  sui  PaleojDolitani  (8).  Interpretando  con  quel 
preconcetto    questa   frase  s'immaginò  che  i  Napoletani  si  fossero' 


(1)  Strab.  V  246  :  (persino  dopo  che  i  Napoletani  ebbero  la  cittadinanza  ro- 
mana) irXtTaTa  b'  Txvr,  Tfj;  '  EXXr)viKf)(;  àYuuYfj*;  èvraOGa  auLiSeTai,  yuMvdoid  re  koì 
èqpnPe^a  Koì  qppaxpiai  koI  òvó|uaTa  'EXXr|viKà  Kaitrep  òvtujv 'P(ju|uaiujv.  Ciò  è  con- 
fermato dalle  iscrizioni. 

(2)  Si  opinava  senza  nessun  argomento  che  Ischia  fosse  stata  tolta  allora 
dai  Romani  ai  Napoletani;  par  da  ritenere  che  non  sia  stata  tolta  se  non  da 
Siila:  Beloch  Campanien'  app.  p.  447.  Pais  Per  la  storia  di  Napoli  e  d'Ischia 
nell'età  sillana  negli  '  Atti  dell' Accad.  di  Arch.  Leti,  e  B.  Arti  di  Napoli  '  XXI 
(1900-1  p.  145  segg.)  osserva  con  ragione  che  se  Ischia  fosse  divenuta  terri- 
torio romano  dal  326,  nel  313  i  Romani  avrebbero  fondato  colà  e  non  nel- 
l'isola di  Ponza  la  loro  colonia  marittima. 

(3)  POLYB.   VI   14,   8. 

(4)  Cfr.  PoLYB.  I  20.  Che  dovessero  anche  aiuti  per  terra  è  possibile,  ma 
non  certo.  L'esistenza  di  un  corpo  di  cavalleria  a  Napoli  al  tempo  della  guerra 
annibalica  (Liv.  XXIII  1)  non  è  prova  sufficiente  (contro  Beloch  Ital.  Band 
V    207). 

(5)  Fuori  del  caso  che  ne  facessero  richiesta,  Liv.  XXIII  15,  2. 

(6)  Cic.  prò  Balbo  8,  21. 

(7j  Vell.  I  4:  exiinia  seinper  in  Romanos  fide. 

(8)  De  Samnitibus  Palaeajmlitaneis,  dove  non  vi  ha  alcuna  difficoltà  di  sot- 
tintendere et.  Cfr.  ad  a.  295:  de  Samnitibus    et    Etrusceis    Gallds;    a.    259:  de 


302      CAPO   XIX  -  LA    LOTTA   TRA    OSCHI   E    LATINI   PER  L  EGEMONIA 

lasciati  trascinare  alla  guerra  con  Roma  dai  Paleopolitani  ;  e  che 
costoro  fossero  gli  abitanti  di  una  città  vicina  a  Napoli  unita  con 
Napoli  in  uno  Stato  solo  (1)  ;  d'invenzione  in  invenzione,  secondo 
l'uso  degli  annalisti  romani,  si  giunse  persino  a  parlare  del  campo 
posto  da  Publilio  tra  1'  una  e  1'  altra  città  (2).  Ma  una  città  di 
Palepoli  vicina  a  Napoli  e  persino  avente  l'egemonia  su  Napoli, 
non  è  mai  esistita,  come  mostra  l'assenza  di  storia  e  di  monete  e 
più  considerazioni  topograficlie  di  piena  evidenza  ;  non  può  infatti 
collocarsi  ne  ad  oriente  di  Napoli  nella  regione  paludosa  verso  il 
Sebeto,  perchè  qui  non  v'è  posto  affatto  per  un  centro  abitato,  né 
ad  occidente  dell'antica  città  verso  il  Castello  dell'Uovo,  perchè 
mancherebbe  in  questo  caso  la  posizione  intermedia  dominante  che, 
secondo  Livio,  aveva  permesso  a  Publilio  d'isolare  le  due  città  (3). 
Né  più  accettabile  è  l'ipotesi  moderna  che,  in  piena  contraddi- 
zione col  racconto  liviano,  che  essa  cerca  in  parte  di  salvare,  im- 
medesima Palepoli  con  Cuma.  E  vero  che  ai^iaunto  in  contrapposto 
con  l'antica  Cuma,  Napoli  ebbe  il  suo  nome  di  città  nuova  ;  ma 
Cuma  non  si  cliiamò  mai  Palepoli,  e  per  di  più  non  era  in  questa 
età  una  città  greca  unita  a  Napoli,  si  una  città  osca,  che  seguiva 
le  sorti  di  Capua  e  doveva  aver  ottenuto  fin  dal  334  insieme  con 
Capua  (sopra  p.  286)  la  cittadinanza  romana  senza  suffragio.  Onde 
non  dovrebbe  esser  dubbio,  chi  giudichi  senza  preconcetti,  che  la 
frase  dei  fasti  designi  semplicemente  la  colonia  osca  e  gli  antichi 
abitanti  greci  (ci  irdXai  iroXiTai)  di  Napoli  (4). 


Poeneis  et  Sardin(ia)  Corsica.  La  interpretazione  del  Burger  Der  Knmpf  etc. 
p.  15  che  ì  Sanniti  Paleopolitani  fossero  il  presidio  sannitico  di  Cuma  sarebbe 
da  respingere  quand'anche  si  ammettesse  l'identità  di  Cuma  con  Palepoli. 

(1)  Di  questa  città  di  Palepoli  (il  nome  è  formato  arbitrariamente  da  iróXai 
TTcXÌTai;  dovrebbe  essere  Paleapoli)  parla  soltanto  Livio,  tace  Dionisio  il  quale 
pur  seguendo   la  stessa  fonte  sostituisce  sempre  a  PalaepoUtani  NeairoXiTai. 

(2)  Liv.  Vili  23,3:  iam  Publilius  inter  Palaepolim  Neapoìitnque  loco  opportune 
capto  diremerat  hostibus  societatem  auxiliì  mutui. 

(3)  Questo  vale  anche  contro  la  ipotesi  del  De  Petra,  il  benemerito  editore 
del  libro  postumo  del  Capasso  Napoli  greco-romana,  secondo  cui  Palepoli  sorgeva 
.sul  colle  di  S.  Giovanni  Maggiore.  Egli  si  fonda  specialmente  sulle  due  linee 
parallele  di  mura  che  correvano  ad  oriente  e  ad  occidente  della  via  di  Mez- 
zocannone, nelle  quali  egli  riconosce  le  mura  di  due  città  vicine,  ma  indi- 
pendenti. Questo  è  assai  inverisimile;  ed  è  ad  ogni  modo  da  tener  presente 
intorno  a  ciò  l'ipotesi  di  A.  Pirro  Le  origini  di  Napoli  I  (Salerno  1905)  p.  28  segg. 
che  siano  invece  le  lunghe  mura  che  congiungevano  Napoli  alla  sua  marina. 

(4)  La  maniera  di  risolvere  il  problema  era  stata  additata  dal  Beloch  Cam- 
paniijii  p.  60  segg.  Il  Mommsen  ha  osservato  con  ragione  {CIL.  X  p.  170)    che 


I   LUCANI   E    (ìli   apuli  308 

Allo  stesso  anno  326  sotto  cui  registra  la  presa  di  Napoli,  la 
nostra  tradizione  nota  anche  l'alleanza  di  Eoma  coi  Lucani  e  con 
gli  Apuli.  L'alleanza  coi  Lucani,  se  anclie  fu  conclusa  allora,  do- 
vette essere  immediatamente  rescissa,  giacche  tutto  l'andamento 
della  seconda  guerra  sannitica  presuppone  che  quel  popolo  fosse 
in  lega  coi  Sanniti,  e  che  i  Romani  non  potessero  neppui'e  pen- 
sare a  commiicare  con  l'Apulia  lungo  le  coste  del  golfo  di  Salerno 
e  poi  attraverso  al  paese  dei  Lucani,  quale  sarebbe  stata  la  più 
facile  via  di  comunicazione  se  i  Lucani  non  erano  avversi  a  Roma. 
Tanto  ciò  è  chiaro  che  la  tradizione  stessa  annalistica  all'anno  336 
narra  che  non  solo  fu  conclusa,  ma  fu  anche  violata  l'alleanza 
romano-lucana.  I  Tarentini,  si  dice,  seminarono  la  discordia  tra  i 
contraenti  per  mezzo  di  alcuni  nobili  Lucani  da  loro  comperati, 
che  presentandosi  ai  concittadini  dopo  essersi  feriti  con  verghe, 
dichiararono  d'essere  stati  vergheggiati  a  quel  modo  e  per  poco 
non  decapitati  con  la  scure  dai  Romani  per  essere  penetrati  nel 
loro  accampamento;  onde  esasperati  i  Lucani  cambiarono  l'al- 
leanza romana  con  la  sannitica  dando  persino  ostaggi  e  ricevendo 
nei  luoglii  muniti  presidi  sannitici.  Ma  tutto  in  questo  racconto  è 
assai  sosiDetto:  sospetto  oltre  i  particolari  aneddotici  (1)  lo  zelo 
con  cui  i  Tarentini  favoriscono  l'alleanza  tra  Lucani  e  Sanniti,  i 
due  potenti  e  pericolosi  loro  vicini;  anche  più  sospetta  la  facilità 
con  cui  riescono  a  intervenire  nelle  deliberazioni  lucane;  due  cose 
che  sembrano  rispecchiare  le  condizioni  di  tempi  ben  più  recenti , 
e  quanto  ai  Lucani,  dopo  la  loro  alleanza  coi  Sanniti  contro  Ales- 
sandro d'Epiro,  non  deve  farci  meraviglia  di  trovarli  strettamente 
uniti  con  la  confederazione  sannitica,  mentre  non  si  saprebbe  dav- 


la  Paleapoli  di  Napoli  non  può  essere  stata  che  Cuma,  pur  ritenendo  a  torto 
che  i  Paleopolitani  dei  fasti  trionfali  siano  i  Cumani  residenti  in  Napoli, 
quasiché  dopo  un  secolo  i  fuggiaschi  greci  di  Cuma  stabilitisi  in  Napoli  po- 
tessero esser  distinti  dai  loro  coloni.  Ma  è  inammissibile  affatto  la  ipotesi  del 
BcEGER  De  bello  cntn  Sumnitibus  secando  p.  18  segg.,  accettata  poi  a  torto  dal 
Beloch  nelle  appendici  al  suo  libro  p.  441  segg.,  che  la  Palepoli  di  Livio  sia 
Cuma  e  che  con  questa  eflfettivamente  abbiano  fatto  guerra  i  Romani.  In  tal 
caso  induce  logicamente  il  Burger  che  dovrebbero  considerarsi  come  inventati 
i  nomi  di  Carilao  e  Ninfio:  ma  appunto  l'esser  questi  nomi  fededegni  è  un 
grave  argomento  contro  la  sua  teoria.  Ed  è  del  pari  grave  argomento  contro 
la  teoria  di  A.  Pirro  Le  origini  di  Napoli  li  (Salerno  1906)  che  i  Romani  ab- 
biano fatto  guerra  non  a  Napoli,  ma  solo  ai  Sanniti  di  Palepoli  (Pizzofalcone). 
(1)  I  quali  ricordano  in  parte  l'artifizio  di  Zopiro,  in  parte  quello  di  Pisi- 
strato.  È  probabilmente  uno  dei  casi  non  troppo  frequenti  in  cui  gli  annalisti 
elaborarono  su  esemplari  greci  le  loro  invenzioni,  cfr.  I  p.  28. 


HO-i      CAPO   XIX  -  LA    LOTTA    TUA    OSCIII    E    LATIXI    PKR    l'eGEMONIA 


vero  i^er  qiial  ragione,  modificando  a  nn  tratto  il  loro  atteggia- 
mento politico,  avi'ebbero  acceduto  all'alleanza  romana.  E  però  la 
.spiegazione  più  probabile  di  questo  racconto  è  che  si  tratti  di 
invenzione  di  qualche  annalista,  il  quale  riportò  anche  al  primo 
anno  della  secoiida  guerra  sannitica  l' alleanza  che  si  strinse  in 
effetto  coi  Lucani  al  principio  della  terza  (298),  cercando  di  spie- 
garsi con  la  defezione  provocata  dai  Tarentini  perchè  in  questa 
guerra  i  più  lontani  Apuli  e  non  i  più  vicini  Lucani  compaiano 
tra  gli  alleati  di  Roma.  Quanto  poi  alla  congettiu'a  moderna  che 
qui  per  Lucani  debbano  intendersi  i  Lucerini,  mentre  anch'essa  è 
in  piena  contraddizione  col  racconto  liviano  che  cerca  x^arzialmente 
salvare,  urta  contro  la  difficoltà  che  come  non  si  son  mai  chia- 
mati Palepoliti  i  dimani,  cosi  non  si  è  mai  dato  il  nome  di  Lu- 
cani ai  Lucerini. 

E  invece  assai  facile  s^jiegare  il  contegno  diverso  che  tennero 
rispetto  a  Roma  i  Lucani  e  gli  Apuli.  Grli  Apuli,  dopo  avere  a 
limgo  combattuto  contro  Taranto,  eran  diventati  consapevoli  della 
solidarietà  dei  loro  interessi  coi  Greci  contro  gli  invasori  oschi. 
Ma  ebbero  pm-  presto  a  convincersi  che  non  bastava  l'alleanza  ta- 
rentina  per  salvare  il  Tavoliere  dall'espandersi  degli  Abruzzesi 
che  avevano  bisogno  di  quella  regione  per  condurre  al  pascolo  dai 
monti  lungo  i  tratturi  le  loro  greggie  nella  stagione  invernale  (1)  ; 
e  perciò  gli  Arpani  —  che  questi  son  gli  Apuli  di  cui  qui  si  tratta 
—  si  rivolsero  per  aiuto  efficace  ai  nemici  dei  Sanniti,  i  Roniani. 
Rovine  di  poco  conto  segnano  ora  il  luogo  ove  sorgeva,  cinque 
miglia  a  settentrione  di  Foggia,  la  potente  città  dei  Danni  (2). 
Ma  le  sue  ampie  miu-a  ne  dimostravano  ancora  al  tempo  di  Stra- 
bene l'antica  grandezza  (3),  e  la  dimostrano  per  noi  le  abbondanti 
monete,  le  menzioni  frequenti  nella  tradizione,  il  numero,  sia  pure 
esagerato;,  di  4000  fanti  e  400  cavalli  con  cui  si  dice  che  gli  Ar- 
pani partecipassero  alla  vittoria  romana  di  Ascoli  di  Apulia.  La 
difesa  di  questi  lontani  alleati  con  cui  per  il  momento  non  era 
neppiu"  possibile  di  comunicare  né  x)er  terra  nò  per  mare,  costò  ai 
Romani  molto  sangue;  ma  la  loro  alleanza  con  Roma  determinò 
l'esito  della  lotta  tra  Oschi  e  Latini  pel  primato  d'Italia. 


(1)  Cato  (le  r.  r.  II  1,  16.  2,  9.  Cfr.  Nissen  II  2,  839  segg.  A.  Gbenier  La 
trunshumance  des  troupeaux  en  Italie  nei  '  Mélanges  cl'arch.  et  d'hist.  '  XXV 
(1905)  p.  157  SQgg. 

(2)  Nissen  Landeskunde  II  2,  845  segg. 

(3)  VI  283:  bùo  iróXei,  laéYUTai  tiùv  '  iTaXiiWTi&iJUv  -feYOvuìai  TTpórepov,  ùx; 

^K  Tójv  TrepipóXiuv  bf|Xov,  tó  re  KavOaiov  koI  i\  'ApYupinTra. 


I   PRTin   ANNI   DELLA    SECONDA   SANNITICA  305 

I  Romani,  con  la  tenacità  clie  distingue  la  loro  politica,  si  pro- 
posero immediatamente  di  stabilire  con  l'Apulia  comunicazioni 
regolari.  Aprii'si  la  via  attraverso  il  Sannio  o  attraverso  la  Lu- 
cania parve  pel  momento,  com'  era,  troppo  pericoloso.  Si  cercò 
dunque  Talleanza  delle  piccole  tribù  sabelliclie  indipendenti  del- 
l'Apennino  centrale,  per  poi  potere  lungo  l'Adriatico  raggiungere 
la  Puglia.  I  Marsi,  i  Peligni  e  i  Marrucini  accettarono  volentieri 
l'amicizia  romana,  che  li  guarentiva  dai  prepotenti  vicini,  i  quali 
non  avrebbero  desiderato  che  d'incorporarli  nella  loro  lega.  Però, 
distanti  dai  Sanniti  e  non  alieni  dal  contare  sul  costoro  aiuto  contro 
le  tre  piccole  e  bellicose  tribù  che  li  separavano  dal  Sannio,  i 
Vestini  non  videro  di  buon  occhio  l'intervento  romano  in  quelle 
regioni.  Ma  bastò  una  campagna  (325)  perchè  si  ritraessero  dalla 
lotta  (1),  sia  che  facessero  pace  coi  Romani,  sia  che  si  persuades- 
sero soltanto  esser  troppo  pericoloso  avventurarsi  a  molestare  le 
tribù  vicine  dopo  che  si  erano  alleate  con  Roma.  Questo  era  suc- 
ceduto ai  Romani  d'  ottenere  con  una  legione,  che  col  resto  delle 
forze  che  mettevano  annualmente  in  campo,  cioè  un'altra  legione, 
dovevano  tenere  a  bada  i  Sanniti  e  proteggere  la  Campania.  Anche 
negli  anni  seguenti  questa  stessa  dovette  essere  la  distribuzione 
delle  forze  romane  :  e  ciò  spiega  perchè  di  prosi)eri  successi  dei 
Romani  contro  i  Sanniti  in  questi  anni  non  si  abbia  nessuna  .notizia 
fededegna. 

Invece  molte  notizie  ci  vengono  date  su  vittorie  che  sono  o 
dubbie  o  palesemente  fantastiche.  Si  narra  cosi  con  molti  parti- 
colari assai  generici  una  vittoria  riportata  dal  maestro  dei  cava- 
lieri Q.  Fabio  RuUiano*  presso  la  ignota  Imbrinio  in  assenza  del 
dittatore  L.  Papirio  Cursore  e  disobbedendo  a'  suoi  ordini,  poi 
un'altra  vittoria  guadagnata  dallo  stesso  dittatore  (324),  dopo  la 
quale  i  Sanniti  si  sarebbero  dichiarati  pronti  alla  pace,  senza  però 
accordarsi  intorno  alle  condizioni.  La  battaglia  vinta  dal  maestro 
dei  cavalieri  Fabio,  che  alcuni  scrittori  raddoppiavano  ed  altri 
tacevano  del  tutto  (2),  è  più  che  sospetta;  quella  del  dittatore  po- 


ti) Liv.  Vili  29.  I  Vestini  non  sono  più  ricordati  fino  al  303,  quando  con- 
clusero un  foedus  con  Roma,  v.  oltre. 

(2)  Liv.  Vili  30,  7  :  auctores  haheo  bis  cum  hoste  signa  coniata  dictatore  absente, 
bis  rem  egregie  gestain;  apud  antiquissimos  scriptores  una  haec  pugna  invenitur: 
in  quibusdam  annalibus  tota  res  praetermissa  est.  Ciò  non  gl'impedisce  di  fare 
un  larghissimo  racconto  di  questi  avvenimenti,  e.  30-36,  cfr.  Cass.  Uio  fr.  36, 
1-7.  ZoN.  VÌI  26.  Val.  Max.  II  7,  8.  IH  2,  9.  Frontin.  strat.  IV  1,  89.  Ahct. 
de  vir.  illustrib.  31. 

G.  De  Saxctis,  Storia  (lei  Romani,  II.  20 


306      CAPO   XIX  -  LA   LOTTA   TRA    OSCHI   E    LATINI    PER    l'eGEMGNIA 

Irebbe  essere  stata  inventata  per  contrapporla  all'altra  (Ij  ;  e  fu 
forse  la  occupazione  di  qualche  villaggio  presso  AUife  die  diede 
origine  a  tutte  queste  favole.  Singolare  è  poi  che  i  Sanniti  si  risol- 
vessero alla  pace  col  loro  territorio  sostanzialmente  intatto,  quasi 
appena  cominciata  la  guerra,  e  non  si  vede  inoltre  come  potrebbe 
essersi  conservata  la  notizia  di  questa  pace  desiderata  e  non  con- 
clusa. Ne  più  fededegna  è  la  tregua  di  un  anno  (2),  subito  violata 
del  resto,  non  per  intrinseca  incredibilità,  ma  per  la  poca  atten- 
dibilità delle  fonti:  può  darsi  che  qualche  annalista  abbia  voluto 
spiegare  a  questo  modo  il  silenzio  della  tradizione  su  imprese 
contro  i  Sanniti  nel  323,  che  altri  spiegava  con  le  consuete  deva- 
stazioni di  territorio  compiute  senza  che  il  nemico  avesse  il  co- 
raggio di  mostrarsi.  Si  narra  ancora  di  una  sconfìtta  dei  Sanniti 
nell'anno  seguente  (322),  sconfìtta  di  cui  non  ci  vien  detto  il  luogo 
e  che  non  si  sapeva  se  dovuta  ad  un  dittatore  o  ai  consoli  (3), 
dopo  la  quale  i  Sanniti  si  piegano  a  chiedere  pace  e  a  soddisfare 
i  Romani  per  la  violazione  -  del  trattato  che  aveva  posto  termine 
alla  prima  sannitica.  I  Romani  non  accettano  la  offerta  soddisfa- 
zione e  rifiutano  il  corpo  di  Bruttilo  Papio  ,  il  consigliere  della 
guerra,  che  per  non  essere  consegnato  vivo  al  nemico  si  era  dato 
la  morte.  Essi  vogliono  piena  sottomissione  dai  Sanniti  (4)  ;  e  però 
la  guerra  riarde;  ma  ora  i  Sanniti,  espiato  il  loro  fedifrago  pro- 
cedere, avranno  per  sé  gli  dèi.  Senonchè  tutto  questo  racconto  pare 
inventato  semplicemente  allo  scopo  di  spiegare  la  rotta  caudina 
come  giusta  punizione  degli  dèi  per  la  tracotanza  dei  Romani 
vincitori. 

La  tradizione  sorvola  invece  su  altri  prosperi  successi  riportati 


(1)  Sebbene  il  trionfo  del  dittatore  de  Samnitibus  sia  ricordato  anche  nei 
f.  trionfali. 

(2)  Liv.  Vili  37.  ZoN.  VII  26:  TTaireipioq  i^ixTriaaq    aùxoìx;    lìvÓYKaaev   èuì 

ouvenKai<;  au^Pnvai  al^  èKeìvot;  èPoùXero  •  àTroGeiaévou    bè    ti'iv    r^Ye^oviav    aìixoù 
ènavéOTrioav  auSK;. 

(8)  Liv.  Vili  38,  16  dopo  aver  narrato  la  vittoria  e  il  trionfo  del  dittatore 
A.  Cornelio  Arvina  :  hoc  bellum  a  consulibus  bellatum  quidam  aiictores  simt  eosque 
de  Samnitibus  triumphasse  :  Fabiiim  etiam  in  Apuliam  processisse  atque  inde 
magnas  praedas  egisse.  I  fasti  trionfali  registrano  la  vittoria  di  L.  Fulvio  Curvo 
de  Samnitibus  e  di  Q.  Fabio  Rulliano  de  Samnitibus  et  Apuleis.  Il  trionfo  di 
Fulvio  è  ricordato  anche  da  Plinio  ,  ma  diversamente,  v.  sopra  p.  244  n.  3. 
Anche  I'Auctok  de  vir.  illustrib.  32  menziona  il  trionfo  di  Q.  Fabio  de  Apulis 
et  Nucerinis  (Lucerinis). 

(4)  Liv.   Vili  39.  Cass.  Dio  Ir.  36,  8.  Zon.  VII  26.  App.  Samn.  4,  1-2. 


I   PRIMI    ANNI    DELLA    SECONDA   SANNITICA  307 

effettivamente  in  questi  anni  dai  Romani;  perchè  non  v'ha  dubbio 
che  essi,  pervenuti  in  Puglia  mediante  accordi  coi  Frentani,  diedero 
la  mano  a  quelli  di  Arpi  e  si  afforzarono  in  Lnceria  (1).  Ma  è  facile 
riconoscere  per  qual  ragione  si  accenni  appena  a  questi  successi 
che  fvu'ono  per  la  più  parte  annullati  dal  disastro  di  Gaudio.  La 
tradizione,  di  solito  cosi  parolaia,  è  a  questo  proposito  tanto  concisa 
che  non  riusciamo  neppure  a  determinare  se  Lucerla  fosse  fin  d'al- 
lora ridotta  a  colonia  o  soltanto  occupata  temporaneamente  dai 
Homani. 

Ad  ogni  modo,  benché  non  fosse  poco  quel  che  s'era  ottenuto, 
non  s'era  ancora  iniziata  l'azione  risolutiva;  né  era  possibile,  perché 
la  legione  che  si  inviava  annualmente  in  Camj)ania  e  quella  che 
si  spediva  verso  l'Apulia  non  erano  in  grado  di  combattere  sepa- 
ratamente battaglie  di  grande  momento.  Ed  ormai  da  cinque  anni 
si  pugnava,  né  x3rocedendo  innanzi  a  questo  modo  poteva  preve- 
dersi quando  la  guerra  avrebbe  avuto  termine.  Il  popolo,  che  aveva 
visto  in  pochi  anni  chiudersi  la  prima  sannitica  e  la  guerra  latma, 
cominciava  a  pensare  che  era  tempo  di  por  fine  alla  lotta  con  una 
offensiva  vigorosa.  IsTessuno  pensava  allora,  s'intende,  alla  con- 
quista del  Sannio,  ma  si  voleva  soltanto  obbligare  i  Sanniti  a  ri- 
conoscere l'occupazione  romana  di  Fregelle  e  di  Lucerla  e  le  nuove 
alleanze  concluse  da  Roma  in  questi  anni. 

Probabilmente  col  programma  d'una  vigorosa  offensiva  nel 
Sannio,  presentarono  la  loro  candidatura  ai  comizi  Sp.  Postumio 
Albino  e  T.  Veturio  Calvino.  Consoli  insieme  già  un'  altra  volta 
nel  334,  Postumio  e  Vetuiio  avevano  preso  essi  appunto,  sembra, 
l'ardita  determinazione  di  fermar  per  sempre  le  relazioni  di  Capua 
con  lo  Stato  romano,  dando  ai  Capuani  la  cittadinanza  senza  suf- 
fragio. Ora  il  popolo  che  li  elesse  pel  321  attendeva  che  rompendola 


(1)  V.  i  testi  cit.  sopra  n.  7  e  App.  4,  1  :  lauvìrm  è;  ti^v  <t>p€.je\\av(ì)v  è,u3a- 
XóvTe<;  èiTÓp9r|aav,  'PiJU|uaìoi  he  lauviTÙJv  koì  Aauviuuv  ÒYboriKovTO  Kiij,ua<;  koì  |uiav 
«iXov  Kttl  òioinupiou^  àveXóvrec;  ànavéarriaav  aÙTOÙi;  ànò  (JJpeféXXric;.  Livio  nel 
suo  racconto  della  clades  Caudina  e  delle  sue  conseguenze  presuppone  l'ami- 
cizia coi  Frentani  e  le  altre  popolazioni  dell' Apennino,  v.  specialmente  IX  2,  6. 
13,  6.  La  colonia  di  Lucerla  sembra  presupposta  dalle  condizioni  della  pace 
caudina  quali  sono  da  lui  accennate  :  si  agro  Samnitium  decederetur,  coloniae 
abducerentiir.  Anche  Velleio  I  14,  se  però  non  v'fe  nel  suo  testo  errore  di  cifre, 
come  non  e  improbabile  (v.  oltre  p.  327  n.  3),  riferisce  la  fondazione  di  Lu- 
cerla al  32.5.  La  critica  che  delle  lotte  dei  Romani  nell' Apennino  e  in  Puglia 
prima  della  battaglia  di  Gaudio  fa  il  Bukoer  De  bello  etc.  p.  17  segg.  sembra 
del  tutto  infondata. 


308      CAPO   XTX  -  LA    LOTTA    TRA   OSCHI    E    LATINI    PER   L  EGEMONIA 

non  meno  pienamente  e  arditamente  coi  metodi  di  guerra  fino  allora 
seguiti,  uniti  i  due  eserciti  consolari,  come  non  si  era  mai  più  fatto 
da  quando  Manlio  e  Decio  avevano  affrontato  Campani  e  Latini 
a  Trifano,  finissero  di  colpo  la  guerra.  Di  fatto  Postumio  e  Ve- 
tm'io  si  proposero  di  aprii^si  la  via  direttamente  attraverso  il  Sannio 
alla  volta  di  Luceria  e  d'Arpi.  I  Sanniti,  i  quali  non  avevano  voluto 
venire  a  battaglia  regolare  in  Campania,  sarebbero  stati  costretti 
a  combattere  se  volevano  chiudere  la  strada  alle  legioni  romane  ;  e 
se  senza  combattimento  le  lasciavano  passare  avrebbero  dimostrato 
all'evidenza  dinanzi  a  tutti  gli  alleati  la  superiorità  delle  armi  ro- 
mane. Eisolvendosi  a  combattere,  certamente  i  Sanniti  avevano  la 
scelta  del  campo  di  battaglia;  ma  questo  vantaggio  era  compen- 
sato dair armamento  e  dalla  disciplina  dei  soldati  romani  ;  né  della 
superiorità  numerica  dei  nemici  conveniva  darsi  troppo  pensiero, 
perchè  non  si  era  mai  riunito  in  campo  fino  allora  un  esercito  ro- 
mano maggiore  di  questo.  Erano  due  legioni  coi  loro  contingenti 
d'alleati,  con  le  forze  effettive  in  \àsta  dell'offensiva  che  voleva 
prendersi  pari  oppur  superiori  a  quelle  segnate  nei  quadri,  ossia  non 
meno  di  diciotto  mila  uomini  (1).  E  la  partenza  fu  senza  dubbio 
salutata  dai  Romani  con  la  più  viva  speranza  di  \'ittoria.  Quel 
che  duci  valenti  seppero  compire  con  due  legioni  romane  mostra 
che  la  speranza  non  era  infondata.  Soltanto  penetrare  nel  Sannio 
e  avanzarsi  nel  cuore  del  paese  nemico  rinunciando  a  qualsiasi 
comunicazione  con  la  base  d'operazione  era  impresa  non  facile, 
che  richiedeva  pari  ardire  e  prudenza.  Roma  allora  non  mancava 
di  capitani  sperimentati  e  che  avevan  tenuto  a  lungo  il  comando 
in  presenza  del  nemico,  innanzi  tutto  Q.  Publilio  Filone  e  L.  Pa- 
pirio  Cursore  ;  ma  appunto  la  prudenza  e  cautela  di  questi  due  fece 
che  si  mettessero  da  un  canto  per  l'azione  risolutiva,  scegliendo 
due  uomini  ardimentosi,  che  però  non  avevano  mai  comandato  in 
faccia  al  nemico. 


(1)  Livio  suppone  evidentemente  che  si  trattasse  eli  quattro  legioni,  la  forza 
normale,  in  età  posteriore,  di  due  eserciti  consolari  riuniti.  Anche  il  falsario 
che  fabbricò  il  documento  della  sponsio  era  dello  stesso  avviso  poiché  credette 
necessario  d'inventare  i  nomi  dei  quattro  legati  legiomim  (App.  Samn.  6:  qui 
sta  del  resto  la  prova  piìa  sicura  che  questo  documento  è  falso;  perchè  il  co- 
mando unitario  della  legione,  che  non  esiste  a  tempo  della  seconda  punica, 
non  è  anteriore  al  II  secolo,  v.  Mommskn  Staafsrecht  II  ^  700  seg.).  Tuttavia 
il  racconto  della  battaglia  presuppone  che  le  legioni  fossero  due  sole;  e  la 
storia  della  seconda  guerra  sannitica  è  inesplicabile  se  non  si  suppone  che 
solo  dal  311  i  Romani  cominciassero  a  levare  annualmente  quattro  legioni. 


IL    DISASTRO    DI   GAUDIO  309 


Dopo  essersi  fermato  a  Calazia,  Tesercito  romano  si  avanzò 
verso  Benevento  lungo  la  posteriore  via  Appia.  A  partire  dal  sesto 
miglio  da  Calazia  la  via  segue  da  Arienzo  ad  Arpaia  uno  stretto 
passo  lungo  tre  miglia  circa,  sormontato  da  alture  die  si  elevano  da 
cinquecento  a  settecento  metri  sulla  strada.  Questo  passo,  presso 
il  quale  il  villaggio  di  Forcliia  ricorda  tuttora  il  nome  delle  Forche 
Caudine,  sbocca  nella  valle  ove  all'estremità  opx30sta  accanto  al- 
Todierna  Montesarchio  era  anticamente  Gaudio.  La  valle  di  Gaudio, 
lunga  da  nord  a  sud  da  sette  ad  otto  miglia  e  larga  da  oriente 
ad  occidente  nella  direzione  dell' Appia  circa  cinque,  lia  due  altre 
uscite,  prescindendo  da  un  sentiero  montuoso  che  da  Cervara  -css^ 
conduce  nella  valle  del  Sabato  :  l'una  ad  est,  x^er  cui  la  via  Appia 
da  Gaudio  si  dirige  verso  Benevento  attraverso  il  colle  di  Sferra- 
cavallo ;  l'altra  a  settentrione,  che  si  chiama  comunemente  dal 
nome  del  villaggio  di  Molano  o  da  quello  di  Airola,  bagnata  dal 
torrente  Isolerò,  affluente  del  Volturno  (1).  L'esercito  romano  con 
le  munizioni  e  coi  viveri  in  nna  colonna  che  non  sarà  stata  lunga 
m.eno  di  dieci  o  dodici  chilometri  s'incamminò  pel  x^asso  d'Arjìaia 
verso  la  valle  Gaudina.  Ma  quando  la  testa  della  lunga  colonna, 
traversata  la  valle,  giunse  a  Sferracavallo,  trovò  chiusa  la  via  dal 
nemico  che  aveva  occupato  e  fortificato  con  trincee  improvvisate 
le  x)osizioni  dominanti  il  xjassaggio.  Onde. le  legioni  si  attendarono 


(1)  Daxiele  Le  Forche  Caudine  illustrate  (Napoli  1811)  ha  sostenuto  per  primo 
che  la  resa  dei  Romani  sia  avvenuta  nella  gola  tra  Arienzo  ed  Arpaia.  È 
strano  che  una  tale  opinione  sia  seguita  da  alcuni  anche  oggi,  mentre  si  do- 
vrebbe pur  sapere  che  un  esercito  di  18  mila  uomini  (o  peggio  uno  di  36.000) 
occupa  ben  piìi  di  tre  miglia  sfilando  lungo  una  sola  via.  Infatti  ora  un  corpo 
di  truppe  di  30  mila  uomini,  senza  il  treno,  prende  se  non  può  marciare  in  co- 
lonne parallele,  non  meno  di  20  km.  Prescindendo  dall'artiglieria,  ma  tenendo 
conto  delle  provvigioni  e  munizioni  necessarie  per  una  campagna  in  paese 
nemico  ,  possiamo  ritenere  che  le  due  legioni  abbisognassero  di  un  minimum 
di  12  km.  Questo  mostra  che  l'esercito  romano  si  trovò  chiuso  nella  valle 
caudina,  tra  Arienzo  e  Montesarchio.  Che  i  Romani,  i  quali  non  avevano 
conquistato  Saticula  e  probabilmente  neppure  Caiazia,  sieno  peneti-ati  nella 
valle  dalla  parte  di  Calazia  ossia  seguendo  la  posteriore  via  Appia  do- 
vremmo inferirlo  quand'anche  non  fosse  tramandato.  Cadono  perciò  le  vaghe 
considerazioni  critiche  del  Pais  1  2  p.  509  n.  2.  È  del  resto  da  respingere  per 
le  ragioni  dette  anche  la  ipotesi  del  Cluverio  It.  antiqua  p.  1196  che  le  Forche 
Caudine  vadano  cercate  tra  S.  Agata  e  Moiano  ,  alla  quale  ha  troppo  conce- 
duto il  NissE.N  nella  sua  del  resto  eccellente  memoria  Der  caudinische  Friede 
'  Rh.  Mus.  '  XXV  (1870)  p.  1  segg. 


310      CAPO    XIX  -  LA    LOTTA    TRA    OSCHI    E    LATINI    PER   l'eGEMONIA 

nella  valle  di  Gaudio,  cercando  invano  di  aprirsi  un  varco  ^'ers(> 
Benevento.  E  per  colmo  di  sventura,  allorcliè  i  consoli,  riuscito 
inutile  ogni  tentativo  di  procedere  oltre,  visti  scemare  i  viveri,  si 
sentirono  costretti  a  retrocedere  riconoscendo  fallito  il  loro  piano, 
trovarono  che  il  passo  d'Arpaia,  per  cui  erano  entrati  nella  valle 
Caudina,  era  stato  frattanto  occupato  e  fortificato  dal  nemico ,  il 
quale  aveva  asserragliato  anche  la  terza  uscita  della  valle,  quella 
che  lungo  l'Isclero  conduce  verso  Saticula.  I  Sanniti  avevano  il 
vantaggio  della  posizione  e  della  conoscenza  esatta  dei  luoghi  e 
probabilmente  anche  quello  del  numero,  iDerchè  quelle  bellicose 
popolazioni,  non  sempre  disposte  ad  arrischiarsi  a  battaglia  nella 
pianura,  si  saran  raccolte  senza  esitare  alla  difesa  dei  propri  monti. 
Essi  però  si  trovarono  nella  necessità  di  dividere  le  loro  truppe, 
per  custodire  i  tre  passi,  in  tre  corpi  tra  cui  non  era  possibile  ne 
unità  di  direzione,  ne  simultaneità  d'azione,  a  prescindere  dai  di- 
staccamenti minori  che  dovevano  occupare  qua  e  là  le  altui-e  cir- 
costanti ;  e  cosi,  pur  essendo  più  numerosi,  x3otevano  a  ciascuno 
dei  passi  venire  assaliti  con  grande  superiorità  di  forze  dai  Ro- 
mani, i  quali  neir  ampia  valle  di  Gaudio  non  erano  in  condizioni 
così  disx)erate  come  li  rappresenta  la  tradizione,  poiché  potevano 
entro  gli  accampamenti  riposare  sicuri  e  riordinarsi  prima  di  tentare 
novaniente  Toffensiva.  Ma  l'esercito  romano  stanco  e  rinvilito  dagli 
ass"alti  vani  alle  trincee /li  SfeiTacavallo,  mancante  di  viveri,  sfidu- 
ciato ne'  suoi  due  comandanti,  si  trovava  dinanzi  a  difficoltà  che 
sarebbero  state  gravi  jjer  un  esercito  fresco  ed  intatto,  che  appa- 
rivano, nelle  condizioni  in  cui  esso  era  ridotto,  insuperabili.  Non 
saranno  mancati  certo  tentativi  per  forzare  i  due  passi  come  s'era 
cercato  di  superare  quello  di  Sferracavallo  :  milizie  agguerrite  e 
use  a  vincere  come  le  romane  sanno  persino  talvolta  rimediare  in 
parte  agli  errori  dei  propri  generali.  Ma  i  Sanniti  animati  dai  primi 
successi,  infiammati  dalla  speranza  di  vendicare  tutti  i  torti  ricevuti 
e  terminare  in  un  tratto  la  guerra,  mantennero  tenacemente  le  loro 
posizioni.  E  con  ciò  venne  meno  ogni  possibilità  di  salute  per 
l'esercito  romano,  talché,  consumati  oimai  i  viveri,  esaurita  ogni 
energia  delle  truppe,  convenne  ai  consoli  di  rassegnarsi  airinevi- 
tabile,  e  capitolare.  I  Sanniti  vittoriosi  non  intendevano  per  altro 
di  concedere  ai  Romani  vita  e  libertà  se  essi  non  fermavano  col 
Sannio  un  trattato  di  pace,  pur  appagandosi  di  condizioni  che, 
commisurate  all'  importanza  della  vittoria  che  poneva  alla  loro 
mercè  due  interi  eserciti  consolari ,  erano  miti.  Lasciando  infatti 
ai  Romani  i  loro  possedimenti  nella  Campania  e  non  ingerendosi 
nelle   relazioni    tra  Roma  e  Napoli,    essi  domandavano  semplice- 


IL    DISASTRO    DI    GAUDIO  311 

mente  clie  i  Romani  abbandonassero  loro  le  piazze  forti  di  Fre- 
gelle  e  di  Luceria  troppo  pericolose  \}er  l'indipendenza  sannitica. 
Quanto  alle  legioni  romane,  la  condizione  che  i  Sanniti  posero  al 
loro  rilascio,  quella  cioè  di  passare  sotto  il  giogo  e  di  conse- 
gnare la  armi,  potè  sembrare  ignominiosa  agli  annalisti,  che  vi- 
vevano quando  Roma  aveva  il  dominio  del  mondo  conosciuto,  e 
ai  soldati  stessi  che  capitolavano,  avvezzi  a  condurre  incatenati 
i  nemici  nelle  pomxje  trionfali  e  a  vederli  scannare  ai  piedi  del 
Campidoglio,  ma  non  era,  tenuto  conto  del  barbaro  diritto  di 
guerra  d'allora,  né  inusitata  né  dura. 

11  disastro  caudino  non  poteva  non  imprimersi  profondamente 
nella  memoria  dei  Romani,  al  pari  di  quelli  del  Cremerà  e  del- 
TAUia.  La  concordia  con  cui  dalle  fonti  vien  riferito  al  321,  la 
facilità  con  cui  può  inquadrarsi  tra  gli  avvenimenti  di  quegli  anni 
mostra  che  ogni  dubbio  sulla  sua  realtà  storica,  come  sulla  sua 
cronologia,  sarebbe  infondato  ;  e  fortunatamente  i  dati  che  abbiamo 
sul  luogo  della  battaglia  e  sulle  condizioni  e  le  forze  dei  bellige- 
ranti sono  tali  che  di  quell'avvenimento  è  possibile  farci  una  co- 
gnizione sufficientemente  chiara.  I  racconti  degli  annalisti  peraltro 
non  sono  che  una  caricatui-a  della  storia  :  per  giustificare  l'eser- 
cito romano  non  solo  esagerano  l'insipienza  dei  consoli,  non  solo 
rappresentano  contro  ogni  verosimiglianza  le  milizie  che  tentano 
avanzarsi  nel  cuore  del  paese  nemico  come  sfornite  di  prov\àgioni, 
ma,  che  è  più,  la  valle  di  Caudio  e  i  passi  che  vi  conducono  ven- 
gono dipinti  contro  la  verità  topografica  come  fossero  le  selvaggie 
spaccatm-e  dei  valichi  alx^ini  e  le  posizioni  dei  Sanniti  come  fos- 
sero imprendibili  e  persino  inattaccabili,  mentre  invece  le  vie  che 
menano  nella  valle  Caudina  son  tutte  tali  che,  quando  non  erano 
difese  con  armi  da  fuoco,  si  poteva  assai  bene  tentar  di  forzarle 
con  la  speranza  di  lieto  se  non  facile  successo  (1). 


(1)  Che  i  Romani  fossero  stati  battuti  dai  Sanniti  prima  d'essere  costretti 
alla  resa  non  era  al  tutto^dimenticato  dalla  tradizione.  Già  Livio  stesso  IX  1  1, 
parla  d'una  cludes  Caudina,  poi  Cic.  Cat.  mai.  12,  41  di  un  Caudinum  proelium  e 
altrove,  de  off.  Ili  30,  109,  dice  cum  male  pitgnatum  upiid  Caudium  esset.  Ap- 
piano Samn.  4,  2  usa  la  frase  :  'f\T:r\(ìr\aav  Otto  lauviTÙJv  koI  ùttò  Iv^òv  r\xQr\aav 
ci  PiwMaloi;  ed  infine  è  detto  anche  più  chiaramente  nella  cronica  d'Oxyihjn- 
chos  (ad  a.  320/19)  ['Pcwiuatoi]  òè  7TapaTaEd|U6[voi  toT^  Zau]v€ÌTai(;  i^TTt'ijGricTavj 
Cfr.  Cass.  Dio  fr.  36,  9-14  e  Zon.  VII  26.  Il  primo  ad  intuire  la  verità  è  stato, 
come  spesso,  il  Nieiìuhk  III  247  segg.  e,  come  spesso,  i  suoi  epigoni  si  sono 
accostati  alla  verità  meno  di  lui.  Anche  l'argomento  ch'egli  ha  ricavato  dal 
documento  della  sponsio  in  cui  secondo  Api-.  Samn.  4,  6  comparivano  X'^ìcPXoi 


312      CAPO   XIX  -  LA    LOTTA   TRA    OSCHI   E    LATINI   PER   l'eGEMONIA 

E  una  caricatura,  se  è  possibile,  peggiore  è  il  racconto  che  segue 
alla  pace  di  Gaudio.  I  vinti,  tornati  appena  in  città,  si  rifugiano 
ciascuno  nelle  proprie  case,  compresi  i  consoli  die  non  vogliono 
più  esercitare  il  loro  ufficio.  Nominati  i  nuovi  consoli  ed  entrati 
in  carica  lo  stesso  giorno  della  designazione,  si  discute  subito  in 
èenato  intorno  alla  pace  conclusa  in  Gaudio.  Su  proposta  dello  stesso 
Postumio  si  stabilisce  clie  tutti  coloro  che  hanno  pattuito  l'accordo 
coi  Sanniti  siano  ad  essi  consegnati  e  che  il  trattato  stesso  si  con- 
sideri come  irrito  e  nullo.  Postumio,  nell'atto  di  esser  rimesso  ai 
Sanniti,  percuote  il  feziale  che  lo  consegna,  e  dice  che  i  Romani 
faranno  una  guerra  tanto  più  giusta  in  quanto  un  Sannita  come  egli 
ora  è  ha  insultato  il  loro  feziale.  Ma  il  duce  sannita  Ponzio  ricusa 
di  ricevere  i  Romani  consegnatigli,  e,  deridendo  la  indegna  com- 
media da  essi  rappresentata  e  accusando  i  Romani  di  spergim'o, 
dice  che  o  debbono  sancire  il  trattato  gim-ato  dai  consoli,  o  deb- 
bono rimettere  l' esercito  nella  condizione  stessa  in  cui  erano 
quando  si  giurò  l'accordo.  E  la  guerra  vien  ripresa  da  una  parto 
e  dall'altra  con  più  accanimento  di  prima. 

Nel  137  av.  Gr.  un  esercito  romano  di  20  mila  uomini  che 
operava  in  Spagna  contro  i  Numantini  agii  ordini  del  console 
G.  Ostilio  Mancino  fu  circondato  dal  nemico.  Il  console  capitolò 
consegnando  armi  e  bagagli,  e  giurando  insieme  con  altri  ufficiali 
superiori,  tra  cui  il  questore  Tib.  Sempronio  Gracco,  un  trattato 
di  pace  tra  Roma  e  Numanzia.  Gassato  questo  dal  senato  nel  136, 
si  stabili  di  consegnare  il  console  Mancino  nelle  mani  dei  Nu- 
mantini; furono  invece,  con  poco  riguardo  alla  logica,  risparmiati 
gli  ufficiali  che  avevano  al  pari  di  lui  gim'ato  i  patti,  e  ciò  per 
salvare  il  (juestore  Gracco,  che  godeva  assai  favore  presso  il  popolo 
e  che  non  molto  dopo  si  presentò  pel  133  candidato  al  tribunato 
della  plebe.  Ostilio  fu  pertanto  consegnato  ai  Numantini,  che  rifiu- 
tarono sdegnosamente  di  riceverlo. 

Non  può  esservi  dubbio  per  chi  conosca  la  natura  della  nostra 
tradizione  sulle  guerre  sannitiche  e  l'impossibilità  che  si  conser- 
vassero notizie  fededegne  sui  particolari  di  quei  fatti,  che  gli  an- 
nalisti ricopiassero,  riportandole  al  321,  quelle  discussioni  e  quelle 
deliberazioni  che  avvennero  realmente  nel  136.  K  ciò  chiarisce  per- 


bibbcKa,  aù^Travrec;  6ffoi  laexà  toù;  bierpGapuevou;  t^pxov,  ò  probante,  nel  senso, 
s'intende,  che  il  falsario  di  quel  documento  (v.  sopra  p.  308  n.  1)  suppose  die  la 
metà  dei  24  tribuni  militari  che  accompagnavano  normalmente  quattro  legioni 
fossero  periti  combattendo. 


LA    PACE    CAUDINA  313 


sino  un  particolare  altrimenti  incomprensibile.  Tra  quelli  die  ave- 
vano giurato  i  patti  coi  Sanniti  erano,  si  narra,  due  tribuni  della 
plebe,  i  quali,  non  molto  disposti  a  lasciarsi  riconsegnare  al  ne- 
mico, mettevano  innanzi  la  scusa  della  loro  sacrosanta  potestà. 
Ma  il  contegno  di  Postumio  e  del  senato  li  persuase  a  rinunciare 
alla  loro  opposizione  e  a  dimettersi  dal  tribunato  per  poter  essere 
senza  scrupolo  dati  in  mano  ai  Sanniti.  Ora  si  va  incontro 
a  grandi  difficoltà  sia  amméttendo  che  tribuni  della  plebe  in  ca- 
rica avessero  seguito  Tesercito,  sia  supponendo  die  si  trattasse  di 
tribuni  designati,  die  fossero  entrati  in  carica  solo  dopo  il  loro 
ritorno  in  Roma.  Infatti  da  una  x^arte  i  tribuni  della  plebe  non 
potevano  allontanarsi  x^iù  d'un  miglio  oltre  i  limiti  del  pomerio  ; 
dall'altra  assumevano  il  loro  ufficio  il  dieci  dicembre  e  le  deci- 
sioni in  senato  non  potendo  essere  state  che  di  poco  jiosteriori 
al  disastro,  converrebbe  riferir  questo  all'ottobre  o  novembre  e 
supporre  uno  spostamento  assai  singolare  dei  mesi  romani  in  con- 
fronto con  le  stagioni.  Una  spiegazione  semplicissima  di  questa 
notizia  è  invece  die  un  annalista  abbia  voluto  col  racconto  della 
consegna  dei  tribuni  della  plebe  die  avevano  giurato  il  trattato 
di  Gaudio  vituperare  gli  amici  di  Tiberio  Grracco  die,  sebbene  egli 
non  fosse  ancora  designato,  ma  solo  preconizzato  tribuno,  avevano 
voluto  ad  ogni  costo  salvarlo,  impedendone  la  consegna  ari  Nu- 
mantini  e  accrescendo  cosi  linfamia  che  il  popolo  romano  si  ac- 
quistava con  la  violazione  del  trattato  giurato  da  Ostilio  e  da'  suoi 
ufficiali  (1). 

Agli  annalisti  non  pareva  possibile  che  Roma  si  fosse  rasse- 
gnata a  sopportare  sia  pure  per  breve  tempo  l'onta  della  pace 
Caudina  ;  e  supposero  che  quel  trattato  venisse  immediatamente 
rescisso,  come  fiu-ono  annullati  al  tempo  loro  quelli  conclusi  con 
Numanzia  da  Q.  Pompeio  e  da  G.  Ostilio  Mancino.  In  realtà  essi 
fecero  grave  torto  ai  loro  avi  del  IV  secolo  paragonandoli  ai  Ro- 
mani della  metà  del  II  che,  nella  coscienza  dell'invincibilità  delle 
loro  legioni,  si  credevano  lecita  ogni  cosa;  e  maggior  torto  ai 
bravi  contadini  proprietari  del  Lazio,  che  costituivano  il  nerbo 
degli  eserciti  romani  nell'età  delle  guerre  sannitiche,  paragonan- 
doli alle  torme  sfrenate  dell'esercito  di  Mancino  e  supponendo  che 
al  pari  di  queste  fossero  pronti  ad  arrendersi  senza  colpo  ferire. 
Le  due  legioni  consolari  erano  rimaste  indubitatamente  nei  com- 
battimenti che  precedettero  la  resa,  scompigliate  e  decimate,  talché 


(1)  Su  tutto  ciò  V.  NissEN  mem.  cit. 


s 
314      CAPO    XIX  -  LA    LOTTA    TltA    osrUI    V.    LATINI   PER    l'eGEMOBIA 

per  ricominciare  con  profitto  la  guerra  conveniva  ricostituire  l'eser- 
cito, né  ciò  si  poteva  fare  senza  un  breve  periodo  di  raccoglimento. 
Iniziando  subito  le  ostilità,  si  rischiava  invece  di  andare  incontro 
a  perdite  anche  maggiori  di  quelle  sofferte  e  soprattutto  di  met- 
tere in  pericolo  il  dominio  romano  in  Campania.  E  così  l'interesse 
e  l'onore  fecero  del  pari  che  la  pace  coi  Sanniti  fosse  realmente 
osservata  per  qualche  tempo  ;  di  che  la  prova  sta  in  ciò,  che  le  due 
terre  di  cui  i  Sanniti  avevano  pattuito  nel  trattato  la  consegna,  Lu- 
ceria  e  Fregelle,  furono  da  essi  realmente  occupate  (1).  È  vero  che 
secondo  la  nostra  tradizione  Fregelle  fu  concpiistata  per  sorpresa 
di  notte  ;  ma  impadi^onirsi  per  sorpresa  di  una  colonia  latina 
posta  a  guardia  del  confine  non  doveva  essere  facile  allora  come 
non  fu  mai  ne  prima  né  dopo  ;  onde  par  chiaro  che  gii  annalisti, 
i  quali  tenevano  il  trattato  come  nullo,  dovettero  inventare  per 
debito  di  coerenza  la  sorpresa,  a  fine  di  spiegare  come  Fregelle 
fosse  occupata  dai  Sanniti  senza  che  i  Romani  si  movessero  a  di- 
fenderla. 

Di  questo  periodo  di  pace  i  Romani  profittarono  per  modifi- 
care alquanto  la  tattica  e  T  armamento  dell'esercito  adottando 
in  parte  quegli  ordini  che  vedevano  far  buona  prova  presso  il 
nemico.  Ciò  che  costituiva  la  forza  degli  eserciti  romani  era  la 
coesione  ;  e  a  questa  essi  dovevano  le  i^recedenti  vittorie  sui  San- 
niti ;  ma  se  la  coesione  sola  bastava  combattendo  in  campo  aperto 
nella  pianura  laziale  o  nella  campana,  il  disastro  di  Caudio  pro- 
vava che  non  era  sufficiente  tra  i  monti  del  Sannio,  dove  i  mobili 
(h^appelli  nemici  avevano  il  vantaggio  sulle  pesanti  colonne  ro- 
mane. Bisognava,  senza  perdere  la  coesione,  accrescere  la  mobi- 
lità della  fanteria,  e  ciò  si  raggiunse  creando,  entro  l'unità  tattica 
della  legione,  unità  tattiche  minori,  i  manipoli.  Cosi  i  Romani  pre- 
pararono la  vittoria  definitiva  ;  perché  i  Sanniti  si  trovarono  dopo 
ciò  inferiori  anche  tra  i  loro  monti  ai  Romani;  egli  Etruschi,  che 
non  avevano  avuto  occasione  di  mutare  gii  ordinamenti  delle  loro 
falangi,  vennero  d'allora  in  poi  facilmente  superati  dalle  legioni 
romane,  che  serbavano  l'unità  della  falange,  pur  essendo  assai  x)iù 
mobili  e  più  abili  a  cimentarsi  su  qualsiasi  terreno.  Con  la  trasfor- 
mazione della  tattica  si  accompagnò  la  modificazione  delle  armi, 
che  furono  anch'esse  imitate  dal  nemico  (sopra  p.  207);  cioè  alla 
lancia    si    sostituì  il  pilo,  che  si  scagliava   a   una   certa   distanza 


(1)  Questo  fu  acutamente  osservato  dal  Niebuhu  111  p.  259,  il  quale  però  non 
ha  tratto  dalle  sue  osservazioni  le  conseguenze  lot?iche. 


RIFORME    MILITARI  315 


sul  nemico,  cercando  di  scompigliarne  le  file,  e  la  spada  per  com- 
battere a  corpo  a  corpo  ;  mentre,  per  protegger  meglio  la  p)ersona 
dagli  avversari  non  più  tenuti  a  distanza  dalla  lancia,  diveniva  di 
uso  generale,  in  luogo  del  piccolo  scudo  di  bronzo  di  cui  era  armata 
la  prima  classe,  l'ampio  scudo  di  cuoio  gicà  usato  dalla  classe  se- 
conda e  dalla  terza.  Altro  effetto  di  queste  riforme,  sebbene 
non  immediato,  fu  l'accrescimento  delle  milizie  cliiamate  sotto  le 
armi,  perchè  la  mobilità  dei  manipoli  faceva  si  che  non  tutta  la 
fanteria  di  grave  armatura  potesse  contemporaneamente  aver 
|ìarte  alla  battaglia,  sia  pure  soltanto  con  lo  sx)ingere  innanzi  le 
prime  file,  ma  una  porzione  servisse  soltanto  come  riserva  :  e  ciò 
permise  senza  dubbio  ai  Romani  più  d'una  volta  di  ristabilire  le 
sorti  incerte  d'una  battaglia  :  ma  li  costrinse  anche  a  nuovi  sacri- 
fizi, affinchè  il  diminuii'e  delle  milizie  cui  era  in  effetto  affidato 
il  primo  urto  col  nemico  non  ne  scemasse  1'  efficacia.  Con  la  ri- 
forma della  fanteria  si  accompagnò  quella  della  cavalleria  (sopra 
p.  208),  che  se  non  tolse  al  tutto  ,  attenuò  almeno  l'inferiorità  in 
cui  si  trovavano  rispetto  a  quest'  arma  i  Romani  a  confronto  dei 
Campani  e  dei  Sanniti. 

Le  invenzioni  tendenziose  degli  annalisti  si  accumulano  nella 
pseudostoria  dell'  anno  seguente  (1).  I  due  consoli  di  quell'  anno. 
Q.  Pubblio  Filone  e  L.  Papmo  Cm'sore,  i  due  migliori  capitani 
che  Roma  allora  avesse,  costituiscono,  a  quel  che  si  naiTa,  con 
gli  stessi  soldati  che  avevano  capitolato  a  Caudio  nuove  legioni. 
Papirio  muove  verso  la  Puglia,  Pubblio  verso  il  Sannio  per  tra- 
versarlo lirendendo  la  rivincita  del  disastro  di  Caudio  ;  ma  questa 
volta  non  c"è  bisogno  per  penetrare  nel  Sannio  di  superare  spa- 
ventosi burroni  asserragliati  dal  nemico.  Il  console  entra  senza 
difficoltà  tra  i  monti,  sconfigge  con  la  metà  dell'esercito  che  ave- 
vano i  comandanti  di  Caudio  le  legioni  sannitiche  stesse  vittoriose 
de"  suoi  predecessori  e,  traversato  il  paese  nemico,  si  congiunge 
felicemente  con  Papuio  che  assediava  Ijuceria,  ove  i  Sanniti  te- 
nevano gli  ostaggi  romani  ricevuti  a  Caudio.  Qui  sul  di-amma  si 
innesta  la  comm.edia.  Si  fanno  innanzi  ambasciatori  tarentini  ad 
intimare  a  Romani  e  Sanniti  di  deporre  le  armi.  Papuio,  che  si 
era  riservato  di  rispondere  tra  qualche  tempo,  mette  in  ordine  di 
combattimento  le  trui)pe  e,  chiamati  a  ludibrio  i  Tarentini,  dà  il 
segnale  della  battaglia.  Mentre  i  Sanniti  protestano  di  non  voler 
uscire  a  battersi  per  riguardo  agli  ordini  di  Taranto  a  cui  intendono 


(1)  Liv.  IX  12-1.5. 


316      CAPO   XIX  -  LA    LOTTA    TRA    OSCHI    E    LATINI   PER    l'eGEMONIA 

obbedire,  i  Romani  assalgono  il  loro  accampamento  e  riportano 
nna  splendida  vittoria,  dopo  la  quale  Publilio  riceve  in  dedizione 
i  popoli  dell' Apulia,  e  Papii*io,  rimasto  con  l'esercito  dinanzi  a  Lu- 
cerla, costringe  i  Sanniti  a  capitolare.  I  Romani  con  la  città  ricu- 
perano le  armi,  le  insegne,  gli  ostaggi  rimessi  al  nemico  a  Gaudio 
e  mandano  sotto  il  giogo  sette  mila  Sanniti,  tra  cui  il  vincitore  di 
Gaudio,  Ponzio  figlio  di  Erennio. 

Il  silenzio  dei  fasti  trionfali  su  queste  vittorie  del  320  è  gra- 
vissimo argomento  contro  la  loro  realtà  storica;  ma  più  la  situa- 
zione militare  degli  anni  seguenti  che  è  al  tutto  incomprensibile 
doi30  vittorie  romane  di  tanta  importanza.  E  assurdo  che  ad  un 
solo  esercito  consolare  nel  320  venisse  fatto  a  beli'  agio  con  le 
truppe  disanimate  dal  disastro  caudino  ciò  cui  non  erano  perve- 
nuti i  due  eserciti  consolari  riuniti.  Fa  poi  d'uopo  appena  accen- 
nare alle  altre  evidenti  falsificazioni  del  racconto  tradizionale  : 
incomprensibile  è  per  esempio  come  i  Sanniti  tenessero  in  Lu- 
cerla, una  terra  occupata  da  poco  fuori  del  loro  paese,  gli  ostaggi 
romani,  e  incomprensibile  come  riconoscessero  l'alto  dominio  ta- 
re ntino  dopo  una  vittoria  come  quella  di  Gaudio,  essi  che  erano 
tanto  gelosi  della  loro  indipendenza  e  avevano  cosi  aspramente 
combattuto  fino  allora  contro  gl'Italioti.  Par  chiaro  che  gli  anna- 
listi del  II  secolo  credettero  indisj)ensabile  per  l'onore  delle  armi 
romane  di  far  seguire  immediatamente  alla  sconfitta  quella  rivin- 
cita che  ebbe  luogo  solo  più  tardi  e  in  maniera  assai  diversa.  E 
come  è  impossibile  andar  d' accordo  quando  s' inventa ,  e'  era  chi 
ascriveva  il  vanto  di  questa  rivincita  ai  consoli,  chi  l'attribuiva  a 
L.  Gornelio  dittatore  con  L.  Papiiio  Gursore  maestro  della  caval- 
leria (1),  chi  la  narrava  invece  all'anno  dopo  (2)  ;  e  non  tutti  s'ac- 
cordavano nei)pure  nella  favola  del  duce  sannita  Ponzio  costretto 


(1)  Liv.  IX  15:  ceterion  id  minus  miror  obscurum  esse  de  hostium  duce  dedito 
missoque  (cfr.  Djonys.  XVI  1,  4):  id  magis  mirabile  est  ainbigi  Luciusne  Cor- 
nelius  dictator  cutn  L.  Papirio  Cursore  magistro  equituin  eas  res  ad  Caudiiim 
atque  inde  Luceriam  gesserit  ultorque  unicus  Romanae  ignominiae...  triumphaverit 
an  consuluin  Painrique  praecipuum  id  decus  sit. 

(2)  Così  la  cronica  di  Oxyrhynchos  al  318/7  (dopo  aver  registrato  al  320  19 
il  disastro  di  Gaudio,  v.  sopra  p.  311  n.  1):  Ttju)uaìoi  iTapaTa2[aMe]voi  IauveÌTOi<; 
èvi[Kriaav]  xaì  Toùq  aix|Lia\djT[ouq  Tidv]iac,  aÙTÓùv  èv  rr)  TTp^orép?]  MÓX'l  àTieXaPov. 
La  stessa  versione  era  probabilmente  quella  della  fonte  prima  dei  f.  trion- 
fali, che  registrano  al  319  il  trionfo  di  L.  Papirio  Cursore  de  Samnitihus  ;  ma 
si  cercava  di  combinarla  con  la  prima  vittoria  di  L.  Papirio  nel  320,  cfr.  Liv. 
IX   16,  11. 


INVENZIONI   ANNALISTICHE  317 

a  passare  sotto  il  giogo.  Eliminata  questa  pretesa  rivincita  del  320 
o  319,  può  sorgere  persino  il  dubbio  se,  come  le  storielle  imprese 
vittoriose  di  Publilio  e  Papirio  del  315  furono  parzialmente  rico- 
piate nei  racconti  fantastici  intorno  al  320,  cosi  anclie  il  loro  con- 
solato del  320  non  sia  che  una  reduplicazione  di  quello  del  314. 
Ma  se  l'ultimo  punto  è  più  clie  incerto  (I  p.  12),  par  certo  invece 
che  ostilità  aperte  tra  Romani  e  Sanniti  in  questi  due  anni  non 
vi  fossero.  I  Romani  non  fecero  alcun  tentativo  per  ricuperare  la 
l'occa  di  Fregelle  presidiata  dai  Sanniti  (1),  e  non  ripresero  in  realtà 
che  assai  più  tardi  Lucerla,  la  quale  fino  al  315  o  14  rimase  in  mano 
dei  loro  avversari.  Solo  fatto  degno  di  fede  riferito  per  questi 
anni  è  il  ricupero  di  Satrico  (319),  città  vicina  a  Fregelle,  che, 
pur  essendo  municix)io  romano,  aveva  defezionato  poco  prima  (2). 
Può  Sarsi  che  i  Sanniti  soccorressero  apertamente  o  di  sotto- 
mano i  Satricani  ;  ma  non  tennero  limito  il  procedere  dei  Romani 
verso  Satrico  come  una  violazione  del  trattato  di  pace.  E  cosi 
pure  senza  rompere  il  trattato  caudino  i  Romani  cercarono  nova- 
vamente  d'aprirsi  la  via  dell'Apulia  attraverso  l'Appennino  e  lungo 
l'Adriatico,  dacché  non  vi  potevano  pervenire  per  mezzo  il  Sannio. 
A  tal  uopo  ebbero  a  combattere  coi  Frentani,  che  anch'essi  dopo 
Gaudio  avevano  rotto  il  loro  trattato  d' alleanza  con  Roma  (3)  ; 
ma  visto  ora  che  i  Romani  non  si  rimovevano  per  la  sconfitta  dai 
disegni  di  ]3rima,  tornarono  senza  troppa  difficoltà  all'alleanza:  di 
che  si  ha  la  prova  altresì  nell'esser  novamente  libei^a  ai  Romani 
non  nel  320,  ma  nel  318,  la  via  dell'Apulia. 

Non  è  facile  piuttosto  spiegare  linazione  apparente  dei  San- 
niti né  com'essi  lasciassero  mano  libera  ai  Romani  verso  le  Puglie. 
Ma  la  ragione  deve  probabilmente  cercarsene  nelle  relazioni  tra  i 
Sanniti  e  gli  Italioti,  che  erano  molto  diverse  da  quel  che  non 
si  pensasse  l'annalista  a  cui  si  deve  la  commedia  dell'intervento 
tarentino  a  Lucerla.  Perocché  le  lotte  tra  Grreci  ed  Italici  erano 
continuate  con  accanimento  anche  dopo  la  morte  di  Alessandro 
d'Epù'O  ;  e  in  particolare  solo  all'intervento  siracusano  doveva  la 
sua  salvezza  Crotone  assediata  dai  Bruzì  (330  circa)  (4).  Ma  questo 


(1)  Dioij.  XIX  101.  Liv.  IX  28,  3.  Livio  in  questo  luogo  rappresenta  la  rocca 
di  Fregelle  come  occupata  dai  Sanniti  poco  prima  d'esser  ripresa  dai  Romani  ; 
ma  non  è  certo  dopo  le  sconfitte  del  314  che  ai  Sanniti  succedette  d'occupare 
Fregelle. 

(2)  Liv.  IX  12,  20.  16.  Cfr.  sopra  p.  296  n.  2. 
(8)  Liv.  IX  16,  1. 

(4)  DioD.  XIX  3. 


318      CAPO   XIX  -  LA    LOTTA   TRA   OSCHl    E    LATINI    l'ER   l'eGEMONIA 

intervento  aveva  inasx)rito  altresì  le  discordie  intestine  e  costretto 
i  democratici  crotoniati  a  prender  la  via  dell'esilio;  poiché  in  Si- 
racusa allora  spadroneggiava  una  oligarchia  al  cui  predominio 
avevano  preparato  il  terreno  le  riforme  costituzionali  introdotte 
da  Timoleonte.  E  i  fuorusciti  democratici,  collegatisi  forse  coi  Bruzi, 
guidati  da  un  esule  siracusano,  Agatocle  che  xjoi  fti  signore  di  Si- 
racusa, dopo  un  vano  tentativo  d'impadronii'si  della  rocca  di  Cro- 
tone, avevano  soccorso  efficacemente  i  Regini  assaliti  dall'oligai- 
eliia  skacusana.  Frattanto  la  morte  d' Alessandi^o  Magno  (323), 
come  fece  rialzare  la  testa  alla  demagogia  nella  penisola  greca, 
così  non  fu  senza  gravi  effetti,  quasi  per  ripercussione,  nell'Occi- 
dente ellenico  (1).  Ciò  spiega  come  gli  oligarchici  di  Siracusa  per- 
dessero il  potere  ed  a  Crotone  tornassero  gii  esuli  democratici, 
mentre  i  Crotoniati  che  si  sentivano  più  esposti  a  rappresaglie 
Xjer  le  loro  relazioni  con  l'oligarchia  siracusana  abbandonavano  la 
città  (2).  Ed  ora  prima  cura  dei  democratici  fu  la  pace  coi  Bruzi, 
mentre  i  fuorusciti  soccorsi  dai  Tmini  cercavano  di  riconquistare 
la  patria  con  le  armi  in  mano  e  poi,  essendo  stati  respinti,  si  ac- 
campavano ai  confini  dei  Bruzi,  dove  perirono  tutti  combattendo. 
Qual  parte  avessero  in  queste  lotte,  di  cui  abbiamo  notizie  sì 
frammentarie,  i  Lucani  e  i  loro  alleati  sanniti  non  ci  è  traman- 
dato ;  ma  è  chiaro  che  essi  non  potevano  in  alcun  modo  trascu- 
rarle ;  e  forse  per  questo,  forse  perchè,  soddisfatti  di  quel  che  ave- 
vano ottenuto,  non  volevano  dar  pretesto  ai  Romani  di  riprendere 
la  guerra,  i  Sanniti  non  si  occuparono  di  chiudere  ai  Romani  la 
via  delle  Puglie. 

E  così  per  due  anni  ancora  (318-317)  non  vi  furono  ostilità  tra 
Romani  e  Sanniti  (3).  Il  silenzio  della  tradizione  indusse  persino 
gii  annalisti  che  non  avevano  voluto  credere  alla  pace  caudina 
ad  ammettere  una  tregua  biennale  che  i  Sanniti    avrebbero  otte- 


(1)  Cfr.  le  mie  osservazioni  nella  '  Riv.  di  Fil.  '  XXIIl  (1895)  p.  292. 

(2)  Ciò  è  da  ricavare  da  Diod.  XIX  10. 

(3)  Col  318  (che  egli  ragguaglia  all'anno  attico  317/6)  comincia  Diodoko  la 
sua  storia  delle  guerre  sannitiche  con  queste  parole:  Karà  òè  Tf]v  'IroXiav 
'Puj|uialoi.  |Lièv  èvvoTov  éroq  i\br]  òieiroXénouv  upòc;  Zauvira^  (ossia  dal  327,  non 
computato  l'anno  dittatoriale  324),  Kal  Karà  |nèv  toùc;  liairpoaGev  xpóvouq  }xe.- 
fà\ai<;  òuvóiueffiv  i^aav  biriYujvianévoi,  TÓte  bè  et<;  tì)v  iroXeiuiav  eìaPoXàq  tioioO- 
(ievoi  )U€Ya  (ièv  oùbèv  oùbè  uvi'uli»-);  àiiov  bieirpdiEavTo,  bieréXcuv  bè  toIc,  qppoup(oi<; 
irpoopoXàq  Troioù|a€voi  koì  tì\v  x^P^'^  XerjXaToOvTeq,  ènópOriaav  bè  Tf)q  'ATTouXiac; 
Tr^v  Aauviav  iróiaav  icai  TTpoaataYÓiaevoi  Kavuoioue;  ó|uripou^  -rrap'  aÙTuùv  èXa^ov. 
Per  l'anno  seguente  Diodoro  tace  di  nuovo. 


SANNITI    ED    ITALIOTI  i319 


liuto  con  le  suppliche  più  umili,  singolare  umiltà,  mentre  occu- 
pavano, come  la  tradizione  stessa  riconosce,  la  rocca  di  Fregelle, 
e,  come  non  è  meno  sicui'O  per  quanto  non  sia  riconosciuto  espli- 
citamente dalla  tradizione,  Lucerla.  Ad  ogni  modo  i  Romani  pro- 
fittarono dell'inazione  dei  Sanniti  per  raffermare  la  propria  autorità 
nella  Daunia  costringendo  a  far  alleanza  con  Roma  anclie  le  due 
città  osche  di  Canusio  (318)  e  di  Teano  (317)  (1).  Ed  ormai  conso- 
lidatisi nell'Apulia,  messo  nuovamente  in  assetto  l'esercito,  presi 
i  provvedimenti  che  parvero  loro  più  opportuni  per  assicurarsi 
della  vacillante  fedeltà  dei  Campani,  si  trovarono  preparati  alla 
gueiTa. 

Non  sappiamo  quale  dei  due  popoli  fosse  il  primo  a  ricomin- 
ciare le  ostilità  dox30  quattro  o  cinque  anni  di  tregua,  né  se  queste 
avessero  principio  nel  316  o  nel  315.  Nel  316  infatti  non  si  ha  no- 
tizia fededegna  che  dell'alleanza  contratta  dai  Sanniti  coi  Nuce- 
rini  in  Campania  e  al  tempo  stesso  degli  ulteriori  progressi  dei 
Romani  dalla  parte  della  Apulia,  ove  occuparono  al  confine  lucano 
Forento  a  poca  distanza  da  Venosa  e  più  oltre  una  ignota  terra 
.  lucana  detta  Nerulo  (2),  e  solo  pel  315  sappiamo  con  sicui'ezza  che 


(1)  Liv.  IX  '20,  4  (ad  a.  318):  et  ex  Apulia  Teanenses  Canusinique  populatio- 
nibus  fessi  obsidibus  L.  Plautio  consuli  datis  in  deditionem  venerimi;  ed  al  317 
(20,  7-8),  non  accorgendosi  di  parlare  degli  stessi  Teanensi:  Teates  quoque  Ap idi 

ad  novos  consides foedus  petitmn  venerunt  impetravere  ut  foedus  daretur 

neque  ut  aequo  tamen  foedere  sed  ut  in  ditione  populi  Romani  essent.  Il  silenzio 
di  DioDORO  al  318  rende  preferibile  la  seconda  data. 

(2)  DiOD.  XIX  65,  7  :  'PuujLiaìoi  |uèv  òia-nroXefioOvTec;  Zoiuvitok;  <t>ep6VTriv  iróXiv 
Tfjq  'AirouXiac;  kotò  Kpaioc;  eiXov,  oi  òè  rY]v  NouKepiav  ty]v  'AXoparépvav  koXou- 
luévriv  oÌKoOvrec;  TTeicreévTeq  ùttó  tivujv  tì]c,  jnèv  '  Puj|uaiujv  qpiXiac;  àtréaTriaav,  irpòt; 
bè  Toùq  Za|uvÌTa<;  0U|U|uaxiav  èTroiviaavTo.  Che  per  gli  annalisti  la  lega  dei  Nu- 
cerini  coi  Sanniti  fosse  una  defezione  da  Roma  s'intende  ;  ma  ciò  appar  molto 
dubbio  dacché  l'influenza  romana  in  Campania  non  sembra  si  estendesse  oltre 
Napoli.  Livio  racconta  la  presa  di  Forento  all'anno  precedente  (IX  20,  9),  in 
quest'anno  invece  l'assedio  di  Saticula  e  di  Plistica  (e.  21),  di  cui  torna  a  par- 
lare all'anno  seguente  (e.  22)  sotto  il  quale  ne  fa  unicamente  menzione  Diodoro 
(XIX  72).  Pare  che  qui  Livio  o  la  sua  fonte  abbia  contaminato  due  scrittori 
la  cui  cronologia  di  questi  fatti  differiva  di  un  anno;  è  il  caso  stesso  del 
trattato  con  Teano  ripetuto  da  Livio  due  volte  al  318  e  al  317  (sopra  n.  1). 
Convien  quindi  riportare,  attenendoci  alla  cronologia  di  Diodoro,  al  316 
l'occupazione  di  Forento  e  quella  che  con  essa  sembra  connettersi  di  Nerulo 
(sebbene  non  narrata  che  da  Livio  e  soltanto  al  317,  IX  20,  9:  Apulia  perdo- 
mita.,..  in  Lucanos  perrectum,  inde  repentino  adventu  Aeinili  consulis  Nerulum 
vi  captuin);  al  315  l'assedio  di  Saticula  e  di  Plistica. 


320      CAPO   XIX  -  LA    LOTTA   TUA    OSCHI   E    LATINE    PER   l'eG EMONIA 

.si  combattè  tra  Sanniti  e  Romani.  I  Romani  s'erano  scelti  a  consoli 
due  dei  loro  capitani  più  esperti,  L.  Papii'io  Cursore  e  Q.  Publilio 
Filone;  e  questi  avevano  adottato  lo  stesso  piano  di  guerra  che 
s'era  tenuto  prima  del  disastro  caudino:  siccliè  mentre  l'uno  con 
una  legione  operava  nell'Apulia,  l'altro  con  un'altra  legione  pro- 
teggeva la  Campania.  Ma  da  questa  parte  i  Romani  non  si  con- 
tentarono più  di  stare  sulle  difese,  bensì  presero  prudentemente 
l'offensiva,  e  risalendo  il  Volturno  fino  al  confluente  dell' Isclero 
e  seguendo  poi  questo  torrente  posero  l'assedio  a  Saticula,  risoluti 
d'impadronirsi  d'una  delle  chiavi  della  valle  Caudina.  L'esercito 
assediante  s'era  questa  volta  trincerato  fortemente,  e  col  concorso 
dei  Capuani  aveva  assicurato  le  retrovie  ;  quindi  al  nemico  non  venne 
fatto  di  costringere  i  Romani  a  toglier  l'assedio.  Ma  il  successo 
di  Gaudio  aveva  imbaldanzito  i  Sanniti;  e  però  essi  con  un'ardi- 
tezza di  mosse  di  cui  avevan  dato  pochi  esempi,  non  solo  presero 
frattanto  d'assalto  nna  terra  presidiata  dai  Romani  di  nome  Pli- 
stia  o  Plistica,  di  cui  ci  è  ignota  la  posizione,  ma  scendendo 
improvvisamente  forse  da  Venafro  pel  basso  Liri  nel  paese  degli 
Am-unci,  dopo  averli  indotti  a  ribellione,  per  la  via  costiera  si  di- 
filarono verso  Terracina.  Cosi  da  una  parte  la  legione  che  cam- 
peggiava a  Saticula  si  trovò  tagliate  le  comunicazioni  con  Roma 
perchè  dalla  rocca  fregellana  i  Sanniti  dominavano  la  via  La- 
tina, ed  ora  anche  la  strada  costiera  era  chiusa  dalla  insm:re- 
zione  degli  Aurunci,  dall'altra  l'esercito  che  operava  nell'Apulia 
non  era  più  in  tempo  per  x3roteggere  Terracina  e  Roma.  Per- 
tanto i  Romani  si  avvisarono  che  fosse  necessario  uno  sforzo  su- 
premo per  imxjedire  che  la  ribellione  si  propagasse  nel  loro  terri- 
torio. Chiamate  alle  armi  le  riserve,  fu  nominato  dittatore  uno 
dei  più  arditi  capitani  che  avesse  allora  Roma,  Q.  Fabio  Rulliano, 
il  quale  si  scelse  a  maestro  dei  cavalieri  un  bravo  ufficiale  che 
due  volte  era  stato  console,  Q.  Aulio  Cerretano.  Col  loro  esercito 
improvvisato  i  Romani  marciarono  fin  oltre  Terracina  e  cercarono 
di  chiudere  ai  Sanniti,  tra  il  monte  e  il  lago  di  Fondi,  le  Termo- 
pile dell'  Italia  media  ossia  il  passo  di  Lautule  (1).  Qui  avvenne 
un'accanita  battaglia  in  cui  le  truppe  raccogliticce  dei  Romani  non 
resistettero  all'imi^eto  dei  Sanniti,  e  il  maestro  dei  cavalieri  cadde 
combattendo  (2).  Mentre  in  conseguenza  della  vittoria  i  Sanniti  po- 


(1)  NissEN    LandesJcunde  II  642. 

(2)  Un'altra  versione  nota  a  Livio  (IX  22)  riferiva  la  morte  di  Aulio  ad  un 
combattimento  presso  Saticula,  in  cai  i  Romani  avevano  finito  col  riportare 
Vittoria;  ma  questa  versione  è  poco  degna  di  fede,  v.  oltre  p.  324. 


BATTAGLIA    DI    LAUTULE  321 

iievano  rassedio  a  Terracina,  si  ribellava  Capua,  la  seconda  città 
dello  Stato  romano.  La  battaglia  di  Lautule  segnò  il  culmine  dei 
prosperi  .successi  riportati  dai  Sanniti  nella  loro  seconda  guerra 
contro  Roma,  come  la  battaglia  di  Canne  segnò  quello  dei  suc- 
cessi cartaginesi  nella  seconda  punica.  Ma  v'era  tra  l'esercito  san- 
nita e  il  cartaginese  una  differenza  che  spiega  come  i  Romani 
tardarono  tanti  anni  a  xjrender  la  rivincita  di  Canne,  mentre  poco 
andò  che  riuscirono  ad  avere  quella  di  Lautule.  I  Cartaginesi 
d'Annibale  finché  il  fiore  delle  loro  schiere  non  peri  combat- 
tendo, rimasero  superiori  in  campo  aperto  ai  Romani;  i  Sanniti 
furono  in  campo  aperto  sempre  inferiori,  tantoché  non  osarono 
cimentarsi  in  generale  se  non  quando  avevan  per  sé  il  vantaggio 
della  posizione  e  del  numero  o,  come  a  Lautule,  quando  potevano 
opporre  le  loro  truppe  più  agguerrite  alle  truppe  romane  di  se- 
conda linea.  Quindi  quanto  felici  nella  difensiva,  altrettanto  fui-ono 
in  generale  inabili  a  prendere  una  ardita  offensiva  nonostante  il 
vantaggio  che  dava  loro  la  posizione  del  Sannio  al  confronto  delle 
sottili  linee  romane  che  s'estendevano  da  Capua  a  Roma  e  da 
Roma  a  Luceria. 

Dopo  la  battaglia  di  Lautule,  come  dopo  quelle  d'Eraclea  e  di 
Canne,  si  manifestò  la  meravigliosa  forza  di  coesione  dello  Stato 
romano.  Sollevazioni  avvennero,  ma  tra  le  città  meno  favorite, 
che  non  possedevano  i  pieni  diritti  di  cittadinanza  romana.  Rima- 
sero invece  senza  eccezione  fedeli  le  colonie  latine,  le  città  latine 
cui  erano  stati  conceduti  i  pieni  diritti  di  cittadinanza  e  le  città 
volsche  in  cui  Roma  aveva  saputo  ridurre  all'impotenza  la  popo- 
lazione indigena  pre^Darandone  efficacemente  la  latinizzazione.  Non 
poteva  esser  dimostrata  in  modo  più  chiaro  l'opportunità  del  trat- 
tamento usato  verso  i  vinti  della  guerra  latina.  Che  se  Roma 
avesse  allora  abusato  della  vittoria  assoggettandoli  a  prestazioni 
d'uomini  e  di  danari  senza  alcun  contraccambio,  il  disastro  di 
Caudio  e  la  rotta  di  Lautule  sarebbero  stati  fatali  per  l'egemonia 
romana,  come  per  Atene  il  disastro  di  Sicilia  e  la  rotta  d'Egospo- 
tami.  Ora,  intanto  che  i  Sanniti  benché  vittoriosi  non  osavano 
avanzarsi  in  pieno  paese  nemico,  i  Romani,  richiamate  dall' Apulia 
le  loro  forze  migliori,  si  preparavano  all'offensiva;  e  sulla  pri- 
mavera dell'anno  seguente  un  esercito  forte  di  due  legioni  agli 
ordini  del  console  (J.  Sulpicio  Longo  si  avanzò  verso  Terracina  (1). 


(Ij  Livio  (IX  27)  e  Diodoko  (XIX  76)  attribuiscono  la  vittoria  ad  ambedue  i 
consoli,  ma  i  fasti  trionfali  al  314  registrano  solo  il  nome  di  C.  Sulpicio  Longo. 
Quanto  ai  precedenti  della  battaglia,  il  racconto  liviano  appar  poco  soddisfa- 

G-,  De  Sanctis,  Storia  dei  Romani,  II.  21 


322      CAPO   XIX  -  LA    LOTTA    TEA   OSCHl   E    LATINI    PER   l'e&EMONIA 

I  Sanniti  non  avevano  clie  a  retrocedere  o  ad  accettare  battaglia 
campale  contro  le  milizie  romane;  e  sebbene  non  si  trovassero  più 
dinanzi  le  truppe  raccogliticce  con  cui  li  aveva  assaliti  Q.  Fabio 
Rulliano,  dovettero  commettersi  a  battaglia  per  proteggere  i  nuovi 
alleati  am'unci  e  campani  e  per  mantenere  le  posizioni  conqui- 
state con  tanta  fatica  e  tanto  sangue.  E  il  combattimento  terminò, 
com'era  da  prevedere,  con  la  piena  disfatta  dei  Sanniti,  di  cui 
diecimila  (1),  stando  ad  una  notizia  clie  non  sembra  esagerata, 
rimasero  sul  campo.  I  Romani  seppero  vigorosamente  giovarsi 
della  vittoria  ottenuta  e  del  suo  effetto  morale.  Grii  Aurunci  fu- 
rono tosto  assaliti  e  trattati  con  terribile  severità  (2),  espugnata 
Sora  sull'alto  Liri  e  Lucerla  nella  Apulia  (3),  e  mentre  Sulpicio 
compiva  la  sottomissione  degli  Am-unci  e  l'altro  console  Petelio 
entrava  in  Lucerla,  un  tèrzo  esercito  romano,  agli  ordini  del  dit- 


cente  (v.  oltre).  Molto  migliore  è  quello  di  Diodoro  :  Ia|LiviTai  jaèv  luerà  ttoXX5i<; 
òuvciiLieijui;  éitrioav  TTOp6o0vTe(;  tOùv  Kax'  'IroXiav  tróXeiuv  òaai  ToTq  èvavxioK;  ouvr|- 
yuuviZovTO,  oì  ò'  uTTaxci  tlDv  'Puj|uaiijuv  luerà  axpaTOTréòou  irapaYevÓMevoi  Trapo- 
PorjGelv  èireipuJvxo  xotc;  KivbuveOouai  xujv  au|u|adxuuv,  àvxeoxpaxoirgbeùaavxo  bè 
xoìc  TroXeuioii;  rrfpì  Kiwav  ttóXiv  koì  xaùxrjv  |uèv  eùQù<;  èppùaavxo  xiijv  éiTiKei|jévujv 
q)ó(5a)v  KxX.  Questa  città  di  Cinna  era  a  una  certa  distanza  da  Capua  secondo 
Diodoro,  perche  Tf);  |U(ixn<^  (iiYvoou|uévr|^  èxi  Ka|HTTavoi  |nèv  Kaxacppovrioavxec;  xujv 
'Puj|uaiujv  àiréoTriaav  (su  questa  in  verisimile  disposizione  dei  fatti  v.  oltre),  nei 
Campani  campi  ossia  nelle  vicinanze  immediate  di  Capua  secondo  Livio.  Ora 
sembra  impossibile  che  i  Sanniti  non  abbiano  mantenuto  la  posizione  di  Lautule 
dopo  averla  conquistata  e  che  non  abbiano  profittato  della  vittoria  per  avan- 
zarsi alquanto  nel  paese  volsco.  Onde  assai  probabile  pare  che  Kivva  (un  cod. 
ha  Kiva)  si  abbia  da  correggere  con  Burger  'Mnemosyne'  n.  s.  XVI  (1888) 
p.  82  seg.  in  (Tappa)Kiva  e  che  Terracina  sia  la  città  minacciata  dai  Sanniti 
e  liberata  dai  Romani. 

(1)  DioD.  1.  e.  Livio  invece  parla  di  30  mila  morti. 

(2)  Deleta  Ausonum  gens,  Liv.  IX  25,  9. 

(3)  L'occupazione  di  Lucerla  è  riferita  da  Liv.  IX  26  con  maggiore  verisi- 
miglianza  al  314,  da  Diodoro  XIX  72,  8  già  al  315.  Nell'Apulia  non  potè  tro- 
varsi che  il  console  Petelio,  dacché  il  collega  trionfò  per  la  vittoria  di  Ter- 
racina. Secondo  Livio  Sora  fu  pure  occupata  quell'anno  (IX  24);  e  probabilmente 
egli  è  nel  vero,  sebbene  i  fasti  trionfali  registrino  al  312  il  trionfo  di  M.  Va- 
lerio de  Samnitibus  Soraneiftque.  Le  falsificazioni  di  Valerio  Anziate  hanno  reso 
giustamente  troppo  sospetti  i  trionfi  dei  Valeri  perchè  noi  possiamo  in  questo 
caso  preferire  a  cuor  leggero  l'autorità  dei  fasti  trionfali.  In  ogni  modo  la 
tradizione  che  Sulpioio  nel  314  s'impadronì  di  Sora  è  assai  antica,  come  mostra 
la  sua  reduplicazione  a  proposito  del  console  Sulpioio  del  345  (v.  sopra  p.  266 
n.  3).  Secondo  Livio  del  resto  (IX  23,  2)  Sora  si  era  ribellata  ai  Romani 
l'anno  precedente;  il   che   è  molto  incerto,  la    occupazione   romana   del   345 


BATTAGLIA    DI   TERRACINA  323 

tatore  C.  Meiiio,  si  accampava  dinanzi  alla  ribelle  Capua.  Capua 
era  in  grado  di  resistere  a  lungo  ;  ma  lo  sgomento  per  la  rotta  dei 
Sanniti  a  Terracina  e  per  la  sorte  toccata  agli  Aurunci  fece  rial- 
zare la  testa  al  partito  aristocratico,  die  anche  nella  guerra  latina 
era  riuscito,  abbandonando  a  tempo  la  causa  dei  Latini,  ad  otte- 
nere per  Capua  patti  discreti.  Ora  la  condizione  delle  cose  era 
analoga  :  i  Campani  resistendo  fino  agli  estremi  si  sarebbero  esposti 
a  sacrifizi  gravissimi,  forse  non  ritraendone  altro  die  di  perire  con 
la  loro  città;  dal  canto  loro  i  B/Omani,  imponendo  condizioni  troppo 
gravose,  avrebbero  indotto  i  Campani  a  disperata  resistenza  e  resa 
ancor  più  asxira  e  formidabile  quella  guerra  coi  Sanniti  di  cui  ave- 
vano già  sperimentato  la  gravità  e  forse  anche  ne  avrebbero 
messo  a  pericolo  la  vittoria  finale.  Inoltre  i  legami  che  pel  diritto 
di  commercio  e  di  connubio  s'erano  stretti  tra  Romani  e  Campani 
e  in  particolare  tra  Taristocrazia  delle  due  città,  facevano  inclinare 
gli  animi  a  miti  consigli.  E  però  Capua  si  padfìcò  con  Roma  tor- 
nando, come  ci  è  detto  esplicitamente,  nelle  condizioni  di  prima; 
s'intende  che  i  consiglieri  della  ribellione  furono  messi  a  morte  in 
quanto  non  prevennero  essi  stessi  il  giudizio  col  suicidio  (1). 

Sono  queste  le  linee  generali  degli  avvenimenti  del  315  e  314: 
come  possono  tracciarsi  sui  pochi  dati  fededegni  sparsi  nei  racconti 
tradizionali,  i  quali  mostrano  che,  mentre  probabilmente  per  mezzo 
degli  annali  dei  pontefici  s'era  conservata  la  nuda  notizia  de'  fatti 
principali,  s"era  però  perduto  di  vista  il  nesso  tra  quei  fatti  e  la 
fantasia  poco  regolata  degh  annalisti  aveva  faticato  invano  a  ri- 
cercarlo. Cosi  uno  scrittore  collega  la  battaglia  di  Lautule  con  la 
guerra  in  Puglia  e  mostra  di  ritenere,  con  grave  errore  geografico, 
che  colà  appunto  vada  ricercata  Lautule  (2);  un  altro  la  collega 


essendo  probabilmente  una  favola,  v.  sopra  p.  295  n.  4.  Ed  è  da  notare  che 
i  particolari  dati  da  Livio  sul  trattamento  fatto  ai  ribelli  Sorani  (IX  24,  14-15) 
son  riferiti  da  Diodoro  a  proposito  della  presa  di  Fregelle  all'anno  seguente 
(XIX  101,  3). 

(1)  DioD.  XIX  76,  5:  toÙ(;  yàp  aitiouq  Tiìq  Tapaxn^  èSéòtUKav,  o'ì  T[poTeQeior\<i 
KpiOiax;  où  TrepijueivavTcq  t^v  d-rrócpaoiv  aÙTOÌx;  dveUov  .  ai  bè  TTÓXeiq  xuxoOaai 
auYY\/u»|Liris  eie;  Tf]v  TipouTTcipxouaav  au|u,uaxiav  ànoKaTéarriaav,  dove  la  parola 
auiajaaxia  va  presa  cum  grano  salis.  In  Livio  come  è  oscurato  il  racconto  della 
ribellione  capuana,  così  quello  della  repressione,  che  si  trasforma  in  una  ter- 
ribile inchiesta  contro  tutti  coloro  qui  usquain  cuissent  coniurassentque  adversus 
rem  publicam,  alla  quale  non  si  sottrae  né  il  dittatore  Menio  ne  lo  stesso 
Publilio  Filone. 

(2)  DioD.  XIX  72. 


o24      CAPO   XIX  -  LA    LOTTA    TRA   OSCHI   E    LATINI   PER   l'eGEMOMA 

invece  con  la  defezione  di  Sora  e  colloca,  almeno  implicitamente, 
Lautule  nelle  vicinanze  di  quella  città,  mettendosi  in  contrasto  al 
pari  dell'altro  con  la  geografìa  (1).  E  la  vittoria  dei  Romani  a  Ter- 
racina,  che  permise  ad  essi  di  sottomettere  novamente  Aurunci  e 
Campani,  viene  da  uno  scrittore  narrata  dopo  domate  le  ribellioni, 
ossia  quando  i  Sanniti,  se  non  erano  scesi  in  campo  per  difendere 
i  loro  alleati,  non  avevano  alcun  motivo  più  di  cimentarsi  a  bat- 
taglia fuori  del  proprio  paese;  da  un  altro  scrittore  jorima  clie  la 
ribellione  fosse  non  pure  domata,  ma  anche  solo  iniziata,  con  la 
notizia  iDOchissimo  verisimile  che  i  Campani  si  ribellarono  dopo  la 
battaglia  e  prima  di  averne  conosciuto  Tesito  (2).  Inoltre  i  prosperi 
successi  dei  Romani  furono  al  solito  esagerati  fino  al  ridicolo  dalla 
boria  patriottica  degli  annalisti  più  tardi.  Non  parliamo  dei  dieci- 
mila Sanniti  caduti  a  Terracina  che  in  una  fonte  meno  degna  di 
fede  divengono  trentamila;  ma  vi  ha  di  peggio:  laddove  i  più 
antichi  annalisti  menzionavano  una  sola  vittoria  presso  Saticula  (3), 
uno  storico  più  recente  ne  ricorda  due  (4),  mentre  il  silenzio  dei 
fasti  trionfali  fa  dubitare  anche  dell' unica  vittoria  ricordata  dai 
primi.  Cosi  pure  dopo  la  rotta  di  Lautule  gli  annalisti  più  recenti 
credettero  indispensabile  per  l'onore  della  patria  d'inserii-e  una  vit- 
toria del  dittatore  Fabio  Rulliano,  che  fu  inventata  di  pianta,  come 
mostra  il  silenzio  eloquente  delle  fonti  migliori  (5). 

S'iniziò  ad  ogni  modo,  sotto  buoni  ansimici,  la  campagna  del 
31Ì3;  nella  quale  i  Romani  si  proposero  soprattutto  di  riaprire  le 
comunicazioni  con  la  Campania  per  la  via  del  Liri,  dacché  ave- 
vano visto  la  gravità  del  pericolo  che  sovrastcìva  se,  comunicando 
con  quella  regione  per  la  sola  vìa,  costiera,  questa  veniva  momen- 
taneamente chiusa  dal  nemico.  L'esito  della  campagna  fu  felice: 
si  ricuperò  Fregelle  (6),  si  indussero  ad  accordi  Aquino  e  Casino^ 


(1)  Sopra  I  p.  34.  Liv.  IX  23:  So?ri  ad  Samnites  defecerat quo   cum  prior 

Eoinanus  exercitus pervenisset    et   sparsi  per  tiias  speculatores  sequi   legiones 

Sainnitium  nec  iam  procul  abesse  alii  super  alios  nuntiarent   ohtHum  itum   hosti 
atque  ad  Lautulas  ancipiti  proelio  dimicatum  est. 

(2)  Liv.  IX  27.  DioD.  XIX  76. 
(3j  DioD.  XIX  72,  4. 

(4)  Liv.  IX  21.22. 

(5)  Liv.  IX  23. 

(6)  DioD.  XIX  101,  3.  Liv.  IX  28,  il  quale  parla  di  un  immaginario  assedio 
di  Boviano  sospeso  perchè  Fregelle  era  caduta  in  mano  dei  nemici.  In  realtà 
in  mano  dei  Sanniti  Fregelle  doveva  essere  fin  dalla  pace  di  Gaudio. 


RIVINCITA    ROMANA  325 


cui  si  tolse  una  parte  del  territorio  (1),  e  più  a  nord  Atina;  e  fu 
espugnata  ad  ovest  del  campo  Stellate  Caiazia.  Assicurato  da 
questa  parte  il  confine,  si  potè  prendere  l'offensiva  in  Campania, 
costringendo  a  venii-e  a  patti  ed  accettare  l'alleanza  romana  Nola, 
<3lie  era  dal  327  in  armi  contro  Roma,  il  cui  esempio  fu  seguito 
probabilmente  da  Abella  (2). 

Dopo  di  che,  mentre  nel  313  i  Romani  avevano  combattuto  sul 
versante  tirreno,  nei  due  anni  seguenti  raccolsero  il  loro  sforzo 
sul  versante  adriatico.  Qui,  represso  un  j)rimo  tentativo  d'insurre- 
zione dei  Marrucini  (312)  (3),  succedette  ad  essi  di  vincere  e  di- 
struggere nel  311  un  corpo  di  Sanniti  che  aveva  profittato  delle 
operazioni  romane  della  Campania  per  invadere  la  Daunia  ed  oc- 
<3upare  varie  terre  ch'erano  in  potere  del  nemico  (4). 

Cosi  al  termine  del  311  non  solo  i  Romani  avevano  ricuperato 
-quel  che  possedevano  prima  di  Caudio;  ma  avevano  indotto  a 
stringere  alleanza  Teano  e  Canosa  nelF  Apulia  e  Nola  in  Cam- 
pania, si  erano  consolidati  nuovamente  con  l'occupazione  di  Sora 
e  di  Atina   nel   bacino    del    Liri,  mentre  con   Caiazia  e  Saticula, 


(1)  Quello  cioè  in  cui  venne  fondata  Interamna  Lirina.  L'occupazione  di 
Atina  (Liv.  IX  28)  presuppone  quelle  di  Aquino  e  Casino,  di  cui  no'n  abbiamo 
notizia  esplicita.  È  possibile  che  alcune  di  queste  terre  siano  state  ricuperate 
•dai  Sanniti  quando  ripresero  Sora  nel  306,  v.  oltre. 

(2)  DiOD.  XIX  101,  3:  (Q.  Fabio)  è)u3aXdjv  eie,  ty\v  tuùv  iroXeiuiujv  x^P"v  Ke- 
Xiav  (KaiaTiav?)  koì  t^v  NiuXavóùv  ànpónoXiv  èEetroXiópKriae.  Liv.  IX  28,  6:  qui 
captae  decus  Nolae  ad  consulem  (C.  lunìutn)  trahunt,  adiciunt  Atinam  et  Cala- 
iiam  ab  eodem.  captae.  Si  suol  correggere  Atinam  in  Atellam.  Probabilmente  è 
■da  correggere  piuttosto  Calatiam  in  Caiatiam.  Sarebbe  stata  occupata  allora 
questa  città  che  i  Sanniti  ricuperarono  nel  306  (Liv.  IX  43,  1,  v.  oltre  p.  335 
n.  6).  Quanto  ad  Atalia  e  Caiazia,  tutto  fa  credere  che  tornassero  con  Capua 
nell'alleanza  romana.  Sulle  condizioni  di  Nola  v.  Beloch  Catupauicn  393.  Sulle 
relazioni  tra  Nola  ed  Abella  v.  sopra  p.  268. 

(3)  DioD.  XIX  105,  5:  'Puj,uaToi  òuvóiueaiv  ótòpaiq  ireZòJv  re  koì  iTTiréuiv  èarpd- 
Teuaav  è-rrl  TToXXitiov  (ignota)  MappouKivuJv  oOaav  ttóXiv. 

(4)  DioD.  XX  26.  Il  luogo  della  battaglia,  TdXiov,  quello  ove  i  Sanniti  si 
rifugiarono  e  furono  costretti  alla  resa,  lepòq  Xóqpo^,  le  due  terre  KaxapdKTa 
e  Kepauvaia  conquistate  dai  Romani  sono  affatto  ignote.  Livio  IX  31  parla  in 
quest'anno  della  espugnazione  di  Cluvie  o  Cluvianum  (su  cui  v.  I  p.  103  n.  3). 
Questa  notizia  forse  non  è  da  revocare  in  dubbio.  Al  contrario  l'espugnazione 
di  Boviano  dei  Pentri  (Boiano)  al  pari  della  vittoria  riportata  ivi  presso,  in 
cui  perirono  ventimila  Sanniti,  non  sono  che  favole.  Anche  i  fasti  trionfali 
registrano  al  311  il  trionfo  del  console  C.  lunio  Bubulco  de  Samnitihus. 


B26      CAPO    XFX  -  LA    LOTTA    Ti{A    OSCHT   E    LATINI    PER    l'kGEMOXIA 

che  avevano  conquistata  nonostante  la  ribellione  di  Capua  fi),  si 
erano  guadagnati  due  importanti  propugnacoli  tra  la  Cami^ania 
e  il  Sannio;  e  al  temj)o  stesso  debellando  gli  Aurunci,  inducendo 
i  Campani  a  deporre  le  armi,  vincendo  a  Terracina  ed  in  Daunia 
i  Sanniti,  avevano  più  che  mai  raffermato  la  loro  autorità  in  tutti 
i  loro  possedimenti. 

Le  ragioni  di  questo  cambiamento  di  fortuna  dopo  i  disastri 
di  Gaudio  e  di  Lautule  erano  due.  L'una  era  di  carattere  mi- 
litare, la  inferiorità  tattica  dei  Sanniti ,  ora  più  grave  che  mai, 
per  cui  sul  campo  di  battaglia  ebbero  semj)re  la  peggio  a  fronte 
dei  Romani,  quando  la  superiorità  numerica  od  opportuni  espe- 
dienti strategici  non  dessero  loro  un  gTande  vantaggio  suira,\^^er- 
sario  (2).  Ora  la  tattica  non  s' impara  agevolmente  ;  ma  è  men 
difficile  imparare  la  strategia,  e  la  guerra  stessa  n'è  la  migliore 
maestra;  di  guisa  che  elemento  fondamentale  del  felice  successo 
romano  negli  ultimi  anni  della  seconda  guerra  sannitica  fu  sem- 
plicemente l'aver  evitato  gli  errori  strategici  commessi  nei  primi 
anni.  Inoltre  la  densa  i)opolazione  e  gli  ottimi  ordini  di  gueiTa 
mettevano  in  grado  i  Romani  di  armare  forze  tali  da  non  lasciar 
mai  al  nemico  la  superiorità  numerica.  Senonchè  a  tal  uopo  si  ri- 
di iedevan  gravi  sacrifizi;  e  faceva  mestieri  soi^rattutto  di  aumen- 
tare i  contingenti  che  si  chiamavano  annualmente,  sotto  le  armi. 
A  ciò  i  Romani,  che  avevano  già  sparso  tanto  sangue  nelle  lotte 
per  l'esistenza  dopo  l'invasione  gallica ,  non  si  adattavano  che  a 
malincuore.  Come  nella  prima  punica  e  nella  gueiTa  annibalica, 
solo  lentamente  acquistarono  la  coscienza  dei  sacrifizi  necessari 
per  la  vittoria;  e  quando  n'ebbero  acquistato  coscienza,  li  compi- 
rono e  vinsero.  Così  si  cominciarono  a  mettere  in  assetto  di  guerra 
annualmente  non  più  due,  ma  tre  legioni  coi  contingenti  di  alleati, 
ossia  poco  meno  di  trentamila  uomini,  e  tenendo  la  difensiva  con 
una  legione  in  uno  dei  teatri  dflle  operazioni,  si  corco  di  ])rpndere 


(1)  Come  mostra  la  colonia  condottavi  poco  dopo. 

(2)  Vittorie  sannitiche  accertate  in  questa  guerra  sono  quella  di  Gaudio  (32]) 
dovuta  alla  natura  dei  luoghi  e  all'imprudenza  dei  duci  romani  e  quella  di 
Lautule  i315)  dovuta  al  trovarsi  a  fronte  di  leve  tumultuarie;  storica  è  proba- 
bilmente pur  quella  su  C.  Marcio  (310)  dovuta  alla  superiorità  numerica.  Vit- 
torie accertate  dei  Romani  son  quelle  di  Terracina  (314),  di  Talio  (311),  del- 
l'agro Falerno  o  Stellate  e  di  Boviano  (805).  Solo  nelle  due  ultime  battaglie 
è  da  credere  che  i  Romani  abbiano  avuto  la  superiorità  del  numero. 


RIVINCITA    ROMANA  327 


l'offensiva  con  due  neir  altro  d).  Quel  che  a  questo  modo  si  ot- 
tenne lasciava  ragionevolmente  sperare  un  pronto  compimento 
della  guerra;  quando  Tentrare  in  campo  di  nuovi  avversari  rese 
indispensabili  sacrifizi  anche  più  gravi. 

Ma  frattanto  i  Romani  avevano  profittato  della  ricuperata  su- 
periorità per  proteggere  con  una  rete  di  colonie  latine  le  loro 
conquiste.  Fu  ricostituita  cosi  (313)  la  colonia  di  Fregelle  (2)  e 
fondata  sul  Liri  (312  o  310)  a  non  grande  distanza  Interamna  Suc- 
casina  (3),  dedotta  nel  paese  soggiogato  degli  Am-unci  (313  o  312) 
Suessa  (4),  assicurato  uno  degli  ingressi  della  valle  caudina  (313 
o  312)  colonizzando  Saticula  (5),  per  la  difesa  del  Tirreno  dai  pi- 
i-ati  (313)  inviata  una  colonia  a  Ponzia  (6)  e  finalmente  (315  o  314) 
a  custodia  della  Daunia  ordinata  a  colonia  (se  pure  prima  di 
Gaudio    non  era  già.  stata  in  tal  condizione)  Lucerla  (7).  Dell' im- 


(1)  Questo  è  un  punto  fondamentale  per  l'inteliigenza  della  seconda  sanni- 
tica.  La  rotta  di  Gaudio  suppone  che  i  due  eserciti  consolari  fossero  forti 
nel  321  di  una  legione  ciascuno.  Una  terza  legione  (fatta  eccezione  pel  caso 
del  proconsolato  di  Publilio  Filone  nel  326  e  forse  per  qualche  caso  analogo) 
si  armò  per  la  prima  volta  tumultuariamente  nel  315,  normalmente  negli  anni 
seguenti.  L'esito  della  guerra  etrusca  non  può  spiegarsi  se  non  per  mezzo  di 
un  miracolo  quando  non  si  riconosca  che  i  Romani  nel  310  (309)  e  308  misero 
in  campo  quattro  legioni.  S' intende  del  resto  che  quando  difendevano  con 
una  sola  legione  la  Campania  o  l'Apulia,  i  Romani  avevano  validissimo  aiuto 
dalle  milizie  locali. 

(2)  Infatti  la  troviamo  poi  novamente  in  qualità  di  colonia  latina  p.  e.  in 
Liv.  XXVII  10. 

(3)  DioD.  XIX  105,  3  (ad.  a.  312).  Liv.  IX  28,  8:  Interamnam  Sucasinam  ut 
(ìeduceretur  colonia  senati  consultum  factum  est  (313):  sed  trium-inros  creavere  ac 
misere  colonorum  quattuor  milUa  insequentes  consules  M.  Valerius  P.  Decius  (312). 
Veli.eio  I  14  fornisce  date  un  po'  diverse:  Tarracina  deducta  colonia  (329)  intera 
positoque  {decennio  et)  quadriennio  Lucerla  (315)  ac  deinde  interiecto  triennio 
Suessa  Aurunca  et  Saticula  (312),  Interamnaque  post  hienniiim  (310).  Invece  di 
inserire  nel  testo  {decennio  et)  si  può  anche  supporre  che  Veli>eio  abbia  con- 
fusa la  probabile  prima  deduzione  di  Luceria  (325  circa,  cfr.  sopra  p.  307)  con 
la  seconda  (315  o  314),  e  i  calcoli  tornano  egualmente. 

(4)  Liv.  IX  28,  7  (313).  Vell.  1.  e.  (312). 

(5)  Vell.  1.  e.  (312).  Fest.  p.  340  M  :  Sati[cula  oppidum]  in  Samnio  captum  est: 
quo  [postea  coloni]am  dednxerunt  triumviri  M.  Valerius  Corvus,  lunius  Scaeva, 
P.  Fulvius  Lotif/us  ex  S.  C.  kal.  lanuaris,  L.  Papirio  Cursore,  C.  Itinio  li  cos.  (313). 

(6)  Liv.  IX  28,  7. 

(7)  Liv.  IX  26,  5  f314).  Diod.  XIX  72,  8  (315):  auoiKiav  èEéireMUJUv  ek  Aou- 
Kepi'av  TTÓXiv  éTriqjaveoTÓTriv  tujv  èv  TOk  tóttok;  ■  ^k  Tourric  hi  ópuib^evoi  òieTTO- 


328      CAPO   XIX  -  LA    LOTTA   TRA   OSCHI    E    LATINI   PER    l'eGEMONIA 

portanza  di  queste  fondazioni  può  darci  un'idea  il  numero  dei  co- 
loni inviativi ,  che  furono  2500  per  Lucerla  e  non  meno  di  4000 
per  Interatìina. 

E  così  i  Romani  poterono  far  fronte  coraggiosamente  alla 
guerra  che  scoppiò  con  gli  Etruschi.  Perocché  gli  Etruschi,  vedendo 
da  si  lungo  tempo  travagliarsi  i  Romani,  con  varia  fortuna,  in 
una  fiera  lotta  coi  Sanniti,  credettero  venuto  il  momento  di  pro- 
fittarne per  carpii'e  a  Roma  i  territori  conquistati  in  Etruria,  e 
prima  di  tutto  Sutrio  e  Nepi  ove  i  Romani  avevano  fondato  due 
colonie  latine.  Può  parere  strano  che  gli  Etruschi  si  siano  risoluti 
cosi  tardi  ad  intervenire,  mentre  se  iDrendevano  le  armi  dopo  il  321  o 
meglio  ancora  dopo  la  rotta  di  Lautule  non  è  dubbio  che  avrebbero 
avuto  molto  maggiori  speranze  di  felice  successo.  Ma  gli  Etruschi 
allora,  come  altre  volte,  ricusarono  di  giovarsi  del  momento  fa- 
vorevole per  osservare  coscienziosamente  le  tregue  giurate:  e  pare 
appunto  che  non  prima  del  310  spirasse  la  tregua  di  quarant'anni 
conclusa  da  Roma  con  Tarquinì  (1).  Forse,  del  resto,  non  era  la 
sola  onestà  che  rendeva  gli  Etruschi  cosi  osservanti  delle  tregue, 
ma  anche  l'inerzia  d'un  popolo  per  cui  da  lungo  tempo  era  ter- 
minato il  periodo  della  espansione  e  che  ora  aspirava  più  che 
altro  a  conservare,  per  quanto  era  possibile,  ciò  che  aveva  acqui- 
stato. Tuttavia  troppo  era  chiaro  anche  agli  Etruschi  che  in  quella 
età  non  era  da  sperare  la  coesistenza  j)acifica  di  più  popoli  indi- 
pendenti e  che  chi  non  i^rendeva  a  tempo  l'offensiva  incorreva 
nel  rischio  di  vedere  i  vicini  prenderla  a  danno .  suo,  perchè  quando 
la  loro  inerzia  non  era  giustificata  dalle  lunghe  tregue  concluse 
non  si  risvegliassero  dal  loro  letargo.  Ma  questa  inerzia  nelle  due 
occasioni  che  dovettero  parere  più  favorevoli  all'azione,  procedeva 
anche  da  un  altro  motivo:  se  infatti  i  Sanniti  riuscivano  a  supe- 
rare i  Romani,  come  parve  avesse  loro  a  succedere  dopo  le  rotte  di 
Gaudio  e  di  Lautule,  gli  Etruschi  non  avrebbero  fatto  che  scambiare 
un  vicino  più  civile,  con  cui  vivevano  da  molto  tempo  in  rapporti 
tollerabili,  con  uno  meno  civile,  con  cui  sarebbe  stato  anche  meno 
facile  stabilire  relazioni  di  buon  vicinato.  Essi  non  avevano  ancora 
dimenticato  che  dai  Sanniti    era    stata    distrutta    con  le    armi  in 


Xéfiouv  joxc,  Tapivii aie,  où  kokiL^  Tf\c,   àa(pa\eiac,  TTpovor|Oa|U€vot  •  òià  y«P  TaÙTr|v 
THv  TtóXiv  où  |uóvov  èv  TOÙTiy  Tuj  TroXé|Liuj  éirpoTÉpriaav,  àWà  koì  kotò  xoùq  luerà 
TaOxa  Yevoinévouc;   ^tuc  tlùv  koB'   f][ià<;  xpóviuv    òiexéXecrav    ópitiriTtìpiLU    XP^M^voi 
Karà  TÙ)v  irXrjaiov  è0vijùv. 
(1)  V.  sopra  p.  256  n.  1. 


GUERKA    IN    ETRURIA  329 


Campania  la  signoria  etnisca.  Si  può  quindi  spiegare  come  non 
credessero  d'intervenire  tra  i  due  popoli  che  contendevano  per  l'e- 
gemonia dell'Italia  meridionale  finché  parve  che  la  vittoria  on- 
deggiasse tra  i  due  o  pendesse  piuttosto  verso  i  Sanniti.  Quando 
invece  sembrò  assicurata  ai  Romani,  allora  forse  pensarono  gli 
Etruschi  che  fosse  il  momento  di  ristabilire  col  loro  intervento 
l'equilibrio.  Si  badi  del  resto  che  la  coesione  tra  gli  Etruschi  era 
scarsa,  e  che  quelli  di  Volterra  o  di  Fiesole  non  si  saranno  dati 
sulle  prime  troppo  carico  del  pericolo  ond'erano  minacciati  i  loro 
connazionali  di  Tarquinì.  Tuttavia  nel  corso  del  sec.  IV  il  movi- 
mento unitario,  come  nel  Lazio  e  nel  Sannio,  cosi  s'era  rinvigorito 
in  Etruria;  ed  ora  per  la  prima  volta  i  Romani  si  trovarono  a 
fronte  non  ])m  due  o  tre  Stati  etruschi,  ma  l'Etrm-ia  tutta  (1).  In- 
fatti la  federazione  religiosa  degli  Etruschi,  che  aveva  per  centro 
il  santuario  di  Voltumna  (I  p.  435),  s'era  venuta  trasformando  in 
una  lega  politica,  mano  mano  che  gli  Etruschi  avevano  acquistato 
coscienza  della  necessità  di  stringere  insieme  le  loro  forze  per  re- 
sistere ai  vicini,  che  si  venivano  riunendo  in  Stati  di  ragguarde- 
vole estensione  e  popolazione.  E  cosi,  fiduciosi  nella  loro  unione, 
gli  Etruschi  sul  principio  del  310  posero  l'assedio  a  Sutrio  (2).  Quel- 
l'anno per  la  prima  volta  furono  dai  Romani  armate  quattro  le- 
gioni: una  fu  inviata  nell'Apulia,  una  nella  Campania  per  tenere 
a  bada  i  Sanniti,  due  agli  ordini  dei  due  consoli  per  ridurre  tosto 


(1)  Eccettuata  la  parte  che  i  Romani  avevano  incorporato  al  proprio  terri- 
torio ed  anche  Falerì,  la  quale,  come  prova  il  silenzio  della  tradizione,  rimase 
fedele  all'alleanza  contratta  con  Roma  nel  343  (sopra  p.  256),  e  pur  nei  primi 
anni  della  terza  sannitica  servì  di  base  d' operazione  ai  Romani  in  Etruria 
(v.  e.  seg.). 

(2)  Per  Livio  IX  29,  1  già  nel  312,  sebbene  non  si  iniziassero  le  ostilità, 
Etrusci  belli  fama  exorta  est.  Al  311  poi  egli  racconta  (IX  32)  una  vittoria  ri- 
portata dal  console  Q.  Emilio  Barbula  contro  l'esercito  etrusco  assediante 
Sutrio,  che  sembra  la  stessa  raccontata  da  Diodoro  (e  con  molta  esagerazione 
anche  da  Livio)  per  l'anno  seguente  e  che  quindi  non  pare  abbia  valore  sto- 
rico, sebbene  anche  i  fasti  trionfali  registrino  al  311  il  trionfo  del  console 
de  Etrusceis.  Per  l'a.  310  Diodoro  XX  35  narra  la  battaglia  vinta  a  Sutrio  da 
ambedue  i  consoli,  che  ebbe  il  solo  eft'etto  di  respingere  l'esercito  assediante 
nell'accampamento,  e  poi  dice  che  i  consoli  divisero  le  forze,  e  l'uno  rimase 
in  Etruria,  l'altro  mosse  verso  il  Sannio.  Per  Livio  la  vittoria  è  così  piena  che 
gli  Etruschi  fuggiaschi  si  salvano  nella  selva  Ciminia,  ma  è  opera  del  solo 
console  Marcio.  Dobbiamo,  per  rispetto  all'importanza  del  fatto,  attenerci  piut- 
tosto a  Diodoro.  Ma  dopo  una  simile  vittoria  pare  impossibile  che  si  riduces- 


330      CAPO   XTX  -  LA   LOTTA   TRA   OSCHI    E    LATINI   PER   l'eGEMONIA 

a  consigli  di  pace  gii  Etrusclii  mossero  verso  Sutrio.  Qui  si  com- 
battè una  battaglia  accanita  tra  gli  Etruschi  e  i  due  eserciti  con- 
solari romani.  I  Romani  si  ascrissero  la  vittoria;  ma  gli  Etruschi 
non  si  ritii'arono  punto,  anzi  continuarono  a  stringer  davvicino  la 
città  assediata.  Frattanto  giungevano  cattive  notizie  dal  Sannio  e 
dall'Apuli  a,  dove  le  forze  romane  erano  troppo  esigue  per  resistere 
efficacemente  ai  Sanniti.  Così  Q.  Fabio  Rulliano  rimase  a  fron- 
teggiare gli  Etruschi  a  Sutrio  con  le  due  legioni,  mentre  il  con- 
sole C.  Marcio  Rutilo  si  affrettava  verso  il  Sannio  a  prendere  il 
comando  delle  forze  romane  che  eran  colà.  Qui  il  suo  arrivo  ])arve 
per  un  momento  mutar  faccia  alle  cose  ;  egli  riusci  perfino  a  ri- 
cuperare Allife,  quella  testa  di  ponte  al  di  là  del  medio  Voltm^no 
che  i  Romani  avevano  conquistato  molti  anni  prima  e  che  dal  321 
era  tornata  in  potere  dei  Sanniti  (1).  Al  tempo  stesso,  perchè 
le  forze  sannitiche  non  finissero  col  radunarsi  a  danno  della  legione 
di  cui  disj)oneva  il  console  Marcio,  fu  operata  una  diversione  nella 
Camjiania  meridionale.  Per  la  prima  volta,  con  l'aiuto  soprattutto 
degli  alleati  greci  di  Napoli,  i  Romani  misero  in  mare  un'armata 
navale.  Si  fece  uno  sbarco  presso  Pompei  allo  scojjo  di  devastare 
i  territori  della  confederazione  nucerina  che  era  in  lega  coi  San- 
niti; ma  le  milizie  da  sbarco,  che  per  amor  di  bottino  s'erano  al- 
lontanate troppo  dalla  costa,  furono  dai  Nucerini  battute  e  co- 
strette a  riprendere  il  mare  (2). 

Mentre  avveniva  questa  poco  fortunata  diversione  in  Campania. 
Fabio  Rulliano  con  mossa  arditissima,  lasciando  dietro  a  sé  Sutrio 
e  r  esercito  che  1'  assediava ,  valicati  i  monti  Ciminì,  si  spingeva 
nell'  alta  Etruria  verso  il  lago  Trasimeno.  La  tradizione  romana 
ha  celebrato  la  mossa  di  Fabio  come  un'impresa  di  straordinaria 
difficoltà.  La  selva  Ciminia  era  in  quel   tempo,  si  dice,  impervia 


sero  le  forze  ed  anche  più  che  si  prendesse  con  forze  ridotte  l'offensiva.  Quindi 
è  da  ritenere  che  la  distribuzione  delle  forze  romane  rimanesse  invariata  e 
che  soltanto  il  console  Marcio  raggiungesse  con  qualche  rinforzo  l' esercito 
della  Campania.  Che  nel  CIÒ  per  la  prima  volta  si  mettessero  in  campo  quattro 
legioni  è  da  indurre  dalla  rogazione  approvata  nel  311  ut  tribuni  militum  se- 
nideni  in  quattuor  legiones  a  popuìo  creciì-entur  (Liv.  IX  30,  3). 

(1)  DioD.  XX  35,  3.  Liv.  IX  38,  1:    dmn    haec    in    Etruria    geruntur ,  consul 
alter  C.  Marcius  Rutilus  Allifas  de  Samnitibus  vi  cepit.  Cfr.  sopra  p.  299. 

(2)  Liv.  IX  38.  Questa  spedizione  si  connette  con  la  rogazione  dell'anno  pre- 
cedente: ut  duumniros  navales  classis   ornandae  reficiendaeque  causa populus 

iuberet  (Liv.  IX  30,  4). 


GUERRA    IN   ETRURIA  331 


come  poi  la  selva  Ercinia,  e  nessuno,  neppure  i  mercanti,  ne  co- 
nosceva i  passi.  Un  fratello  del  console  che,  educato  a  Cere, 
era  pratico  della  lingua  etnisca,  si  offerse  di  oltrex)assarla  come 
esploratore,  e  pervenne  travestito  da  contadino  tino  a  Camerino 
neir  Umbria.  Qui  svelò  l'esser  suo  e  ottenne  che  i  Camerti  si  di- 
chiarassero pronti  a  dar  mano  forte  all'esercito  romano.  Dopo  ciò 
il  console  varcò  la  selva;  e  quando  egli  già  l'aveva  oltrepassata  e 
aveva  superato  i  nemici,  giunsero  a  lui  gli  ambasciatori  che  gli 
aveva  mandato  il  senato  insieme  con  due  tribuni  della  plebe  per 
invitarlo  a  non  arrischiare  al  di  là  dei  monti  Ciminì  l'esercito  (1). 
Questo  racconto  pecca  di  smisurata  e  quasi  ridicola  esagerazione  : 
anzitutto  l'alleanza  di  Camerino  sul  confine  piceno  poco  o  nulla 
poteva  giovare  per  combattere  presso  Perugia  (2),  i)oi  è  impossi- 
bile che  non  esistessero  relazioni  commerciali  tra  Roma  e  le  città 
al  di  là  della  selva  Ciminia  e  che  gii  Etruschi  sudditi  di  Roma, 
quali  erano  i  Ceriti,  ne  ignorassero  i  passi.  La  difficoltà  e  l'ardi- 
tezza dell'impresa  di  Fabio  non  stava  in  ciò,  si  bene  nell'adden- 
trarsi  nel  paese  nemico  rinunciando  alle  comunicazioni  con  la  base 
d'operazione  e,  che  è  più,  lasciando  dietro  a  se  l'esercito  che  as- 
sediava Sutrio.  Questa  audace  diversione,  analoga  al  tentativo  che 
avevan  fatto  Postumio  e  Veturio  nel  321  di  portar  la  guerra  nel- 
r  interno  del  Sannio,  riusci  felicemente  a  Fabio  Rulliano  che  aveva 
avuto  occasione  d'imparare  l'arte  militare  sul  campo  di  battaglia. 
Quando  egli  cominciò  a  devastare  i  campi  dell' Etruria  centrale, 
i  contingenti  delle  vicine  città  etrusche  accorsero  in  fretta  alla 
difesa:  e  presso  Perugia  aA'^enne  una  battaglia  in  cui  le  agguerrite 
legioni  del  console  sbaragliarono  le  milizie  etrusche  raccolte  alla 
meglio  a  difesa  del  paese  (3).  Dopo  ciò  Arezzo,  Cortona  e  Perugia, 


(1)  Liv.  IX  36,  cfr.  Flob.  I  12. 

(2)  L'inverisimiglianza  del  racconto  è  tale  che  alcuni  critici  hanno  creduto 
si  debba  qui  trattai-e  di  Chiusi,  che  anticamente  era  chiamata  anche  Caraars, 
secondo  Liv.  X  25,  11:  Clusimn  quod  Camars  olini  appcllabanf.  Ma  questa  as- 
-frzione  di  Livio  è  alquanto  dubbia  (cfr.  e.  XX  e  Folyb.  Il  19,  5).  Forse  i  Ca- 
merti furono  inseriti  nel  i-acconto  ad  onta  della  geofrrafìa,  perchè  da  quell'anno 
ilatava  il  loro  foedus  aequum  con  Roma,  su  cui  v.  Cic.  prò  Balbo  28,  46  (Ca- 
mertinuin  foedus  sanctissimiun  atque  aerjuissiiniim).  Liv.  XXVIII  45,  20. 

(3)  La  battaglia  avviene  presso  Perugia  secondo  Diod.  1.  e,  secondo  Livio 
{IX  37)  invece  presso  Sutrio.  dove  gli  Etruschi  sarebbero  di  nuovo  accorsi  dopo 
che  il  console  era  tornato  indietro  ;  però  egli  aggiunge  :  eam  tam  claram  pu- 
guani  trans  Ciminiam  silvani  ad  Perusiam  pugnntam  quidam  auctores  sunf.  Dopo 


332      CAPO    XIX  -  LA    LOTTA    TRA    OSCHI    E    LATINI   PER   L  EGEMONIA 


che  si  trovavano  prese  alla  sprovvista  e  che  temevano  cranclare 
incontro  a  sacrifizi  troppo  gravi  per  una  guerra  che  le  interessava 
solo  scarsamente,  fecero  coi  Romani  una  pace  di  trent'anni  (1).  Con 
ciò  si  ottenne  che  una  parte  considerevole  dell'  esercito  che  asse- 
diava Sutrio  dovesse  venir  richiamata  ;  e  il  restante,  non  sentendosi 
in  forze  sufficienti  e  costernato  dai  prosperi  successi  dei  Romani, 
si  ritirò  senza  colpo  ferire  (2). 

Ma  intanto  il  console  C.  Marcio  Rutilo  resisteva  con  difficoltà 
ai  Sanniti,  cui  aveva  dato  animo  il  piccolo  numero  dei  Romani  e 
l'allontanarsi  dell'altro  console  oltre  i  monti  Cimini;  anzi  abbiamo 
notizia  di  una  sconfitta,  che  indusse  i  Romani  a  nominar  dittatore 
L.  Papirio  Cursore  e  ad  inviarlo  con  nuove  leve  per  congiungersi 
alle  truppe  del  console.  La  sconfìtta,  per  quanto  ne  faccia  cenno 
una  fonte  di  mediocre  valore  (3),  non  par  da  revocarsi  in  dubbio, 
perchè  non  era  consuetudine  degli  annalisti  romani  inventare 
sconfitte  dei  loro  connazionali.  Che  il  dittatore  Papii^io  ne  pren- 
desse immediatamente  una  strepitosa  rivincita  (4)  è  certo  possibile, 
ma  non  è  altrettanto  sicuro,  e  il  silenzio  della  nostra  fonte  mi- 
gliore è  grave  argomento  in  contrario.  Ad  ogni  modo  mentre  Pa- 
pirio difendeva  il  confine  romano  presso  il  Volturno,  scoppiò  fra 
le  tribù  montanare  dell'Italia  centrale,  che  già  avevan  dato  qualche 


tutto  ciò  Livio,  non  contento  sebbene  avesse  detto  che  sessantamila  nemici 
caddero  in  quella  battaglia,  aggiunge  un'  altra  battaglia  al  lago  Vadimone 
(ricopiata  sulle  battaglie  posteriori  colà  combattute)  che  suppone  un  secondo 
passaggio  della  selva  Ciminia,  battaglia  che  primum  fortuna  vetere  abundantes 
Etriiscorum  fregit  opes  (IX  39,  11),  come  se  la  sconfitta  precedente  non  fosse 
stata  nulla,  e  finalmente  un'  ultima  vittoria  presso  Perugia  (senza  accorgersi 
che  è  la  stessa  da  lui  secondo  un'altra  fonte  già  narrata  presso  Sutrio),  che 
sarebbe  stata  provocata  dalla  trasgressione  della  tregua  fatta  dai  Perugini  su- 
bito dopo  averla  conclusa  (IX  40,  18).  Questa  trasgressione  cade  con  la  redu- 
plicazione della  battaglia  che  ha  dato  occasione  ad  inventarla. 

(1)  Dico.  Liv.  1.  e. 

(2)  Secondo  Diod.  1.  e.  dopo  che  i  Romani  ebbero  ancora  preso  d'assalto  la 
ignota  terra  di  KotaróXa. 

(3)  Liv.  IX  38,  8:  dimicutum  proelio  utrimque  atroci  atque  incerto  eventu  est 
et  cum  anceps  caedes  fuisset,  adversae  tanien  rei  fama  in  Romanos  vertit  oh 
amissos  quosdain  equestris  ordinis  tribunosque  militum  atque  unum  legatum  et, 
quod  insigne  maxime  fuit,  consulis  ipsius  vulnus. 

(4)  Liv.  IX  40.  Anche  i  fasti  trionfali  registrano  all'  anno  dittatoriale  309 
la  vittoria  di  Papirio  de  Samnitibus. 


GUERRA    IN    ETRURIA  333 


indizio  di  malcontento  (1),  una  vasta  ribellione  contro  Roma  (2). 
Antichi  alleati  di  Roma  come  gli  Ernici,  antichi  avversari  da  molto 
tempo  pacificati  come  gli  Equi,  amici  di  nuova  data  come  i  Marsi 
e  i  Peligni  e  forse  i  Marrucini  ed  i  Frentani  presero  le  armi.  Erano 
tutte  piccole  tribù  bellicose,  fiere  della  loro  indipendenza,  che  ve- 
devano messa  in  pericolo  dal  meraviglioso  incremento  che  aveva 
preso  la  potenza  romana.  Mentre  le  migliori  forze  dei  Romani 
erano  impegnate  in  Etruj'ia  e  le  altre  bastavano  appena  a  difen- 
dere i  confini  dai  Sanniti,  parve  a  quelle  piccole  popolazioni  che 
fosse  giunta  Foccasione  favorevole  per  staccarsi  dall'alleanza  ro- 
mana e  per  ricuperare  la  loro  piena  indipendenza.  ì^è  il  momento 
era  male  scelto  ;  soltanto  la  fortuna  di  quel  tentativo  -dipendeva 
non  dalle  forze  delle  piccole  tribù  ribelli,  ma  dall'esito  della  guerra 
dei  Romani  coi  Sanniti  e  con  gii  Etruschi. 

Ora  la  guerra  etrusca  condotta  dai  Romani  con  esemplare 
energia  fu  chiusa  nell'  anno  seguente  (308)  dal  console  P.  Decio 
Mure  (3).  Tarquini  che  restava  ancora  in  armi  dovette  ijrob abilmente 
comperare  con  qualche  cessione  territoriale  la  tregua  di  quaran- 
tanni che  allora  concluse;  e  finalmente  con  la  intera  lega  etrusca 
si  fermò  un'altra  tregua  che  doveva  rinnovarsi  anno  per  anno  dai 
delegati  della  lega  convenuti  al  santuario  di  Voltumna  (4).  Grii  effetti 


(1)  V.  sopra  p.  325  il  cenno  sulla  campagna  contro  i  Marrucini. 

(2)  La  ribellione  degli  Ernici  da  Livio  è  collocata  al  306  (IX  42,  11)  ossia 
air  anno  stesso  della  sottomissione.  È  appunto  uso  degli  annalisti  di  datare 
dalle  sottomissioni  le  ribellioni,  ma  non  è  altrettanto  certo  che  si  trovino 
in  questo  modo  nel  vero.  Del  resto  Livio  già  accenna  nel  307  (42,  8)  che  mi- 
lizie erniche  aiutarono  i  Sanniti.  Rispetto  agli  Equi  Livio  ricordando  la  guerra 
fatta  con  essi  nel  304  dice  che  incolumi  Hernico  nomine  missitaverant  simul  cum 
iis  Samniti  uuxilia  et  post  Hernicos  siibactos  universa  prope  gens  sine  dissimu- 
latione  consilii  publici  ad  hostes  desciverat  (IX  46).  La  ribellione  dei  Marsi  è  già 
ricordata  al  308  insieme  con  quella  dei  Peligni  (v.  oltre).  La  pace  con  questi 
popoli  e  coi  Marrucini  e  Frentani,  che  dunque  debbono  essersi  ribellati  insieme 
con  gli  altri,  fu  conclusa  solo  nel  304.  Tutto  considerato,  pare  che  la  insurre- 
zione di  queste  tribù  sia  stata  contemporanea  e  dati  dal  309  o  308.  La  sot- 
tomissione naturalmente  ebbe  luogo  in  tempi  e  occasioni  diverse. 

3)  Non  tenendo  conto  dell'anno  dittatoriale  309,  v.  I  p.  9. 
(4)  Liv.  IX  41,  5  6.  DioD.  XX  44,  9.  Si  è  asserito  che  ai  Tarquiniesi  fosse 
data  la  cittadinanza  romana  (Bkloch  Ital.  Bund  59  segg.).  Non  è  provato  ;  ad 
ogni  modo  non  è  in  questa  occasione  (l'ultima  in  cui  la  tradizione  ricordi 
lotte  con  Tarquini),  nella  quale  non  solo  Livio  ma  anche  Diodoro  parla  di 
tregua  di  quarant'anni.  All'incontro  può  benissimo  spettare  a  quell'anno  la 
cessione  del  territorio  dove  nel  181  fu  condotta  la  colonia  romana  di  Graviscae 
(Liv.  XL  29). 


334      CAPO   XIX  -  LA    LOTTA    TRA    OSCHI   E    LATINI    PER    l'eGEMONIA 


della  guerra  biennale  romano-etrusca  fingono  apparentemente  scarsi, 
dacché  lo  stato  delle  cose  prima  della  guerra  ne  venne  solo  in 
piccola  misura  modiiicato.  Infatti  i  trattati  dei  Romani  con  Arezzo. 
Cortona,  Perugia  e  Tarquinì  non  implicavano  alcuna  dipendenza 
di  queste  città  da  Roma.  Grli  Etruschi  in  sostanza,  visto  che  non 
potevano  ricuperare  il  territorio  sulla  destra  del  Tevere  tolto  loro 
dai  Romani  neppm-  profittando  dell'occasione  in  cui  i  Romani 
erano  impegnati  con  la  metà  delle  forze  nel  Sannio,  si  rassegna- 
rono a  far  novamente  pace  ed  a  pagare  anzi  il  loro  tentativo  con 
la  cessione  d'un  altro  lembo  del  loro  territorio  dalla  parte  di  Tar- 
quinì. Ma  l'eco  di  una  cosi  patente  dimostrazione  della  impotenza 
dell'  intera  lega  etrusca  contro  Roma  doveva  fortemente  ripercuo- 
tersi in  tutta  la  i^enisola.  E  inoltre  questa  guerra  fornì  il  destro 
ai  Romani  d'entrare  in  relazione  con  alcune  città  umbre.  La  tradi- 
zione ci  parla  anzi  di  una  vittoria  romana  presso  Mevania  e  della 
sottomissione  di  tutti  gli  Umbri  (1).  Quella  vittoria  è  però  assai 
sospetta  sia  perchè  pare  molto  diffìcile  che  i  Romani  fin  d'allora 
si  inoltrassero  nell'Umbria  mentre  avevano  tante  guerre  a  com- 
battere, sia  perchè  l'Umbria,  che  certo  non  era  regione  da  soggio- 
gare molto  facilmente,  ci  appare  poi  indipendente  da  Roma,  tranne 
la  estremità  meridionale,  sia  finalmente  perchè  ne  tacciono  i  fasti 
trionfali.  Ciò  che  i  Romani  conseguirono  nell'Umbria  fu  di  fare 
accedere  alla  loro  alleanza  Ocricolo,  la  più  meridionale  delle  città 
umbre  (2),  e  di  guadagnare  un  altro  alleato  nella  lontana  Came- 
rino, la  quale  verisimilmente  pensò  d'assicurarsi  a  questo  modo  dai 
Galli  Senoni  stretti  allora  da  un  trattato  d'amicizia  con  Roma  (3)- 
Mentre  conducevano  cosi  a  termine  in  meno  di  due  anni  la 
guerra  con  gli  Etrusclii   e   gli  Umbri,   i  Romani  avevano  potuto 


(1)  Liv.  IX  41.  DioD.  XX  35,  3.  44,  9  parla  solo  di  invasione  dell' Etruria 
bla  Tf\c,  tOjv  '0|uPpiKÙ)v  xiJf^pa<;  (codd.  ó|uópujv).  L'invio  con  Decio  del  console 
Q.  Fabio  accorso  a  marcie  forzate  dalla  Campania  per  i-iportare  insieme  con 
l'altro  console  la  vittoria  decisiva  è  ricopiato  dalla  loro  cooperazione  a  Sen- 
tine. Per  Diodoro  tutti  e  due  i  consoli  combattono  nel  paese  dei  Marsi,  pas- 
sano nell'Umbria  e  compiono  la  guerra  etrusca.  Dal  che  si  vede  che  i  nudi 
fatti  erano  tramandati  per  mezzo  degli  annali  pontifici,  e  che  qui  come  altrove 
la  connessione  e  l'ordine  sono  opera  degli  annalisti.  La  maggiore  verisimi- 
glianza  è  che  ciascuno  dei  due  consoli  combattesse  per  conto  suo  in  uno  dei 
due  teatri  della  guerra. 

(2)  Liv.  IX  41,  20:   Ocriculani  sponsione  in  deditionem  accepti. 
(3j  V.  sopra  p.  331  n.  2  e  p.  261. 


ULTIMI   ANNI    DELLA   SECONDA   SANNITKA  1335 

riacquistare  la  superiorità  anche  dalla  parte  della  Campania,  ove 
combatteva  probabilmente  con  due  legioni  il  console  Q,  Fabio 
RuUiano  (308).  Qui  egli  riusci  ad  ottenere  die  Nuceria  Alf aterna 
cambiasse  Talleanza  sannitica  con  quella  di  Roma  (1),  e  si  dice 
anche  che  riportasse  una  vittoria  sui  Sanniti  congiunti  coi  Marsi 
ribelli  {'2j,  vittoria  che,  se  realmente  ebbe  luogo,  non  può  aver  avuto 
grande  importanza  sia  perchè  i  Marsi  perseverarono  nella  ribel- 
lione, »sia  perchè  non  è  registrata  nei  fasti  trionfali. 

Ma  i  Romani  erano  stanchi  dello  sforzo  fatto  in  questi  due 
anni;  e  lo  dimostrarono  nei  comizi  consolari,  dove  rimasero  eletti 
il  democratico  Appio  Claudio  e  l'uomo  nuovo  L.  Volumnio  al  posto 
dei  provetti  militari  che  pareva  si  fossero  assicurati  Tesclusivo 
possesso  del  consolato.  I  nuovi  consoli  (307)  non  misero  in  assetto 
di  guerra  che  due  legioni:  e  con  queste  operarono  in  Campania 
Volumnio  e  il  proconsole  Q.  Fabio  RuUiano  (3).  Cosi  le  tribù  insorte 
erano  lasciate  tranquille  tra  i  loro  monti  e  gli  alleati  della  Puglia 
erano  pel  momento  costretti  a  resistere  ai  Sanniti  con  le  proprie 
forze:  del  che  profittarono  i  Sanniti  per  occupare  Silvio  tra  Ve- 
nosa e  Blera  (4).  Uno  scrittore  ricorda  mia  vittoria  di  Q.  Fabio  sui 
Sanniti  presso  AUife,  dopo  la  quale  l'esercito  nemico  fu  costretto 
alla  resa  e  i  Sanniti  fatti  passare  sotto  il  giogo,  i  loro  alleati  ven- 
duti schiavi  in  numero  di  settemila  (5)  ;  ma  al  solito  il  s-ilenzio 
delle  fonti  migliori  e  la  situazione  militare  dell'anno  seguente  ren- 
dono questa  vittoria  assai  sospetta.  Infatti  non  solo  nessuna  delle 
tribù  ribelli  si  mostrò  disposta  a  sottomettersi;  ma  sul  principio 
del  306  Sora  e  Caiazia,  che  erano  cadute  in  mano  dei  Romani  sei 
o  sette  anni  prima,  furono  riconquistate  dai  Sanniti  (6)  ;  i  quali  per 


(1)  Liv.  IX  41,  3. 

(2)  Liv.  IX  41,  4  :  cum  Sainnitibus  ade  dimicatum:  haud  magno  certamine 
hosfes  vieti  :  neque  eius  pugnae  memoria  tradita  foret  ni  Marsi  eo  primmn  proelio 
cum  Romanis  bellassent.  Anzi  Livio  ag^^iunge  una  vittoria  sui  Peligni:  secali 
Marsorum  defectionem  Paeligni  eandem  fortunam  habiieriint.  Assai  diversamente, 
ma  certo  cadendo  in  equivoco  Diodouo  XX  44,  8:  oì  tuùv  Puuiuaiijuv  ÙTTaxci 
Mapaoìq  TTO\€|uou)U6voi^  ÙTTÒ  ZaiaviTÙJv  ^or\Q\\ao.v^(.c,  tiq  tg  MÓxr)  lirpoTépriaav  koì 
ouxvoùi;  tOùv  iroXeiuiujv  àvelXov. 

(3)  Ciò  sembra  da  indurre  dalla  esiguità  dei  successi  riportati. 

(4)  Che  era  in  mano  dei  Sanniti  nel  306  :  Diod.  XX  80,  1.  Sulla  posizione 
NissEN  II  861. 

(5)  Liv.  IX  42,  6-7. 

(6)  Liv.  IX  43,  1:  Calatiu  (da  leggere  col  Mommsen  Caialia,  CIL.  X  p.  444) 
et   Sora   praesidiaque   quae    in   iis   Romana  erant    expugnata.   Diou.  XX  80,  1  : 


336      CAPO   XIX  -  LA    LOTTA    TRA    OSCHT    E    LATINI    PER   l'eGEMONIA 

mezzo  di  Sora  e  di  Arpino,  che  avevano  conservata  o  che  ricupe- 
rarono allora  (Ij,  e  di  Atina,  ricuperata  pure  in  quell'occasione  se 
non  già  prima  (2),  assicurarono  le  loro  comunicazioni  coi  ribelli 
Ernici. 

Un  tale  stato  di  cose  era  vergognoso  per  Roma;  e  per  quanto 
la  lista  dei  consoli  degli  anni  seguenti  mostri  a  chiare  note  che 
il  j)opolo  era  stanco  di  rieleggere  sempre  gli  stessi  generali  e  non 
voleva  ammettere  che  alcuno  si  ritenesse  indispensabile  allo 
Stato  (3),  tuttavia  l'opinione  pubblica  si  persuase  della  necessità 
di  nuovi  e  gravi  sacrifizi.  E  non  appena  s'impegnarono  contro  i 
Sanniti  le  forze  necessarie,  si  riusci  a  por  termine  in  due  campagne 
alla  guerra  sannitica  che  durava  da  quasi  vent'anni,  come  in  due 
campagne  s'era  condotta  a  buon  fine  la  guerra  con  gii  Etrusclii  (4:). 

Armate  quattro  legioni,  i  due  nuovi  consoli  Q.  Marcio  Tremulo 
e  P.  Cornelio  Ai'vina  (306)  invasero  il  Sannio  e  lo  devastarono 
senza  pietà  (5).  Era  la  prima  volta  che  i  Romani  riuscivano  a  pe- 
netrare nel  cuore  del  paese  nemico  ;  e  il  bottino  e  l'effetto  morale 
dovettero  essere  immensi.  I  Sanniti  o  non  osarono  mostrarsi  o  fu- 
rono facilmente  sbaragliati;  ma  il  silenzio  delle  fonti  migliori 
mostra    che    non    ebbero    luogo    combattimenti    notevoli,  sebbene 


Zaiuvìrai  luèv  ZiJbpav  xai  'Axiav  (leg.  xai  Kaiaxiav,  Mommsen  1.  e.)  nóXeiq  'Piu- 
uaioic;  avìJi\iaxoùaa(^  èKiroXiopKricTavTec;  èEr|vf)paiTOÒ(aavTO.  Sulla  occuiDazione  ro- 
mana di  queste  città  v.  sopra  p.  322  n.  3  e  p.  325  n.  2. 

(1)  Fu  infatti  riacquistata  dai  Romani  nel  305,  v.  oltre. 

(2)  Era  stata  occupata  dai  Romani  nel  313,  v.  sopra  p.  325  n.  2.  Rimase 
poi  in  mano  dei  Sanniti  fino  al  293. 

(3)  Infatti  dal  307  al  302  nessuno  fu  rieletto  dei  consoli  precedenti  mentre 
per  lo  innanzi  la  iterazione  era  usuale. 

(.4)  La  tradizione  infatti  sia  nel  306  sia  nel  305  ci  mostra  in  azione  am- 
bedue gli  eserciti  consolari  sul  teatro  della  guerra;  come  abbiamo  visto,  in 
questi  anni,  si  era  cominciato  a  dare  agli  eserciti  consolari  la  forza  normale 
di  due  legioni  per  ciascuno. 

(5)  Dal  racconto  di  Diodoro  XX  80,  2  parrebbe  che  i  consoli  fossero  passati 
dall' Apulia  nel  Sannio;  e  certo  così  fecero  al  loro  ritorno:  ma  nell'Apulia 
stessa  non  possono  essere  pervenuti  che  attraverso  il  Sannio,  essendo  in  ribel- 
lione le  tribìi  dell'Apennino  centrale.  Diodoro  aggiunge  che  al  ritorno  i  con- 
soli sottomisero  gli  Ernici.  Per  Livio  uno  dei  consoli  si  avanzava  nel  Sannio 
mentre  l'altro  operava  contro  gli  Ernici.  Vinti  gli  Ernici,  l'altro  corse  ad 
aiutare  il  collega.  Queste  differenze  si  possono  spiegare  come  è  accennato  nel 
testo.  È  verisimile  che  hx  campagna  nel  Sannio  si  sia  cominciata  con  tutte  le 
forze  e  al  principio  della  buona  stagione. 


ULTEVn   ANNI   DELLA   SECONDA   SANNITICA  337 

un  annalista  non  si  sia  xoeritato  d'inventare  una  battaglia  in 
cui  perirono  trentamila  nemici  (1).  Ad  ogni  modo  attraversato 
il  Sannio  mettendolo  a  ferro  e  fuoco,  i  Romani  passarono  in 
Apulia.  Avevano  cosi  rinnovato  il  tentativo  fatto  quindici  anni 
prima  da  Postumio  e  Veturio;  ma  col  doppio  delle  forze,  con  Sa- 
ticula  custodita  da  un  presidio  romano  e  soprattutto  avvantag- 
giandosi deiresaiu-imento  dei  Sanniti.  In  Apulia,  con  la  enorme 
superiorità  del  numero,  ebbero  presto  ragione  della  terra  di  Silvio 
che  restava  in  mano  ai  nemici,  e  n eli' impadronirsene  fecero  non 
meno  di  cinquemila  prigionieri;  poi  ripresero  la  loro  via  attra- 
verso il  Sannio  e  dopo  cinque  mesi  ricondussero  l'esercito  nel  ter- 
ritorio romano  (2).  Rimaneva  ancora  qualche  mese  della  buona 
stagione.  E  cosi  mentre  uno  dei  consoli  si  fermava  al  confine  san- 
nitico,  l'altro  con  due  legioni  invadeva  il  paese  degli  Ernici  (3). 
G-li  Ernici  non  avevano  forze  che  neppur  lontanamente  si  potes- 
sero misurare  coi  quindici  o  diciottomila  uomini  del  console  Marcio. 
Né  era  possibile  ai  Sanniti  di  aiutarli  perchè,  forse  a  Fregelle, 
stazionava  l'altro  console  pronto  a  chiuder  loro  la  via;  e  cosi  in 
pochi  giorni  si  arrese  Fresinone,  e  poi  tutti  gii  Ernici  chiesero 
Ijace.  E  la  ebbero,  ma  a  condizioni  analoghe  a  quelle  toccate  ai 
Latini  dopo  la  loro  defezione,  anzi  ancor  più  gravi.  Disciolta  la 
lega  ernica,  ad  Alatri,  Ferentino  e  Veroli  si  concessero  separati  trat- 
tati d'alleanza  con  Roma;  Anagni  venne  incorporata  nello  Stato 
romano  coi  diritti  di  cittadinanza  senza  suffragio  ;  ma,  a  differenza 
di  Capua,  p.  e.,  e  di  Cere,  venne  privata  d'ogni  autonomia  comu- 
nale (-k).  Quanto  a  Fresinone,  città  probabilmente  d'origine  volsca, 


(1)  Liv.  IX  43,  17.  1  fasti  trionfali  non  registrano  alcuna  vittoria  sui  Sanniti. 

(2)  DioDORO,  prescindendo  da  Prosinone,  non  parla  al  306  che  della  dichia- 
razione di  guerra  agli  Anagnini.  Ma  ciò  va  messo  sul  conto  della  sua  negli- 
genza nel  compilare,  e  non  va  ritenuto  che  la  sua  fonte  ponesse  il  termine 
della  guerra  all'  anno  seguente.  Livio  mette  in  evidenza  la  rapidità  della 
guerra,  e  con  lui  si  accordano  le  testimonianze  citate  più  oltre. 

(3)  È  da  ritenere  contro  Diodoro,  conforme  a  Livio,  che  solo  Q.  Marcio  Tre- 
mulo debellasse  gli  Ernici  sia  per  le  considerazioni  di  carattere  militare  svolte 
nel  testo  sia  perchè  il  trionfo  del  solo  Q.  Marcio  de  Anagnineis  Erniceisque  è 
registrato  nei  fasti  trionfali  ed  a  lui  solo  fu  eretta  una  statua  equestre,  su  cui 
V.  oltre. 

(4)  Liv.  IX  43,  23:  Hernicorum  trihus  populif^  Aletrinati  Verulano  Ferentinati, 
quia  maluerunt  qtiam  civitatem,  suae  leges  redditae  coni(biumque  inter  ipsos,  quod 
aliquamdiu  soli  Hernicorum  habuerttnt,  permissum,  Anagninis  quique  arma  Ro- 
manis  intuì erant  civitas  sine  suffragii  latione   data   concilia  conubiaque  adempia 

G.  De  Sanctis,  Storta  dei  Romani,  II.  22 


338      CAPO  XIX  -  LA   LOTTA   TRA   OSCHI   E   LATINI   PER  l'eGEMONIA 

sebbene  in  questa  guerra  procedesse  d'accordo  coi  \àcini  Ernici, 
fu  privata  d'una  parte  del  territorio  che  si  distribuì  fra  cittadini 
romani,  onde  poi  si  formò  la  tribù  Teretina  (299)  (1),  ed  inoltre  fu 
incorporata  nello  Stato  romano  anch'essa  con  diritto  di  cittadi- 
nanza senza  suffragio  (2).  Dopo  questi  prosperi  successi  Marcio 
aveva  ben  meritato  il  trionfo  e  la  statua  equestre  togata  che  gli 
fu  inalzata  nel  Foro  innanzi  al  tempio  dei  Castori  (3). 

Ma  i  Sanniti  non  si  risolvevano  a  cedere;  e  l'anno  dopo,  mentre 
i  nuovi  consoli  L.  Postumio  e  Ti.  Minucio  attendevano  con  le  le- 
gioni a  compire  la  pacificazione  del  paese  degli  Ernici  ed  a  ricu- 
perare nell'alta  valle  del  Liri  Sora  ed  Arpino,  inviarono  audace- 
mente un  esercito  a  devastare  il  campo  Stellate  e  l'agro  Falerno. 
Ma  furono  pronti  i  consoli  ad  accorrere  con  le  loro  quattro  legioni 
alle  spalle  del  nemico;  e. impadronitisi  di  Trebula  Balliniense,  gli 
cliiusero  la  via  della  patria  (4).  Allora  i  Sanniti  si  trovarono  co- 


et  magistratibus  praeterqucun  sacrorum  curatione  interdictum.  Fest.  p.  233  ri- 
corda Anagni  tra  le  prefetture.  È  incerto  se  Alatri,  Ferentino  e  Verdi  si 
astenessero  dalla  guerra  o  se  questa  sia  una  induzione  dal  trattamento  mi- 
gliore avuto.  Pel  trattamento  diverso  si  pensi,  p.  e.,  come  i  Romani  si  son 
comportati  assai  diversamente  in  pari  causa  con  Tivoli  ed  Aricia.  Gli  altri 
Ernici  cui  accennano  Livio  (1.  e.  e  42,  11)  e  i  fasti  trionfali  1.  e.  (Diodoko 
parla  solo  di  'AvaYvlTai)  potrebbero  essere  al  più  quelli  di  Treba  e  di  Capi- 
tulum,  MoMMSEN  CIL.  X  p.  584. 

(1)  Liv.  X  9,  14.  Il  nome  deriva  probabilmente  dal  fiume  Trero,  come  ha 
congetturato  il  Mommsen  '  Rh.  M.  '  XII  (1857)  p.  467,  cfr.  Fest.  p.  363  La  po- 
sizione approssimativa  si  desume  da  ciò  che  a  questa  tribù  furono  poi  ascritte 
Interamna,   Casinum  e  Minturnae. 

(2)  DioD.  XX  80,  4:  0poua(vijuva  èKiroXiopKriOoivTgc;  ÓTiéòovTO  tì'iv  x<J^pav  (306). 
Liv.  X  1,  3:  Frusinates  tertia  parte  agri  damnati  (303).  Fu  ridotta  a  prefet- 
tura: Fest.  p.  233  M. 

(3)  Plin.  n.  h.  XXXIV  23  :  ante  aedem  Castorum  fiiit  Q.  Marci  Tremuli  (statua) 
equestris  togata,  qui  Samnites  bis  devicerat  captaque  Anagnia  x>opulum  stipendio 
liheraverat.  Cic.  Philipp.  VI  5,  13. 

(4)  DioDORo  comincia  il  racconto  delle  gesta  dell' a.  305  (XX  90)  a  questo 
modo:  'Piu|aa!oi  |jèv  TTaXivioui;  (al.  lez.  TTaAriviouc)  KaranoXeiuiriaavTe;  tj^v  xiljpav 
àqpeiXovTO  koì  tioi  tuùv  òotdvxujv  xà  'PujjLiaiiJUv  TieqppovriKévai  lueréòuJKav  t)ì<;  iro- 
XiTeiaq.  Si  suol  correggere  TTeXiYvoùq;  ma  i  Peligni  fecero  pace  nel  304  e  fu- 
rono d'allora  in  poi  alleati.  Perciò  Beloch  It.  Bund  p.  51  riferiva  la  notizia 
di  DioDORO  alla  incorporazione  nel  territorio  romano  dell'alta  valle  dell'Aterno 
con  Amiterno  e  Peltuinum.  Par  dubbio  che  il  territorio  romano  si  estendesse 
fin  là  dal  305;  ma  sembra  altrettanto  incerta  la  emendazione  del  Niebuhr 
'Avayvioui;  {R.  G.  Ili  306),  poiché  altrove  Diodoro  parla  correttamente  di  'Ava- 


ULTIMI   ANNI   DELLA   SECONDA   SANNITICA  339 

stretti  a  venire  nelle  condizioni  più  sfavorevoli  a  battaglia  e  dopo 
aver  con  accanimento  pugnato  rimasero  pienamente  disfatti  (1); 
ma  il  console  Minucio  che  aveva  quel  giorno  il  comando  dell'eser- 
cito, ferito  a  morte,  soccombette  poco  dopo  (2).  Senoncbè  i  Romani, 
fatti  arditi  dal  successo,  agli  ordini  di  L.  Postumio  e  di  M.  Fulvio, 
clie  era  stato  sostituito  al  morto  Minucio,  penetrarono  novamente 
nel  Sannio  e  posero  l'assedio  alla  capitale  dei  Pentri,  la  più  im- 
portante città  del  Sannio,  Boviano,  clie  fu  poi  soprannominata 
degli  Undecimani  (Boiano)  (3).  Invano  i  Sanniti  fecero  uno  sforzo 
supremo  per  salvare  la  loro  capitale  o  per  ricuperarla  caduta  ap- 
pena che  fu  in  mano  dei  Romani  (4).  La  loro  sconfitta  presso  Boiano 
e  la  prigionia  del  loro  duce  Gellio  segnò  la  fine  della  guerra. 


TVìTOi  (e.  80).  Io  proporrei  BaXiviou?  intendendo  clie  si  tratti  di  Trebula  Bal- 
liensis  0  Baliniensis  (Plin.  n.  h.  Ili  64)  presso  Caiatia.  La  presa  di  Trebula  si 
connetterebbe  così  con  quelle  di  Arpino  e  di  Sora,  avvenute  nello  stesso  anno  ; 
e  non  importa  che  Diodoro  riferisca  queste  dopo  la  conquista  di  Boviano, 
perchè  l'ordine  dei  fatti  è  anche  presso  Diodoro,  come  s'è  veduto,  arbitrario. 
In  Livio  è  detto  semplicemente  (IX  44,  16)  :  eodem  anno  Sora,  Arpinum,  Ce- 
sennia  recepta  ab  Samnitibiis.  Cesennia  (presso  Diodoro  Zepevvia)  ci  è  ignota 
perchè  la  identificazione  proposta  con  Cerfennia  nei  Marsi  sembra  alquanto 
problematica.  Del  resto  al  303  Livio  nota  Arpinatibiis  Trehulanisque  civitas 
data  (X  1,  2).  Se  le  osservazioni  precedenti  son  fondate,  deve  intendersi  Tre- 
bula Balliniense  col  Mommsen  CIL.  X  p.  442. 

(1)  Secondo  Dico,  perdettero  venti  inaegne  ed  ebbero  duemila  prigionieri. 
Livio  (IX  44)  racconta  una  prima  vittoria,  che  par  a  lui  stesso  dubbia  e  che 
è  pura  invenzione,  in  cui  sarebbero  caduti  ventimila  nemici,  poi  una  seconda 
in  cui  i  Romani  avrebbero  prese  21  insegne,  ambedue  avvenute  nel  Sannio. 
Sembra  preferibile  il  racconto  di  Diodoro,  secondo  cui  la  battaglia  avrebbe 
avuto  luogo,  come  almeno  par  meglio  da  interpretare  il  testo,  nel  territorio 
stesso  che  i  Sanniti  devastarono. 

(2)  È  da  ritenere  che  il  console  Minucio  comandasse  l'esercito  vittorioso, 
perchè  la  vittoria  romana  può  difficilmente  essere  messa  in  dubbio,  ma  il  con- 
Bole  Postumio,  stando  ai  fasti  trionfali,  non  ebbe  punto  l'onore  del  trionfo. 
Livio  dice,  è  vero,  che  magna  gloria  rerum  gestarum  consules  triiimpharunt;  ma 
accenna  pure  alla  diversa  versione  confortata  dall'autorità  dei  fasti  consolari 
capitolini  e  trionfali  :  Minucium  consulem  vulnere  gravi  relatum  in  castra  mor- 
tuum  quidam  auctores  sunt  et  M.  Fultnum  in  locum  eius  consulem  suffecttim  et 
ab  eo,  cum  ad  exercitum  Mimici  missus  esset,  Bovianum  captum. 

(3)  Non  pare  possibile  che  i  Romani  si  siano  spinti  in  questi  anni  fino  a 
Bovianum  vetus  (Pietral)bondante). 

(4)  Livio  dà  la  prima  versione,  Diodoro  la  seconda.  La  BùjXa  dei  testi  di 
DioDORo  è  senza  dubbio  Boviano.  In  quest'ultima  battaglia  secondo  Livio  furono 


340      CAPO  XIX  -  LA   LOTTA   TRA   OSCHI   E    LATINI   PER   l'eGEMONIA 

Il  trattato  concluso  l'anno  seguente  (304)  rinnovava,  al  dir  di 
Livio,  l'antico,  quello  che  esisteva  al  principio  della  guerra,  e  gua- 
rentiva quindi  ai  Sanniti  la  piena  indipendenza.  Ma  essi  dovevana 
al  tempo  stesso  rinunciare  ad  ogni  aspirazione  di  dominio  nella 
Campania  fino  al  capo  di  Minerva,  nei  paesi  degli  Ernici,  Marsi, 
Peligni,  Vestini,  Marrucini,  Frentani,  e  finalmente  nell'Apulia  set- 
tentrionale, lasciandone  ai  Romani  senza  contrasto  la  supremazia. 
La  lotta  per  l'egemonia  tra  Latini  ed  Oschi  era  cosi  terminata; 
e  solo  restava  a  vedere  se  la  nazionalità  osca  sarebbe  riuscita  a 
vivere  ancora  di  vita  propria  nel  mezzogiorno  d'Italia  ovvero  se 
doveva  anch'essa  irremissibilmente  sottostare  al  dominio  dei  La- 
tini. Il  territorio  appartenente  direttamente  alla  lega  sannitica  non 
fu  che  di  poco  ridotto.  Essa  perdette  nel  bacino  del  Volturno  Sa- 
ticula,  Trebula  e  forse  anche  AUife,  città  che  i  Romani  avevano 
occupata  durante  la  guerra  e  che  è  incerto  se  restituissero  a  pace 
conchiusa;  alla  regione  dell'alto  Liri  dovette  poi  rinunciare  quasi 
per  intero,  conservandovi  soltanto,  pare,  l'agro  atinate;  ma  più 
grave  ancora  fu  F  abbandono  dell'  alleanza  coi  Frentani  che  to- 
glieva ai  Sanniti  lo  sbocco  dell'Adriatico  e  l'essere  ormai  cir- 
condati da  ogni  parte,  fuorché  a  mezzodì,  da  territorio  romano. 

Roma,  costretti  i  Sanniti  alla  pace,  si  affrettò  a  ridurre  all'ob- 
bedienza le  piccole  tribù  insorte.  Toccò  per  primi  agli  Equi,  i  quali 
vennero  facilmente  soggiogati  nel  304  (1)  e  privati  della  parte  mag- 
giore del  territorio,  in  cui  si  fondarono,  a  dominare  la  via  che  tra- 
versava l'Italia  media,  le  colonie  latine  di  Alba  Fucente  (303)  (2) 


signa  militaria  sex  et  viginti  capta  et  imperator  Samnitiuni  Statius  Gellius  miil- 
tique  aia  mortales.  Nei  nostri  testi  di  Diodoro  costui  è  detto  réXXioi;  fàioq,  ma 
la  correzione  féWicq  ZTaTio:;  è  paleograficamente  assai  facile.  Diodoro  del  resto 
non  dà  cifre  di  perdite,  ma  dice  che  i  Sanniti  erano  seimila,  numero  certo 
non  esagerato.  1  fasti  trionfali  registrano  la  vittoria  del  solo  M.  Fulvio  Curvo 
de  Samnitibus. 

(1)  Liv.  IX  45,  17:  unum  et  triginta  oppida  intra  dies  quinquaginta  omnia  op- 
pugnando ceperunt  (consules)...  nomenque  Aequorum  prope  ad  internecionem  de- 
letiim.  DioD.  XX  101  parla  di  un  solo  console  Sempronio  e  di  quaranta  città, 
prese  in  cinquanta  giorni.  I  fasti  trionfali  d'accordo  con  Diodoro  fanno  trionfare 
de  Aequeis  il  solo  console  P.  Sempronio;  registi-ano  invece  il  trionfo  dell'altro 
console  P.  Sulpicio  de  Samnitibus,  sebbene  ne  Diodoro  ne  Livio  ricordino  vit- 
torie sui  Sanniti  in  quell'anno. 

(2)  Liv.  X  1,  1.  Vell.  I  14,  5:  decem  deinde  hoc  munere  anni  vacaverunt  (dopo 
la  fondazione  di  Interamna,  310  secondo  Velleio,  s.  p.  327  n.  3);  tunc  Sora 
atque  Alba  deductae  coloniae  (800)  et  Carseoli  post  biennium  (298). 


EFFETTI  DELLA  SECONDA  8ANNITICA  341 


e  di  Carseoli  (302  o  298)  (1),  la  prima  con  quattromila,  la  seconda 
con  seimila  coloni,  quanti  non  se  ne  erano  sin  qui  inviati  in  nes- 
suna colonia.  Del  rimanente  territorio  la  parte  a  mezzogiorno  di 
queste  due  città  fu  confiscata  e  distribuita  tra  cittadini,  di  cui  si 
formò  la  tribù  Aniense  (299)  (2),  la  parte  a  settentrione  ossia  l'alta 
valle  deirimella  fu  incorporata  nello  Stato  romano,  dando  agli 
abitanti,  noti  d'ora  in  poi  col  nome  d'Equiculi  od  Equiculani  (onde 
il  paese  conservò  il  nome  di  Cicolano),  la  cittadinanza  senza  diritto 
di  suffragio.  Cosi,  domata  negli  anni  seguenti  l'ultima  resistenza 
di  qualche  cantone  montanaro  (3),  termina  la  storia  di  questa  bel- 
licosa tribù  che  un  tempo  aveva  sparso  il  terrore  fino  alle  porte  di 
Roma.  Sbigottiti  dalla  sorte  degli  Equi,  i  Marsi,  i  Peligni,  i  Mar- 
rucini  e  i  Frentani  si  affrettarono  a  rinnovare  i  loro  trattati  con 
Roma  (304)  (4);  e  due  anni  più  tardi  (302j  ne  seguii'ono  l'esempio 
i  Vestini  (5).  Ci  vien  detto  che  i  Marsi  fm^ono  poco  dopo  la  pace 
novamente  in  armi,  ma  che  da  una  sola  sconfitta  furono  ridotti  a 
fare  un'altra  volta  alleanza  con  Roma,  cedendo  qualche  parte  del 
territorio  (301)  (6). 


(1)  Liv.  X  3,  2  (ad  a.  302)  :  Marsos  agrum  vi  tueri  (nuntiahatur) ,  in  quem 
colonia  Carseoli  deducta  erat;  in  base  ad  altra  fonte  (ad  a.  298)  lo,  1:  eodem 
anno  Carseolos  colonia  in  agrum  Aequiculoriim  deducta. 

(2)  Liv.  X  9,  14.  Fu  istituita  insieme  con  la  Teretina  ricordata  sopra 
p.  338  n.  1. 

(3)  Liv.  X  1  (a.  302),  9,  7  (a.  300).  I  fasti  trionfali  riportano  al  302  la  vittoria 
di  C.  Giunio  Bubulco  de  Aequeis.  Se  a  questo  trionfo  e  alle  vittorie  menzio- 
nate da  Livio  dobbiamo  piena  fede  è  incerto  ;  verisimile  è  però  che  alcuni 
dei  montanari  siano  rimasti  in  armi  anche  dopo  il  304. 

(4)  I  tre  primi  popoli  sono  ricordati  da  Livio  e  Diodoro,  gli  ultimi  dal  solo 
Livio. 

(5)  Liv.  X  3,  1. 

(6)  Liv.  X  3.  Tutto  quel  che  Livio  narra  in  tal  proposito  è  però  molto  so- 
spetto. Causa  della  ribellione  sarebbe  stata  la  deduzione  della  colonia  di  Car- 
seoli; ma  Carseoli  era,  come  Livio  stesso  riconosce  (sopra  n.  1),  non  nel  ter- 
ritorio dei  Marsi  bensì  in  quello  degli  Equi;  e  del  resto  i  Marsi  potevano 
legittimamente  impensierirsi  non  per  la  deduzione  di  Carseoli,  ma  di  Alba 
Facente.  Le  terre  tolte  ai  Marsi  Milionia,  Plestina,  Fresilia,  sono  altronde 
ignote.  Milionia  è  però  ricordata  da  Liv.  X  34,  1  e  da  Dionys.  nel  lib.  XVII 
(ap.  Steph.  Byz  8.  V.  MiXujvia)  come  città  dei  Sanniti.  Il  trionfo  di  M.  Valerio 
Corvo  de  Etrusceis  et  Marseis  è  ricordato  anche  nei  fasti  trionfali  ;  ma  è  so- 
spetto come  in  generale  i  trionfi  dei  Valeri,  tanto  più  che  la  sua  vittoria 
etrusca  in  cui  sarebbero  state  fractae  iterum  Etruscorum  vires  e  probabilmente 
una  pura  e  semplice  invenzione  di  Valerio  Anziate  :  habeo  auctores  (così  Liv. 
X  5,  13  chiude  il  racconto  delle  sue  imprese  in  Etruria)  sine  ulto  memorabili 


342      CAPO  XIX  -  LA   LOTTA    TRA   OSCHI  E   LATINI   PER  l'eGEMONIA 

Dalla  seconda  guerra  sannitica  l'estensione  dello  Stato  romano 
ebbe  non  piccolo  incremento  :  si  incorporarono  i  distretti  che  for- 
marono le  tribù  Teretina  ed  Aniense,  quello  ove  poi  vennero 
fondate  (296)  le  colonie  cittadine  di  Mintm'ne  e  Sinuessa  e  una 
parte  del  territorio  di  Tarquini;  si  diedero  i  diritti  di  cittadinanza 
senza  suffragio  ad  Arpino,  Prosinone,  Trebula  e  fors'anclie  a  Fa- 
brateria,  Aquino  e  Casino,  inoltre  agli  Ernici  di  Anagni  ed  agli 
Equiculi.  E  però  l'estensione  dello  Stato  romano  da  almeno  sei- 
mila chilometri  quadrati  nel  328  crebbe  a  più  di  ottomila  nel  300. 
Ma  i  Romani  non  largheggiarono  come  prima  nella  concessione 
dei  pieni  diritti  di  cittadinanza,  in  piarte  perchè  i  nuovi  cittadini 
non  erano  probabilmente  neppure  in  grado  di  esprimersi  in  latino 
e  non  conveniva  accordar  loro  i  pieni  dmtti  se  non  quando  fossero 
al  tutto  latinizzati,  in  parte  perchè  la  crescente  potenza  di  Roma 
e  il  moltiplicarsi  dei  cittadini,  rinsanguati  dai  nuovi  elementi  in- 
corporati dopo  la  guerra  latina,  liberava  dalla  necessità  che  sarà 
parsa  assai  dui'a  all'orgoglio  dei  ^dncitori  di  accordare  ai  vinti 
diritti  almeno  teoricamente  pari  a  quelli  che  essi  stessi  possede- 
vano. E  cosi  circa  il  300  il  territorio  abitato  dai  cittadini  forniti 
dei  pieni  dii-itti  non  poteva  superare  più  che  di  idoco  quello  dei 
cittadini  di  grado  inferiore. 

Al  territorio  degli  alleati  eran  frattanto  toccate  notevoli  dimi- 
nuzioni per  l'incorporazione  di  i^arte  di  essi  allo  Stato  romano, 
ma  anche  maggiori  incrementi  per  il  continuo  estendersi  dell'  al- 
leanza romana,  in  modo  che  raggiungeva  ormai  19.400  km*,  di  cui 
15.500  spettanti  ad  alleati  propriamente  detti  e  3.900  a  coionio  di 
diritto  latino.  Degli  antichi  alleati  rimasero  in  tale  condizione,  oltre 
le  città  latine  di  Tivoli,  Preneste  e  Cora,  le  città  erniche  di  Alatri, 
Ferentino  e  Veroli  e  la  sidicina  Teano;  e  conservarono  del  pari  i 
loro  diritti  corrispondenti  a  quelli  delle  città  alleate  tutte  le  co- 
lonie latine  fino  allora  fondate,  Signia,  Nerba,  Ardea,  Circei,  Sutri  o, 
Nepi,  Sezia,  Cales  e  Fregelle  (1).  Accedettero  dm-ante  la  seconda 


proelio  pacatam  ab  dictatore  Etriiriam  esse  seditionihus  tantum  Arretinoruni  com- 
positis  et  Cilnio  genere  cum  p  lehe  in  gratiam  rediicto.  Se  i  Marsi  fecero  cessione 
di  territorio,  si  sarà  trattato  probabilmente  di  qualche  distretto  di  confine  in- 
corporato nella  colonia  di  Alba. 

(1)  Il  territorio  degli  antichi  alleati  comprendeva  ora  sopra  3000  km^  cioè 
Tivoli  500,  Preneste  32.5,  Cora  65,  Anatri,  Ferentino  e  Veroli  530,  Teano  300, 
colonie  latine  1390  (Signia  235,  Norba  100,  Ardea  200,  Circei  100,  Sutrio  e 
Nepi  300,  Sezia  185,  Cales  120,  Fregelle  150);  totale  3110.  Pel  valore  e  la 
fonte  dei  computi  contenuti  in  questa  nota  e  nelle  aeguenti  cfr.  sopra  p.  257  n.  6. 


EFFETTI   DELLA   SECONDA    SANKTTICA  343 

sannitica  o  subito  dopo  all'alleanza  romana  nella  Campania  Na- 
poli (326),  Nola  con  Abella  (313)  e  la  confederazione  nucerina  (308), 
nell'Umbria  Camerino  (310)  ed  Ocricolo  (308),  le  piccole  tribù  sa- 
belliche  dell'Appennino  ossia  i  Marsi,  i  Peligni,  i  Man-ucini  (304), 
i  Vestini  (303)  ed  i  Frentani  (304),  e  nella  Daunia  Teano  (317), 
Arpi  (326)  e  Canusio  (318)  (1).  E  finalmente  furono  fondate  non 
meno  di  nove  colonie  di  dii-itto  latino:  Carseoli  ed  Alba  nel  paese 
degli  Equi,  Suessa  nel  paese  degli  Aurunci,  Sora  sull'alto  ed  Inte- 
ramna  sul  basso  Liri,  Ponzia  nelle  Tremiti,  Saticula  tra  la  Campania 
e  il  Sannio,  Lucerla  nella  Puglia  (2).  Insomma  tutto  il  territorio 
su  cui  Roma  allora  dominava  mediatamente  o  immediatamente 
aveva  la  considerevolissima  estensione  di  27.500  km*  ed  era  due 
volte  e  mezzo  maggiore  di  quel  che  non  fosse  prima  della  guerra; 
sicché  per  estensione  come  per  popolazione  Roma  era  divenuta  il 
primo  Stato  d'Italia  e  con  ciò  stesso  una  delle  prime  potenze  del 
bacino  del  Mediterraneo.  Il  suo  territorio  non  poteva,  è  vero,  mi- 
sm'arsi  con  nessuno  di  quelli  dei  quattro  regni  di  Macedonia,  Tracia, 
Siria  ed  Egitto  che  si  dividevano  l'impero  di  Alessandro  Magno 
dopo  che  ne  fu  definitivamente  spezzata  l'unità  con  la  battaglia 
di  Ipso  (301)  ;  ma  superava  i  due  altri  Stati  maggiori  della  regione 
italiana,  la  lega  etrusca  che  s'estendeva  per  qualcosa  meno  di 
25.000  km*  (3),  l'impero  siracusano  che  nella  estensione  massima 
raggiunta  sotto  Agatocle  misurò  un  22.000  km",  ed  anche  più  i  tre 
Stati  sabellici  indipendenti  del  mezzodì,  la  lega  sannitica  ridotta 
forse  a  14.000  km*,  la  Lucania  ed  il  Bruzio,  che  avranno  abbrac- 
ciato allora  tra  10  e  12.000  km'  per  ciascuno. 


(1)  Estensione  totale  sopra  13.800  km',  cioè  Napoli  con  Capua  ed  Ischia  200, 
Nola  ed  Abella  470,  confederazione  nucerina  450,  Marsi  1100,  Peligni  1100, 
Vestini  2000,  Marrucini  550,  Frentani  2750,  Ocricolo  200  (?),  Daunia  (tolta 
Lucerla  etc.)  5000,  totale  13.820.  Sarebbero  forse  da  aggiungere  Allife  e  Ca- 
iazia  nel  Sannio,  Camerino  nell'Umbria  ;  le  prime  peraltro  non  muterebbero 
che  di  pochissimo  la  somma,  e  quanto  a  Camerino  non  era  per  allora  un'al- 
leata su  cui  i  Romani  potessei-o  contare  al  modo  stesso  che  sugli  altri  federati. 

(2)  Per  una  estensione  di  oltre  2500  km-,  e  cioè  Luceria  450,  Suessa  800, 
Ponzia  30,  Interamna  180,  Sora  640,  Alba  500,  Narnia  220,  Carseoli  300;  to- 
tale 2570.  L'estensione  del  territQrio  di  Saticula  non  può  determinarsi,  ma 
era  senza  dubbio  non  grande. 

(3)  Tenuto  conto  delle  ultime  cessioni  territoriali. 


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CAPO  XX. 
La  conquista  d'Italia. 


Frattanto  i  Lucani  continuavano  la  loro  guerra  con  Taranto.  Ma 
da  soli  non  erano  in  grado  di  riportare  una  vittoria  definitiva:  ne 
i  Sanniti  si  mostravano  disposti  ad  aiutarli,  stremati  com'erano 
di  forze  e  fors'anclie  nella  giusta  previsione  che  jpresto  a\'Tebbero 
dovuto  cercare  l'alleanza  dei  Grreci  nella  lotta  per  l'esistenza  contro 
Roma.  Si  trovarono  invece  pronti  a  soccorrerli  i  Homani^  sia 
perchè  la  loro  bellicosa  gioventù^  ora  che  posavano  le  armi  nel 
Sannio,  avrà  ambito  di  misurare  le  sue  forze  coi  Greci,  sia  anche 
perchè  era  questa  per  Roma  un'occasione  oiDjDortuna  a  distac- 
care dai  Sanniti  i  potenti  loro  alleati  sul  confine  meridionale 
del  Sannio  e  compire  il  cerchio  di  ferro  con  cui  andava  stringendo 
il  paese  de'  suoi  avversari  (1). 


j 


(1)  Di  questa  lega  fa  testimonianza  soltanto  Diod.  XX  104,  1,  ma  è  testimo- 
nianza perentoria;  del  resto  anche  Liv.  X  11  e  Dionys.  XVII-XVIII  1  consi- 
derano l'alleanza  del  298  come  il  rinnovamento  di  un  patto  anteriore  ;  e  non 
importa  che  essi  vogliano  alludere  alla  pretesa  alleanza  del  326  (sopra  p.  303), 
non  a  quella  effettiva,  che  non  conoscono,  del  303  o  302.  Inoltre  gli  ohsides 
presi  in  Lucania  nel  298,  cui  accennano  non  solo  le  fonti  classiche,  ma  anche 
la  iscrizione  di  L.  Cornelio  Scipione  Barbato  (v.  più  oltre),  si  accordano  bene 
con  questa  ipotesi. 


ALLEANZA  TRA  EOMANI  E  LUCANI.  CLEONIMO  345 

All'alleanza  romano-lucana  i  Tarentini  si  sentivano  troppo  in- 
feriori. Onde  deliberato  di  chiamare  per  la  terza  volta  in  loro 
soccorso  mi  principe  greco ,  si  rivolsero  a  Sparta  e  sollecita- 
rono rinvio  del  principe  reale  Cleonimo  della  casa  degli  Agiadi, 
figlio  secondogenito  di  re  Cleomene  II  e  zio  del  regnante  Areo. 
Crii  Spartani  lo  lasciarono  partire  ben  volentieri^  sia  per  le  an- 
tiche relazioni  di  parentela  e  d'amicizia  con  Taranto,  sia  anche 
per  liberarsi  d'un  principe  turbolento  e  ambizioso  che  non  mancò, 
l)iù  tardi,  di  procacciare  molestie  al  governo  spartano.  E  Cleo- 
nimo coi  mercenari  laconici,  con  gli  altri  che  raccolse  '  in  Ta- 
ranto e  con  le  milizie  italiote ,  ebbe  presto  messo  in  assetto  di 
guerra  un  esercito  di  forse  ventimila  uomini  (303)  (1).  Cimen- 
tarsi contro  tali  forze  i  Romani  non  i)otevano  senza  inviare  il 
nerbo  dei  loro  eserciti  in  mia  regione  lontana  in  cui  le  armi 
loro  non  erano  mai  penetrate,  con  rischio  che  gii  anticlii  nemici 
ne  ijroiittassero  per  rialzare  il  cai^o.  E  i^erò  senza  dubbio  la  loro 
deliberazione  di  far  pace  con  Taranto  fu  assai  prudente.  S'intende 
che  gl'interessi  dei  Lucani  dovettero  in  parte  venir  sacrificati;  ma 
Roma,  senza  aver  perduto  nulla,  potè  attendere  gli  eventi.  Far 
pace,  sia  pure  a  buone  condizioni,  col  nemico  nazionale  fu  invece 
un  grave  errore,  tanto  da  parte  di  Cleonimo,  quanto  da  parte  dei 
Tarentini.  Cleonimo  solo  nella  lotta  col  nemico  della  nazione  po- 
teva trovare  un  mezzo  efficace  e  al  tempo  stesso  legittimo  d'ac- 
quistare potenza  nell'Italia  meridionale  ;  ed  è  vero  che  egli  non 
si  preoccupava  tanto  della  causa  nazionale,  quanto  di  fondare  un 
regno  ;  ma  avrebbe  dovuto  accorgersi  che  per  colorire  il  suo  di- 
segno conveniva  che  al  pari  d'Agatocle  si  mostrasse  coi  fatti 
il  difensore  della  nazionalità  ellenica  nell'Occidente.  I  Tarentini 
poi,  ora  che  i  Lucani  non  potevano  contare  sull'alleanza  sanni- 
tica  e  che  il  timore  dei  Sanniti  e  degli  altri  nemici  o  poco  fedeli 
amici,  che  avevano  j)iù  a  nord,  tratteneva  i  Romani  dalF impe- 
gnarsi troppo  seriamente,  avrebbero  avuto  un'occasione  propizia, 
quale  non  si  presentò  mai  più,  per  rialzare  le  sorti  dell'ellenismo 
nell'ItaUa  meridionale.  Ma  essi  badavano  agl'interessi  dell'oggi  e 
non  vedevano  l'ora  di  liberarsi  dall'alleato  dispendioso  e  perico- 
loso cui  avevano  fatto  ricorso  e  dedicarsi  in  pace  ai  loro  commerci  ; 


(1)  DioD.  XX  104-105  racconta  l'impresa  di  Cleonimo  al  303/2.  Ma  dall'arrivo 
di  lui  alla  sua  sconfitta  nei  Sallentini  corse  probabilmente  più  di  un  anno.  A 
quella  rotta  si  accenna  in  Liv.  X  1  sotto  il  302  (452  Vakk.). 


346  CAPO   XX  -  LA   CONQUISTA   d'itALIA 

né  mancavano  certo  a  Taranto  quei  predicatori  di  pace  ad  ogni 
costo  che  ottengono  soltanto  di  rendere  più  imbelli  i  popoli  im- 
belli, e  clie  studiandosi  d'impedir  ad  essi  di  far  guerra  quando 
hanno  per  farla  prosperamente  l'occasione  opportuna,  li  costrin- 
gono xDoi  a  sostenerla  quando  l'occasione  è  opportuna  pel  nemico. 
Cleonimo  frattanto  diede  presto  a  divedere  i  suoi  veri  intendi- 
menti. Dalla  lega  italiota  s'era  in  quel  tempo  allontanata,  forse 
per  rivalità  verso  la  vicina  Taranto,  la  città  di  Metapontio.  La 
pace  fatta  dai  Lucani  coi  Tarentini  e  coi  loro  alleati,  non  inclu- 
deva naturalmente  Metaj)ontio  :  e  gl'indigeni  si  lasciarono  indurre 
a  invadere  subito  il  territorio  metapontino,  senza  avvedersi  che 
agivano  cosi  non  nel  proprio  interesse,  ma  in  quello  di  Cleonimo. 
A  Metapontio  infatti  non  rimase  altra  via  di  scampo  che  rivol- 
gersi a  Cleonimo  ed  agli  Italioti,  ed  accogliere  le  loro  soldatesche 
entro  le  proprie  mura  (1).  Cleonimo  trattò  la  città  come  paese 
di  conquista,  non  solo  imponendole  una  gravissima  contribuzione 
di  guerra,  ma  pretendendone  per  ostaggio  fanciulle  delle  famiglie 
più  nobili,  cosa  che  in  Grecia  non  s'era  mai  fatta  (2).  Tutto  ciò 
irritava  gli  alleati  di  Cleonimo  ai  quali  iDareva  che  egli  non  facesse 
cosi  ])er  aiutare  la  lega,  ma  per  ambizione  di  dominio;  ed  essi  non 
erano  disx)osti  per  nulla  a  rinnovare  sotto  la  gTiida  di  Cleonimo 
la  lotta  a  cui  già  avevano  partecipato  con  poca  fortuna  capita- 
nati dal  suo  fratello  maggiore  Acrotato  contro  il  tù^anno  di  Si- 
racusa Agatocle,  ora  che  Agatocle  dominava  su  tutta  la  Sicilia 
greca  e  s'era  persino  pacificato  co'  suoi  avversari  oligarchici.  Frat- 
tanto, presentataglisi  non  sappiamo  bene  quale  opportunità,  Cleo- 
nimo navigò  imj)rowisamente  verso  Corcira  e  se  ne  impadi'oni, 
guadagnando  in  tal  modo  una  base  non  dispregevole  per  ulteriori 
imjjrese  in  Italia  e  Sicilia.  Ma  i  Tarentini  erano  ormai  stanchi  e 
colsero  l'occasione  della  sua  assenza  per  rinunciare,  forse  d'accordo 
con  tutte  le  città  italiote,  alla  sua  alleanza.  Cleonimo  salpò  tosto 
verso  la  Calabria  per  tentare  la  sottomissione  dei  ribelli;  ma^ 
privo  degli  alleati  italici  e  di  parte  de'  suoi  mercenari  che  aveva 
dovuto  lasciare  a  Corcii'a^  non  gli  venne  fatto  neppur  di  soste- 
nersi contro  gl'indigeni  e  dovette  riprendere  poco  gloriosamente 
il  mare.  A  proposito  di  questa  vittoria  degl'indigeni  onde  ebbero 


(1)  Questo  pare  il  solo  modo  d'intendere  ragionevolmente  il  racconto  con- 
fuso di  Diodoro,  il  quale  sembra  escludere  che  Cleonimo  si  sia  impadronito  di 
Metapontio  per  forza  d'armi,  v.  Beloch  Gr.  G.  Ili  1,  209. 

(2)  Cfr.  DuRis  fr.  37  ap.  Athen.  XIII  605  e. 


CLEONIMO  347 


conoscenza  dalle  fonti  greche ,  gli  annalisti,  ascrivendone,  com'  è 
natm-ale,  il  vanto  ai  Romani,  sapevano  narrare  o  del  console 
M.  Emilio  (302)  clie  aveva  vinto  nei  Sallentini  Cleonimo  e  lo  aveva 
costretto  ad  imbarcarsi,  ovvero  del  dittatore  C.  Grimiio  Bubulco 
che  col  suo  solo  avvicinarsi  aveva  indotto  Cleonimo  alla  ritirata. 
Ma  queste  sono  evidenti  invenzioni,  xjercliè  i  Romani  non  pos- 
sono essersi  inoltrati  fin  d'allora  nella  penisola  Sallentina  (1)  ;  e 
il  trattato  di  pace  che  avevano  dovuto  stringere  con  Taranto  mi- 
rava apjDunto  a  escluderli  dai  paesi  che  sottostavano  all'influenza 
tarentina  :  cosi  si  spiega  il  di\'ieto  fatto  ai  Romani  di  navigare 
oltre  il  promontorio  La  cinio  che  chiudeva  alle  loro  navi  da  guerra 
il  golfo  di  Taranto  e  l'Adriatico  (2).  Frattanto  Cleonimo,  cacciato 
dalla  Magna  Grecia,  si  ridusse  a  pirateggiare  partendo  da  Cor- 
eira  lungo  le  coste  dell'Adriatico.  La  tradizione  locale  di  Padova, 
non  indegna  di  fede,  ricordava  una  duplice  vittoria  che  i  Pado- 
vani aveano  riportato  e  per  terra  sulle  milizie  di  Cleonimo  scese 
a  predare  e  nella  laguna  con  le  loro  imbarcazioni  sulle  navi  da 
guerra  greche  avanzatesi  imprudentemente  tra  i  bassi  fondi.  I 
rostri  delle  navi  conquistate  infissi  presso  un  tempio  e  annue 
regate  sul  Bacchigliene  furono  monumento  della  vittoria  (3).  Ma  di 
queste  piraterie  avevano  a  soffrh'e  non  solo  gl'indigeni,  si  anche 
i  commercianti  greci,  e  soprattutto  i  Siracusani  che  da  tempo  fre- 
quentavano quel  mare  ;  e  perciò  Agatocle  si  dispose  a  mettervi 
un  termine.   Liberata  Corcira,  col  suo  aiuto,    da   Cleonimo  (4),  al 


(1)  Del  resto  i  fasti  trionfali  tacciono  a  tal  proposito. 

(2)  Già  il  NiEBUHR  ha  visto  rettamente  (III  318)  che  qui  dev'essere  posta  la 
conclusione  delle  TtaXaiai  ouv0r|Kai  la  cui  trasgressione  ebbe  per  elietto  la  guerra 
di  Pirro,  le  quali  stabilivano  M'I  ir^eìv   PujiLiaioue;  Ttpóauj  AaKivia<;  ÓKpaq. 

(3)  Secondo  il  padovano  T.  Livio  X  2.  Può  esservi  soltanto  qualche  dubbio 
se  la  vittoria  sui  Greci  ricordata  dalla  tradizione  di  Padova  sia  stata  ripor- 
tata proprio  su  Cleonimo  o  in  altra  occasione,  p.  es.  intorno  al  tempo  in  cui 
sotto  Dionisio  il  vecchio  i  Siracusani  cercarono  di  stabilirsi  alle  foci  del  Po. 
Ma  è  più  verisimile  che  si  tratti  appunto  di  Cleonimo. 

(4)  Questa  non  è  che  una  ipotesi;  ma  essa  spiega  ad  un  tempo  come  Cor- 
cira fosse  tolta  a  Cleonimo  (ablata,  Trog.  prò/.  15),  e  come  Agatocle  la  dispu- 
tasse poi  con  tanto  accanimento  a  Cassandro  (Diou.  XXI  2),  mentre  non  ebbe 
difficoltà  di  cederla  poco  più  tardi  a  Pirro.  Per  ciò  che  concerne  la  cronologia, 
il  tentativo  dei  Macedoni  su  Corcira  fu  anteriore  alla  morte  del  re  Cassandro 
(297);  e  però  le  piraterie  di  Cleonimo  nell'Adriatico  erano  terminate  nel  298 
0  più  probabilmente  già  da  prima. 


348  CAPO   XX  -  LA   CONQUISTA   d'iTALIA 

principe  spartano  non  rimase  che  tornarsene   con   poco   onore   in 
patria. 

Mentre  i  Romani  dilatavano  nell'Italia  meridionale  il  campo 
d'azione  della  loro  politica,  non  perdevano  di  vista  l'Italia  media, 
dove  avevano  soggiogato  gli  Equi  e  rinvigorito  la  loro  egemonia 
sui  Marsi,  Peligni,  Marrucini  e  Vestini,  Che  pm-  la  Sabina  ba- 
gnata dal  Tevere  fosse  sotto  il  loro  diretto  o  indiretto  dominio 
è  il  presupposto  della  guerra  scoppiata  nel  300  coi  Nequinati  in 
cui  essi  s' impadronirono  di  quella  città  col  suo  territorio  (299) 
e  vi  fondarono  la  colonia  latina  di  Narnia  (1).  Estremo  avamposto 
romano  era  nell'Italia  centrale  verso  nord  la  importante  città 
umbra  di  Camerino,  che  i  Romani  avevano  saputo  legarsi  valida- 
mente con  un  favorevolissimo  trattato  di  alleanza  (sopra  p.  331), 
Ma  tali  progressi  dell'influenza  romana  dovevano  intimorire  le 
altre  popolazioni  dell'Umbria  e  della  Sabina,  bellicose  e  gelose 
della  loro  indipendenza.  Non  sappiamo  che  alcun  legame  federale 
di  carattere  politico  unisse  tra  loro  quei  popoli  che  nella  tradi- 
zione greca  e  romana  compaiono  col  nome  di  Umbri  (2),  né  quelli 
che  sono  ricordati  col  nome  di  Sabini  adoperato  in  senso  stretto  (3), 
Ma  il  comune  pericolo  fece  che  parecchi  di  essi  si  stringessero  ora 
in  lega  apertamente  coi  Sanniti,  o  almeno  non  si  tenessero  dal  fa- 
vorù'li  sottomano  ;  e  ciò  spiega  come  poi  i  Sanniti  potessero  facil- 
mente aprirsi  un  varco  verso  l'Umbria  del  nord.  Contrassero  poco 
prima  o  poco  dopo  tali  relazioni  d'amicizia  e  d'alleanza  coi  San- 
niti, a  giudicare  in  ispecie  dal  trattamento  che  ebbero  di  poi  dai 


(1)  Liv.  X  9,  8.  10,  1-5.  I  fasti  trionfali  registrano  nel  299  la  vittoria  di 
M.  Fulvio  de  Samnitibus  Nequinatibusque.  Se  la  menzione  dei  Sanniti  non  è  dovuta 
a  falsificazione  o  ad  errore,  per  Sanniti  qui  non  jiossono  intendersi  che  i  Sabini, 
V.  B.  Bruno  La  terza  guerra  sannitica  negli  '  Studi  di  storia  antica  '  del  Beloch 
fase.  VI  (1906)  p.  12  segg.  Ma  è  più  probabile  che  si  tratti  di  ripetizione  delle 
vittorie  sui  Sanniti  attribuite  a  M.  Fulvio  cos.  nel  306  o  a  Cn.  Fulvio  cos, 
nel  298.  Sulle  imprese  narrate  da  Frontino  d'un  Fulvio  Nobiliore,  che  alcuni 
vorrebbero  a  torto  fosse  il  M.  Fulvio  Patino  cos.  nel  299,  v.  oltre  p.  351  n.  1. 

(2)  Non  è  chiaro  il  significato  della  divisione  in  tribù  o  plagae  cui  accenna 
Livio.  Ma  sembra  si  tratti  di  cantoni  indipendenti  e  che  quei  termini,  in 
questo  caso,  non  indichino  1'  esistenza  di  legami  tra  essi.  Livio  ricorda  la 
plaga  Materina  (1X41,  15:  da  cercarsi  a  Matelica?)  e  la  tribù  Sapinia  presso 
Sarsina  (XXXI  2,  6.  XXXIll  37,  1).  Ignoriamo  se  con  queste  vadano  messe 
in  relazione  le  tribù  Tadinate  ed  Iguvina  ricordate  nelle  tavole  eugubine 
(I  p.  349  n.  3). 

(3)  Strab.  V  228.  Plin.  n.  h.  Ili  107  seg. 


PRODROMI  DELLA  TERZA  SANNITICA  349 

Eomani,  le  popolazioni  sabino-vestine  clelFalta  valle  del  Pescara, 
intorno  a  Peltuino,  Aveia,  Amiterno  (1),  poi  nel  bacino  della  Nera 
Rieti  e  Norcia,  sull'Adriatico  gli  affini  Pretuttii  che  avevano  il 
loro  centro  ad  Interamnio  (Teramo)  (2),  nell'Umbria  anzi  tutto  Spo- 
leto e  Foligno,  che  dovevano  sentirsi  incerte  dell'avvenire,  strette 
tra  la  colonia  latina  di  Narni  e  la  città  alleata  di  Camerino,  poi  in 
maggiore  o  minore  misura  gli  Umbri  occidentali  :  questi  ultimi  ne  tutti 
forse  né  con  ardore  pari  a  quello  dei  loro  fratelli,  come  sembrano 
mostrare  i  trattati  di  alleanza  conclusi  poi  con  Roma^  e  in  par- 
ticolare quello  favorevole  ottenuto  dalla  potente  Iguvio  (Gubbio)  ; 
e  ciò  probabilmente  per  la  loro  poca  amicizia  coi  vicini  d'oltre 
Tevere  che  fecero  causa  comune  coi  Sanniti  (3).  Invece  un'altra 
regione  italica  assai  popolosa  strinse  alleanza  con  Roma  nel  299, 
il  Piceno,  forse  in  odio  dei  vicini  Pretuttii,  forse  per  timore  dei 
barbari  Celti  con  cui  i  collegati  si  disponevano  ad  iniziare  rela- 
zioni amichevoli  (4). 

Cose  non  meno  gravi  si  x^reparavano  in  Etruria.  All'infuori  dei 
Tarquiniesi,  troppo  provati  dalle  ultime  guerre  per  essere  desiderosi 
di  cimentarsi  ancora  con  Roma  (5),  e  dei  Falisci,  meno  indocili 
forse  per  ragione  dell'affinità  di  razza  al  primato  romano,  le  altre 
alleanze  erano  malfide,  e  tutti  aspettavano  l'occasione  opportuna 
per  riprendere  la  guerra.  Si  parla  anzi  di  nuove  ostilità  con  l'E- 
truria  già  fin  dal  302  o  301  :  ma  par  che  allora  si  trattasse  sol- 
tanto di  qualche  sedizione  in  Arezzo  tra  l'aristocrazia,  in  cui  pre- 


(1)  Per  questa  via  sembra  che  i  Sanniti  penetrassero  nell'Umbria.  Ne  la 
tradizione  aveva  perduto  ogni  ricordo  di  ciò,  parlandosi  della  fuga  dei  Sanniti 
dopo  Sentino  attraverso  il  territorio  peligno  (Liv.  X  30,  2);  che  se  anche  si 
trattasse  di  semplice  induzione,  sarebbe  abbastanza  caratteristica.  Se  i  Romani 
avessero  già  incorporato  questa  regione  al  loro  territorio  con  la  cittadinanza 
senza  suffragio,  come  ritiene  Beloch  Rai.  Band  51  fondandosi  sopra  il  passo  di 
DiOD.  XX  90,  3,  che  va  interpretato  altrimenti  (sopra  p.  338  n.  4),  i  Sanniti 
non  sarebbero  passati  così  facilmente  nell'Umbria. 

(2)  La  parte  da  loro  avuta  nella  guerra  è  indicata  chiaramente  dalla  cam- 
pagna che  contro  di  essi  condusse  nel  290  M'.  Curio  Dentato  (v.  oltre). 

(3)  L'opera  prestata  dagli  Umbri  nella  guerra  dev'essere  stata  assai  modesta. 
I  fasti  trionfali,  Polibio  e  Diodoro  parlano  solo  di  Sanniti,  Etruschi  e  Galli. 
Sul  foediis  d'Iguvio  v.  Cic.  prò  Balb.  20,  47. 

(4)  Liv.  X  10,  12:  foediis  ictum  cuni  Picenti  populo  est.  Cfr.  11,  7:  alterius 
belli. ..  fama  Picentium  novorum  sociorum  indicio  exorta  est:  Samnites  arma  et 
rehellionem  siìectare  seque  ab  iis  sollicitatos  esse. 

(5)  Se  pure  non  erano  stati  incorporati  allo  Stato  romano,  cfr.  s.  p.  333  n.  4. 


350  CAPO   XX  -  LA   CONQUISTA   d'iTALIA 

dominavano   i   Cilnì,    e   la   classe   popolare,    composta    mediante 
l'intervento  romano  (1). 

Ad  ogni  modo  l'oiDportunità  attesa  non  tardò  a  presentarsi.  Da 
quasi  mezzo  secolo  i  Galli  non  si  erano  arrischiati  più  a  fare 
scorrerie  nel  Lazio  e  nell'Italia  meridionale,  tenuti  in  rispetto 
dalle  due  grandi  potenze  militari  clie  vi  si  erano  formate,  Roma  ed 
il  Sannio  (2).  Ora  stimolati  dal  sopravvenire  di  nuovi  migratori 
celtici  nella  regione  padana  e  dagl'inviti  degli  avversari  dei  Ro- 
mani, determinarono  d' intervenii^e  di  nuovo,  e  tanto  più  agevol- 
mente vi.  si  indussero  in  quanto  i  Romani,  con  pericolo  evidente 
pei  barbari,  per  mezzo  dell'  alleanza  coi  Camerti  e  coi  Picenti, 
toccavano  ormai  i  confini  dell'agro  gallico  (3).  Un  esercito  di  Gracili 
ed  Etrusclii  devastò  nel  299  i  possessi  romani  a  nord  del  Tevere 
e  tornò  addietro  indisturbato  e  carico  di  bottino  (4).  La  tradi- 
zione più  recente,  dimenticando  questa  impresa  vittoriosa  del 
nemico,  parlava  invece  di  fiere  devastazioni  perpetrate  dai  Romani 
nel  territorio  etrusco.  Ma  pei  popoli  d'Italia  fu  quello  il  segnale 
della  riscossa. 


(1)  Liv.  X  5,  13:  (sopra  p.  341  n.  6).  Pure  nei  fasti  trionfali  il  dittatore  M.  Va- 
lerio Corvo  trionfa  non  solo  dei  Marsi  ma  anche  degli  Etruschi.  Quanto  alla 
data,  M.  Valerio  è  secondo  i  fasti  l'eponimo  dell'anno  dittatoriale  301;  ma 
non  v'ha  dubbio  che  conviene  riferirlo  con  la  tradizione  annalistica  all'anno 
consolare  302. 

(2)  Cfr.  sopra  p.  261. 

(3)  Le  condizioni  della  tradizione  son  tali  che  sarebbe  certamente  pericoloso 
definire  se  l'alleanza  coi  Picenti  fosse  tra  le  cause  o  (come  vuole  Livio)  tra 
gli  effetti  della  spedizione  gallica  del  299.  Non  fu  estranea  ad  ogni  modo  alla 
continuazione  della  guerra  coi  Galli. 

(4)  PoLYB.  Il  19  narra  che  dopo  trent'  anni  di  pace,  rinforzati^  da  migratori 
transalpini,  i  Galli  fecero  una  spedizione  contro  i  Romani:  4v  fj  ti'iv  éopoòov 
TToirioà|uevoi  h\à  Tuppnviaq,  Ó|no0  auarpaTeuaaiLiévujv  oqpicfi  TupprivObv  koì  irepiPa- 
Xó,uevoi  Xeia^  nXfiOo;,  ìk  |nèv  Tf\<;  'Puj)aaiujv  èTrapxia<;  àacpaXwc,  èiravfiXeov  :  in 
patria  poi  vennero  a  discordia  pel  bottino  e  distrussero  tò  -rrXeTaTov  }xépoc,  delle 
proprie  forze  :  dove  l'ultima  può  essere  un'invenzione  destinata  a  mostrare  che 
i  violatori  del  territorio  romano  non  sfuggirono  la  nemesi.  La  tradizione  liviana, 
assai  alterata  (X  10),  riferisce  che  i  Galli  avevano  pattuito  con  gli  Etruschi 
d'invadere  il  territorio  romano;  ma  poi  tornarono  in  patria  mancando  ai  patti, 
e  allora  il  console  T.  Manlio  e  poi  M.  Valerio  a  lui  sostituito  portarono  la 
guerra  in  Etruria,  e  Valerio  devastò  spietatamente  il  paese,  che  non  oppose 
resistenza  (X  11).  Quanto  ci  sia  di  vero  sull'ultimo  punto  non  sappiamo;  e 
il  nome  del  console  è  poco  fatto  per  ispirarci  fiducia.  Che  il  console  T.  Manlio 
morto  sul  principio  della  guerra  per  una  caduta  da  cavallo  non  sia  invece 
caduto  combattendo  contro  gli  invasori,  come  alcuno  potrebbe  congetturare, 
pare  escluso  dal  silenzio  di  Polibio. 


I   PRIMI   ANNI   DELLA   TERZA    SANNITICA  351 

Tosto  il  grido  di  guerra  risuonò  dal  Po  ai  monti  della  Sila. 
Non  era  più  ora  la  lotta  tra  Oschi  e  Latini  per  l'egemonia:  era 
la  lega  degli  abitatori  indipendenti  d'Italia  contro  la  affermantesi 
supremazia  romana.  Diversi  x^er  nazionalità  e  per  incivilimento,  i 
collegati  non  avevano  altro  interesse  comune  che  quello  di  abbat- 
tere Roma.  E  Roma  si  trovò  in  grave  pericolo  quando  sorsero  in 
armi  contro  di  lei  i  Celti,  terrore  un  tem]30  dei  Romani,  le  belli- 
cose tribù  dell'Umbria  e  della  Sabina,  gli  Etrusclii  e  i  Sanniti, 
sempre  vinti  e  non  mai  domi.  I  territori  degli  alleati,  anche  pre- 
scindendo dalla  Grallia,  avevano  una  estensione  di  50.000  km*, 
dopx^ia  quasi  di  quella  dello  Stato  romano  con  le  sue  dii^endenze, 
ed  erano,  se  non  relativamente,  certo  assolutamente  più  popolati. 
Ma  la  mancanza  d'unità  di  direzione,  la  diversità  degli  interessi 
dei  contraenti  e  la  loro  poca  omogeneità  rendevano  ad  essi  molto 
diffìcile  di  trionfare,  nonostante  le  forze  preiDonderanti,  lo  siDÌrito 
guerriero  ond'  erano  animati  e  gli  aiuti  gallici,  della  salda  com- 
pagine dello  Stato  romano.  La  quale  si  manifestò  in  questa  oc- 
casione non  meno  che  nelle  guerre  di  Pirro  e  di  Annibale,  x^èrchè 
nessuno  dei  municipi  e  delle  colonie  defezionò,  e  fuori  dell'Etrmia 
e  dell'estremo  mezzogiorno  d'Italia  anche  gli  altri  alleati  rimasero 
fedeli.  Militarmente  poi  le  parti  dei  Romani  e  dei  loro  avversari 
erano  per  rispetto  ai  territori  invertite  in  confronto  con  la  seconda 
sannitica:  allora  i  Sanniti  avevano  il  vantaggio  della  posizione 
centrale  di  contro  alle  estese  e  sottili  linee  romane:  ora  il  terri- 
torio romano  e  alleato  formando  come  una  massa  compatta  sepa- 
rava i  Sanniti  dai  loro  confederati  x^iù  settentrionali. 

Prima  di  tutto  i  Romani  si  proposero  d'impedire  la  defezione 
tra  i  Lucani,  che  vi  parevano  dis^Dosti,  e  non  del  tutto  a  torto, 
poiché  dall'alleanza  romana  essi  non  avevano  rice^nito  altro  pro- 
fìtto che  quello  d'essere  costretti  ad  una  pace  poco  vantaggiosa 
coi  Tarentini.  Qui  la  prontezza  con  cui  i  Romani  intervennero  e 
la  consueta  esitazione  dei  Sanniti  ad  affrontarli  in  campo  a]Derto 
foce  si  che  già  nel  298  l'influenza  romana  fosse  riaffermata,  il  trat- 
tato d'alleanza  rinnovato  e  consegnati  ai  Romani  ostaggi  per  gua- 
rentii-ne  la  esecuzione.  Cosi  i  Romani  poterono  con  parte  delle 
forze  iniziare  l'offensiva  nel  Sannio,  mentre  con  l'altra  parte  te- 
nevano a  freno  gli  Etruschi  (1).  Nel  Sannio  pertanto  conquistarono 


(1)  Secondo  Livio  nel  298  il  console  Scipione  vinse  gli  Etruschi  a  Volterra; 
l'altro  console  Cn.  Fulvio,  vinti  i  Sanniti  a  Boviano,  prese  Boviano  ed  Aufi- 
dena  e  trionfò  de  Samnitibus  (X  12).  I  fasti  trionfali  tacciono  di  Scipione  o 
fanno   trionfare   Fulvio  de  Samnitibus  Etrusceisque.   Fuontino  parla    di    Fulvio 


352  CAPO   XX  -  LA    CONQUISTA   d'iTALIA 

alcune  terre  la  cui  posizione  ci  è  poco  nota,  ma  che  vanno  forse 
cercate  sui  contini  del  paese:  Taurasia  e  Cisauna  nel  298  (1),  Ci- 
metra   nel    297  (2),  Murganzia,  Romulea  e  Ferentino  nel  296  (3). 


Nobiliore  (e  vuole  intendere  senza  dubbio  il  cos.  del  298)  che  guidando  l'eser- 
cito ex  Samnio  in  Lucanos  seppe  causare  le  insidie  tesegli  per  via  dal  nemico 
(I  6,  1.  2.  11,  2).  In  contraddizione  con  queste  è  la  fonte  piìi  antica,  l'elogio 
sepolcrale  di  Scipione  Barbato  {CIL.  VI  1284  seg.):  Cornelhis  Lucius  Scipio 
Barbatus  Gnaivod  patre  prognatus,  fortis  vir  sapiensque  qiioius  forma  virtutei 
parisuma  fuit;  consol  censor  aidilis  quei  fuit  apud  vos;  Taurasia  Cisauna  Samnio 
cepit,  suhigit  omne  Loucanam  opsidesque  ahdoucit.  L'iscrizione  peraltro  è  stata 
incisa  mezzo  secolo  od  anche  un  secolo  dopo  il  consolato  di  Scipione  (cfr.  Wolfflin 
'  Sitzungsber.  der  mùnch.  Akad.  '  1892  p.  120  segg.).  La  contraddizione  può 
spiegarsi  soltanto  col  Niese  ritenendo  che  gli  annalisti  piìi  antichi  registrassero 
qui  i  fatti  senza  i  nomi  ;  la  distribuzione  delle  provincie  tra  i  consoli  è  però 
opera  dell'  annalistica  recente  e  senza  valoi'e  storico  {De  annalihus  Romanis 
Marburgi  1886  p.  IV).  Certo  alle  versioni  annalistiche  è  preferibile  la  iscrizione 
del  Barbato;  ma  se  anch'essa  meriti  fede  assoluta  riferendo  la  conquista  di 
Taurasia  e  Cisauna  e  la  sottomissione  (la  parola  stibigit  va  naturalmente  in- 
tesa cum  grano  salis)  della  Lucania  al  Barbato  è  incerto.  Il  Beloch  '  Rivista 
di  storia  antica  '  IX  (1904)  p.  277  suppone  che  la  tradizione  originaria  attri- 
buisse a  Fulvio  vittorie  sui  Sabini  da  cui  poi  si  sarebbero  ricavate  le  sue  pre- 
tese vittorie  sui  Sanniti  ;  ma  la  sua  ipotesi  pare  arbitraria. 

(1)  Dalla  iscrizione  citata.  Cisauna  è  affatto  ignota.  Da  Taurasia  si  suole 
trarre  il  nome  àelVager  Tanrasinus  (Liv.  XL  38.  41)  in  cui  furono  stanziati 
nel  180  i  Liguri  Bebiani  e  Corneliani.  Se  la  congettura  è  fondata,  è  impos- 
sibile riferire  la  cosa  al  principio  della  seconda  sannitica  e  si  tratterebbe 
d'una  falsificazione  dovuta  alla  vanità  gentilizia.  Può  però  trattarsi  di  quella 
Taurania  menzionata  da  Plin.  n.  h.  Ili  70  come  distrutta  in  Campania,  cfr. 
Steph.  Byz.  s.  V.  Taupavia  :  questa  terra  dovrebbe  essere  cercata  al  confine  col 
Sannio,  forse  verso  Saticula. 

(2)  Liv.  X  15.  Forse  è  da  cercare  al  confine  volsco-sannitico  ricordando  i  suf- 
fissi simili  di  Velitre,  Ecetra. 

(3)  Caratteristico  è  che  la  conquista  di  questi  tre  luoghi  si  attribuisca  o  al 
solo  P.  Decio  proconsole  o  in  parte  a  lui  in  parte  all'altro  proconsole  Q.  Fabio 
Rulliano  o  ài  due  consoli  Ap.  Claudio  e  L.  Volumnio  o  al  solo  L.  Volumnio 
(Liv.  X  16).  Ciò  mostra  che  era  in  realtà  tramandato  il  solo  fatto  della  con- 
quista. Della  posizione  di  Murganzia  non  sappiamo  nulla  (congetture  abba- 
stanza arbitrarie  in  tal  proposito  son  presso  Pais  I  2  p.  428).  Per  Ferentino 
(da  non  confondersi  con  la  omonima  città  degli  Ernici),  si  è  proposto  di  iden- 
tificarla con  Forentum  o  Ferentum  al  confine  lucano,  già  occupata  dai  Romani 
durante  la  seconda  sannitica  (v.  sopra  p.  319);  Romulea  s'è  messa  in  relazione 
con  la  stazione  ad  Romulam  menzionata  dagli  itinerari  a  cinque  miglia  da 
Aquilonia.  Questo  indicherebbe  che  i  Romani  combatterono  prosperamente 
partendo  dalla  Lucania. 


I   PRIMI   ANNI   DELLA   TERZA    SANNITICA  353 

Tali  contiuiste  vengono  attribuite  dalle  fonti  ora  all'uno,  ora  al- 
l'altro dei  vari  comandanti  romani;  segno  die  la  tradizione  con- 
servava solo  la  nuda  notizia  delle  terre  occupate.  Le  fonti  tarde 
a  noi  pervenute  vi  aggiungono  coi  nomi  dei  vincitori  altri  rag- 
guagli poco  credibili.  Così  al  298  la  vittoria  presso  Boviano  e  la 
presa  di  questa  città,  attribuita  al  console  Cn.  Fulvio,  è  proba- 
bilmente una  reduplicazione  delle  gesta  del  console  M.  Fulvio 
nel  305(1);  si  spiega  Fassalto  alla  capitale  sulla  fine  della  seconda 
sannitica,  non  mentre  principiava  la  terza.  Anclie  meno  credibili 
appaiono  le  vittorie  del  297:  nel  quale  anno  il  console  Q.  Fabio 
RuUiano  avrebbe  sbaragliato  i  Sanniti  a  Tiferno,  mentre  il  suo  col- 
lega P.  Decio  Mure  avrebbe  superato  gli  Apuli  a  Male  vento  (la 
posteriore  Benevento)  impedendo  loro  di  congiungersi  coi  Sanniti. 
Su  di  che  è  molto  eloquente  il  silenzio  dei  fasti  trionfali;  ed  è  del 
resto  singolare  clie  fra  tanto  minacciar  di  nemici  ambedue  gii 
eserciti  consolari  si  riunissero  nel  Sannio;  ed  anche  meno  si  vede 
perchè  gii  Apuli  dovessero  passare  a  Malevento  per  giungere  a  Ti- 
ferno (2).  E  tuttavia  l'andamento  della  guerra  è  abbastanza  chiaro. 
I  Romani  o^jeravano  con  una  loarte  delle  forze  verso  il  confine 
etrusco  ed  umbro,  con  l'altra  dalla  parte  del  Sannio,  sia  per  pro- 
teggere i  loro  alleati  Lucani  ed  Apuli  ed  assicurarsi  al  tempo 
stesso  della  loro  fedeltà,  sia  per  tenere  a  bada  i  Sanniti  disto- 
gliendoli dal  congiungersi  coi  loro  amici  del  settentrione.  ' 

Questo  scopo  non  fu  raggiunto.  Non  solo  tra  i  Lucani  e  tra  gli 
Apuli  non  riusci  ad  affermarsi  i^ienamente  la  superiorità  delle 
armi  romane  (3),  ma  nel  296  un  forte  esercito  sannitico  agii  ordini 


(1)  Cfr.  sopra  p.  339.  Nella  frase  di  Liv.  X  12,  9  :  Boviuntiin  inde  adgressus 
nec  ita  midto  post  Aufidenam  vi  cepit,  adgressus  si  riferisce,  come  nota  il  Weis- 
SENBORN,  anche  ad  Aufidenam  e  cepit  anche  a  Bovianum.  Con  la  presa  di  Boviano 
cade  anche  quella  di  Aufidena,  quantunque  questa  non  sia  attribuita  esplici- 
tamente dalle  fonti  al  consolato  del  305. 

(2)  Liv.  X  14.  15.  Un  combattimento  a  Tiferno  è  riferito  per  gli  ultimi  anni 
della  seconda  sannitica  (sopra  p.  339  n.  1.  Liv.  IX  44).  Un  altro  presso  il  tnons 
Tifernus  è  ricordato  da  alcune  fonti  che  Livio  non  segue,  con  evidente  redu- 
plicazione (X  30,  7;,  sotto  l'altro  consolato  di  Fabio  e  Decio  (295). 

(3)  Per  i  Lucani  ciò  è  provato  dalla  loro  sottomissione  nel  290  per  opera 
di  Curio  Dentato.  Del  resto  non  è  neppur  certo  che  tutti  fossero  tornati  al- 
l'alleanza romana  iin  dal  298.  Gli  Apuli  vengono  menzionati  come  nemici  da 
Liv.  X  15  (a.  297),  dove,  s'intende,  può  trattarsi  solo  di  una  qualche  tribù 
apulica,  non  certo  dei  Danni  di  Arpi.  Le  posteriori  guerre  in  Apulia  sembrano 
provare  che  i  Sanniti  non  mancavano  colà  di  alleati  :  vedansi  soprattutto  le 
notizie  sulla  presa  di  Venusia  nel  291. 

G.  De  Sanctis,  Storia  dei  Romani,  II.  '.£3 


354  CAPO   XX  -  LA   CONQUISTA   d'itALIA 

di  Gelilo  Egnazio,  traversando  il  paese  dei  Peligni  senza  che  questi 
osassero  affrontarlo,  e  passando  poi  nel  territorio  delle  tribù  amiche 
dell'alta  valle  dell' Aterno,  dava  la  mano  ai  Sabini  ed  agli  Umbri 
e  s' internava  i30Ì  nell'Umbria  verso  il  paese  dei  Senoni  per  con- 
gimigersi  con  le  forze  dei  Gralli  (1). 

Frattanto  i  Romani  avevano  combattuto  in  Etrui'ia  senza  poter 
ottenere  successi  di  gTande  momento.  La  tradizione  narra  d'una 
vittoria  presso  Volterra  nel  298  (2),  confermata  dai  fasti  che  allo 
stesso  anno  registrano  un  trionfo  sugli  Etruschi;  poi  al  296  ri- 
corda mia  vittoria  che  i  consoli  Ap.  Claudio  e  L.  Volumnio  avreb- 
bero riportato  su  Etruschi  e  Sanniti:  vittoria  intorno  alla  quale 
ci  rende  molto  scettici  il  silenzio  dei  fasti,  la  nessuna  influenza 
che  ebbe  nel  corso  ulteriore  della  guerra  e  il  fatto  che  le  forze 
dei  collegati  si  congregarono,  com'è  naturale,  non  nell'Etruria  me- 
ridionale, ma  al  confine  umbro-gallico  (3). 

Effetto  della  mosssa  di  Grellio  fu  che  i  Romani   ebbero  a  di- 


(1)  Il  travestimento  che  i  fatti  soffrono  per  la  vanagloria  romana  diviene 
grottesco  a  proposito  della  partenza  di  Gellio  Egnazio  v.  Liv.  X  16,  2:  (P.  Decius) 
Samnitium  exercitum  nunquam  se  proelio  committentem  postremo  expulit  finìbus. 
Per  la  via  seguita  da  Gellio  cfr.  sopra  p.  348.  Il  Beloch  mem.  cit.  p.  276  ritiene 
che  a  Sentino  abbiano  combattuto  non  i  Sanniti,  ma  i  Sabini.  Si  mette  così 
in  contraddizione  patente  con  Duride  (fr.  40),  con  Polibio  (v.  oltre  p.  357  n.  1) 
e  con  Livio.  Ma  è  estremamente  difficile  che  gli  scrittori  greci  contemporanei, 
l'annalistica  più  antica  rappresentata  da  Polibio  e  la  recenziorè  rappresentata 
da  Livio  cadessei'O  di  pieno  accordo  nel  mede.s;imo  errore:  ne  per  negare  la 
presenza  dei  Sanniti  a  Sentino  si  sono  addotte  altre  ragioni  che  di  carattere 
al  tutto  subbiettivo.  Del  resto  che  Egnazio  fosse  Sannita  è  confermato  dal 
ricorrere  tra  i  duci  pivi  famosi  degli  Italici  insorti  contro  Roma  nella  guerra 
sociale  un  Mario  Egnazio.  E  poi  se  i  Sabini,  le  cui  forze  erano  intatte,  fossero 
stati  in  grado  di  compiere  imprese  così  pericolose  per  Roma  come  quella  di 
Gellio  Egnazio,  non  sarebbero  stati  sottomessi,  e  senza  possibilità  di  riscossa, 
in  poche  campagne  che  hanno  lasciato    appena  traccia  nella  tradizione. 

(2)  Liv.  X  12.  Per  quanto  questa  vittoria  sia  attribuita  da  Livio  a  Scipione 
Barbato,  né  tace  la  sua  iscrizione.  Invece  Cn.  Fulvio,  secondo  i  fasti,  trionfa 
in  quell'anno  de  Samnitibus  Etrusceisque. 

(3)  Liv.  X  19.  È  anche  caratteristica  l'indeterminatezza  del  luogo  della  bat- 
taglia, mentre  le  battaglie  su  cui  c'è  vera  tradizione  hanno  tutte  un  nome 
preciso.  Forse  ad  uno  strato  di  tradizione  più  antico  risalgono  gli  accenni  a 
vittorie  di  Appio  sui  Sabini  di  cui  tace  Livio  ma  parla  il  suo  elogio  (CIL.  I  ' 
p.  192:  oppida  de  Samnitibus  cepit,  Sabinorum  et  Tuscorum  exercitum  fudit)  e 
l'autore  del  de  vir.  illustrib.  (84,  5  :  Sabinos,  Samnites,  Etruscos  bello  domuit). 
Le  lotte  che  non  possono  aver  mancato  in  questi  anni  coi  Sabini  sono  quasi 
obliterate  nella  tradizione.  —  Non  c'è  ragione  per  mettere  in  dubbio  che  con- 


LA   BATTAGLIA   DI    SENTINO  355 

sporre  diversamente  le  loro  forze:  con  la  maggior  parte  di  esse 
dovettero  difendere  i  loro  alleati  delFEtrmia  e  dell'Umbria  e  co- 
prii'e  la  calcitale.  Sicché  la  loro  offensiva  contro  il  Sannio  cessò, 
anzi  presero  invece  l'offensiva  i  Sanniti  devastando  arditamente 
la  Campania  e  l'agro  Falerno  (1).  La  vittoria  clie  avrebbe  guada- 
gnato sugli  assalitori  il  proconsole  L.  Volumnio  accorso  a  grandi 
giornate  dall'Etrmia  non  ha  il  suffragio  dei  fasti  trionfali;  ma, 
vera  o  falsa  che  sia,  è  certo  che  i  Sanniti  si  pro^Donevano  appunto 
con  queste  diversioni  di  costringere  i  Romani  a  indebolire  gli 
eserciti  con  cui  potevano  fronteggiare  Grellio  Egnazio  ed  i  suoi 
collegati;  poiché  su  Gelilo  poggiavano  le  speranze  dei  Sanniti. 

Fm^ono  eletti  consoli  i^el  295  i  due  capitani  più  sperimentati 
che  Roma  avesse,  Q.  Fabio  RuUiano  e  P.  Decio  Mm-e,  che  già 
erano  stati  consoli  insieme  per  due  volte,  nel  308  e  nel  297,  senza 
badare  al  breve  intervallo  corso  da  che  per  l'ultima  volta  avevano 
rivestito  la  magistratura  suprema.  La  situazione  era  grave  più  di 
quel  che  non  fu  dopo  le  vittorie  di  Pirro  e  paragonabile  soltanto 
a  quella  creata  dalla  guerra  annibalica;  poiché  non  si  sapeva  nep- 
pui-e  se  l'esercito  dei  collegati  che  si  raccoglieva  sotto  la  guida  di 
Grellio  Egnazio  sarebbe  passato  in  Etrmia  e  di  li,  nella  direzione 
della  \'ia  Cassia,  si  sarebbe  avanzato  su  Roma,  ovvero  se  sarebbe 
sceso  dall'Umbria  settentrionale  nella  direzione  della  via  Flaminia. 
L'incertezza  obbligava  quindi  i  Romani  a  dividere  le  forze,  per 
non  essere  colti  alla  sxjrovvista  nell'una  o  nell'altra  direzione;  e  al 
tempo  stesso  non  si  potevano  lasciare  senza  qualche  protezione  gli 
alleati  Lucani  e  Apuli,  e  conveniva  tenere  intorno  alla  città  una 
riserva,  pronta  ad  accorrere  ove  maggiore  fosse  il  bisogno.  Si  vi- 
dero tutti  gli  inconvenienti  della  dispersione  di  forze  cui  erano 
obbligati  i  Romani,  quando  una  legione,  che,  agli  ordini  del  pro- 
pretore L.  Cornelio  Scipione  Barbato,  proteggeva  il  territorio  degli 
alleati   di  Camerino,  fu  sbaragliata   dai   Sanniti   e  dai   Galli  (2). 


forme  alla  tradizione  il  tempio  di  Bellona  sia  stato  votato  in  questo  anno  da 
Appio  Claudio:  Liv.  X  19,  17.  Ovid.  fasti  203.  Sul  passo  di  Plin.  n.  h.  XXXV 
12  V.  al  e.  XXIV. 

(1)  Liv.  X  20,  1  :  in  Samnium  novi  exercitus  exorti  ad  populandum  imperii 
Romani  fines  per  Vescinos  in  Campaniam  Faìernumqiie  agrum  transcendunt. 

(2)  PoLYB.  Il  19,  5  :  auiucppovrioavreq  fx\xa  lauvÌTOi  Kal  TaXàTOi  irapeTdEavTO 
'Puj)uaioi<;  év  Tf\  Ka|aepTÌwv  x^J^Jpcji  Kal  ttoXXoùc  aÙTUJv  èv  tlù  kivòùvuj  biéqpSeipav. 
Allora  i  Romani  mct'  òXiyaq  t'ìiuépat;  si  mettono  in  marcia  con  quattro  legioni 
per  riparare  la  sconfitta  avuta  e  atìrontauo  il  nemico  nel  territorio  dei  Sen- 
tinati.  11  contesto  mostra  all'evidenza  che  Polibio  ha  riferito  la  prima  battaglia 


356  CAPO   XX  -  LA   CONQUISTA   d'iTALIA 

Frattanto  i  Sanniti  rimasti  in  patria,  profittando  dell'assenza  di 
forze  romane  sufficienti  a  tenerli  in  rispetto,  scendevano  di  nuovo 
devastando  verso  la  Campania  e  verso  il  paese  degli  Aurmici  per 
le  valli  del  Voltm^no  e  del  Liri  (1).  Ma  i  Romani  non  si  lascia- 
rono distogliere  per  questa  diversione  da  quello  che  doveva  essere 
il  loro  obbiettivo.  La  rotta  del  Barbato  aveva  rivelato  ove  si  rac- 
cogliesse il  nemico.  E  però  Q.  Fabio  e  P.  Decio  riunirono  i  due 
eserciti  consolari  e,  forti  di  quattro  legioni^  circa  trenta  o  trenta- 
seimila uomini,  mossero  verso  l'Umbria  settentrionale  per  termi- 
nare la  guerra  distruggendo  il  nucleo  principale  delle  forze  av- 
versarie (2).  Forse  Gelilo  Egnazio  non  aveva  ancora  raccolto  tutti 


al  territorio  di  Camerino  e  che  per  equivoco  la  fonte  di  Livio  l'ha  riportata- 
ai  territorio  di  Chiusi  quod  Cantar s  olim  appellabant  (X  25,  11).  Del  resto  Livio- 
poco  prima  aveva  supposto  che  il  campo  romano  fosse  nell'Umbria  (25,  4)  ad  op- 
pidum  Aharnam;  ed  egli  conosce  alcuni  scrittori  qui  Vmbros  fuisse  non  Gallos 
tradant  gli  autori  della  rotta  (26,  12).  Al  solito  non  mancava  chi  anche  di  questa 
piccola  sconfitta  aveva  inventato  una  immediata  rivincita.  Nel  testo  son  rico- 
struiti i  precedenti  della  battaglia  di  Sentino  movendo  dall'esame  delle  con- 
dizioni di  fatto  dei  belligeranti  e  prescindendo  dai  minuti  ragguagli  di  Livio 
in  tal  proposito,  i  quali  non  mi  sembra  meritino  neppur  discussione.  Nel 
punto  fondamentale  però  ,  che  cioè  la  rotta  dei  Romani  fosse  anteriore  alla 
marcia  degli  eserciti  consolari  nell'Umbria,  il  racconto  di  Livio  è  assai  meno- 
inverisimile  di  certe  ricostruzioni  recenti. 

(1)  Livio  riferisce  ciò  a  torto  dopo  la  rotta  di  Sentino  (X  31,  2):  Samnitci- 
praedatum  in  agrum  Vescinum  Formianumque  et  parte  alia  in  Aeserninum  quaeque 

Volturno  adiacent  flamini  descendere.  Aesernia  faceva  parte  del  Sannio,  quindi 
Livio  ha  fatto  un  po'  di  confusione.  Sembra  peraltro  da  ricavarne  col  Niebuhr 
(111  453)  che  i  Sanniti  sieno  scesi  lungo  le  valli  di  quei  due  fiumi.  Anche  qui  alla 
devastazione  segue  immediatamente  l'immancabile  rivincita  in  cui  sarebbero 
caduti  16.300  Sanniti.  Il  fatto  della  rivincita  ha  lo  stesso  negativo  valore  di 
quel  numero.  Può  sorger  dubbio  piuttosto  se  la  devastazione  come  la  sua  ri- 
vincita non  sia  la  ripetizione  di  quella  dell'anno  precedente  (sopra  p.  355);  e  il 
dubbio,  considerando  lo  stato  della  tradizione,  è  abbastanza  giustificato  ;  ma 
che  i  Sanniti  ripetessero  le  diversioni  da  quando  ebbero  spedito  Gelilo  nel- 
l'Umbria è,  anche  prescindendo  dalla  tradizione,  sicuro. 

(2)  Secondo  Polibio  i  Romani  attaccarono  battaglia  Ttaai  toT<;  arparoTréòoK;- 
Secondo  Livio,  oltre  le  quattro  legioni  consolari,  i  Romani  avevano  alii  duo 
exercitus  haud  procul  urbe  Etruriae  appositi,  lums  in  Falisco  alter  in  Vaticano 
agro.  Le  due  legioni  destinate  a  coprire  la  città  sono  forse  un'  induzione  fon- 
data sulle  due  legioni  urbane  che  si  levarono  talora  nella  guerra  anniba- 
lica. E  quanto  alla  vittoria  che  per  eosdem  dies  della  battaglia  di  Sentino 
(Liv.  X  30,  1)  il  propretore  Cn.  Fulvio  avrebbe  riportato  sui  Perugini  e  Clu- 
sini,  questa  è  la  stessa  evidentemente  che  poco  dopo  avrebbe  riportato  Fabio 
.sui  Perugini  (Liv.  X  31,  3)  con  parte  dell'esercito  che  aveva  pugnato  a  Sentino. 


LA   BATTAGLIA   DI   SPUNTINO  357 

i  contingenti  etnischi.  Solo  con  la  lentezza  della  radunata  [)uò 
^spiegarsi  com'egli  non  profittasse  del  felice  successo  per  scendere 
nella  direzione  della  via  Flaminia  verso  Roma  chiamando  gli 
Umbri  alla  riscossa.  I  Romani  dunque  prendendo  l'offensiva  po- 
terono concentrare  felicemente  le  loro  quattro  legioni  a  Camerino, 
e  di  li  si  avanzarono  verso  Matelica  per  poi  scendere  lungo  la 
valle  dell'Esino  verso  il  paese  dei  Senoni.  Ma  press'a  poco  dove  il 
Sentino  sbocca  nell'Esino  si  trovarono  chiusa  la  via  dalFesercito 
dei  Sanniti  e  dei  Galli  rinforzati  dai  contingenti  degli  Etruschi  e 
probabilmente  da  parte  degli  Umbri;  né  v'ha  dubbio  che  le  forze 
dei  collegati  erano  assai  sux:)eriori  numericamente  a  quelle  dei 
Romani.  Fu  un  combattimento  memorando,  l'ultima  grande  bat- 
taglia che  il  particolarismo  italiano  sostenne  con  le  sue  xjroprie 
forze  contro  Roma,  e  una  delle  maggiori  che  ricordi  la  storia  ro- 
mana fino  all'età  delle  guerre  civili.  L'impressione  che  fece  ai 
contemporanei  fu  grandissima,  tanto  che  i  Greci  di  quel  tempo 
narrarono  persino  di  centomila  nemici  rimasti  sul  campo  (1).  La 
fantasia  poi  dei  posteri  la  circonfuse  dei  colori  della  leggenda: 
ma  noi  pm-troppo  dobbiamo  rassegnarci  ad  ignorare  come  si  svolse 
un  combattimento  che  nella  storia  d'Italia  ebbe  im'importanza 
paragonabile  a  quello  di  Solferino.  La  vittoria  fu  pagata  dai  Ro- 
mani a  caro  prezzo:  uno  dei  consoli  rimase  sul  campo  di  battaglia, 
P.  Decio,  che,  a  quanto  ci  vien  detto,  comandava  l'ala  sinistra,  la 
quale  posta  a  fronte  dei  Galli  ebbe  più  a  soffrire,  in  ispecie  per 
la  carica  ch'essi  fecero  coi  loro  carri  da  guerra  (2).  Ma  tuttavia  la 


(1)  PoLYB.  II  19,  6:  au|Li3a\óvT6<;  irSai  Tot<;  arpaxorréòoK;  èv  rf)  tiDv  ZevTivaTuùv 
Xiwpa  ■npòc,  Toùq  irpoeipriiaévouc;  (Galli  e  Sanniti)  toùc;  |uèv  TrXeiaTOUc;  diréKTeivav 
rovc,  he  XoiTTOìx;  rivÓYKaaav  irporpondòriv  éKàaxouc;  eU  Triv  oÌKeiav  (puyetv.  Diod. 
XXI  6:  Ittì  toO  iroXéiaou  tiùv  Tupprjvuùv  Kal  FaXaTiIiv  Kal  ZaiuviTiùv  koI  tuùv 
érepiuv  au)Li|Liaxujv  (ìvr]pé0r|aav  ùttò  'Puj|uaiajv  cpapiou  ÙTTareOovToc;  òéna  |.iupidb6c;,, 
Questo  numero  è  esageratissinio,  sebbene  dato  da  un  contemporaneo.  Il  rac- 
conto di  Livio  non  merita  alcuna  fede,  ma  si  accorge  egli  stesso  in  qualche 
parte  delle  esagerazioni  delle  fonti  (X  30,  5):  superiecere  quidam  augendo  fidem 
qui  in  hostium  excrcitu  peditum  milia  trecenta  triginta ,  equitum  sex  et  quadra- 
ginta  milia  mille  carpentorum  scripsere  fuisse.  —  Del  resto  è  degno  di  nota 
«he  secondo  Livio  (come  pure  Frontin.  strat.  I  8,  3.  Oros.  Ili  21,  3)  alla  bat- 
taglia prendono  parte  i  soli  Sanniti  e  Galli  e  che  di  questi  soltanto  parla  Po- 
libio :  prova  che  i  soccorsi  etruschi  ed  umbri,  che  certo  non  mancavano,  furono 
di  poco  conto,  e  quindi  la  tradizione  potè  facilmente  dimenticarli. 

(2)  Ripetutamente  è  nella  tradizione  ricordata  la  devotio  di  Decio,  il  quale 
visto  piegare  l'ala  da  lui  comandata  consacrò  se  ed  i  nemici    agli  dèi    infer- 


358  CAPO   XX  -  LA    CONQUISTA    d'iTALIA 

rivincita  dei  Romani  che  si  misuravano  allora  per  la  prima  volta 
in  campo  coi  Celti  dopo  la  rotta  dell'Allia  fu  piena.  L'arditezza 
di  Fabio  Rulliano  e  la  disciplina  delle  legioni  trionfò  del  numero 
e  della  bravura  del  nemico.  Quel  momento  fermò  le  sorti  della 
penisola.  Rimaneva  solo  a  vedere  se  con  gli  aiuti  della  madre- 
patria i  Grreci  d'Italia  avrebbero  saputo  conservare  la  loro  indi- 
pendenza. 

Bisognava  peraltro  sfruttare  vigorosamente  la  vittoria  otte- 
nuta: ne  i  Romani  vi  mancarono.  Mentre  le  reliquie  dei  confederati 
si  davano  alla  fuga,  Q.  Fabio  invadeva  il  paese  dei  Senoni.  Al- 
lora Gralli  ed  Umbri  deposero  le  armi.  I  Senoni  dovettero  cedere 
il  territorio  in  cui  poco  di  poi  si  dedusse  la  colonia  cittadina  di 
Sena  (Sinigaglia)  e  quello  di  Sentino  (1)  ;  le  città  umbre  strinsero 
con  Roma  trattati  di  pace  e  d'alleanza.  Ma  Fuligno  e  Spoleto  eb- 


nali  e  precipitandosi  tra  le  schiere  dei  barbari  v'  incontrò  la  morte.  1  testi 
son  tutti  raccolti  dal  Muenzek  presso  Pauly-Wissowa  IV  2,  '2284.  Forse  la  testi- 
monianza più  antica  in  tal  proposito  era  di  Duride;  ma  non  basta  a  provarlo 
la  notizia  confusa  di  Tzetze  ad  Lycophr.  1378:  ypciqpei  òè  AoOpi^  koI  Aióòuupo^ 
Koì  Aiuuv  6ti  ZauviTuùv  TupprivOùv  koI  éxépuuv  èSvuùv  ttoX€|uouvtujv  'Pwiiiaioi^  ó 
AéKinc,  ìÌTTaTO(;'Puj|Lioiiiuv,  auorpàrriYOt;  u)v  TopKoudTou,  èirébiuKev  éauxòv  el<;  acpay/iv, 
Koì  àvr)pé0r|OC(v  tOùv  èvavTicjuv  éKaxòv  xi^ióbeq  aùOrifiepóv.  L'ultimo  particolare 
deriva  certo  da  Duride  :  ma  nel  resto  è  troppo  evidente  la  confusione  con  la 
battaglia  ad  Veserim  per  poter  attribuire  ogni  cosa  alla  stessa  fonte.  Ad  ogni 
modo  la  morte  di  Decio  in  battaglia  non  par  da  revocare  in  dubbio  :  può  du- 
bitarsi piuttosto  della  devotio.  Questo  è  forse  un  mito  sorto  quando  fantasti- 
camente, ma  sotto  l'impressione  della  morte  gloriosa  di  P.  Decio  Mure  a  Sen- 
tino, l'epopea  popolare  cantò  della  morte  del  costui  padre  nella  battaglia 
contro  i  Latini.  Da  questo  punto  di  partenza  la  leggenda  s'è  reduplicata  e 
persino  triplicata  cercando  d'applicarsi  anche  al  terzo  Decio  (v.  oltre  e.  XXI), 
(1)  La  pace  coi  Galli,  sebbene  non  ne  venga  data  notizia  esplìcita,  è  il  pre- 
supposto dei  racconti  seguenti.  La  integrazione  proposta  nel  testo  regge  sol- 
tanto se  si  accetti  la  cronologia  di  Livio  secondo  cui  la  deduzione  di  Sena 
{epit.  11)  spetterebbe  al  290-288.  Polibio  (II  12,  12)  la  dà  come  posteriore  alla 
guerra  di  sterminio  iniziata  contro  i  Senoni  poco  dopo  la  terza  sannitica.  Ma 
forse  qui  Polibio,  trovando  nella  fonte  la  notizia  della  confisca  dell'agro  gallico 
e  sapendo  che  la  colonia  di  Sena  era  stata  precisamente  dedotta  in  territorio 
gallico,  vi  ha  aggiunto  di  suo  a  questo  punto  la  menzione  della  colonia.  L'in- 
corporazione del  territorio  di  Sentino  è  il  complemento  necessario  di  quella 
di  Sena.  Con  questi  territori,  con  quello  di  Fuligno  e  con  1'  alleanza  fedele 
di  Camerino  i  Romani  erano  padroni  dei  passi  dell'Appennino  e  ponevano  tra 
i  Sanniti  e  i  loro  possibili  alleati  del  settentrione  una  muraglia  che  non  fu 
più  superata. 


ULTIMI    ANXl    DELLA    TERZA    SANNITICA  359 

bero  a  pagare  più  cara  la  loro  defezione,  perchè  furono  private 
dell'autonomia  e  incorporate  nel  territorio  romano  (1). 

L'anno  seguente  (294)  fu  compiuta  la  guerra  in  Etruria.  Vista 
la  disfatta  dei  Sanniti  e  dei  Galli,  già  sconfitti  essi  stessi,  a  quanto 
ci  dice  la  tradizione,  da  Q.  Fabio,  e  poi  colpiti  con  l'espugnazione 
di  Ruselle  (2),  gli  Etruschi  preferirono  accordi  ragionevoli  ad  una 
guerra  all'ultimo  sangue.  Volsinì,  Arezzo  e  Perugia  conclusero  no- 
vamente,  certo  a  condizioni  meno  favorevoli  di  prima,  jjace  e  al- 
leanza con  Roma  (3);  e  insieme  con  esse  certamente  Chiusi,  Vulci, 
Ruselle,  mentre  rimane  dubbio  invece  se  sin  d'allora  entrassero 
neir  alleanza  romana  le  città  più  settentrionali  dell'  Etrmia.  A 
qualche  cessione  territoriale  gli  Etruschi  fui^ono  x^rob abilmente 
obbligati;  ma  non  dovette  trattarsi  che  di  poca  cosa;  poiché  gli 
Stati  indipendenti  di  Vulci,  Volsinì  e  Falerì  continuarono  da  questa 
parte  a  segnare  il  limite  dello  Stato  romano.  Tutto  sembra  pro- 
vare che  i  Romani,  desiderosi  di  terminare  al  più  presto  la  guerra 
in  Etrmia  per  xjrocedere  con  tutte  le  loro,  forze  contro  i  Sanniti, 
offersero  agli  Etrusclii  condizioni  miti,  che  essi  accettarono  di 
buon  grado. 

Ma  frattanto  i  Romani,  obbligati  a  provvedere  rapidamente 
alle  cose  dell'Italia  centrale,  non  avevano  potuto  disporre  che  di 
forze  inadeguate  nel  Sannio  e  nell'Apulia.  I  Sanniti,  forse  già  dal- 
l'anno precedente,  minacciavano  la  colonia  latina  d'Interamna  sul 
Liri  e  nell'Apulia  la  colonia  di  Lucerla  (4).  Nel  294  sembra  che  i 


(1)  La  praefectura  Fulginatium  è  ricordata  da  Cic.  jjro  Vareno  fr.  4.  La  de- 
duzione della  colonia  latina  di  Spoleto  (241)  prova  che  già  da  tempo  il  terri- 
torio spoletino  era  stato  incorporato  allo  Stato  romano.  Sulla  data  di  queste 
annessioni  giudica  rettamente  Beloch  It.  Biind  p.  56  seg. 

(2)  Liv.  X  31,  3  (cfr.  p.  356  n.  2).  37,  3.  Questi  particolari  non  sono  però  al  tutto 
sicuri.  Ruselle  rimase  alleata  a  Roma,  mentile  non  sembra  che  in  generale 
fosse  questa  la  condizione  che  i  Romani  facevano  alle  città  prese  d'assalto. 
Del  resto  Livio  stesso  (X  87,  3)  ricorda  le  versioni  più  varie  sulle  imprese 
spettanti  in  questo  anno  a  ciascuno  dei  due  consoli.  I  fasti  registrano  il  trionfo 
di  L.  Postumi©  de  Samnitibus  et  Etrusceis  e  quello  di  M.  Atilio  de  Volsoiiibus 
et  Samnitibus. 

(3)  Anche  qui  Liv.  X  37,  5  parla  di  indutiae  in  quadraginta  auiios.  Forse 
è  una  semplice  ripetizione  fuor  di  luogo  delle  indutiae  di  quarant'  anni  fatte 
nel  308  con  Tarquinì  (sopra  p.  333  n.  4).  Ma  ad  ogni  modo  non  v'è  dubbio 
che  da  allora  datano  i  foedera  di  queste  città  etrusche  con  Roma. 

(4)  Liv.  X  37,  16  (cfr.  39,  1).  38,  13  segg. 


360  CAPO    XX  -  LA   CONQUISTA    d'iTALIA 

Eomani  riportassero  qualclie  felice  successo  nel  bacino  del  Liii  (1), 
occupando  le  terre  sannitiche  di  Milionia  e  Feritro  (2)  e  libe- 
rando da  ogni  pericolo  Interamna.  Non  fu  altrettanto  facile  as- 
siciu'arsi  la  vittoria  nella  lontana  Apulia,  dove  essi  ebbero  a 
soffrii'e  gravi  perdite  nelle  vicinanze  di  Luceria  e  solo  a  fatica 
riuscirono  a  salvare  dalla  resa  Luceria  e  dalla  distruzione  tutto 
l'esercito  die  colà  operava  (3).  Questo  era  del  rimanente  ciò  che 
per  allora  più  imx^ortava  ;  percliè  già  nell'anno  seguente  (293)  fu- 
rono in  grado  di  raccogliere  novamente  contro  il  Sannio  forze 
sufficienti  per  riprendere  l'offensiva.  Sembra  clie  da  due  parti,  da 
nord  e  da  sud,  movessero  contro  i  Sanniti;  da  una  parte  rifacendo  a 
ritroso  la  via  percorsa  da  Gellio  Egnazio  scesero  per  la  valle  del- 
rAterno.  dove  occuparono  Amiterno,  verso  il  paese  dei  Peligni  (4), 
e  Cominio  negli  Equicoli  (5)  ;  dall'altra  movendo  dall'Apulia  e  pe- 


(1)  Infatti  non  si  fa  più  cenno  che  i  Sanniti  sconfinassero  da  questo  lato. 

(2)  Liv.  X  34.  Qualche  indizio  sulla  posizione  di  queste  città  ignote  dà  forse 
il  suffisso  di  Feritrum  (cfr.  p.  352  n.  2)  e  la  tradizione  che  riferisce  la  presa 
di  Milionia  alla  guerra  marsica  del  301  (sopra  p.  341  n.  6). 

(3)  Che  Luceria  rimanesse  ai  Romani  può  ritenersi  come  bastantemente  pro- 
vato dal  silenzio  della  tradizione.  Quanto  al  combattimento,  per  la  tradizione 
che  Livio  segue  è  una  vittoria  dei  Romani,  pagata  però  a  caro  prezzo,  perchè 
rimangono  sul  campo  piìi  dei  Romani  che  degli  avversari  (X  36);  e  anzi  vi  si 
aggiunge  persino  una  vittoria  del  console  nel  ritorno  da  Luceria  sui  predoni 
sanniti  che  da  Interamna  riparavano  nel  Sannio,  la  quale  è  topograficamente 
assurda.  Ma  son  note  a  Livio  stesso  tradizioni  molto  diverse  (X  37,  13  segg.): 
Postumium  auctor  eat  Claudius  in  Samnio  cctptis  aliquot  urhibus,  in  Apulia  fusuin 
fugatumque,  saucium  ipsuin  ciim  2}(tucis  Luceriam  compidsum...  Fabius  ambo  con- 
sules  in  Samnio  et  ad  Luceriam  rem  gessisse  scribit  traductumque  in  Etruriam 
exercitum...  et  ad  Luceriam  ufrimque  multos  occisos  inque  ea  pugna  lovis  Sfa- 
toris  aedem  votam. 

(4)  L' Amiterno  menzionata  da  Livio  (X  39,  1)  dev'essere  la  nota  città  dei 
Sabini,  nonostante  che  secondo  lo  stesso  Livio  sia  stata  presa  de  Samnitibus. 
Infatti  sarebbe  singolare  che  questo  nome  derivato  dal  fiume  Aterno  su  cui 
la  città  era  posta  (Varr.  de  l.  l.  IV  28)  si  ripetesse  anche  altrove,  v.  Beloch 
mem.  cit.  p.  273.  Probabilmente  fino  da  ora  fu  annesso  il  territorio  di  Ami- 
terno  con  quelli  di  Aveia  e  Peltuino,  onde  poi  si  fecero  tre  prefetture  {CIL. 
IX  p.  397.  n.  3429.  3627).  Non  sappiamo  se  in  questa  od  in  altra  direzione  deb- 
basi  cercare  la  ignota  Duronia  (Liv.  39,  4). 

(5)  Liv.  X  39,  5  :  inde  pervugati  Samnium  consules,  maxime  depopulato  Atinate 
agro  (donde  si  vede  che  le  scorrerie  romane  secondo  le  fonti  di  Livio  si  limi- 
tavano al  confine  tra  il  Lazio  e  il  Sannio)  Carvilius  ad  Cominium,  Pnpirius  ad 
Aquiìoniam  pervenit.  La  relazione  che  Livio  pone  seguendo  le  sue  fonti  tra  la 


ULTIMI    ANNI   DELLA    TERZA    SANNITICA  361 

netrando  nel  paese  degli  Irpini  col  grosso  delle  forze,  un  paio  di 
legioni,  posero  l'assedio  ad  Aquilonia  sotto  il  comando  di  L,  Pa- 
pirio  Cursore,  figlio  dell'eroe  della  seconda  guerra  sannitica.  Rotti 
i  Sanniti  che  erano  accorsi  alla  difesa  di  Aquilonia  (1),  i  Romani 
occuparono  Aquilonia  ed  altre  terre  (2),  sebbene  non  venisse  loro 
fatto  pel  momento  di  penetrare  molto  più  innanzi  (3). 

L'offensiva  contro  il  Sannio  procedeva  cosi  felicemente,  tuttocliò 
con  lentezza.  Ma  intanto  la  ribellione  dei  Falisci  provava  che  non 
era  j)rudente  sguernir  troppo  il  confine  etrusco.  I  Falisci  da  mezzo 
secolo  erano  alleati  fedeli  dei  Romani;  e  non  avevano  vacillato 
nella  fede  neppui'  quando  l'Etrm-ia  nella  seconda  e  nella  terza 
sannitica  si  era  levata  in  armi  contro  Roma  ;  anzi  negli  anni  xDre- 
cedenti   Falerì    era    stata   la   base    d' operazione    dei   Romani    in 


espugnazione  di  Cominio  e  quella  di  Aquilonia  compiute  dai  due  consoli 
mostra  che  queste  fonti  credevano  che  si  trattasse  di  Cominium  Ocritum  nelle 
vicinanze  di  Benevento  (Liv.  XXV  14).  X  44  :  uterque  ex  alterius  sententia 
consìil  captimi  oppidutn  diripiendum  militi  dedit...  eodemque  die  Aquilonia  et  Co- 
minium deflagr avere  et  consicles  cum  gratulatione  mutua  legionum  suaque  castra 
coniunxere.  Ma  dacché  Sp.  Carvilio  occupò,  come  vedemmo,  Amiterno,  è  più 
probabile  che  si  tratti  della  Cominio  l'icordata  da  Flin.  n.  h.  Ili  108  fra  le 
città  distrutte  degli  Equicoli.  Forse  invece  alla  città  omonima  presso  Bene- 
vento si  riferisce  Dionisio  attribuendone  la  occupazione  al  console  Postumi o 
Megello  del  291,  che  operò  dal  lato  della  Puglia. 

(1)  È  evidente  che  la  narrazione  della  vittoria  di  L.  Papirio  nel  293  (Liv. 
X  38-39.  Cass.  Dio  fr.  36,  29.  Zon.  Vili  1)  corrisponde  interamente  a  quella  del 
padre  nel  309  (Liv.  IX  40).  Il  racconto  (per  poco  o  molto  di  vero  che  vi  sia) 
doveva  riferirsi  originariamente  al  293  (cfr.  sopra  p.  332).  I  fasti  del  resto 
registrano  in  quest'anno  conforme  al  racconto  di  Livio  il  trionfo  dei  due  con- 
soli de  Samnitibus.  L'Aquilonia  di  cui  qui  si  tratta  è  senza  dubbio  l'odierna 
Lacedonia  nel  paese  degli  Irpini.  Dal  passo  di  Livio  si  è  voluto  trarre  la  con- 
gettura che  esistesse  un'altra  Aquilonia  presso  Boviano;  ma  la  geografia  di 
Livio  è  troppo  difettosa  per  giustificare  simili  induzioni.  Quanto  poi  alle  mo- 
nete con  la  epigrafe  JINIHNVJIVMN,  esse  si  riferiscono  con  ogni  probabilità 
a  Lacedonia,  cfr.  Samiìon  Monnaies-  ant.  de  l'Italie  I  p.   109.  115. 

(2)  Velia,  Palumbinum,  Herculaneum  (Liv.  X  45,  8),  tutte  di  posizione  ignota. 
Quanto  a  Velia,  può  sorgere  il  dubbio  che  si  tratti  non  d'una  piccola  terra 
conquistata  nel  Sannio,  ma  della  nota  città  greca  di  questo  nome  che  in 
quell'anno  sarebbe  entrata  nell'alleanza  romana.  Sul  suo  foedus  cfr.  Cic.  p7'o 
Balb.  24,  55. 

(3)  L'occupazione  di  Saepinum  presso  Boviano  attribuita  a  Papirio,  se  pur 
merita  fede,  ebbe  certamente  breve  durata. 


362  CAPO    XX  -  LA    CONQUISTA    d'iTALIA 

Etrui'ia  (1).  Ora,  forse  non  avendo  ottenuto  nella  pace  poco  prima 
conclusa  quei  vantaggi  a  cui  i  loro  importanti  servizi  pareva  des- 
sero il  dii'itto  di  aspirare,  e  fors'anch.e  vedendosi  trattati  dopo 
terminata  la  guerra  etrusca  con  quell'alterigia  che  i  Romani  anclie 
allora  non  semijre  risparmiavano  agli  alleati  di  cui  non  avessero 
più  bisogno,  i  Falisci  si  ribellarono  (2).  Forse  confidavano  che  gli 
Etruschi,  posate  appena  le  armi,  fossero  pronti  a  riprenderle.  Ma 
questa  speranza  riusci  vana  ;  XDoichè  è  evidente,  nonostante  qualche 
fugace  accenno  della  tradizione,  che  gli  Etrusclii  si  astennero  dal- 
l'intei'venire  a  favore  dei  Falisci;  e  forse  anche  assistettero  non 
senza  compiacimento  alla  umiliazione  d'una  città  che,  pur  essendo 
ascritta  alla  lega  etrusca,  aveva  fatto  causa  comune  coi  Latini. 
Soccorsi  dagli  Umbri,  dai  Gralli  o  dai  Sanniti  non  erano  da  sperare. 
Pertanto  i  Falisci  credettero  prudente  di  venire  presto  a  patti  con 
Roma  senza  esporsi  con  mia  lotta  i^rolungata  alla  estrema  rovina; 
e  conclusero  nello  stesso  anno  293  una  tregua  che  dovettero  Tanno 
seguente  mutare  in  un  trattato  di  pace  e  d'alleanza,  meno  favo- 
revole senza  dubbio  di  quello  che  avevano  avuto  sino  allora  (3). 

E  continuò  nel  292  l'offensiva  romana  contro  il  Sannio  (4).  Ma 
i  Sanniti  resistevano  accanitamente,  e  la  tradizione  registra  una 
sconfìtta  del  console  Q.  Fabio  Massimo  Giu^gite,  il  figlio  del  Eul- 
liano.  L'onta  della  sconfitta  fu  lavata,  secondo  le  nostre  fonti,  dal 
vecchio   Rulliano    che,  come  legato    del   figlio,  seppe  procm-argli 


(1)  Liv.  X  12.  14.  26.  Cfr.  sopra  p.  3-19. 

(2)  Liv.  X  45.  46.  Si  è  proposto  di  indeiitificare  Troilum  conquistata  allora 
dai  Romani  in  Etruria  con  Trossulum  a  nove  miglia  a  sud  di  Volsinì  (Plin. 
n.  h.  XXXUI  35),  di  cui  una  leggenda  etimologica  attribuiva  la  conquista  ai 
cavalieri  romani  per  spiegare  il  loro  soprannome  di  Trossuli  (Plin.  1.  e.  Fest. 
p.  867  M.  ScHOL.  Pers.  I  82.  Varr.  ap.  Non.  p.  49,  1).  L'identificazione  è  dubbia. 
Se  mai,  potrebbe  trattarsi  d'una  posticipazione,  perchè  pare  strano  cbe  i  Vol- 
siniensi  abbiano  ripreso  le  armi  un  anno  dopo  averle  deposte.  I  fasti  del  resto 
non  menzionano  vittorie  ne  su  Etruschi  ne  su  Falisci  nel  293.  Zon.  VITI  1 
narra  oltre  alla  guerra  etrusca  del  293  anche  una  sollevazione  dei  Falisci  nel 
292,  che  sarebbe  stata  superata  dal  console  D.  Giunio  Bruto  per  virtù  di  Car- 
vilio  che  serviva  sotto  di  lui  come  legato.  Si  tratta  evidentemente  di  una  ri- 
petizione della  guerra  narrata  da  Livio  e  da  lui  all'anno  precedente  :  e  il  le- 
game in  cui  anche  in  questa  narrazione  essa  appare  con  Carvilio,  mostra  che 
è  preferibile  la  data  del  293. 

(3)  Sulla  tregua  del  293  Liv.  X  46,  12   e  quasi  allo  stesso  modo  Zon.  Vili  1. 

(4)  Con  l'anno  293  si  chiude  la  prima  deca  di  Livio,  e,  perduta  la  seconda, 
ci  manca  dei  fatti  seguenti  un  racconto  continuato  e  diifuso. 


ULTIMI   ANNI    DELLA   TERZA    SANNITICA  363 

una  grande  vittoria  sui  Pentri:  nella  quale  cadde  prigioniero 
C.  Ponzio,  il  ^dncitore  di  Gaudio,  die,  condotto  in  catene  dinanzi 
al  carro  trionfale  del  console  fu  ucciso  di  scure  ai  piedi  del  Cam- 
pidoglio (1).  Conviene  però  confessare  clie  se  la  sconfitta  può  te- 
nersi come  accertata,  la  importanza  della  rivincita  è  assai  sospetta  ; 
e  cosi  può  anche  dubitarsi  della  morte  di  Ponzio,  non  perchè  i 
vincitori  romani  fossero  molto  accessibili  a  j)ietà,  m.a  perchè  gli 
annalisti  erano  anche  più  sj)ietati  di  essi  verso  i  nemici  di  Roma. 
Ma  se  la  sconfìtta  fu  pei  Romani  dolorosa,  essa  non  mutò  lo 
stato  delle  cose;  che  ormai,  superati  gli  altri  avversari,  la  sotto- 
missione del  Sannio  richiedeva  solo  tempo  e  costanza.  Lo  stesso 
Fabio  Gm^gite,  avuti  rinforzi  da  Roma,  continuò  a  fronteggiare  il 
nemico  (2);  e  nell'anno  appresso  (291)  il  console  L.  Postumio  Me- 
gello  ristabili  la  fortuna  delle  armi  romane  conquistando  Cominio 
nel  Sannio  e  in  Puglia  impadronendosi  di  Venusia.  Qui  in  un  ter- 
ritorio confiscato  di  sopra  2000  km^  si  costituì  una  colonia  latina 
superiore  per  estensione  a  tutte  quelle  che  si  erano  condotte  in 
Italia,  inviandovi,  a  quanto  si  dice,  non  meno  di  20  mila  coloni  (3). 
Nel  290  poi  il  console  M'.  Curio  Dentato  invase  col  collega  P.  Cor- 
nelio Rufino  il  paese  dei  Sanniti.  Le  quattro  legioni  consolari  su- 
perarono facilmente  la  resistenza  che  i  Sanniti  avevano  tentato  di 
oppoire  in  campo  e  devastarono  terribilmente  il  paese  da  occidente 
ad  oriente  (4).  Finalmente  i  Sanniti  chiesero  pace;  e  l'ebbero  rin- 


(1)  Liv.  epit.  11.  Cass.  Dio  fr.  36,  30  seg.  Zon.  Vili  1.  Suid.  s.  v.  <t)à3ioq. 
Val.  Max.  V  7,  1.  Eutrop.  II  9,  3.  Oros.  Ili  22,  6  segg.  Che  la  vittoria  fosse 
sui  Pentri  è  detto  da  Dionys.  XVIl-XVIII  4,  4.  11  trionfo  di  Fabio  Gurgite  (su 
cui  cfr.  anche  Plut.  Fab.  24)  è  registrato  dai  fasti,  secondo  il  CIL.  al  463  di  R. 
(=  464  Varr.  =  290  av.  Cr.).  Se  questo  non  è  un  errore  di  lettura,  si  tratta  certo 
di  un  errore  del  lapicida  per  462  (=  291  av.  Cr.),  cfr.  B.  Bruno  op.  cit.  p.  84 
n.  1;  nulla  peraltro  può  desumersi  in  proposito  dai  trionfi  seguenti,  perchè 
segue  una  lacuna  che  va  fino  al  282  av.  Cr. 

(2)  La  rivincita  immediata  è  probabilmente  favola  ;  ma  .se  Fabio  non  si  fosse 
in  qualche  modo  riabilitato,  difficilmente  i  Romani  lo  avrebbero  eletto  console 
nel  276  durante  la  guerra  di  Pirro.  11  trionfo  del  292  può  essere  storico  e  do- 
vuto a  fatti  d'arme  di  mediocre  importanza,  ma  può  anche  essere  reduplica- 
zione dello  storico  trionfo  del  276. 

(3)  DioNYs.  XVll-XVIII  4-5  (da  lui  Sino.  s.  v.  TTooToù|aiO(;  uTtaTOq).  V^kll.  1  14,  5. 
Cass.  Dio  fr.  36,  32.  —  Per  Cominio  v.  sopra  p.  360  n.  5. 

(4)  AucT.  de  vir.  illust.  33,  1  :  M\  Curius  Dentatus  primo  de  Samnitibus  trium- 
phavit  quos  tisque  ad  mare  superum  perpacavit.  Cass.  Dio  fr.  37.  Liv.  epit.  11  : 
pacem  petentibus  Samnitibui^  foedus  quarto  renovatum  est.  Curiuft  Dentatus  consul 
Samnitibus  caesis  et  Sabinis  qui  rebellaverant  victis  et  in  deditionem  acceptis  bis 


364  CAPO   XX  -  LA    CONQUISTA   d'iTALIA 

novanclo  con  Roma  rantico  trattato  d'alleanza  che  guarentiva  pie- 
namente la  loro  indipendenza,  e  acconciandosi  soltanto  a  qualclie 
piccola  cessione  territoriale,  come  quella  di  Atina  e  probabilmente 
di  Venafro,  clie  fm-ono  incorporate  nello  Stato  romano  (1).  All'in- 
contro è  molto  diffìcile  clie  il  paese  taui'asino  fosse  fin  d'allora 
tolto  ai  Sanniti.  Sicché  in  sostanza  il  territorio  del  Sannio  pro- 
priamente detto  rimaneva  quasi  intatto;  ma  ormai,  circondato  in- 
teramente da  regioni  sottomesse  o  alleate  a  Roma,  era  tolta  ai 
Sanniti  ogni  possibilità  d'espansione;  e  l'esito  della  loro  lega  con 
gli  Etruschi,  Umbri,  Sabini  e  Galli  mostrava  che  nei3p)ui^e  con 
l'aiuto  delle  altre  popolazioni  d'Italia  erano  idonei  a  impedire 
l'estendersi  deiregemonia  romana.  Né  ormai,  data  la  sproporzione 
delle  forze,  era  punto  da  sperare  che  riuscissero  a  conservare  anche 
tra  i  monti  la  loro  indipendenza. 

Rimanevano  in  armi  parte  dei  Sabini  ed  i  Pretuttii,  alla  cui 
sottomissione  i  Romani  non  avevano  ancora  avuto  il  temijo  di 
provvedere.  Anche  di  questi  M'.  Cm-io  riportò  facile  vittoria.  Tutto 
ciò  che  rimaneva  della  Sabina  indipendente  insieme  col  paese  dei 


in  eodetn  magistrata  triumphavit.  Eutrop.  II  9,  3:  deinde  P.  Cornelius  Rafinus-, 
M'.  Curius  Dentatus,  ambo  consules,  cantra  Samnites  missi  ingentibus  proeliis  eos 
confecere.  tum  bellum  cum  Samnitibus  per  annos  quadraginta  tiovem  actiint  su- 
stulerunt.  È  chiaro  da  questi  due  passi  che  per  Livio  la  guerra  sannitica 
durava  ancora  nel  290.  Non  è  buona  critica  quella  che  prende  alla  lettera  il 
riassunto  non  sempre  fedele  d'OROsio,  dove  a  proposito  della  pretesa  sconfitta 
di  Ponzio,  è  detto  :  tandemque  Samniticum  belhim  quod  per  quadraginta  et  novem 
annos  multa  Romanorum  clade  trahebatur  capti  ducis  destitutione  fìnittim  est.  E 
del  resto  Orosio  potrebbe  aver  voluto  accennare  anche  semplicemente  alla  fine 
virtuale  della  guerra.  Il  raffronto  tra  Eutropio  ed  Orosio  mostra  che  i  49  a. 
erano  menzionati  già  da  Livio.  Come  per  Livio  il  46"  anno  della  guerra  era 
il  294  (X  31,  10),  ne  segue  che  o  ha  detto  anno  49°  quello  della  pace,  cioè 
il  290  (Eutropio),  con  una  incoerenza  di  computo  (fra  il  348  Varr.  e  il  290 
corrono,  prescindendo  dai  quattro  anni  dittatoriali,  49  o  50  anni  secondo  che 
nel  calcolo  si  comprende  un  solo  od  ambedue  gli  estremi),  ovvero  ha  detto 
anno  49°  quello  della  pretesa  disfatta  di  Ponzio,  che  avrebbe  chiuso  virtual- 
mente la  guerra  (Orosio).  —  Del  resto  il  trionfo  di  M'.  Curio  sui  Sanniti  non 
era  riferito  soltanto  dall' Auct.  de  vir.  ili.,  ma  anche  dai  fasti  trionfali  che,  d'ac- 
cordo con  esso,  fanno  trionfare  M'.  Curio  per  la  quarta  volta  dei  Sanniti  e  di 
Pirro  nel  275.  Ne  deve  far  difficoltà  d'attribuire  a  Curio  troppe  imprese  pel 
suo  anno  consolare;  poiché  nulla  vieta  ritenere  che  una  parte  ne  abbia  con- 
dotte a  termine  come  proconsole. 

(1)  Atina  fu  prefettura  secondo  Cic.  prò  Piane.  8,  19,  e  così  pure  Venafrum 
secondo  Fesxo  p.  233  M. 


ROMA   E    I    SUOI    ALLEATI  365 

Pretuttii  fu  incorporato  nello  Stato  romano  con  la  cittadinanza 
senza  suffragio  (1).  In  territorio  tolto  ai  Pretuttii  si  fondò  incon- 
tanente la  colonia  latina  di  Atria  (2).  La  pacificazione  della  pe- 
nisola fu  dopo  ciò  compiuta  dallo  stesso  M'.  Cuiio  con  la  piena 
sottomissione  di  quelli  tra  i  Lucani  die  avevano  perseverato  dal  298 
nella  ribellione  o  si  erano  novamente  ribellati  (3). 

A  queste  vittorie  seguirono  quattro  o  cinque  anni  di  pace.  H 
13opolo  romano,  mentre  prendeva  il  meritato  riposo,  poteva  guar- 
dare con  soddisfazione  a  quel  che  aveva  ottenuto  co'  suoi  sacrifizi. 
Il  territorio  romano  con  l'incorporazione  della  Sabina,  del  paese 
dei  Pretuttii,  di  Spoleto  e  Foligno  neirUmbria,  di  qualche  di- 
stretto del  paese  dei  Senoni,  di  Atina,  Venusia  e  forse  anche 
altre  xDorzioni  del  Sannio  e  di  qualche  altro  lembo  dell'Etruria 
meridionale,  abbracciava  ormai  un  ventimila  chilometri  quadrati. 
Solo  mia  piccola  parte  peraltro  di  questo  territorio,  un  quinto  o 
al  più  un  quarto,  era  abitata  da  cittadini  romani  forniti  dei  pieni 
diritti  politici;  che  tra  la  guerra  latina  e  la  guerra  di  Pirro  i  Ro- 
mani non  largheggiarono  |)iù  nel  concedere  la  pienezza  dei  diritti 
cittadini.  Onde  il  territorio  che  potremmo  du'e  privilegiato,  dopo 
il  termine  della  seconda  sannitica  si  accrebbe   quasi   soltanto  per 


(1)  V.  p.  363  n.  4.  Flor.  I  10  :  Sed  Curio  Dentato  consule  omneni  eitm  tractum 
qua  Nar,  Anto,  fontes  Velini,  Hadriano  tenus  mari  igni  ferroque  vastavit  (po- 
pulus  R.).  Adct.  de  vir.  illustrib.  83,  3:  iterum  de  Sahinis  triiimphavit.  L'aned- 
doto raccontato  ivi  poco  prima  secondo  cui  Curio  avrebbe  detto  :  tantum 
agri  cepi  ut  solitudo  futura  fuerit  nisi  tantum  liominum  eepissem;  tantum  porro 
hominum  cepi  ut  fame  perituri  fuissent  nisi  tantum  agri  eepissem,  benché  rife- 
rito dall'A.  al  Sannio,  concerne  evidentemente  l'agro  sabino,  come  mostra  anche 
Oros.  Ili  11  (cfr.  Cass.  Dio  fr.  87).  Al  contrario  ai  Sabini  è  forse  riferito  per 
equivoco  un  episodio  della  guerra  sannitica  da  Frontin.  strat.  I  8,  4:  M'.  Curius 
adversus  Sabinos  qui  ingenti  exercitu  conscripto  relictis  finibus  suis  nostros  oc- 
cupaverant  occultis  itineribus  manum  misit  quae  desolatos  agros  eorum  vicosque 
per  diversa  incenderunt.  Ma  si  riferisca  pure  il  fatto  alla  guerra  sabina,  non 
conviene  perciò  esagerare  la  importanza  di  questa,  che  la  tradizione  ci  dimostra 
non  grande,  come  a  torto  s'è  fatto  di  recente.  Vell.  1 14,  5  :  M\  Curio  et  Rufino 
Cornelio  consulibus  Sahinis  sine  suffragio  data  civitas.  Reate  e  Nursia,  come  le 
città  dell'alta  valle  dell'Aterno,  sono  da  questo  tempo  prefetture  (Febt.  p.  233  M), 
fors'anche  Trebula  (Beloch  Ital.  Bund  p.  54.  134j.  Interamnio  dei  Pretuttii 
allora  o  poi  è  stata  costituita  come  un  conciliabulum  ciinum  Romanorum  (Be- 
loch 1.  e.  Frontin.  nei  Gromatici  p.  19,  2). 

(2)  Liv.  epit.  11  (intorno  al  289). 

(8)  AucT.  de  vir.  illustr.  33,  4:  tertio  de  Lucanis  ovans  urbem  introivit. 


366  CAPO   XX  -  LA   CONQUISTA   d'iTALIA 

la  fondazione  di  colonie  cittadine,  come  Mintume,  Sinuessa  (296) 
e  forse  Sena  (289?)  (1),  e  per  la  assegnazione  viritana  di  agro  pub- 
blico nei  territori  acquistati  in  Sabina  (2),  e  prima  ancora  nelle  re- 
gioni clie  formarono  le  tribù  Aiiiense  e  Teretina  (299).  Né  è  al 
tutto  da  escludere  che  fin  d'allora  si  avesse  riguardo  ad  abitanti 
di  comuni  in  cui  accanto  alla  popolazione  indigena  erano  stabiliti 
cittadini  romani  con  tutti  i  diritti,  come  Velletri  e  Priverno:  ma 
se  pur  si  ebbe,  fu  certo  con  misura  assai  parca  (3).  In  ciò  stava 
un  grave  rischio  per  Roma,  se  s'arrestavano  i  Romani  con  gret- 
tezza sulla  via  tracciata  dai  vincitori  della  guerra  latina,  e  se  tra 
le  due  classi  dei  cittadini  si  innalzava  una  barriera  insormonta- 
bile. Per  allora  tuttavia  la  cittadinanza  senza  suffragio,  senza 
confondere  insieme  vinti  e  vincitori,  bastava  a  stringerli  tra  loro 
con  legami  d'interessi  e  a  render  salda  l'unione  tra  gli  av^'■ersari 
di  prima.  Intanto  in  parte  pel  natm'ale  incremento  della  popola- 
zione, ma  soprattutto  per  le  annessioni  territoriali,  il  primo  censi- 
mento posteriore  alla  terza  sannitica  registrò  non  meno  di  272.000 
cittadini  atti  alle  armi,  il  che  presuppone  una  popolazione  citta- 
dina di  forse  più  che  800  mila  anime,  ossia  una  popolazione  to- 
tale, compresi  gli  stranieri  e  gli  schiavi,  di  oltre  un  milione  (4). 
Il  territorio  degli  Stati  alleati,  che  s'estendeva  circa  il  300  per 
19.500  km^  (non  comprese  Falerì  e  Camerino),  di  poco  sminuito 
per  i  territori  incorxDorati  nel  paese  vestino-sabino  (1000  km"^),  s'era 
accresciuto  dell'Umbria  indipendente  (5000  km^),  dell'Etruria  in- 
dipendente (25.000  km'),  del  Piceno  (2500  km^),  della  Lucania 
(11.000  km')  e  delle  nuove  colonie  latine  di  Venusia  (2300  km")  e 
di  Atria  (200  km'),  e   abbracciava  ora  ben  62.000  km^,   ossia  più 


(1)  Sopra  p.  358  n.  1. 

(2)  Cfr.  Plin.  n.  h.  XVIII  14.  Val.  Max.  IV  3,  5.  Frontin.  strat.  IV  3,  12  etc. 

(3)  Purtroppo  ci  mancano  in  materia  dati  precisi.  Solo  è  chiaro  che  la  con- 
cessione dei  pièni  diritti  a  Fundi,  Formie  ed  Arpino  nel  188  (Liv.  XXXVIII  36) 
mostra  che  già  da  tempo  (e  quindi  da  prima  del  218,  l'anno  in  cui  incomincia 
la  III  deca  liviana  a  noi  conservata)  era  in  possesso  di  quei  diritti  la  regione 
più  vicina  a  Roma. 

(4)  Liv.  epit.  11.  Poco  chiare  sono  invece  le  cose  rispetto  al  censimento  del 
294/3  (Liv.  X  47,  cfr.  Euseb.  II  118  Schone)  che  avrebbe  dato  262.321  civimn 
capita.  Non  si  spiega  innanzi  all'  annessione  dell'  ager  Sabinus  l'aumento  dal- 
l'età della  seconda  sannitica;  ne  si  spiega  come,  raddoppiando,  a  dir  poco, 
d'estensione  lo  Stato  romano  dopo  la  terza  sannitica,  i  civinm  capita  non  siano 
cresciuti  che  di  10  mila.  Cfr.  Beloch  Bevolkerung  343  seg. 


ROMA   E    I   SUOI   ALLEATI  367 

del  triplo  di  prima  (1).  Erano  però  in  parte  i  nuovi  alleati  ancora 
recalcitranti  alla  supremazia  romana,  come  si  vide  allorcliè  negli 
anni  prossimi  si  ribellarono  i  Lucani,  i  Picenti  e  gii  Etruschi,  e 
solo  quando  si  persuasero  che  mentre  essa  non  poteva  evitarsi 
recava  al  tempo  stesso  tali  vantaggi  da  compensare  largamente  i 
sacrifizi  che  ricliiedeva,  si  raffermò  il  dominio  romano  sulla  peni- 
sola. Cosi  lo  Stato  romano  abbracciava  ormai  82.000  km^,  ossia  i 
tre  quinti  della  penisola  italica  al  sud  di  Pisa  e  di  Rimini;  e  quel 
che  ne  rimaneva  fuori,  l'agro  gallico,  il  Sannio,  il  Bruzio,  i  Peu- 
cezì,  la  penisola  sallentina,  i  territori  di  Taranto,  Metapontio, 
Turi,  Crotone,  Locri  e  Regio,  era  abitato  da  popolazioni  cosi  di- 
verse per  razze  e  per  civiltà  che  lottando  insieme  contro  Roma 
non  avi'ebbero  potuto  resisterle  efficacemente  anche  se  non  vi  fosse 
stata  la  sproporzione  di  forze  che  v'era  di  fatto.  Ormai  lo  Stato 
romano  era  per  l'estensione,  la  popolazione,  gii  ordinamenti  mili- 
tari tra  le  maggiori  potenze  del  bacino  del  Mediterraneo.  L'im- 
pero siciliano  di  Agatocle  che  allora  aveva  raggiunto  la  massima 
estensione  era  assai  meno  ampio  ;  e  meno  estesi  erano  pui-e  nel  290 
i  regni  di  Macedonia  e  di  Tracia  su  cui  imperavano  Demetrio  Po- 
liorcete  e  Lisimaco.  Avevano  invece  maggior  territorio  e  molto 
maggior  popolazione  in  Oriente  solo  i  due  grandi  Stati  ellenistici 
d'Egitto  e  di  Siria,  su  cui  regnavano  Tolemeo  Sotere  e  Seleuco 
Nicatore,  e  in  Occidente  l'impero  cartaginese.  E  se  a  tutti  questi 
Stati,  compreso  l'impero  d' Agatocle,  Roma  era  assai  inferiore  per 
i  proventi  e  l'assetto  della  pujbblica  finanza,  fin  d'allora  però  per 
gli  ottimi  ordinamenti  militari  e  per  lo  spirito  guerriero  della  po- 
polazione non  era  forse  inferiore  a  nessuno.  E  benché  l'avvenire 
non  fosse  scevro  di  pericoli,  i  Romani  s'erano  seriamente  prepa- 
rati a  diminuirli.  Con  Tannessione  dell'agro  sabino  e  pretuttiano, 
dei  territori  di  Spoleto,  Fuligno  e  Sentino,  con  la  fondazione  della 
colonia  cittadina  di  Sena  e  di  quella  latina  di  Atria  (289)  i  nemici 
del  mezzogiorno  erano  definitivamente  isolati  da  quelli  del  setten- 
trione; e  Roma  aveva  provveduto  per  sempre  affinchè  non  si  rin- 
novassero i  giorni  pam-osi  trascorsi  innanzi  alla  vittoria  di  Sentino. 
Sull'estremo  mezzogiorno  la  fondazione  della  colonia  latina  di  Ve- 
nosa (29-4)  ai  confini  della  Puglia,  del  Sannio  e  della  Lucania,  pel 
immero  straordinario  dei  coloni  e  l'estensione    del  territorio,  mo- 


li) Per  la  estensione  relativa  di  questi  Stati  cfr.  i  dati  del  Beloch  Gr.   G. 
UI  1  p.  330  seg. 


868  CAPO   XX  -  LA    CONQUISTA   d'iTALIA 

strava  chiaro  il  proposito  di  prepararsi  la  via  al  i)ieiio  assogget- 
tamento di  quella  regione.  Anche  il  confine  etrusco  non  fu  al  tutto 
trascurato:  poiché  pare  che  appunto  in  questi  anni  ('289  circa)  si 
fondasse  colà  in  territorio  tolto  ai  Tarquiniesi  la  prima  colonia  di 
cittadini  a  settentrione  del  Tevere,  Castro  Novo  (1),  quattro  o 
cinque  miglia  a  sud  di  Civitavecchia. 

Mentre  Roma  guerreggiava  coi  Sanniti,  s'era  formata  nova- 
mente  nella  Sicilia  greca  una  grande  potenza  militare  per  opera 
d'Agatocle  (2),  un  ufficiale  siracusano  che  dopo  d'essersi  segnalato 
in  Italia  combattendovi  nelle  milizie  inviatevi  da'  suoi  compatriotti 
prima,  poi  come  mercenario  o  come  avventm-iere  (3),  rovesciato 
con  una  sorx)resa  ben  preparata  il  governo  repubblicano,  si  era 
insignorito  di  Siracusa  (317)  e  tosto  s'era  accinto  a  metter  in  atto 
i  grandi  projjositi  di  Dionisio  il  Yeccliio:  riunirle  sotto  l'egemonia 
di  Siracusa  la  Sicilia  greca,  assicurare  in  Sicilia  la  prevalenza 
dell'elemento  ellenico  sul  semitico^  assumere  la  i^rotezione  dei 
Greci  d'Italia  contro  gl'indigeni.  Erano  compiti  in  sé  ardui,  e  ne 
accresceva  la  difficoltà  il  prepotente  sentimento  particolaristico  e 
lo  spirito  repubblicano  dei  Sicelioti.  Una  serie  di  lotte  fortunose 
con  le  città  greche  indipendenti  della  Sicilia,  col  partito  repub- 
Tìlicano,  che  si  era  persino  trovato  un  capo  di  sangue  reale  in 
Acrotato,  primogenito  di  Cleomene  re  di  Sparta,  e  coi  Cartaginesi, 
in  cui  Agatocle  alternando  perfidie  e  crudeltà  con  iniziative  ge- 
niali e  con  prove  singolari  di  valore,  ora  si  era  visto  sul  punto 
di  distruggere,  non  in  Sicilia  soltanto,  ma  persino  m  Africa,  l'im- 
pero dei  Fenici,  ora  si  era  trovato  a  un  passo  dall'estrema  rovina, 
l'aveva  reso  intorno  al  305-4  signore  rispettato  della  Sicilia  greca 
con  titolo  di  re,  che  aveva  assunto  ad  imitazione  dei  generali  di 
Alessandro  Magno.  In  mezzo  a  queste  lotte  s'era  tenuto  in  rela- 
zione con  le  popolazioni  indigene  d'Italia  noi}  solo  per  far  leva 
di  mercenari  nel  Sannio,  nella  Campania  e  nell'Etrm^ia,  ma  anclie 
per  assicui'arsi  contro  i  Cartaginesi  l'alleanza  di  qualche  città  ma- 
rittima  etrusca.  Di  fatto  una    squadra    navale  etrusca  di  diciotto 


(1)  A  questa  colonia  sembra  riferirsi  Liv.  epit.  11  e  XXXVI  3.  Invece  la 
notizia  di  Vklleio  I  14,  7  :  at  initio  i»'iini  belli  Punici  Firmum  et  Castrum 
colonis  occupata  sembra  doversi  riferire  a  Castrum  Novum  Piceni.  Ricordiamo 
che  il  Piceno  fu  annesso  nel  268.  Su  ciò  v.  Bokmann  CIL.  XI  p.  530. 

(2)  Su  Agatocle  v.  Schubert  Geschichte  des  Agatholcles  (Breslau  1887)  e  la 
mia  memoria  Agatocle  nella  '  Riv.  di  Fil.  '  XXIII  (1895)  p.  289  segg.  Fonte 
quasi  unica  è  Diod.  XIX,  XX  e  XXI. 

(3)  Cfr.  sopra  p.  318. 


AOATOCLE    IN    SICILIA    ED    IN   ITALIA  369 

trireme  venne  nel  307  a  soccon-ere  Siracusa  bloccata  per  mare 
dai  Cartaginesi,  e  con  questo  aiuto  Agatocle  potè  sconfiggere  la 
squadra  assediante  e  approvvigionare  la  città  (1).  Quand'anche  si 
ammetta  che  la  fonte  greca  onde  abbiamo  questa  notizia  avesse 
potuto  inesattamente  designare  i  Romani  come  Tirreni,  è  evidente 
che  quella  squadi'a  non  poteva  provenire  da  Roma,  né  da  una 
cittk  etrusca  dipendente  da  Roma  come  Cere  ;  poiché  i  Romani 
dalla  prima  sannitica  alla  guerra  di  Pirro,  si  tennero  in  ottime 
relazioni  con  Cartagine.  Ma  é  pvir  chiaro  che  quegli  Etruschi  i 
quali  s'arrischiavano  lungi  dalla  patria  in  un'impresa  cosi  grave 
e  pericolosa^  quale  era  una  guerra  con  Cartagine,  non  potevano 
avere  al  tempo  stesso  a  combattere  in  terraferma  avversari  formi- 
dabili come  i  Romani;  e  però  deve  ritenersi  che  si  tratti  di  città 
etrusche,  le  quali  già  nel  primo  anno  della  guerra  contro  Roma 
avevano  fatto  pace  quando  la  fecero  Arezzo,  Cortona  e  Perugia, 
ovvero  di  città  che  alla  guerra  non  avevano  preso  alcuna  parte. 
Tarquini  deve  con  jjrobabilità  escludersi,  sia  perché  nel  307  era 
appena  venuta  a  patti  coi  Romani  (2),  sia  perchè  la  pace  allora 
conclusa,  comperata  con  importanti  cessioni  di  territorio,  se  pur 
lasciava  i  Tarquiniesi  in  possesso  dei  diritti  sovrani,  il  che  non  è 
certo,  difficiLmente  era  tale  da  permettere  loro  d'avere  altri  amici 
e  nemici  fuor  degli  amici  e  nemici  di  Roma  (3). 

Ma  raffermata  che  ebbe  la  sua  autorità  nella  Sicilia  greca  e 
sospesa  la  guerra  nazionale  coi  Fenici,  Agatocle  ebbe  agio  d'in- 
tervenire in  Italia  dove  lo  chiamavano  i  Tarentini  (4),  o  che  fos- 
sero minacciati  essi  stessi  dai  Lucani,  poco  cm^anti  dell'accordo 
stretto  insieme  ai  Romani  con  Taranto  e  poco  rispettosi  dell' au- 
torità di  Roma,  o  che  ricercassero  soltanto  l'opera  d' Agatocle  a 
difendere  le  città  della  odierna  Calabria  contro  i  Bruzì.  Sebbene 
Agatocle  fosse  stato  sino  allora  in  buone  relazioni  coi  Bruzi  (5), 
non  esitò  a  passare  lo  stretto.  Ma  poco  dopo  tragittato  in  Italia 
il  suo  esercito,  dovette  lasciarne  il  comando  al  figlio  Arcagato  per 


(1)  DioD.  XX  61. 

(2)  La  pace  risale  al  308  secondo  Vareone  ossia  probabilmente,  tenuto  conto 
dell'a.  dittatoriale  301,  al  307  av.  Cr. 

(3)  Su  tutto  ciò  cfr.  Pais  '  Studi  storici  '  II  (1893)  p.  343  n.  4.  Beloch  Gr.  G. 
Ili  1  p.  204  n.  2  e  le  mie  considerazioni  nella  '  Riv.  di  Fil.  '  XXIII  (1895) 
p.  324  n.  1. 

(4)  Strab.  vi  280. 

(5)  DioD.  XX  71,  5,  cfr.  XXI  3,  1  e  Iustin.  XXIII  2,  1. 

Gr.  De  Sasctis,  Storia  dei  Romani,  II.  24 


370  CAPO   XX  -  LA   CONQUISTA   DlTALIA 


accorrere  alla  difesa  di  Corcira  (1).  In  quest'isola,  che  egli  aveva 
liberato  dal  dominio  di  Cleonimo  (2),  cercava  ora  di  por  piede 
Cassandre^  clie  dopo  la  battaglia  d'Ipso  aveva  raggiunto  l'apice 
del  suo  i3otere  e,  signore  della  Macedonia  e  della  Tessaglia,  aveva 
l'alto  dominio  sul!'  Epiro,  ove  regnava  a  lui  ligio  Neottolemo, 
figlio  di  queir Alessandi'o  die  era  morto  in  Italia  nel  331/30  (3j. 
Non  importava  molto  ad  Agatocle  il  possesso  di  Corcira,  che  le 
sue  mire  erano  dirette  all'Italia  ed  all'Africa,  non  all'Oriente  elle- 
nico ;  ma  molto  gli  era  a  cuore  l'onore  delle  sue  armi  ;  né  poteva 
piacergli  che  una  grande  potenza  come  la  Macedonia  acquistasse 
un  avamposto  cosi  prezioso  nel  mar  Ionio  :  donde  avrebbe  potuto 
agevolmente  intervenire  nelle  cose  d'Italia  e  di  Sicilia,  sia  colle- 
gandosi coi  molti  nemici  greci  ed  indigeni,  che  Agatocle  aveva, 
sia  impedendogli  in  qualsiasi  modo  il  raggiungimento  de'  suoi 
fini.  La  prontezza  d' Agatocle,  la  superiorità  della  sua  armata,  l'im- 
pegno che  misero  nel  combattere  i  suoi  soldati  per  mostrarsi 
j)ari  agli  ''  invincibili  ,t  Macedoni,  assicurarono  al  signore  di  Si- 
racusa la  vittoria  (298)  ;  ed  a  Cassandre  tolse  la  morte  incol- 
tagli poco  di  poi  (298/7)  di  rinnovare  con  la  sua  consueta  tena- 
cità il  tentativo  su  Corcira.  Poco  dopo  un  giovane  principe  d'un 
altro  ramo  della  casa  reale  epirota^  Pirro,  tornato  in  patria  con 
aiuti  tolemaici  (297),  prendeva  a  regnarvi  prima  insieme  con  Neot- 
tolemo,  poi,  tolto  di  mezzo  il  collega,  da  solo.  Da  Pùto,  troppo 
meno  potente  allora  di  Cassandre,  Agatocle  non  credeva  d'aver 
nulla  a  temere  ;  gli  conveniva  invece  d'esser  con  lui  in  buone 
relazioni  e  d'evitare  gli  urti  che  j)otevano  nascere  dal  possesso  di 
Corcira,  proprio  dirimpetto  alle  coste  epirotiche  :  si  aggiunga  che 
il  nuovo  re  godeva  l'amicizia  e  la  protezione  della  maggior  po- 
tenza navale  d'allora,  l'Egitto  ;  con  la  quale  Agatocle,  sempre 
pronto  ad  una  lotta  mortale  con  Cartagine,  era  ovvio  che  mirasse 
a  tenersi  in  buona  armonia.  Cosi  il  signore  di  Sicilia  cedette  Cor- 
eira  all'Ei3Ìro,  come  dote  della  figlia  Lanassa  elio  andò  sposa  a 
Pirro  (296  circa)  (4). 

Ma  intanto,  appena  ritornato  da  Corcira,  Agatocle  aveva  rag- 
giunto il  suo  esercito  che  operava  in  Calabria  e  vi   aveva  rista- 


ci) DioD.  XXI  2,  3,  1. 

(2)  Sopra  p.  347. 

(3)  Sopra  p.  294.  Per  la  genealogia  v.  Collitz  Dialekt-inschr.  II  1336.   Beloch 
Gr.  G.  Ili  2  p.  99  seg. 

(4)  Plut.  Pijrrh.  9.  Per  la  cronologia  v.  Beloch  op.  e.  p.  104. 


ACATOCLE    TX   ITAI>IA  371 


bilito  la  disciplina  trattando  con  estrema  severità  un  corpo  di 
mercenari  liguri  ed  etruschi  che  dm'ante  la  sua  assenza  avevano 
tumultuato  per  ragione  della  paga.  E  dopo  ciò  prese  l'offensiva 
contro  i  Bruzi  assediando  una  delle  loro  città;  dove  peraltro  as- 
salito improvvisamente  dagl'indigeni  ebbe  una  tale  sconfitta  da 
essere  indotto  a  ritornare  pel  momento  in  Sicilia  (297).  Ma  non 
si  rimosse  per  questo  dall'impresa  ;  anzi  già,  come  pare,  l' anno 
seguente  (296),  circa  il  tempo  in  cui  Lanassa  partiva  jDer  l'Epiro, 
tornò  in  Italia  con  l'intendimento  di  proemiarsi  per  la  guerra  coi 
Bruzi  una  sicura  base  d'operazione  (1).  Scelse  a  tal  uopo  la  città 
greca  di'  Crotone,  il  cui  tiranno  Menedemo,  ch'era  in  buone  relazioni 
d'amicizia  con  lui,  non  si  attendeva  punto  che  Agatocle  gl'impo- 
nesse  di  sorpresa  la  sottomissione;  per  modo  che  la  città,  assediata 
per  terra  e  per  mare  e  imxjreparata  alla  lotta,  cadde  presto  in 
mano  del  signore  di  Siracusa.  Di  qui  egli  entrò  in  relazione  coi 
vicini  barbari  e  prima  di  tutto  coi  Peucezì  che,  vedendo  con  ter- 
rore la  potenza  romana  affermarsi  nella  Daunia,  accolsero  certo 
volentieri  l'alleanza  offerta  da  Agatocle  (2).  Il  quale  tornò  all'as- 
salto l'anno  seguente  (295),  passando  in  Italia  con  trentamila  fanti 
e  tremila  cavalli.  Con  tali  forze  s'impadroni  agevolmente  d'Ipponio, 
antica  colonia  locrese,  da  tem]30  caduta  in  mano  dei  Bruzi  e  riusci 
jjersino  a  costringere  i  Bruzi  ad  accettare  la  sua  alleanza  e  a 
dargli  ostaggi.  La  sottomissione  dei  Bruzi  fu  poco  durevole,  che 
si  ribellarono  appena  egli  ebbe  ricondotto  in  Sicilia  il  grosso  del- 
Tesercito  (3).  Ma  rimase  in  suo  potere  Ipponio  di  cui  si  diede  cura 
di  rimettere  in  buone  condizioni  il  porto  (4)  ;  e  sebbene  non  sap- 
piamo d'altre  sue  spedizioni  in  Italia,  pur  non  v'ha  dubbio  che 
quand'egli,  presso  ormai  a  morire,  si  disponeva  a  rinnovare  quella 
guerra  con  Cartagine  che  da  lunghi  anni  aveva  preparato,  doveva 
aver  provveduto  ad  assicurare,  mediante  accordi  coi  Bruzi,  i  suoi 
possedimenti   italiani  (5).    Né    forse   a  questo  accordo  erano  stati 


(1)  DioD.  XXI  3,  1.  2. 

(2)  DioD.  XXI  4.  [AiusTOT.]  de  mirab.  au-icult.  110.  Il  nostro  testo  di  Diodoro 
parla  di  alleanza  d' Agatocle  Trpòc;  '{ànv^o-'i  koì  TTeiiKeTiouq.  Ma  i  Peucezi  erano 
Iapigi,  ed  al  nord  della  Peucezia  è  molto  difficile  che  Agatocle  abbia  avuto 
alleati.  Probabilmente  è  da  eliminare  la  copula.  Cfr.  Herod.  VII  170:  'IniruTCc; 
Meoadnioi. 

(3)  DioD.  XXI  8. 

(4)  Strab.  vi  2.56.  Su  Ipponio  cfr.  Duri.s  fr.  42.  Athen.  XII  542  a. 

(5)  Cfr.  Tk.  Pomp.  prol.  23:  omnibus  subactis  (Bruttiis)  rcx  seditione  fili 
exheredati  ac  nepotis  oppressus  interiit. 


372  CAl'O    XX  -  LA    CONQUISTA    d'iTALIA 

troiDpo  riluttanti  i  Bruzì,  che  vedevano  ormai  rinvigorirsi  nel  mez- 
zogiorno d' Italia  r  autorità  dei  Romani  e  clie  dovevano  essere 
rimasti  fortemente  impressionati  al  pari  di  tutti  i  popoli  dell'Italia 
meridionale,  Greci  e  indigeni,  dalla  fondazione  della  gagliarda 
colonia  latina  in  Venosa. 

Che  a  Siracusa  si  seguisse  con  attenzione  l'andamento  della 
lotta  tra  i  Romani  e  i  loro  alleati  non  v'ha  dubbio:  ed  è  del  pari 
certo  che  a  Roma  si  tenevano  ben  d'occhio  gli  incrementi  graduali 
della  potenza  d'Agatocle  ;  ma  ad  atti  ostili  Roma  e  Siracusa 
non  procedettero  né  direttamente,  ne  indirettamente  :  ne  fa  prova 
non  solo  il  silenzio  delle  fonti  romane,  che  potrebbe  aver  altre 
ragioni,  ma  il  parlare  le  fonti  greche  solo  di  trattative  d'Aga- 
tocle coi  Bruzì  e  coi  Peucezì,  ossia  con  popoli  ch'erano  al  di  fuori 
dei  termini  dell'azione  politica  romana.  E  del  resto  se  durante  la 
terza  sannitica  Agatocle  si  fosse  trovato  in  stato  di  guerra  con 
Roma,  gli  sarebbe  convenuto  levar  l'animo  dalla  guerra  di  rivin- 
cita con  Cartagine  nel  momento  in  cui  la  lotta  tra  Roma  ed  il 
Sannio  volgeva,  al  suo  termine,  con  vantaggio  manifesto  dei  Ro- 
mani (1). 

Frattanto  s'erano  modificate  le  condizioni  dell"  Oriente  ellenico, 
da  quando  Lanassa  era  andata  sposa  a  Pirro.  Demetrio  Poliorcete 
era  riuscito  ad  insignorirsi  del  trono  di  Macedonia,  e  Pirro  aveva 
tentato  inutilmente  di  disputarglielo.  Agatocle,  cui  Pirro  era  parso 
forse  un  vicino  troppo  turbolento,  ritraendosi  dall'amicizia  di  Pirro, 
si  accostò  a  Demetrio  (2).  Demetrio  gli  pareva  forse  preferibile 
anche  per  essere  potentissimo  sul  mare,  onde  un  qualche  soccorso 
suo  o  anche  una  benevola  neutralitcà  poteva  riuscirgli  di  grande 
vantaggio  nella  guerra  contro  Cartagine,  mentre  aveva  d' altra 
parte  tropi3Ì  nemici  in  Grrecia  e  nell'Oriente  il  Poliorcete  per  po- 
tersi rendere  pericoloso  nei  mari  occidentali.  Allora  Lanassa  si 
separò,  non  senza  averne  anche  motivi  personali,  da  Pirro  e  si 
ritrasse  a  Corcù-a  (291),  dove  invitò  anche  l'avversario  di  Pirro,  che 
venne,  e,  sposatala,  pose  nella  città  un  presidio  (3). 

Il  signore  di  Siracusa,  più  che  settantenne,  prima  d'iniziare  la 
guerra  con  Cartagine^  volle  regolare  la  successione.  V  erano  in- 
fatti due  pretendenti  al  trono  di  Siracusa:   Agatocle  figlio  quar- 


(1)  Per  queste  ragioni  credo  si  debbano  respingere  le  congetture  del  Beloch 
Gr.  G.  Ili  1  p.  214  n.  2. 

(2)  DioD.  XXI  15. 

(3)  Plut.  Pyrrh.  10. 


FINE    DI    ACATOCLE  373 


togeiiito  del  re,  e  il  suo  nipote  Arcagato,  figlio  di  quell'Arcagato 
che  era  stato  ucciso  in  Africa  nella  guerra  contro  Cartagine.  Il 
re,  sebbene  da  molto  tempo  avesse  preparato  la  successione  di  Ar- 
cagato affidandogli  importanti  comandi,  ebbe  sull'ultimo  il  torto 
di  volergli  ]3referire  il  giovane  Agatocle,  che  fece  riconoscere  come 
successore  da  re  Demetrio  e  nell'assemblea  popolare  di  Siracusa; 
mentre,  semijre  avendo  potuto  contare  sulla  fedeltà  d' Arcagato  e 
credendo  che  gli  avesse  anche  ora  la  stessa  fede ,  gli  aveva 
conservato  sino  alFultimo  il  comando  dell'esercito  e  dell'armata. 
Ma  quande  Arcagato,  invece  di  piegarsi,  ebbe  assassinato  lo  zio 
ad  un  banchetto,  Agatocle,  se  voleva  salvare  l'opera  di  tutta  la 
sua  vita,  doveva  riconoscere  1'  assassino  come  erede  del  trono  e 
a]3rirgii  le  porte  di  Sii'acusa:  troiDpi  delitti  aveva  a  suo  carico 
per  poter  essere  giudice  severo  del  delitto  d' Arcagato^  non  più 
grave  del  resto  di  quelli  con  cui  si  assiciu'arono  il  regno  Deme- 
trio Poliorcete,  Pirro  e  Tolemeo  Cerauno.  Ma  ferito  nel  i3Ìù  vivo 
dei  suoi  sentimenti,  non  seppe  perdonare;  né  aveva  ormai  più  la 
forza  per  presentarsi  tra  i  suoi  veterani  e  ridmdi  a  dovere,  giacché 
una  malattia  violenta  lo  aveva  condotto  in  poc'ora  sull'orlo 
del  sepolcro.  E  poiché  lasciare  il  trono  ai  due  fanciulli  nati 
dall'ultima  moglie,  Teossena,  con  una  reggenza^  sarebbe  stato 
possibile  solo  se  avesse  avuto  fedele  l'esercito,  ristabili  in  Siracusa 
la  democrazia  :  e  cosi  decretò  egli  stesso  la  rovina  dell'impero  da 
lui  costituito,  nel  momento  in  cui  era  chiamato  ad  una  missione 
d'importanza  gravissima,  la  lotta  di  rivincita  col  Fenicio  per  libe- 
rare la  Sicilia  e  la  lotta  con  Roma  per  l'indipendenza  dei  Greci 
d'Italia.  Né  le  conseguenze  esiziali  dell'ultimo  suo  atto  potevano 
sfuggire  alla  mente  perspicace  del  re  moribondo  :  e  con  questo  pen- 
siero egli  scese  nella  tomba  (289)  (1). 

La  storia  d' Agatocle  mostra  la  vitalità  dei  Sicelioti  pochi  de- 
cenni prima  dell'intervento  romano  ìiell'isola.  Sarebbe  però  errore 
il  credere  che  al  caso  della  preferenza  data  da  Agatocle  al  figlio 
.sul  nii)ote  si  debba  ih  posteriore  assoggettamento  della  Sicilia  ai 
Romani.  Infatti  a  stringere  in  fascio  le  forze  vive  della  Sicilia 
greca  si  richiedeva  ora  tale  energia  senza  esitazione,  tal  coraggio 
a  tutta  prova,  tal  genio  politico  che  non  poteva  essere  in  Sicilia 
dm-evole  la  monarchia  militare.  Ma  fosse  anche  stata  durevole,  i 
jjrecedenti  mostrano  chiaro  che  come  Dionisio  ed  Agatocle  non 
erano  riusciti  a  superare  in  modo  definitivo  la  sola  Cartagine,  cosi 


(1)  DioD.  XXI  16.  lusTiN.  XXIII  2. 


374  CAPO   XX  -  LA    CONQUISTA    d" ITALIA 

tanto  meno  alcuno  sarebbe  riuscito  a  superarla  quando  si  fosse 
unita  contro  il  comune  nemico  con  Roma,  come  poi  avvenne  ai 
tempi  di  Pirro.  Ora  che  s'era  formato  nell'  Italia  non  greca  un 
grande  Stato  unitario  indigeno,  il  perdurare  della  monarchia  mi- 
litare fondata  da  Agatocle  avrebbe  potuto  rendere  più  gloriose, 
ma  non  sostanzialmente  mutare  le  sorti  dell'ellenismo  in  Sicilia. 
Una  prova  si  ha  anche  in  ciò,  che  il  nerbo  degli  eserciti  di  cui 
si  valeva  Agatocle  come  già  Dionisio,  era  costituito  d'Italici  e 
soprattutto  di  Campani;  onde  già  in  una  delle  lettere  platoniche 
era  preveduto  sin  dalla  metà  del  sec.  IV  che  l'elemento  ellenico 
in  Sicilia  sarebbe  soggiaciuto  al  fenicio  od  all'osco  (1). 

La  fortuna  di  Sicilia  sembrò  precipitare  non  appena  ebbe 
chiuso  gli  occhi  Agatocle.  A^i  era  una  sola  speranza  di  salute  :  che 
Arcagato,  amato  dalle  truppe  e  già  sperimentato  come  capitano, 
riuscisse  ad  occupare  il  trono  dell'  avo  ;  e  forse  vi  sarebbe  perve- 
nuto ;  ma,  tolto  di  mezzo  proditoriamente  da  un  Segestano  di 
nome  Menone,  privi  i  mercenari  d'un  capo  che  avesse  reputazione 
sufficiente  iDer  tenerseli  devoti,  l'esito  della  guerra  tra  essi  e  il 
popolo  siracusano  che  si  era  eletto  a  stratego  Iceta,  appariva 
molto  incerto.  Di  ciò  profittarono  i  Cartaginesi  per  imporre  ai  con- 
tendenti la  loro  mediazione,  i3er  cui  restituita  alle  città  greche  di 
Sicilia  assoggettate  da  Agatocle  la  loro  autonomia  e  riconosciuta 
di  nome  almeno  la  libertà  siracusana,  i  mercenari,  per  la  massima 
parte  Campani,  furono  riammessi  in  Siracusa  con  facoltà  d'eser- 
citarvi i  diritti  cittadini. 

Ma  i  nuovi  cittadini  non  riuscendo  ad  avere  in  Siracusa  una 
posizione  autorevole,  si  lasciarono  presto  indm're  a  vendere  gli 
stabili  che  i^ossedevano  in  città  o  nel  territorio  e  a  incamminarsi 
verso  la  patria  ;  senonchè  per  via,,  ospitati  dai  Messinesi,  si  im- 
padronù-ono  di  sorpresa  della  costoro  città,  ne  uccisero  o  fugarono 
i  cittadini,  si  tennero  le  loro  donne  e^  col  nome  di  Mamertini, 
fondarono  uno  Stato  di  nazionalità  osca  nell'isola  (2).  I  G-reci  non 
ricuperarono  mai  più  il  terreno  che  cosi  l'ellenismo  aveva  perduto  ; 
e  fu  di  gravissimo  danno  agl'interessi  ellenici  lo  stabilirsi  degl'Ita- 
lici sullo  stretto  ;  poiché  non  molto  dopo  facilitò  d' assai  la  con- 
quista romana  dell'isola.  I  Mamertini^  del  resto,  avevano  fondato 


(1)  Epist.  Vili  353  e:  riEei  òé,  èdvirep  tujv  eÌKÓxujv  YÌYvirrai  ti  koì  àTreuKTóùv, 
axeòòv  de,  èpriMiav  Tf)<;  'EWriviKf)^  qpuuvfic;  ZiKeXio  iràaa  Ooivìkujv  ?\  'Ottikùjv  |U6- 
ToPaXoOoa  eie;  riva  òuvaareiav  koì  Kpaxo;. 

(2)  DioD.  XXI  18.  Por.YB.  I  7.  Cass.  Dio  fr.  40,  8. 


NUOVA    (ÌL'ERRA    cor    SENONT  375 

il  loro  Slato  sulla  negazione  del  diritto  delle  genti,  ond'esso  do- 
veva essere  in  lotta  permanente  e  feroce  coi  vicini  ;  e  mentre  i 
Greci  discordi  tra  loro  erano  appena  in  grado  di  difendersi  da  quel 
pugno  di  malfattori,  e  i  Fenici  assumevano  una  specie  di  protet- 
torato nell'isola,  gl'Italioti,  abbandonati  dai  loro  connazionali  di 
oltre  il  Faro,  si  trovavano  novamente  esposti  senza  difesa  agli 
assalti  degrindigeni.  Tosto  i  Bruzì  ricuperarono  Ipponio,  e  Turi  fu 
assalita  dai  Lucani.  Soccorso  i  Tmini  jootevano  averne  da  Taranto: 
ma  la  loro  vecchia  rivalità  contro  i  Tarentini,  die  s'era  manife- 
stata anche  durante  la  spedizione  italica  d'Alessandro  il  Molosso 
(sopra  p.  294),  fece  si  che  preferissero  chiedere  l' aiuto  di  Roma.  I 
Romani  avevano  la  scelta  tra  due:  o  lasciare  che  i  loro  alleati 
italici  continuando  la  lotta  secolare  contro  i  Grreci  ponessero  ter- 
mine violentemente  alla  vita  dell'ellenismo  in  Italia,  o  intervenire 
a  favore  dei  più  deboli  Greci,  assicurandosene  cosi  l'amicizia  e 
impedendo  che  la  potenza  dei  popoli  italici  del  mezzogiorno  piren- 
desse  uno  svilupi^o  x^^ricoloso.  La  seconda  politica  parve  ai  Ro- 
mani più  saggia,  ora  che,  vinto  replicatamente  il  Sannio,  non  si 
credevano  più  tenuti  ad  usar  molti  riguardi  ai  Lucani.  V'era  però 
nel  seguirla  un  rischio  :  che  i  Lucani,  malcontenti  dell'alleanza  di 
Roma  e  consapevoli  della  propria  inferiorità  a  fronte  di  essa,  di- 
menticassero le  loro  querele  con  gli  antichi  avversari  per  sfuggire 
al  nuovo  padrone  ;  e  che  i  Greci,  dimentichi  della  gratitudine 
verso  i  loro  salvatori,  facessero  causa  comune  con  gl'indigeni 
contro  Roma.  Ad  ogni  modo  per  allora  i  Romani  cominciarono 
con  FintrodmTe  un  i3residio  in  Tuii  per  metterla  al  sicm'O  dagli 
assalti  lucani  (285)  (1).  Né  potevano  arrestarsi  su  questa  via.  Sa- 
nonchè  la  loro  azione  nell'Italia  meridionale  fu  incagliata  dalla 
guerra  che  riarse  a  settentrione. 

I  Senoni,  vinti  a  Sentino,  avevano  dovuto  rassegnarsi  a  far 
pace  e  a  ceder  territorio  :  e  nel  territorio  confiscato  era  stata  fon- 
data la  colonia  di  Sena.  Era  questa  una  umiliazione  cui  non  po- 
tevano certo  adattarsi.  E  però  non  tardarono  a  insorgere  nova- 
mente  ;  ma  del  procedere  contro  Roma  per  l'Umbria  erano  ormai 


(1)  Del  primo  aiuto  recato  ai  Turini  si  parlava  in  Livio  sulla  fine  del  lib.  XI, 
come  mostra  la  perioca,  ossia  intorno  al  285.  Che  Turi  fosse  minacciata  due 
volte  dai  Lucani  è  detto  da  Plin.  ».  h.  XXXIV  32  :  publice  aiitem  ab  exteris  po- 
sita  est  (statua)  Romae  C.  Aelio  tr.  pi.  lege  periata  in  Sthennium  Stallium  Lu- 
canum  qui  Thurinos  bis  infestaveraf.  oh  id  Aelium  Thnrini  statua  et  corona  aurea 
donar  unt. 


376  CAPO   XX  -  LA    CONQUISTA    d'iTALIA 

impediti  dalle  alleanze  e  dalle  conquiste  di  Roma;  onde,  traver- 
sato l'Ajjpennino,  si  presentarono  innanzi  ad  Arezzo  e  invitarono 
gli  Ai-etini  e  gli  altri  Etruschi  a  prendere  le  armi  contro  i  Ro- 
mani. Volsinì,  se  già  non  era  insorta,  si  sollevò  probabilmente 
senza  por  tempo  in  mezzo  (1).  Grli  Aretini  invece  essendo  rimasti 
fedeli,  i  Romani  inviarono  al  loro  soccorso  il  console  L.  Cecilio 
Metello  con  due  legioni  (28i).  Ma  inorgogliti  della  vittoria  di  Sen- 
tine, non  mism-ando  la  gravità  del  pericolo,  avevano  dato  uno  dei 
soliti  eserciti  consolari  ad  uno  dei  soliti  consoli,  che  non  aveva 
mai  tenuto  il  comando  dinanzi  al  nemico.  E  la  conseguenza  fu 
una  delle  disfatte  più  terribili  che  sia  mai  toccata  ai  Romani  (2), 
nella  quale,  stando  alla  tradizione,  che  non  sembra  punto  esage- 
rare, il  console,  sette  tribuni  militari  e  tredicimila  uomini  rima- 
sero sul  campo  di  battaglia  e  gli  altri  furono  fatti  prigionieri.  La 
rotta,  più  grave  forse  e  più  piena  di  quelle  di  Camerino,  di  Lau- 
tule  e  di  Gaudio,  dovette  fare  una  impressione  profonda.  E  fu 
probabilmente  questo  il  segnale  della  ribellione  degli  Etruschi, 
dei  Sanniti  e  dei  Lucani  che  insieme  coi  Bruzi  troviamo  negli 
anni  seguenti  in  armi  contro  Roma  (3).  Ma  ora  gli  avversari  di 
Roma  se  potevano  costringere  i  Romani  a  dividere  le  loro  forze 
per  resistere,  non  erano  più  in  grado  di  riunire  le  forze  loro 
contro  Roma  come  avevano  fatto  a  Sentine.  E  i  Romani  proce- 
dettero con  pari  senno  ed  energia.  Al  morto  console  fu  sostituito 
il  miglior  capitano  che  Roma  allora  avesse,  W.  Cmno  Dentato  ;  il 


(1)  Cfr.  Liv.  epit.   11  fin.  :  res  praeterea  cantra  Vulsinienses  gestas  continet. 

(2)  La  relazione  migliore  su  questo  e  i  fatti  seguenti  è  quella  di  Polyb.  II 
19,  7-20,  egregiamente  commentata  dal  Mommsen  Rom.  Forschungen  II  365  segg. 
Che  essa  derivi  da  fonti  romane,  come  ciò  che  precede  sulle  guerre  galliche 
(cfr.  sopra  p.  258),  è  fuori  di  dubbio  :  òioTevojuévuiv  bè  irdXiv  èriliv  òéKa  (dalla 
battaglia  di  Sentino,  295;  il  conto  torna,  purché  si  prescinda  dall'anno  ditta- 
toriale 301)  TrapeyévovTO  FaXarai  juexà  neydXr)^  arpaxiàc;  iToXiopKrioovTe<;  ri]v 
'Appr)TÌvu)v  nóXiv.  'Pu)|uaToi  bè  TrapaPori6noavT€<;  Kai  oufaPaXóvxe^  -rrpò  Tn<;  ■nóXeujc, 
i*|TTri9riaav,  èv  bè  rr)  luàxri  Taùtr)  AeuKiou  toO  arparriYcO  TeXeurnaavrOv;  Màviov 
èTTiKaTéarrioav  xòv  Kópiov.  È  evidente  che  il  defunto  era  console,  l'altro  un 
console  suffectus  ;  e  quindi  deve  trattarsi  dell'a.  284  in  cui  era  console  L.  Ce- 
cilio Metello.  Le  cifre  sono  in  Obos.  III  22. 

(3)  Liv.  epit.  12  :  Samnites  defecerunt.  adversus  eos  et  Lucanos  et  Bruttios  et 
Etruscos  aliquot  prooeliis  a  compluribns  ducibus  bene  pugnatum  est.  Oros.  Ili 
22,  12  :  Dolabella  et  Domitio  consiilihus  (a.  283)  Lucani,  Bruttii  Samnites  quoque 
cum  Etruscis  et  Senonibus  Gallis  facta  societate,  cum  redivivum  cantra  Romtmos 
bellum  molirentur  eie. 


NUOVA   (rUEKlIA  COI  sf:xoxi  377 

cui  primo  pensiero  non  fu  quello  di  vendicare  i  caduti,  ma  di  ri- 
scattare i  prigionieri:  tanto  i  Romani  d'allora  senza  esser  meno 
valorosi  erano  più  umani  dei  loro  nepoti  dell'età  d'Annibale.  I  Se- 
noni  inebriati  dal  successo  risposero  mettendo  a  morte,  contro  il 
diritto  delle  genti,  gli  ambasciatori.  Era  troppo,  tanto  più  che 
per  la  Sabina  e  il  Piceno  la  via  del  loro  territorio  era  aperta  agli 
eserciti  romani.  E  Manio  Curio^  condotte  là  direttamente  le  sue 
legioni,  vinse  i  Senoni  in  battaglia,  favorito  forse  dall'assenza  di 
una  parte  delle  forze  galliche  che  saranno  rimaste  in  Etruria  a 
concitare  a  ribellione  gii  Etruschi  e  fors' anche  più  dall'insorgere 
della  popolazione  umbra  che,  stanca  del  giogo  gallico,  avrk  accolto 
con  gioia  i  suoi  connazionali  italici. 

Il  console  trattò  i  Senoni  senza  pietà  mettendo  a  morte  quelli 
che  non  si  salvavano  con  la  fuga  ;  mentre  tutto  il  loro  territorio 
a  settentrione  di  Sena  fino  all'antica  città  umbra  di  Arimino  veniva 
annesso  allo  Stato  romano  (1).  La  sorte  dei  Senoni  inspirò  j)ropositi 
di  vendetta  ai  Boi,  loro  connazionali  e  vicini;  ond'essi  nell'anno 
seguente  (283)  scesero  in  Etruria  per  sostenere  energicamente  le 
reliquie  dei  Senoni  e  i  ribelli  etruschi  nella  guerra  con  Roma.  Un 
esercito  gallo-etrusco  lungo  la  sinistra  del  Tevere  mosse  verso 
Roma,  e,  dove  i  contrafforti  dei  monti  Cimini  scendono  verso  il 
fiume,  poco  sotto  Bomarzo,  presso  il  sito  dove  uno  stagno  (lago 
di  Bassano)  è  il  residuo  dell'antico  lago  Vadimone,  si  scontrò  con 
un  esercito  romano  condotto  dal  console  P.  Cornelio  Dolabella.. 
I  Boi  e  gli  Etruschi  fui'ono  pienamente  disfatti,  e  il  sangue  dei 
caduti,  secondo  la  tradizione,  colorò  il  Tevere  in  rosso  (2).  I  vinti 


(1)  PoLYB.  1.  e:  ou  ("Curio)  TipcaPeuTàq  èKTTé)Liv|;avTO^  eie,  faXariav  ùtrèp  tiwv 
alxMoXUjTUJv,  TTapaOTTOvònaovTet;  èitaveiXovTO  toù<;  irpéoPeiq  .  tuùv  òè  'Poifiaiuiv 
ÙTTÒ  TÒv  Gu.uòv  ÉK  x^ipòc,  é-iTiaTpaTeuffa|Li6vu)v,  àiravtriaavTec;  auvéPaXov  oi  Zr^viuvei; 
KoXouiuevoi  faXciTai.  'Puj|uaìoi  ò'  ex  -rrapoTdEeiuc;  KpaxriaavTet;  aÙTiùv  Toùq  |uèv 
TtXeiaTout;  dnréKTeivav,  toùi;  bè  XoiTroù<;  éEéPoXov,  xnq  bè  X^P'^'i  éy^vovro  irdaric; 
è^Kpareti;.  Si  capisce  che  fin  d' allora  fu  incorporato  allo  Stato  romano  anche 
il  territorio  di  Arimino,  in  cui  poi  venne  condotta  nel  268  una  colonia  latina. 

(2)  PoLYB.  1.  e.  :  ci  bè  Boìoi  ...  éEeaTpdT€UCTav  -rravbriiuei  itapaKaXéaavTee;  Tup- 
prìvoùi;.  à9poia0évT€(;  bè  uepi  tì*iv  'Odbnova  TrpoaaYopeuo)uévr)v  \(|uvriv  TrapCTdEavTO 
'Puj|uaioi(;.  èv  bè  xfj  ladxi  raùrr)  Tuppr|viùv  |uèv  oi  irXeìoTOi  KaTCKÓnriaav,  tujv  bè 
Boioiv  TeXéuui;  òXìyoi  bienpuYOv.  Sul  luogo  v.  Nissen  Landeskunde  II  p.  342.  Cfr. 
EuTROP.  II  10  :  interiectis  uliquot  annis  iterum  se  Gallorum  copiae  contra  Ro- 
manos  Tuscis  Samnitibusque  iunxerunt,  sed  cum  Romam  tenderent  a  Cu.  Cor- 
nelio Dolabella  consule  deletae  sunt,  dove  è  errata  la  menzione  dei  Sanniti  e 
il  prenome  del  console.  Flor.  I  8.  [Dio]  fr.  39,  2  :  AoXafiéXXou  irepaiouiuévoi^  tòv 


378  CA.l'O    XX  -  LA    CONQUISTA    d"iTALIA 

non  deposero  però  le  armi  ;  anzi  i  Boi  inviarono  Tanno  dopo  in 
Etrnria  nn  nuovo  esercito,  chiamando  alle  armi  persino  quelli  die 
avevano  raggiunto  appena  l'età  virile.  Ma  pur  questo  nuovo  eser- 
cito fu  vinto  dal  console  Q.  Emilio  Papo  (282):  onde  i  Boi,  stre- 
mati, si  rassegnarono  alla  pace,  che  Roma,  la  quale  non  aveva 
per  allora  alcuna  mira  di  conquista  nella  valle  padana,  accordò 
loro  ben  volentieri  (1).  Rimanevano  in  armi  gii  Etruschi,  ma  da 
soli,  doi^o  la  terribile  disfatta  che  era  loro  toccata  al  Vadimone. 
non  erano  tanto  pericolosi  che  i  Romani  non  potessero  rivolgersi 
contro  i  ribelli  del  mezzogiorno  verso  i  quali  s'erano  tenuti  sino 
allora  sulle  difese  (2). 

Il  racconto  della  triennale  guerra  gallica  è  nella  tradizione  più 
recente  trasformato  e  alterato  in  modo  appena  credibile.  La  guerra 
non  è  iniziata  dai  Senoni,  ma  dagli  Etruschi  e  dai  Sanniti,  cui 
si  congiungono  i  Senoni  nonostante  il  loro  trattato  con  Roma  (3). 
I  legati  romani  vanno  nel  paese  dei  Senoni  non  per  chiedere  il 
riscatto  dei  prigionieri,  ma  per  richiamarli  all'osservanza  del  trat- 
tato (4).  I  Senoni  vincono  non  un  console,  ma  un  pretore,  L.  Ce- 
cilie; e  sono  tosto  disfatti  e  soggiogati  dai  consoli  Cornelio  Do- 
labella  e  L.  Domizio  (283).  Ne  si  fermano  qui  le  alterazioni,  giacché 
in  una  versione  sembra  persino  esser  rimasta  al  tutto  obliterata 
la  sconfitta  di  L.  Cecilio  Metello  (5).  Ma  anche  sènza  queste  esa- 
gerazioni, era  notevole  assai  quel  ch'era  succeduto  ai  Romani  di 
ottenere. 


Ti'Pepiv  iTTiGeuévou  rote;  Tuppr)voT<;  ó  TroraiLiòt;  m'iuaTÓc;  re  koì  auu|uàTUJv  èirXripiLGri 
uji;  Toti;  Karà  tÌ]v  ttóAiv  'Piw|uaioi(;  ty\v  ò^jiv  toO  iroTaiuiou  ^eiGpou  ar|,uàvai  tò 
Tiépat;  rf\c,  |udxri;  frpìv  àcpiKéoeai  tòv  ayyeXov. 

(1)  PoLYB.  1.  e.  :  où  lai'iv  àWà  tlù  kctò  iróbat;  èviauTJj  aujucppov/iffavxe^  oi 
TTpoeiprmévoi  koì  toù;  ópxi  tiDv  vétuv  i^iPuùvTac;  KaGoirXiaavTe^  TrapexóitavTO  irpòc; 
'Pa))Liaiou(;.  ì^TTnOévxe^  ò'  ÓXoaxepùJc,  xr)  ^àxr]  j-ióXic,  etìcv  raXq  H)uxai<;  Kal  òiaupe- 
aPeuadfievoi  irepl  arrovòiùv  xaì  biaXùaeujv.  auvGrìKaq  èGevxo  -n-pòq  'Puj)uaiou(;.  Cfr. 
DiONYS.  XIX  13  :  Kóivxov  Aì|uiXiov  xòv  auvapSavxa  xCp  OaPpiKiuj  Kaì  xi'iv  ì^y^MO- 
viav  xoO  Tuppr|viKoO  TroXé|uou  oxóvxa. 

(2)  Sul  punto  d'iniziare  la  guerra  tarantina  (281)  vi  erano  alcuni  secondo 
DioNYs  XIX  6,  oi  TtapaivoOvxei;  pLr\Tcu)  xoOxov  àvaXajiPdveiv  xòv  iróXeiuov  é'uuq 
AeuKavoi  x'  à(peaxY\Kaa\  kkI  Bpéxxioi  koì  xujv  ZauvixuJv  ttoXù  koì  cpiXottóX€|liov 
lOvoq  Kal  Tupp»ivia,  irap'  av-vaìc,  oOaa  joic,  Gupai^,  ^xi  (ìxeipuJX0(;  fjv. 

(3)  App.  Samn.  6.  CelL  11.  Cfr.  i  passi  citati  sopra  p.  377  n.  2. 

(4)  Liv.  epit.  12.  Oros.  Ili  22  (Aug.  de  civ.  Dei  III  17,  2).  App.  Samn.  6. 
Celi.  11. 

(5)  App.  11.  ce. 


Xl'OVA    (iUKRRA    COI    SKXOXI  379 

Dopo  ciò  nel  282  il  console  C.  Fabricio  Luscino  sceso  con  due 
legioni  neir  Italia  meridionale  riportò  varie  vittorie  sui  Lucani, 
sui  Sanniti,  e  sui  Bruzi,  facendo  ricco  bottino  e  liberando  da  ogni 
pericolo  Tiu'i  (1).  In  quel  mezzo  i  Greci  di  Locri  e  di  Regio,  mi- 
nacciati dai  Bruzi  e  dai  Mamertini ,  chiesero  ed  ottennero  presidi 
romani  (2)  ;  ed  anche  Crotone ,  che  dopo  la  morte  di  Agatocle 
aveva  ricuperato  la  propria  indipendenza,  allora,  se  non  prima,  si 
alleò  con  Roma  (3).  La  riputazione  della  potenza  romana  si  dif- 
fondeva ormai  nel  Ionio  :  e  già  sulle  sijonde  delF Adriatico  i  Ro- 
mani avevano  da  tempo  alleati,  tra  cui,  importantissima,  Ancona. 
Onde  parve  al  governo  romano  che  il  credito  dello  Stato  e  il  ri- 
guardo ai  nuovi  e  vecchi  alleati  esigesse  che  l'armata  romana  non 
si  stimasse  più  esclusa  da  quei  mari.  E  perciò  una  squadra  ro- 
mana di  dieci  navi  da  guerra  passò  lo  stretto  e  lungo  le  coste 
italiane  si  avanzò  fin  entro  il  golfo  di  Taranto  (4).  I  decemviri 
navali  che  la  comandavano  erano  ben  lontani  dal  prevedere  sia  la 
sorte  che  li  aspettava,  sia  l'impero  che  Roma  in  un  avvenire  pros- 
simo a^^.'ebbe  a^nito  in  c|uei  mari. 


(1)  DioNTS.  XIX  16  (in  un  discorso  di  Fabricio  a  Pirro):  TToXXdKi<;  juèv  koI 
itpÓTepov,  iLiaXicTTo  b'  èirel  èirì  ZauviTat;  koI  AeuKcxvoùi;  xai  BpeTTiouq  arpaxiàv 
à'fwv  èaTà\r[v  TeTÓpTot  -rrpÓTepov  èviauTuJ  ti')v  uTraTOv  àpx^'iv  ix^"^  (dunque  nel 
282)  Kui  TToWi^v  laèv  x'Jf'Pav  èXen^^f  noa,  -noWaìc,  òè  |uaxoK  Toùq  àvTiTaHa|uévou<; 
èviKriaa,  iroXXàc;  òè  koì  eòòai|uova<;  iróXeic;  Karà  KpdTOi;  éXiùv  èEeTTÓp8rioa  Kal  t€- 
TpoKÓaia  TÓXavTa  luexà  tòv  9pia)uPov  eìi;  tò  TafiieTov  eianveTKa.  Val.  Max.  I  8,  6. 
Plin.  n.  h.  XXXIV  32:  iiclem  (Thurini)  posteci  Fahricium  donavere  statua  U- 
berccti  obsidione.  Cfr.  App.  Samn.  7,  1. 

(2)  11  presidio  di  Locri  è  ricordato  da  Iustin.  XVIII  1,  9.  Quello  di  Regio 
da  DiONYS.  XX  4.  App.  Samn.  9.  Polyb.  I  7,  6.  Diod.  XXII  1  Liv.  epit.  12.  È 
pili  verisimile  che  questi  presidi  vi  siano  stati  introdotti  nel  282  di  quello 
che  nel  momento  in  cui  venne  Pirro  in  Italia,  sebbene  le  frasi  delle  nostre 
fonti  in  generale  si  concilino  meglio  con  questa  seconda  possibilità.  V.  Beloch 
Gr.  G.  Ili  2  p.  404  segg. 

(3)  Infatti  nel  277  era  alleata  a  Pirro  dopo  essersi  inbellata  ai  Romani  : 
ZoN.  VIII  6. 

(4)  DiONYs.  XIX  4.  App.  Samn.  7.  Cass.  Dio  fr.  39,  5.  Zo.v.  Vili  2,  Oeos.  IV  1,  1. 


l||P'ik,j,l, ■Si,|,l.|||l-"Jl^li|||ll'''ilip|||»illl|li||lll||[MI'l!il»ip''-l»ilPI^!"'W^  ii|ii.,ii.iiii|l,H.i.i   Pini  i..|i.i„     ii||i 1.11,1,.    Il    III    ,,.    ,,..  ,,,,,._    ..    .11,,  .  .„ 1^^  ^. ,  ..I  ,.  ,iu' '    .V,»  t,. 


CAPO  XXL 
La  sottomissione  degli  Italioti  (1). 


I  Tarentini  avevano  visto  con  terrore  sorgere  i  Romani  a  tanta 
grandezza  e,  occupate  coi  loro  presidi  Tui'i,  Locri  e  Regio,  ri- 
dui'si  per  la  prima  volta  le  più  importanti  città  greche  del  Ionio 
in  potere  di  uno  Stato  indigeno.  E  doveva  ormai  apparir  chiaro 
a  chiunque  degli  Italioti  non  chiudesse  gli  occhi  alla  verità  che, 
se  si  volevano  rialzare  le  sorti  delFellenismo  nella  penisola,  non 
conveniva  j)iù  tardare  ad  iniziare  la  lotta  né  attendere  che  il 
predominio  romano  avesse  messo  trop]30  salde  radici.  In  questo 
mentre  la  squadra  delle  dieci    navi  da  guerra   romane    comparve 


(1)  La  storia  delle  guerre  di  Pirro  in  Italia  e  in  Sicilia,  oltre  che  negli 
ÙTrojuvrmaTa  regi,  la  cui  natura  peraltro  non  è  ben  chiara,  fu  narrata  in  greco 
almeno  da  tre  contemporanei,  leronimo  di  Cardia,  Prosseno  e  Timeo.  È  incerto 
se  ne  abbia  trattato  il  Samio  Duride,  a  cui  oggi  si  suole  fare  gran  parte  nella 
ricerca  delle  fonti  per  la  storia  di  Pirro.  Di  quegli  storici  del  resto  non  ab- 
biamo che  pochi  frammenti;  ma  ad  essi  si  deve  se  questa  guerra  ci  è  ben 
piìi  conosciuta  delle  guerre  sannifciche:  poiché  su  quegli  scritti  è  fondata  la 
narrazione  degli  annalisti  romani,  che  presero  a  trattarne  quasi  un  secolo 
dopo,  inserendovi,  con  poche  notizie  degne  di  fede  tolte  ai  fasti  trionfali  o 
alle  note  dei  pontefici,  molte  tradizioni  fallaci  e  falsificazioni  a  maggior 
gloria  di  Roma  o  delle  famiglie  romane.  Questa  tradizione  alterata  si  rispecchia 
nella  maggior  parte  delle  fonti  a  noi  pervenute,  ossia  non  solo  in  quelle  de- 
rivate da  Livio  {epit.  12-15.  Flor.  I  13.  Eutuop.  Il  11-14.  Oros.  IV  1-2  etc), 
ma  anche  nella  vita  di  Pirro  di  Plutarco,  la  fonte  nostra  piii  copiosa,  nei  frani- 


OSTILITÀ    TRA    HOMA    E    TARANTO  381 

nelle  acque  del  golfo  di  Taranto.  Una  tale  patente  violazione  del 
trattato  del  303  non  era  perx)etrata  dai  Romani  per  provocare  i 
Grreci  in  modo  inconsulto,  ma  era  la  conseguenza  necessaria  di 
tutti  i  fatti  clie  d'allora  in  poi  avevano  modificato  la  situazione 
generale  e  soprattutto  le  relazioni  reciproche  dei  contraenti  di 
quel  patto.  E  tuttavia  pei  Tarentini  quello  era  il  momento  critico 
in  cui  dovevano  decidere  se  rassegnarsi  alla  supremazia  romana 
nel  mar  Ionio  o  tentare  d'abbatterla  con  le  armi.  Il  profondo 
sdegno  che  la  violazione  del  trattato  e  il  comparire  delle  navi 
da  guerra  romane  in  acque  ove  da  tanti  secoli  dominava  la  ma- 
rina greca  suscitò  nell'animo  loro,  fece  prevalere  il  partito  della 
guerra.  Tosto  fu  messa  in  mare  una  squadra  che,  assalite  d'im- 
provviso le  navi  romane,  quattro  ne  colò  a  fondo  ed  una  ne  cat- 
turò, mentre  le  altre  si  salvarono  con  la  fuga.  La  tradizione  an- 
nalistica invece  narra  che  i  Tarentini  tra  le  baldorie  della  festa 
di  Dioniso,  alterati  dal  vino  ed  ingannati  dai  demagoghi,  immagi- 
narono a  torto  che  la  squadi'a  romana  mirasse  ad  impadronirssi  di 
Taranto:  da  ciò  un  subitaneo  assalto  del  popolaccio  alle  navi  an- 
corate nel  porto,  che  ne  furono  colte  alla  sprovvista  (1).  In  effetto 
quando  deliberarono  d'assalù-e  la  squadi'a  romana,  i  Tarentini 
presero  l'unico  partito  ragionevole  e  onorevole  che  per  loro  si  po- 
tesse in  quello  stato  di  cose  ;  e  se  i  Romani  fossero  colti  del  tutto 
alla  sprovvista  non  sappiamo  ;  ma  è  evidente  che  non  si  potevano 
affondare  navi  da  guerra  senza  battaglia  navale  (2)  e  che  il  com- 
battimento avvenne  al  largo ,  fuori  del  Mare  Piccolo,  dacché  la 
squadra  tarentina  non  riusci  a  chiudere  la  ritirata  a  tutte  le  navi 


menti  dei  libri  XIX  e  XX  di  Dionisio,  in  Appiano  {Samn.  7-12),  in  Cass.  Dione 
(fr.  39-40  e  presso  Zon.  Vili  2  6)  e  persino,  a  quel  che  pare,  in  Diodoro  (XXII). 
Non  mancano,  è  vero,  nella  maggior  parte  di  questi  scrittori  traccia  dell'uso 
diretto  di  fonti  greche  ;  ma  la  sostanza  del  loro  racconto  vi  risale  quasi 
sempre  solo  indirettamente  pel  tramite  degli  annalisti,  donde  ha  preso  il  co- 
lorito sempre  favorevole  a  Roma.  A  fonti  greche  attingeva  invece  diretta- 
mente Trogo,  del  cui  racconto  non  ci  è  pervenuto  che  un  misero  estratto 
presso  lusTiN.  XVIII-XXIII.  Di  scritti  moderni  son  da  citai-e  v.  Scala  Der  pyr- 
rhische  Krieg  (Berlin-Leipzig  1884).  Schubert  Geschichte  des  Pyrrhus  (Konigaberg 
1894).  NiESK  Ziir  Geschichte  des  pyrrhischen  Krieges  nel  '  Hermes  '  XXXI  (1896) 
p.  481  segg.  Beloch  Or.  Geschichte  III  2  p.  221  segg.  388  segg. 

(1)  DioNYS.  XIX.  4,  2.   Appian.  Samn.  7.    Cass.    Dio   fr.  39,    5.    Zon.   Vili    2. 
Oros.  IV  1,  1. 

(2)  Questo  punto  di  prima  evidenza   è    stato  messo    in    sodo  per  primo  dal 
Beloch  Gr.  G.  Ili  503  n.  2. 


382  CAPO    XXI    -    LA    SOTTOMISSIONE    DEOTJ    ITALIOTI 

nemiclie.  Del  resto  i  Tarentini  o  per  lo  meno  i  loro  uomini  poli- 
tici saijevano  benissimo  che  i  Romani  non  miravano  punto  allora 
ad  assalir  Taranto  (1),  sia  perchè  erano  troppo  iDrudenti  per  muo- 
verle guerra  mentre  erano  ancora  in  armi  contro  di  loro  gli  Etru- 
schi, i  Sanniti,  i  Lucani  ed  i  Bruzì,  sia  perchè  se  avessero  prepa- 
rato una  sorpresa,  vi  avrebbero  senza  dubbio  usato  forze  adeguate. 

Anche  dopo  quest'atto  di  ostilità  si  sarebbe  forse  potuto  schi- 
vare la  guerra,  poiché  i  Romani,  con  tanti  nemici  a  combattere, 
avevano  tutto  l'interesse  a  menar  le  cose  in  lungo  a  costo  di 
tardare  ancora  qnalche  anno  a  colorire  i  loro  disegni  sul  Ionio. 
Ma  il  partito  nazionale  tarentino  profittò  dell'eccitamento  popo- 
lare per  la  violazione  del  trattato  da  parte  dei  Romani  e  pel 
fàcile  trionfo  ottenuto,  a  fine  d'indurre  il  popolo  ad  un  atto  di 
ostilità  che  non  era  più  semplicemente  una  difesa  della  integrità 
della  convenzione,  ma  presupponeva  invece  che  questa  ormai 
fosse  nulla.  I  Tarentini  mossero  contro  Turi,  dove  certo  un  forte 
partito  doveva  veder  di  mal  occhio  la  presenza  del  presidio  ro- 
mano. Ciò  spiega  perchè  il  comandante  di  esso,  sentendosi  mal- 
sicuro, invece  d'attendere  i  soccorsi  di  Roma,  capitolò  a  patto  di 
aver  libera  uscita  col  suo  presidio.  Occni^ata  la  città,  i  Tarentini, 
d'accordo,  s'intende,  col  popolo  turino,  cacciarono  in  esilio  i  capi 
del  partito  aristocratico  che  era  favorevole  ai  Romani  (2). 

Ma  quanto  più  il  momento  sembrava  propizio  ai  G-reci.  per 
iniziare  la  lotta,  tanto  meno  appariva  tale  naturalmente  ai  Ro- 
mani; e  però  anche  ora  questi  tergiversarono  prima  d'  accettare 
la  sfida.  Certo  senza  una  qualche  soddisfazione  la  guerra  era  ine- 
vitabile; ma  le  richieste  dei  Romani  erano  modeste,  stando  essi 
contenti  alla  liberazione  dei  prigionieri  fatti  nella  battaglia  navale 
alla  reintegrazione  degli  esuli  in  Tm-ì  ed  alla  consegna  dei  colpe- 
voli dell'assalto  contro  questa  città  (3);  né  era  del  resto  inverisi- 
mile  che  a  qualcuna  delle  loro  domande  i  Romani  fossero  pronti 
a   rinunziare  nel  corso  dei  negoziati,  in  specie  all' ultima,  se  pure 


(1)  Come  hanno  asserito  a  torto  anche  alcuni  moderni.  L  nel  vero  per  questo 
rispetto    la    tradizione    romana.   App.  Samn.  7  :  KopvfiXioq  èBcàro  ti'iv  IV.eydXriv 

EXXóòa   cfr.  Cass.  Dio  1.  e. 

(2)  Appian.  loc.  cit. 

(3)  Queste  richieste  sono   enumerate  da  App.  1.  e.  :  toù<;  |nèv  aìxnaXujTouc 

ànoboOvai,  Goupiujv  b'  oO<;  èEépaXov  eie,  ■tì]v  uóXiv  KaraTaTeW,  d  te  biripndKeaav 
aÙToùc;  f\  Tr)v  Zr|l^«ov  tOùv  àiToXo|uévujv  ànoTioai,  aqpiai  ò'  dKÒoOvai  xoùc;  altiouq 
Tf\q  7Tapavo|a(a<;  el  'Piu|Lia(ujv  èGéXouaiv  elvai  qpiXoi. 


OSTILITÀ    T1{A    ROMA    E    TARANTO  88;i 

è  vero  clie  Tabbiano  messa  innanzi;  ad  ogni  modo  non  si  fece 
neppm'e  parola  di  i^residiare  novamente  Tiui  e  d'ottenere  libertà 
di  navigazione  nel  golfo  di  Taranto.  Questa  arrendevolezza  non 
era  da  spiegare  col  timore  che  ispirava  la  sola  Taranto,  ma  con 
la  cautela  che  i  Romani  rix^utavano  necessaria  per  non  ferire  il 
sentimento  dei  Greci  dTtalia  e  più  ancora  con  la  ovvia  previsione 
che  i  Tarentini  si  sarebbero  rivolti  per  aiuto  alla  madrepatria. 
Correva  il  282,  e  Seleuco  Nicatore,  che  aveva  vinto  a  Corupedio 
Lisimaco  (1),  si  preparava  a  penetrare  in  Em-opa  e  ad  incorporare 
la  maggior  parte  della  penisola  balcanica  nel  suo  impero,  che  ab- 
bracciava già  tutte  le  antiche  provincie  persiane,  tolto  l' Egitto. 
La  possibilità  che  egli  intervenisse  con  le  armi  o  anche  semplice- 
mente con  qualche  dimostrazione  a  favore  dei  Greci  d'Italia  non 
era  tale  da  lasciar  tranquilli  i  Romani,  giacché  Seleuco,  l'ultimo 
sujjerstite  dei  generali  di  Alessandro  Magno,  era,  o  jjareva  al- 
meno, non  molto  meno  potente  di  Alessandro  stesso.  Tanto  più  i 
Tarentini  dovevano  sentirsi  sicuri  ;  e  cosi  1'  ambasciatore  romano 
Postumio  non  solo  non  ottenne  alcuna  soddisfazione,  ma  fu 
anche  trattato  in  modo  ingiuiioso,  sia  pure  che  il  livore  degli 
annalisti  romani  verso  i  Tarentini  abbia  fatto  esagerare  l'insulto 
che  gli  toccò  di  soffrire  (2).  Dopo  ciò  essendo  ormai  impossibile 
astenersi  dalla  guerra,  fu  spedito  contro  i  Tarentini  ed  i.loro  al- 
leati il  console  Q.  Emilio  Barbula ,  che  riportò  alcuni  vantaggi 
sui  Sanniti,  sui  Sallentini  e  sui  Tarentini  stessi  (281)  (3).  E  i  Ta- 
rentini se  per  awentui'a  avevano  sperato  di  tener  testa  a  Roma 
con  l'aiuto  dei  loro  alleati  italici,  Sanniti,  Lucani,  Bruzì,  Messapì, 
con  ])arte  dei  quali  erano  in  lega  da  tempo,  con  jiarte  si  erano 
allora  affrettati  a  stringere  accordi,  dovettero  convincersi  del  loro 
errore  quando  dalle  mura  della  città  poterono  vedere  il  fumo 
sollevarsi  dalle  loro  campagne  messe  a  fuoco  da  Emilio.  Perciò  è 
nel  vero  la  ti-adizione  quando  ci  presenta  i  Greci  esitanti  a  con^ 
tinuare  la  guerra  (4)  :  tanto  più  che  i  Romani  si  mostravano  anche 
ora  proi)ensi  a  venire  ad  un  accordo.  L'esitare  dei  Tarentini  j^ro- 


(1)  Sulla  data  di  questa  battaglia  v.  sotto  p,  390  n.  2. 

(2)  L'insulto  è  menzionato  anche  da  Polyb.  I  6,  5;  ma  ciò  non  vuol  dire  che 
si  debbano  accogliere  i  particolari  dati  dagli  annalisti  romani  (Dionys.  XIX  5. 
Val.  Max.  II  2,  5.  App.  Samn.  7.  Cass.  Dio  fr.  39,  6.  Zon.  Vili  2). 

(3)  Egli  trionfò  1'  anno  seguente  come  proconsole  de  Tarentineis  Samnitibus 
ft  Sallentineis. 

(4)  App.  Samn.  1.  e.  Zon.  Vili  2.   Pr.irr.  Pfirrh.  18. 


38-4  CAPO    XXI    -    I.A    SOTTOMISSIONE    DEGLI    ITALIOTI 

cedeva  soprattutto  dalle  condizioni  mutate  dell'  Oriente  ellenico, 
dove,  sul  principio  del  281,  Seleuco,  passato  col  suo  esercito  in 
Europa,  era  stato  assassinato  da  Tolemeo  Cerauno,  che  si  fece 
subito  riconoscere  come  re  in  Tracia  ed  in  Macedonia.  Dopo  ciò 
il  Cerauno  si  era  trovato  a  fronte  nemici  formidabili,  come  An- 
tigono Gonata  figlio  di  Demetrio  Poliorcete,  clie  voleva  profittare 
dell'occasione  per  insignorirsi  del  trono  macedonico,  ed  Antioco 
Sotere^  figlio  di  Seleuco,  che,  padrone  dell'Asia,  non  voleva 
punto  rinunciare  al  retaggio  paterno.  In  tale  stato  di  cose  lo 
sfacelo  della  maggior  jDotenza  che  fosse  sorta  sulle  rovine  del- 
l'impero di  Alessandro  e  la  possibilità  che  tutti  i  più  ragguarde- 
voli Stati  del  mondo  greco  si  trovassero  implicati  in  una  terribile 
guerra  di  successione  doveva  ispirare  ai  Tarentini  il  timore  d'es- 
sere abbandonati  dai  connazionali  della  madrepatria  nel  momento 
in  cui  più  avevano  mestieri  del  loro  aiuto.  Fortunatamente  presto 
la  situazione  si  chiari  ;  perchè  Antioco  ed  Antigono  si  dimostra- 
rono impotenti  a  togliere  al  Cerauno  gli  Stati  di  cui  s'era  impa- 
dronito, e  Pirro  re  d'Epiro  che  aveva  conteso  senza  felice  successo 
la  Macedonia  a  Demetrio  Poliorcete  e  a  Lisimaco,  preoccupato 
di  quel  che  avveniva  nella  immediata  vicinanza  de'  suoi  Stati  al 
di  là  del  canale  d'Otranto,  sollecitato  dai  Tarentini  a  venire  in 
loro  soccorso,  preferì  di  lasciare  senza  contrasto  al  Cerauno  il 
dominio  di  quel  regno  e  di  cercare  in  Italia  gloria  ed  impero. 

Pirro,  figlio  di  Eacida,  re  d'Epiro,  aveva  raggimito  allora,  me- 
nando una  vita  assai  avventurosa,  quasi  quarant'anni  (1).  Suo 
padre,  deposto  dagli  Epiroti  nel  317/6,  era  poi  perito  in  un  ten- 
tativo di  ricuperare  la  patria  ed  il  regno  con  le  armi  in  mano. 
Pirro,  portato  al  trono  da  una  sollevazione,  in  età  di  undici  o  do- 
dici anni,  nel  307,  e  cacciatone  poco  dopo  da  un'altra,  cominciò  a 
segnalarsi  nel  suo  esilio  combattendo  valorosamente  accanto  a 
Demetrio  e  ad  Antigono  il  Vecchio  nella  giornata  d'Ipso  (301), 
che  decise  delle  sorti  dell'impero  d'Alessandro.  Poi  alla  morte  di 
Cassandi'o  di  Macedonia,  sbarcato  con  aiuti  tolemaici  in  Epiro  (298/7) 
si  fece  riconoscere  come  collega  di  Neottolemo  che  allora  vi  re- 
gnava e  che  apparteneva  ad  un  altro  ramo  della  casa  reale,  es- 
sendo figlio  del  re  Alessandro,  venuto  anni  prima  in  Italia;  presto 
però  il  nuovo  re  si  tolse  d'accanto  l' incomodo  compagno  assassi- 
nandolo e  si  fece  solo  signore.  Con  Pirro  l'Epiro  prese  parte  attiva 


(1)  Sulla  casa  reale  epirotica  e  le  prime  vicende  di  Pirro  v.  Beloch  Gr.  G. 
Ili  2,  99  segg. 


PIRRO    E    I    SUOI    ALLEATI  385 

alla  grande  j)olitica  della  penisola  balcanica,  non  più  come  sem- 
plice appendice  della  Macedonia,  ma  con  quella  indipendenza  cui 
gii  dava  diritto  la  sua  estensione  e  la  sua  popolazione  abbon- 
dante e  g-uemera.  E  ciò  diede  a  lui  occasione  d'ingrandire  il  regno 
a\'ito,  occupando  durevolmente  l'Illiria  meridionale,  la  Paravea  e 
la  Tinfea,  l'Atamania,  Ambracia,  l'Anfilocliia  e  Tisola  di  Corcira  ; 
sicché  il  regno  epirotico  aveva  ormai  un'area  di  circa  12  mila  km^ 
e  una  popolazione  clie,  densa  in  specie  nel  territorio  d'Ambracia 
e  di  Corcira,  ma  non  scarsa  neppure  nell'  Epiro  propriamente 
detto,  non  doveva  essere  di  molto  inferiore  ad  un  mezzo  milione 
d'abitanti.  Ad  un  i3rincipe  solerte  e  ardimentoso  come  era  Pirro, 
doveva  riuscire  accetto  l' invito  dei  Tarentini.  Se  non  lo  avesse 
accolto,  dato  die  i  Tarentini  non  riuscissero  a  procurarsi  1'  aiuto 
di  qualche  altro  ambizioso  e  potente  epigono,  come  Antigono 
Gonata,  la  sottomissione  di  Taranto  a  Roma  non  poteva  tardare. 
Prendendo  invece  in  Italia  le  difese  dell'ellenismo  con  l'aiuto  dei 
molti  popoli  che  erano  in  armi  contro  Roma,  Pirro  si  ripromet- 
teva non  solo  di  ristabilire  le  sorti  delFellenismo  nella  xjenisola, 
ma  fors'anche  di  fondare,  partendo  dall'Epiro,  un  impero  ellenico 
nell'Occidente. 

Il  territorio  degli  alleati  di  Pùto  nell'Italia  meridionale,  i  San- 
niti, i  Lucani,  i  Bruzì  ed  i  Messapi,  con  le  città  greche  di  Taranto, 
Metapontio,  Eraclea  e  Tm-ì,  non  era  molto  inferiore  ai  50  mila  km*; 
e  la  popolazione  v'era  abbastanza  densa,  per  modo  che,  compresi 
gli  stranieri  e  gli  schiavi  che  certo  abbondavano  a  Taranto  e  nelle 
regioni  più  pervase  dall'influenza  della  civiltà  greca,  non  sarà 
stata  di  molto  inferiore  ad  un  milione  di  abitanti  (1).    Per  popo- 


(1)  Secondo  Fabio  presso  Polyb.  II  24  (cfr.  Beloch  Bevolkerung  I  p.  356  segg.), 
le  forze  di  cui  disponevano  i  Sanniti  nel  225  erano  di  70  mila  fanti  e  7  mila 
cavalli,  i  Lucani  di  13  mila  fanti  e  3  mila  cavalli,  gli  Iapigi  e  Messapi  di  50 
mila  fanti  e  16  mila  cavalli  (l'ultima  cifra  è  da  correggere  in  6  mila).  Calco- 
lando all'ingi-osso  che  le  forze  dei  Bruzì  non  ricordati  in  quella  lista  siano 
state  eguali  a  quelle  dei  Lucani  e  che  tra  gli  Iapigi  e  i  Messapi  la  metà  circa 
fossei'O  i  Danni,  ne  ricaveremmo  che  le  truppe  clic  potevano  mettere  in  campo 
gli  alleati  italici  di  Pirro  salivano  allora  a  121  mila  fanti  e  16  mila  cavalli. 
Tenuto  conto  delle  perdite  di  territorio  da  essi  sofferte  per  effetto  di  quella 
guerra,  dato  che  la  popolazione  non  avesse  variato  sensibilmente  in  quel  mezzo 
secolo,  potremmo  computare  le  loro  forze  intorno  al  280  ad  un  150  mila  uo- 
mini almeno.  Ma  i  dati  di  Polibio  si  riferiscono  all'esercito  attivo  ;  compren- 
dendovi le  riserve  (calcolate  alla  metà  dell'esercito  attivo),  giungiamo  a  225 
mila  uomini.  Sommandovi   l'esercito  attivo  e  le  riserve  dei  Greci  d'Italia   al- 

G.  De  Sanctis,  Storia  dei  Romani,  II.  25 


386  CAPO  XXI  -  LA  sottOxMISsionp:  degli  italioti 

lazione  il  territorio  dominato  direttamente  da  Roma  era  a  un  di- 
presso eguale  a  quello  degli  alleati  tarentini,  benché  non  fosse 
esteso  neppure  la  metà,  ossia,  compreso  l'agro  gallico  di  recente 
acquistato^  un  22  mila  km-.  Però  si  aggiungevano  gli  Stati  alleati 
che,  prescindendo  dagli  Etruschi  e  Lucani  ribelli ,  ma  compren- 
dendovi parte  dei  Grreci  d'Italia,  abbracciavano  28.500  km'^  di  su- 
perficie, con  almeno  un  altro  mezzo  milione  di  abitanti.  Cosi  se 
gli  alleati  di  PiiTO  erano  abbandonati  alle  sole  loro  forze,  il  van- 
taggio restava  indubitatamente  allo  Stato  romano  più  esteso  e 
più  popolato,  anche  senza  tener  conto  della  superiorità  de'  suoi 
ordinamenti  politici  e  militari.  Ma  questo  vantaggio  era  messo  in 
forse  dall'alleanza  con  Pirro.  Tra  Roma  coi  suoi  alleati  da  una 
parte,  e  Pirro  coi  Tarentini  e  i  loro  alleati  dall'altra,  non  vi  era 
molta  disparità  di  forze.  Infatti  gli  abitanti  dei  territori  di  cia- 
scuna delle  due  leghe  sommavano  a  chea  un  mihone  e  mezzo  di 
uomini:  e  tra  questi  tanto  i  Romani  e  i  loro  alleati,  quanto  gli 
Epiro  ti  e  i  loro  confederati  ^  italici  erano  agguerriti  e  dotati  di 
buoni  ordinamenti  militari.  E  vero  che  fra  altri  alleati  di  Pirro, 
cosi  presso  i  Grreci  d'Italia,  gli  Ambracioti  e  i  Corchesi,  lo  spirito 
guerresco  doveva  essere  alquanto  in  decadenza,  come  in  generale 
tra  i  più  inciviliti  dei  Greci  nel  sec.  IV  e  più  nel  III.  Ma  questo 
inconveniente  era  largamente  compensato  dai  maggiori  cespiti  di 
entrata  di  cui  disponeva  sia  la  repubblica  tarentina,  sia  uno  Stato 
ordinato  sul  tipo  delle  grandi  monarchie  ellenistiche  com'era  allora 
l'Epiro:  entrate  che  permettevano  di  armare  truppe  mercenarie  e 
di  sopperh'e  assai  meglio  che  non  si  potesse  in  Roma  alle  spese 
della  guerra.  Senonchè  v'  erano  due  altri  inconvenienti  i  quali  a 
Pirro  non  potevano  sfuggire  :  prima  di  tutto  la  lega  tra  i  Sanniti, 
i  Messapì,  i  Bruzì,  i  Lucani,  i  Gfreci  d'Italia  e  gli  Epiroti  era  una 
lega  tra  popoli  diversi  di  nazionalità  e  d'incivilimento,  che  ave- 
vano mediocri  simpatie  gli  uni  per  gli  altri  e  di  cui  ciascuno  mi- 
rava principalmente  ad  assicurarsi  la  propria  indipendenza  ;  poi 
Pirro   non    poteva   disporre  di  tutte  le  forze    del    regno    d'Epiro, 


leati  con  Pirro  ci  accostiamo  a  250  mila  uomini.  Secondo  Plutarco  Pyrrh.  13 
invitando  Pirro  gli  si  disse  che  le  forze  di  cui  disponevano  gli  alleati  erano 
di  20  mila  cavalli  e  350  mila  fanti.  La  cifra  dei  fanti  va  corretta  in  250  mila, 
come  suggerisce  anche  la  proporzione  coi  cavalli  (si  badi  che  FApulia  era 
famosa  pei  suoi  cavalli,  Varr.  de  re  r.  II  7,  1.  6).  La  popolazione  cittadina 
totale  dei  paesi  alleati  a  Pirro  in  Italia  doveva  essere  di  750-800  mila 
abitanti. 


Pipaio   E    T    SUOI    ALLEATI  887 

poiché,  a  prescindere  dai  pericolosi  vicini,  fin  nel  territorio  stesso 
deir antico  Ex)iro  aveva  certamente  nemici  die  anelavano  di  farg^li 
toccare  la  sorte  del  padre  Eacida,  e  inoltre  gran  parte  del  terri- 
torio epirotico  era  costituito  da  regioni  di  recente  sottomesse,  la 
cui  fedeltà  era  malsicura.  Questi  erano  gravi  elementi  d'inferio- 
rità per  Pirro  e  pei  suoi  alleati  a  fronte  di  Roma,  uè  Pirro  })o- 
teva  ignorarli  :  ma  egli  i)resumeva  di  compensarli  con  le  doti 
straordinarie  die  aveva  coscienza  di  possedere  come  generale,  coi 
sussidi  die  gli  forniva  la  tecnica  militare  progredita,  da  lui  stu- 
diata alla  scuola  dei  generali  d'Alessandro,  e  con  gli  aiuti  dei  re 
ellenistici  suoi  amici,  tra  i  quali  Tolemeo  Cerauno,  che  aveva  ben 
ragione  di  comperare  a  caro  prezzo  la  sua  amicizia,  gli  diede 
cinquemila  uomini  e  un  certo  numero  di  cavalli  e  d'elefanti  (1). 

Queste  speranze  di  Pirro  non  erano  infondate,  tanto  è  vero, 
che  egli  riusci  a  vincere  ripetutamente  in  campo  i  Romani.  Ma 
mezzi  sufficienti  per  continuare  lentamente  la  lotta  assediando  e 
conquistando  ad  una  ad  una  le  città  dello  Stato  romano  non  ne 
aveva.  Poteva  quindi  solo  sperare  nel  disgregarsi  della  federa- 
zione stretta  intorno  a  Roma  per  l'effetto  morale  delle  sue  vit- 
torie. Pirro  si  persuadeva  certamente  che  lo  Stato  romano  fosse 
all'immagine  degli  Stati  greci  e  che  un  paio  di  ^'ittorie  avrebbe 
indotto  gli  alleati  di  Roma  a  distaccarsi  da  lei  per  accoglierlo 
come  liberatore  ;  al  modo  stesso  che  gli  alleati,  p.  e.,  della  Mace- 
donia o  anche  dell'Epiro  in  Grrecia  non  aspettavano  che  la  prima 
occasione  favorevole  per  ricuperare  la  loro  indipendenza.  Ora  ab- 
biamo veduto  come  non  sapienza  politica,  ma  la  forza  delle  cose 
e  le  esigenze  della  disperata  lotta  per  l'esistenza  avessero  indotto 
i  Romani  a  unir  saldamente  insieme  sia  i  comuni  dello  Stato  loro 
propriamente  detto,  sia  la  federazione  che  gli  si  stringeva  attorno, 
e  quindi  ardua  impresa  era  quella  di  staccare  da  Roma  municipi, 
colonie  o  città  alleate.  Clù  giudica  perciò  dal  successo  non  man- 
cherà di  notare  Pirro  d'insipienza  politica;  giacché  se  egli  pre- 
vedeva che  avi-ebbe  lasciato  sul  campo  di  battaglia  tanta  gio- 
ventù epirotica  senza  pervenire  a  disgregar  la  compagine  dello 
Stato  romano  e  però  senza  mutare    d'una  linea  le  sorti    dell'elle- 


(1)  lusTiN.  XVII  2,  14,  cfr.  XXXVIII  4,  5,  parla  di  5000  fanti,  4000  cavalli 
e  50  elefanti.  Il  numero  dei  cavalli  è  certamente  errato,  perchè  è  sproporzio- 
nato con  quello  dei  fanti  e  perchè,  a  quanto  dice  Plut.  Pi/rrh.  15,  Pirro  ne 
aveva  in  tutto  tremila  quando  passò  in  Italia:  onde  dobbiamo  credere  che 
debba  leggersi  presso  Giustino  400  on valli. 


388  CAPO   XXI    -    LA    SOTTOMISSIONE    DEGLI    ITALIOTI 

nismo  in  Italia,  non  a^a^ebbe  commesso  la  follia  d'intervenire.  (Hi 
è  che  questa  previsione  Pirro  non  i)oteva  fare  in  alcun  modo. 
Perocché  ostilità  tra  Romani  e  Greci  ancora  non  vVrano  stato, 
se  si  tolga  r  assedio  di  Napoli  e  la  breve  lotta  con  Taranto  fra 
la  seconda  e  la  terza  guerra  sannitica,  in  cui  i  Romani  s'erano 
guardati  dairimpegnar  troppo  le  loro  forze.  Quindi  i  Grreci  non 
potevano  far  giudizio  esatto  dello  Stato  romano:  anzi  doveva  dar 
loro  motivo  a  bene  sperare  il  pensiero  che  mentre  Roma  aveva  da 
mezzo  secolo  tenuto  testa  con  difficoltà  ai  Sanniti,  ora  si  con- 
giungevano contro  di  lei  ai  Sanniti  i  Greci  d'Italia  e  gli  Epiroti, 
a  tacere  degli  Etruschi  non  sottomessi  e  dei  Galli  che  potevano 
da  un  momento  all'altro  rinnovare  i  loro  assalti. 

I  negoziati  fra  Pirro  e  i  Tarentini  fm*ono  abbastanza  laboriosi  : 
giacché  i  Tarentini  erano  i^ronti  a  far  sacrifizi  finanziari  per  la 
guerra,  ma  non  a  sottomettersi  ad  una  monarchia  assoluta,  anzi 
al  confronto  probàbilmente  non  pochi  di  essi  avrebbero  j)ref erito 
l'alleanza  romana  che,  in  specie  allora,  rinunciando  ad  ima  poli- 
tica estera  autonoma  e  promettendo  d'aiutare  in  certa  misui-a  i 
Romani  con  la  marina  da  guerra,  x^otevano  avere  ad  ottime  con- 
dizioni. D'altra  parte  Pirro  aveva  ogni  ragione  di  pretendere  gua- 
rentie  perchè  non  gli  succedesse  quel  ch'era  toccato  al  suo  pre- 
decessore Alessandro,  di  essere  cioè  tradito  dagli  alleati  nel  mezzo 
della  sua  impresa  ;  e  cosi  esigeva  il  diritto  di  presidiare  la  città 
e  di  avere  in  Taranto  pieni  poteri  durante  la  guerra  e  inoltre  i] 
supremo  comando  di  tutte  le  forze  alleate.  In  cambio  i  Tarentini 
chiedevano  che  Pirro  si  obbligasse  a  non  trattenersi  in  Italia  se 
non  per  la  durata  della  guerra,  che  prevedevano  breve  (1)  :  essi 
contavano  che  sarebbe  terminata  con  un  paio  di  campagne,  o 
PÙTO  stesso  si  era  imjDegnato  a  restituire  dopo  due  anni  gli  ausi- 
liari macedoni  a  Tolemeo  Ceramio.  Tuttavia  le  guarentie  chieste 
da  Pirro  e  quelle  che  poi  si  prese  da  sé,  tenendo  come  ostaggio  al 
suo  fianco,  sotto  colore  d'usar  loro  riguardo,  alcuni  dei  più  riputati 
fra  i  Tarentini  inviatigli  e  mandandone  poi  altri  con  vari  pre- 
testi in  Eph'o  (2),  erano  guarentie  che  avevano  un  valore  effettivo  ; 
poco  o  punto  ne  aveva  invece  la  promessa  di  Pirro  di  sgomberare 
l'Italia  dopo  vinti  i  Romani.  Né  i  Tarentini  erano  forse  tanto  in- 


(1)  Si  capisce  che  questa  clausola  fu  stipulata  nell'interesso  dei  Tarentini  e 
non  proposta  da  Pirro  nell'interesse  proprio  come  vorrebbe  far  credere  Zonar. 
Vili  2.  Della  cosa  giudica  rettamente  Schdbert  Pyrrhiis  p.  163. 

(2)  Zonar.  loc.  cit. 


SBARCO   DEGLI   EPIROTI  389 


genui  da  credere  che  Pirro,  se  impiegando  tutta  la  sua  energia  e  le 
forze  del  suo  regno  riusciva  \T.ttorioso,  avrebbe  jdoì  lasciato  go- 
dere ad  altri  il  frutto  delle  sue  vittorie.  Ma  i  patriotti  tarentini 
avranno  pensato  bene  a  ragione  clie  valeva  meglio  servire  un 
padi'one  greco  di  quello  che  essere  alleati  dipendenti  di  uno  stra- 
niero. Tutti  poi  potevano  contare  su  ciò  che  l'Epiro  era  piccolo  e 
distante  e  che  gli  alleati  italici  di  Pirro  sarebbero  stati  pronti  a 
sostenere  Taranto  contro  di  lui  quando  non  avessero  avuto  più 
bisogno  de'  suoi  aiuti.  Ma  le  sorti  della  guerra  dis^Densarono  tanto 
Krro  quanto  i  Tarentini  dal  provvedere  a  tali  eventualità. 

Concluso  il  trattato,  Pirro  volle  agire  prontamente;  e  ne  aveva 
ben  ragione,  mentre  le  condizioni  incerte  della  Grrecia  e  le  deva- 
stazioni di  Emilio  Barbula  avevano  fatto  si  che  fosse  nominato  a 
Taranto  stratego  con-  pieni  poteri  un  tale  Agide,  che  ci  viene 
rappresentato  come  partigiano  dei  Romani  e  che,  se  non  altro, 
ijarà  stato  partigiano  della  pace  con  Roma  (1).  Il  re  inviò  tosto 
in  Italia  Cinea  con  un  piccolo  corpo  di  truppe  (2)  ;  e  allora  i  pa- 
triotti tarentmi,  assicurati  del  soccorso  d'Ex)iro,  spalleggiati  certo  e 
forse  istigati  clagh  ufficiali  epiroti,  deposero  Agide  e  gli  sostitui- 
rono uno  degli  ambasciatori  tornati  dalla  Grecia.  Sopraggimise  poi 
con  altre  forze  epirotiche  un  ufficiale  di  nome  Milone,  che  occupò 
la  rocca  di  Taranto  a  nome  di  Phro ,  e  conforme  agh'  accordi 
assimse  la  guardia  delle  mura  (3).  Tutto  ciò  rese  più  audaci  i  Ta- 
rentini e  permise  loro  di  disporre  di  milizie  più  numerose  per  af- 
frontare i  Romani.  Si  appressava  frattanto  l'inverno  281/0,  e  sia 
per  la  stagione  inoltrata,  sia  per  non  essere  pari  in  forze  al  ne- 
mico cresciuto  di  numero  e  di  baldanza,  il  console  stimò  bene 
di  ritirarsi.  Allontanandosi  da  Taranto  per  la  strada  costiera,  col 
Ijroposito  di  ritornare  verso  l'interno  della  Lucania  nella  dii'eziono 
della  via  Popillia,  Emilio  ebbe  a  correre  un  grave  pericolo,  in  un 
punto  presso  il  mare,  dove  le  sue  truppe  furono  bersagliate  dalle 
navi  da  guerra  dei  Greci  con  le  loro  armi  da  getto,  mentre  pro- 
Inabilmente  gl'indigeni  occupavano  le  alture  sovrastanti  alla  via  (4). 
Nondimeno  egli  riusci  a   disimpegnare  il   suo   esercito  ;   e  svernò 


(1)  ZoNAR.    loc.    Cit. 

(2)  Plut.  Pijrrh.  15.  Zonar.  1.  e.  Non  v'e  rapfione  per  respingere  questa  no- 
tizia con  lo   SCHUBERT   p.    165. 

(3)  Zonar.  loc.  cit. 

(4)  Frontin.  I  4,  1.  Zonar.  1.  e.  Zonara  pone    il  fatto  presso  l'Apulia,  Fron- 
tino in  Lucania.  Le  ragioni  geografiche  stanno  dalla  parte  di  Frontino. 


390  CAPO   XXI    -    LA    SOTTOMISSIONE    DEOLI   ITALIOTI 

poi  a  non  troppa  distanza  dal  territorio  nemico,  di  che  è  prova 
Tesser  egli  tornato  solo  più  tardi  in  Roma,  dove  trionfò  Tanno 
seguente  come  proconsole  nella  prima  metà  di  luglio  (1). 
•  Intanto  Pirro  affrettava  i  suoi  apparecclii;  e  poi,  regolate  per 
una  lunga  assenza  le  cose  di  Epii'o  lasciandovi  come  reggente 
il  figlio  quindicenne  Tolemeo,  appena  col  cedere  dell'inverno  co- 
minciò a  riaprirsi  la  navigazione  tra  l'Italia  e  la  Grecia  ,  senza 
neppm-e  attendere  la  buona  stagione,  salpò  coi  due  figli  più  gio- 
vani Alessandro  ed  Eleno.  Fu  sorpreso  da  una  tempesta  che  la  tra- 
dizione descrive  non  senza  abbellimenti  retorici,  ma  che  impedì  ad 
ogni  modo  alle  navi  epirotiche  di  seguir  tutte  la  stessa  rotta  e  fece 
si  che  PiiTO  con  un  piccolo  corpo  di  truppe  soltanto  sbarcasse  sulle 
coste  orientali  della  Calabria.  In  breve  però,  nelTaiìrile  280  (2'.  !<• 


(1)  V.  sopra  p.  383  n.  3. 

(2)  Secondo  Poltb.  II  20,  6  i  Romani  fecero  pace  coi  Boi  tlù  xpirty  irpórepov 
eT€i  Tfì<;  TTvjppou  biapdaeiwq  el<;  IxaXiav,  tréiuTrTiu  bè  rfic;  faXarOùv  -nepi  A6Xqpoù(; 
biaq)0opà<;.  Ora  la  rotta  dei  Galli  accadde  nella  ol.  125,2  =  279/8  secondo  Pausan. 
X  23,  14.  Quindi  Pirro  passò  in  Italia  nel  281/0.  Si  accorda  con  ciò  un  altro 
passo  di  PoLYB.  II  41,  11,  in  cui  è  detto  che  Pirro  venne  in  Italia  nella  ol.  124 
(284,'3-281/0).  Del  momento  preciso  ci  dà  notizia  Cass.  Dio  fr.  40,  4:  oùòè  tò 
?ap  l!U€ive  (cfr.  Zonar.  Vili  2):  ne  v'ha  motivo  di  mettere  in  dubbio  la  fretta 
del  re,  perchè  aveva  ogni  ragione  di  far  presto.  Plutarco,  è  vero,  dice  che  la 
sua  armata  fu  dispersa  popéct  àvé,ULU  uap'  djpav  èKpayévTi  {Pyrrh.  lo);  ma  in 
realtà  non  c'è  contraddizione  sol  che  l'uno  e  l'altro  passo  s'intenda  cum  grano 
salis;  e  dovremo  ricavarne  che  Pirro  si  mosse  in  marzo  od  aprile.  Rimane  a 
spiegare  il  passo  di  Polyb.  I  6,  5,  dove  è  detto  che  i  Tarentini  chiamarono 
(èTteaTTCtaavTo)  Pirro  tlù  TrpÓTepov  irei  Tf\c,  tuùv  TaXaTUJv  èqpóbou  tóiv  Te  -rrepi 
AeXqpoùc;  qpBapévTuuv  koì  -n-epaiujS^vTuuv  eìq  ti'iv  'Aoiav.  Qui  evidentemente  si  ac- 
cenna al  momento  in  cui  comparvero  i  Galli  in  territorio  greco.  Ora  le  fonti 
distinguono  appunto  la  invasione  dei  barbari  in  cui  perì  Tolemeo  Cerauno  e 
l'altra  in  cui  i  Galli  giunsero  fin  presso  Delfi.  La  prima  dunque  si  colloca 
assai  bene  nel  280  ;  e  così  va  ritenuto  che  la  fonte  cronologica  di  Polibio  at- 
tribuisca alla  òl.  124,4  =  281/0  la  chiamata  di  Pirro  e  il  suo  sbarco  in  Italia, 
alla  ol.  125,1  =  280/79  l'invasione  dei  Galli  in  Macedonia.  Ciò  si  accorda  pie- 
namente con  altri  dati,  a  cominciare  da  quelli  forniti  da  Polibio  stesso  li  41,  1  : 

òXunTTiòq  )ièv  i'jv  reTÓpTri  ftpòc;  xaiq  éKaxóv,  Kaipoi  òè  Ka0'  oO<;  TTToXgfiaìoq  ó 

Aóyou  Kaì  Auai.uaxoq,  è'xi  bè  ZéXeuKoi;  Kaì  TTroXeiiiaioc;  ó  Kepauvòc;  lueTiiXXaEav 
TÒv  Piov  •  TTÓvrec,  yòp  oCroi  irepì  ti^v  irpoeipriiuévriv  òXu|UTridòa  tò  Zf\v  iiéXmov. 
S'intende  che  il  Ttcpì  ci  lascia  qualche  mese  di  larghezza,  e  che  nulla  impe- 
disce di  collocare  la  morte  del  Cerauno  ad  estate  inoltrata  del  280.  Invece  chi 
col  Beloch  colloca  la  morte  del  Cerauno  nel  279  si  mette  in  piena  contrad- 
dizione con  Polibio.  Del  resto  Tolemeo  Cerauno  regnò  1  anno  e  5  mesi  se- 
condo Porfirio  presso  Eusebio  (I  235).  Ammettendo  che  sia  morto  intorno  al- 


SBARCO    DEGLI    EPIROTI  391 


milizie  epii'oticlie  si  concentrarono  a  Taranto  in  numero  di  forse 


l'agosto  0  settembre  279,  conviene  collocare  il  principio  del  suo  regno  nel 
marzo  od  aprile  del  281,  e  la  vittoria  di  Corupedio,  che  accadde  sette  mesi 
prima  (Iustin.  XVII  2,  4).  nell'agosto  o  settembre  282.  Questa  data  non  va 
incontro  ad  alcuna  obbiezione  grave  ;  perchè  non  son  davvero  tali  quelle  che 
si  traggono  (Beloch  III  2,  68)  dalle  cifre  formicolanti  d'erróri  della  lista  degli 
Asianorum  et  Syroriim  reges  di  Eusebio.  —  Veniamo  ora  al  raffronto  della  cro- 
nologia greca  con  la  romana.  Le  fonti  sono  d'accordo  nel  tenere  P.  Valerio 
Levino  pel  console  che  primo  si  trovò  a  fronte  di  Pirro.  Ogni  dubbio  in  tal 
proposito  deve  essere  respinto  da  una  critica  temperata,  e  non  è  certo  da 
sottoscrivere  alle  considerazioni  del  Beloch  1.  e.  Nulla  di  strano  vi  sarebbe 
anzi  tutto  che  le  fonti  greche  avessero  dato  il  suo  nome.  Se  menzionavano  i 
regoli  gallici,  a  maggior  ragione  potevano  ricordare  un  duce  romano.  È  anzi 
assai  difficile  che  Pirro  tacesse  questo  particolare  nelle  sue  memorie,  come 
Cesare  non  tace  nei  suoi  commentari  i  nomi  dei  comandanti  gallici  con  cui 
ebbe  a  combattere.  Del  resto  memoria  della  cosa  doveva  conservarsi  anche 
in  Roma,  non  certo  nei  fasti  trionfali,  ma  nelle  note  dei  pontefici  ;  e  se  tutte 
le  fonti  son  d'accordo  nell'attribuire  a  P.  Valerio  una  sconfitta  che  non  era 
gloriosa  ne  per  Roma  ne  per  la  gente  Valeria,  dobbiamo  ritenere  che  la  no- 
tizia si  basi  sopra  un  fondamento  vero  di  tradizione.  Inoltre  la  cronologia 
dei  fasti  ci  conduce  pel  consolato  di  P.  Valerio  e  del  suo  collega  Ti.  Corun- 
canio  precisamente  a  quell'anno  280,  a  cui  per  lo  sbarco  di  Pirro  in  Italia  ci 
riportano  in  modo  affatto  indipendente  le  fonti  greche.  Per  precisare  -maggior- 
mente conviene  ricercare  il  giorno  iniziale  dell'anno  consolare  in  quel  tempo. 
Si  è  osservato  che  tutti  i  trionfi  consolari  del  periodo  tra  il  293  e  il  223  ca- 
dono fra  il  13  decembre  e  il  13  aprile.  Ne  scende  che  questi  erano  gli  ultimi 
mesi  dell'anno  consolare  e  che  in  questo  periodo,  che  comprende  la  guerra  di 
Pirro  e  la  prima  punica,  il  primo  giorno  dell'a.  consolare  cadeva  il  V  maggio. 
Vi  ha  una  sola  difficoltà  appunto  pel  280.  Per  questo  anno  nei  fasti  trionfali 
è  riferito  prima  il  trionfo  del  console  Ti.  Coruncanio  sui  Volsiniensi  al  1°  feb- 
braio e  poi  al  10  luglio  quello  del  proconsole  L.  Emilio  Barbula  sui  Tarentini 
e  i  loro  alleati.  Ora  se  Barbula  trionfò  come  proconsole  il  10  luglio  dopo  che 
il  console  aveva  già  trionfato  a  febbraio,  pare  a  prima  vista  da  indurne  che 
il  primo  giorno  dell'anno  consolare  non  fosse  compreso  tra  febbraio  e  luglio, 
ma  tra  luglio  e  febbraio,  ossia  non  potesse  essere  il  primo  maggio.  Ma  la  dif- 
ficoltà si  elimina  ammettendo  (v.  Holzapfel  Rom.  Chronologie  p.  103)  che  il 
redattore  dei  fasti  abbia  fatto  una  trasposizione  registrando  i  due  trionfi  se- 
condo l'ordine  che  avevano  al  suo  tempo  i  mesi  dell'anno  consolare.  Più  gl'ave 
è  la  questione  del  rapporto  tra  il  1°  maggio  del  280  e  il  1°  maggio  giuliano. 
Al  tempo  della  prima  punica  (come  cercherò  di  provare  a  suo  luogo,  espo- 
nendo le  ragioni  per  cui  è  da  respingere  interamente  la  cronologia  di  quella 
guerra  quale  è  data  da  P.  Varese  negli  '  Studi  di  storia  antica  '  del  Beloch 
fase.  Ili  e  dal  Beloch  stesso  nella  Gr.  O.  Ili  2  p.  232  segg.)  il  calendario  ro- 


392  CAPO   XXI    -    LA    SOTTOMISSIONE    DECtLI    ITALIOTI 

trentamila  uomini  con  venti  elefanti  (1).  Pìito  si  occupò  tosto  di 
far  leve  nella  città  e  di  acquartierarvi  i  suoi  soldati.  Che  ciò  non 
si  potesse  senza  dar  qualche  disturbo  ai  Tarentini  s'intende  da  se  ; 
e  s'intende  pure  che  non  mancassero  malcontenti  ;  ma  il  re  aveva 
la  forza  in  mano;  e  i  malcontenti  fui'ono  costretti  con  mezzi  più 
o  meno  legali  a  tacere  (2). 

Anche  i  Romani  si  prepararono  alla  guerra.  Le  forze  però  che 
potevano  impegnare  contro  Puto  non  erano  pel  momento  troppo 
considerevoli,  sia  perchè  grossi  iDresidi  erano  distaccati  a  Regio  ed 
a  Locri,  sia  perchè  conveniva  anzi  tutto  terminare ,  e  presto ,  la 
guerra  etrusca  per  evitare  che  gii  Etruschi  potessero  unn-si  a  Puto. 
Perciò  fu  inviato  in  Etruiia  col  suo  esercito  consolare  di  due  legioni 
Ti.  Coruncanio,  e  così  l'altro  console  P.  Valerio  Levino  non  xjotè 
muovere  contro  Pirro  che  col  consueto  esercito  di  due  legioni,  ossia, 
poiché  è  da  ritenere  che  le  legioni  avessero  gli  interi  effetti  vi,,  con 
ventimila  uomini.  I  Romani  volevano  evidentemente  affrontare 
Puto  prima  che  avesse  terminato  i  suoi  preparativi  e  prima  che 
gli  Italici  si  fossero  congiunti  con  lui,  per  atterrire  i  suoi  alleati 
mostrando  che  non  lo  temevano.  E  l'aver  preso  l'offensiva  con 
solo  un  ventimila  uomini  mostra   che,   usi   a  vincere,   non   si  fa- 


mano  corrispondeva  al  giuliano  o  anticipava  di  pochissimo.  Lo  stesso  era  pro- 
babilmente al  tempo  di  Pirro.  Computi  precisi  non  è  dato  di  farne.  Ne  ha 
tentato  il  Beloch  movendo  dalla  supposizione  che  non  molto  prima,  durante 
l'edilità  di  Cn.  Flavio  e  per  opera  sua,  sia  stato  riformato  il  calendario  :  sup- 
posizione che  è  senza  dubbio  da  respingere,  v.  e.  XXIV. 

(1)  FhVT.Pyrrh.  15  parla  di  20.000  fanti,  2000  arcieri,  3000  cavalieri,  500 
frombolieri  e  20  elefanti.  Aggiungendovi  i  3000  uomini  passati  con  Cinea  e 
quelli  condotti  da  Milone  si  viene  a  circa  30  mila  uomini.  Non  bisogna  però 
dimenticare  che  di  questi  una  buona  parte  doveva  costituire  il  presidio  per- 
manente di .  Taranto,  di  guisa  che  sul  campo  di  battaglia  Pirro  non  avrà  mai 
potuto  dispoi-re  di  oltre  20.000  Epiroti.  Quanto  agli  elefanti,  secondo  Padsan. 
I  12,  3  erano  stati  presi  a  Demetrio  Poliorcete,  secondo  Iustin.  XVII  2,  13 
furono  forniti  a  Pirro  da  Tolemeo  Cerauno  in  numero  di  50.  Tra  i  due  numeri 
par  preferibile  quello  di  20  dato  da  Plutarco,  che  si  ritrova  anche  in  Oros. 
IV  1,  6;  ma  quanto  alla  provenienza  par  che  Giustino  sia  nel  vero  e  che  gli 
elefanti  di  Pirro  provenissero  realmente  dall'esercito  con  cui  Seleuco  aveva 
passato  l'Ellesponto,  v.  Beloch  Gr.  G.  Ili  1  p.  360  n.  2.  Pel  numero  dei  ca- 
valli cfr.  sopra  p.  387  n.  1. 

(2)  ZoNAR.  Vili  2.  Ai'P.  Samn.  8.  Plut.  Pi/rrh.  16.  Probabilmente  alle  leve 
fatte  in  Taranto  si  riferisce  Frontin.  strat.  IV  1,  3. 


BATTACLfA    DI   ERACLPL^  393 


cevano  idea  del  pericolo,  come  novant'  anni  dopo  tardarono  assai 
ad  avvedersi  del  rischio  clie  li  minacciava  per  opera  d'Annibale. 
Levino,  devastata  la  Lucania ,  giunse  sulle  sponde  del  Ionio 
e  lungo  il  mare  si  diresse  verso  Eraclea.  Se  Pirro  non  moveva  al 
soccorso,  i  Romani  die  forse  non  mancavano  di  qualche  amico 
nella  città (1)  avrebbero  tentato  di  trarla  a  sé;  ad  ogni  modo  gli  pre- 
cludevano intanto  la  via  delle  colonie  greche  della  odierna  Calabria, 
Regio,  Locri,  Crotone,  fedeli  sino  allora  ai  Romani,  che  il  re  avrebbe 
potuto  facilmente  concitare  a  ribellione.  PiiTO  cosi  dovette,  per 
quanto  ancora  non  ben  preparato,  accettare  la  sfida;  X3erchè  se  ri- 
fiutava di  venire  a  battaglia,  l'effetto  morale  sarebbe  stato  peg- 
giore di  quello  d'una  sconfitta;  e  con  forze  pari  press'a  poco  alle 
romane  o  fors'anche  inferiori,  tenuto  conto  del  valido  presidio  che 
lasciò  a  Taranto  e  dell'assenza  degli  alleati  (2),  si  accam^DÒ  presso 
la  sponda  del  Siri  fra  Pandosia  ed  Eraclea,  tenendosi  sulle  difese. 
Il  re  non  credeva  davvero  con  -l'ostacolo  d'un  fìumicello  tagliare 
la  via  all'esercito  romano;  e  quindi  è  chiaro  che  non  intendeva 
punto  schivare  la  battaglia  se  il  nemico  voleva  continuare  l'avan- 
zata. Soltanto  poteva  darsi  benissimo  che  i  Romani  esitassero 
alquanto  prima  di  arrischiarsi  ad  una  offensiva  oltre  il  Siri,  mentre 
non  disponevano  punto  del  massimo  delle  loro  forze.  Pel  momento 
dunque  Pùto  lasciava  ai  Romani  d'iniziare  le  offese,  giacché  a  lui 
conveniva  di  attendere  che  giungessero  i  soccorsi  degli  alleati  e 
che  fossero  a  sufficienza  esercitate  per  poterle  condurre  a  battaglia 
le  leve  tarentine.  I  Lucani  frattanto  non  si  movevano,  perchè  la 
presenza  del  nemico  nel  paese  aveva  impedito  la  radunata  delle 
loro  forze;  i  Bruzì  perchè  erano  tagliati  fuori  dalUi  mossa  di  Va- 
lerio ;  i  Sanniti  perchè  non  bramavano  troppo  di  cimentarsi  lungi 
dal  proprio  territorio,  ammaestrati  dall'  esempio  della  sconfìtta 
toccata  a  Sentino.  Pùto  tuttavia  confidava  ne'  suoi  soldati  ed  in 
se  stesso  :  né  aveva  torto  (3). 


(1)  Cfr.  oltre  p.  411  n.  3. 

(2)  lusTiN.  XVIII  1,  5. 

(3)  Sulla  battaglia  di  Eraclea  v.  soprattutto  Plut.  Pyrrh.  10-17.  Egli  narra 
largamente  aneddoti  su  Oblaco,  Megacle  o  Leonnato  che  non  meritano  molta 
fede  e  che  del  resto  non  hanno  importanza.  Questi  aneddoti  derivano  da 
DioNYs.  XIX  12;  non  basta  però  la  loro  poca  serietà  a  provare  che  siano  at- 
tinti a  fonte  romana,  come  vuole  il  Beloch  IH  2  p.  400  n.  1.  Un  Romano 
piuttosto  che  un  Oblaco  od  un  Megacle  avrebbe  inventato  un  Fabio  o  Furio 
0  Valerio.  Prescindendo  però  da  costoro,  Plutarco  dice  che  Pirro  prima  con  la 
sola  cavalleria  mosse  per  disturbare  i  Romani  nel  passaggio  del  fiume,  quando 


394  CAPO    XXI    -    LA    SOTTOMISSIONE    DEGLI    ITALIOTI 

Come  i  Greci  non  potevano  sorvegliare  che  un  tratto  limitato 
della  sponda,  sembra  che  i  Romani,  passato  il  fiume  senza  alcun 
serio  impedimento,  riuscissero  a  spiegare  tutte  le  loro  forze  sulla 
sinistra  del  Siri  prima  che  il  re  potesse  muovere  all'assalto.  Pirro 
innanzi  tutto  inviò  o  condusse  egli  stesso  in  ricognizione  la  caval- 
leria. Dopo  aver  pigliato  contatto  con  le  forze  nemiche  e  forse 
cercato  di  infliggere  qualche  perdita  ai  Romani  mentre  passavano 
o  mentre  cominciavano  ad  ordinarsi  sull'altra  riva,  la  cavalleria 
ei3Ìrota  si  ritirò  prendendo  posizione  con  gii  elefanti  sulle  ali  della 
falange,  mentre  si  avanzava  tutto  l'esercito  greco  in  ordine  di  bat- 
taglia. La  fanteria  romana  e  la  epirota  combatterono  aspramente  ; 
ma  l'esito  del  combattimento  fu  determinato    dai  cavalli  e   dagli 


la  cavalleria  piegò  mandò  la  fanteria,  da  ultimo  fece  avanzare  gli  elefanti  che 
decisero  le  sorti  della  giornata.  Pare  molto  strano  che  Pirro  abbia  adoperato 
così  a  spizzico  le  sue  forze.  Il  passaggio  di  un  fiume  con  un  corpo  di  venti- 
mila uomini  non  è  cosa  tanto  facile  ne  breve.  E  Pirro  aveva  senza  dubbio 
tutto  il  tempo  di  mettere  in  ordine  di  battaglia  fanti,  cavalli  ed  elefanti,  ed 
assalire  con  le  forze  compatte  i  Romani.  Perchè  non  lo  avrebbe  fatto?  Se  la 
battaglia  si  svolse  come  è  narrato  nel  testo,  si  capisce  come  uno  storico  ignaro 
di  cose  militari  abbia  potuto,  fraintendendo  i  movimenti  di  Pirro,  darne  il  rac- 
conto che  è  in  Plutarco.  La  ricognizione  della  cavalleria  provocò  l'opinione 
erronea  che  la  fanteria  entrasse  in  scena  sol  quando  la  cavalleria  fu  vinta. 
L'essersi  determinata  la  sorte  della  battaglia  dagli  elefanti,  qualche  tempo 
dopo  che  s'era  iniziato  il  combattimento  tra  le  due  fanterie,  diede  luogo  al- 
l'errore di  riguardar  l'entrata  in  azione  degli  elefanti  come  un  terzo  momento 
della  battaglia,  mentre  naturalmente  essi  furono  condotti  alla  mischia  non 
appena  cominciò  la  battaglia  campale.  —  Una  notizia  proveniente  da  fonti 
romane  (su  di  che  giudica  rettamente  lo  Schubert  p.  182  seg.)  è  quella  di 
ZoNAR.  Vili  3  secondo  cui  Levino  aveva  posto  in  agguato  la  cavalleria  per 
assalire  alle  spalle  all'improvviso  durante  il  combattimento  l'esercito  di  Pirro  ; 
e  Pirro  preso  alle  spalle  si  salvò  percotendo  la  cavalleria  con  gli  elefanti  che, 
messo  in  iscompiglio  l'esercito  romano,  lo  avrebbero  distrutto  se  non  veniva^ 
ferito  un  elefante,  il  quale  con  le  sue  grida  portò  la  confusione  tra  gli  altri 
e  tolse  il  vigore  all'assalto.  Il  feritore  sarebbe  stato  secondo  Oros.  IV  1,  17, 
cfr.  Flor.  I  13,  Minucio,  il  primus  hastatus  della  quarta  legione.  Qui  l'imbo- 
scata (che  data  la  posizione  effettiva  dei  belligeranti  era  assurda),  il  nome  del 
salvatore,  il  numero  d'ordine  (certo  fantastico)  della  legione  indicano  che  ab 
biamo  a  fare  con  invenzioni  annalistiche,  ben  diverse  dalle  invenzioni  greche 
riportate  da  Plutarco.  Le  osservazioni  del  Delbrueck  Kriegskunst  I  262  segg. 
sulla  battaglia  sono  in  generale  giustissime  :  solo  egli  non  trae  le  conclusioni 
opportune  dalle  sue  premesse.  La  critica  del  Beloch  1.  e.  potrebbe  approvarsi 
se  invece  della  battaglia  di  Eraclea  si  trattasse  di  quella  del  Cremerà. 


BATTA{iLTA    DI    ERACLEA  395 

elefanti  del  re,  fugando  nelle  due  ali  o  in  una  soltanto  la  caval- 
leria romana  e  assaltando  per  fianco  la  fanteria.  Quest'assalto  mise 
lo  scompiglio  nelle  legioni.  L'esercito  consolare  prese  la  fuga  in 
disordine,  mentre  1'  accampamento  cadeva  in  mano  di  Pirro.  Ri- 
masero sul  campo  quattromila  Epiroti  e  settemila  Romani  (1). 

La  vittoria  fece  un'impressione  profonda  ed  esaltò  il  sentimento 
nazionale  dei  Greci  d'Italia.  Ijocri,  tradito  il  presidio  romano,  si 
diede  a  Pirro  (2).  E  sembra  che  i  Regini  si  disponessero  a  fare 
altrettanto  (3).  Ma  il  comandante  del  presidio  romano  di  Regio, 
che  era  forte  d'un  quattromila  uomini,  Decio  lubellio ,  un  citta- 
dino romano  nativo  della  Campania  al  pari  della  maggior  parte 
delle  sue  truppe,  prevenne  la  possibilità  del  tradimento  assalendo 
per  sorpresa  i  Regini,  mettendo  a  morte  quanti  adulti  gli  caddero 
in  mano  e  distribuendo  tra  i  soldati  le  donne ,  come  appunto  i 
Mamertini,  anch'essi  Campani,  avevano  fatto  un  cinque  o  sei  anni 
prima  con  gii  abitanti    dell'altra    città    greca   dello    stretto.  Mes- 


ti) Questi  sono  i  numeri  dati  dal  contemporaneo  Iekonimo  di  Cardia  presso 
Plut.  1.  e.  Dionisio  parlava  di  15  mila  morti  Romani  e  13  mila  Epiroti:  nu- 
meri che  derivano  forse  da  qualche  annalista  romano  immodicus  in  ungendo 
come  Valerio  Anziate.  Si  spiega  del  resto  come  un  annalista  romano  abbia 
potuto  anche  esagerare  le  perdite  de' suoi  connazionali:  doveva  parergli  im- 
possibile 0  almeno  inglorioso  che  i  Romani  si  riconoscessero  sconfiiti  in  una 
battaglia  in  cui  avevano  perduto  solo  settemila  uomini.  Livio,  seguendo  la 
fonte  stessa  di  Dionisio,  probabilmente  Valerio  Anziate,  dà  cifre  anche  più 
precise  per  le  perdite  romane  :  fanti  morti  14.880,  presi  1310  ;  cavalieri 
morti  246,  presi  802;  insegne  perdute  22  (presso  Oros.  1.  e):  dove  la  preci- 
sione dei  numeri  non  fa  che  meglio  dimostrarne  il  niun  valore.  S' intende 
bene  del  resto  che  le  cifre  di  Ieronimo  si  spiegano  soltanto  movendo  dal  mio 
presupposto,  che  Levino  disponesse  d'un  ordinario  esercito  consolare  di  circa 
20  mila  uomini. 

(2)  lusTiN.  XVIII  1,  9. 

(3)  Regio  era  stata  presidiata  dai  Romani  secondo  Polyb.  1  7,  6  Ka0'  8v 
Kaipòv  TTùppoq  ei;  'IroXiav  èiiepaioOTo.  Anche  Diod.  XXII  1,  2  dice  che  i  Romani 
presidiavano  Regio  òià  TTùppov  tòv  PaaiXéa.  Peraltro  pare  difficile  che  i  Re- 
gini avessero  chiesto  un  presidio  quando  la  previsione  della  venuta  di  Pirro 
rinfocolava  il  sentimento  nazionale  dei  Greci  d'Italia  :  ed  anche  più  difficile 
è  che  i  Romani  avessero  allora  imposto  con  la  forza  un  presidio  ad  una  città 
d'una  certa  potenza.  Par  quindi  più  probabile  che  fosse  stata  presidiata  da 
prima  per  opera  di  Fabricio  Luscino  nel  282  quando  di  Pirro  ancora  non  si 
parlava  all'atto  e  gli  avversari  temibili  di  Regio  erano  invece  i  Bruzì  ed  i 
Mamertini  di  Sicilia.  E  questo  appunto  è  detto  da  Dionvs.  XX  4.  Cfr.  Beloch 
G-r.  G.  Ili  2  p.  405  seg.  e  sopra  p.  379  n.  2. 


396  CAPO   XXI   -    LA    SOTTOMISSIONE    DEGLI   ITALIOTI 

sina  (1).  Il  governo  romano  non  osò  x)er  allora  né  sanzionare  il 
fatto  con  la  sua  approvazione  né  apertamente  disapprovarlo.  Se 
infatti  dicliiarava  guerra  a  Decio  si  attirava  altri  nemici,  pui'  pre- 
scindendo dalle  simpatie  clie  Decio  avrebbe  potuto  trovare  tra  i 
suoi  connazionali  della  Campania  ;  se  accettava  invece  i  fatti  com- 
13Ìuti,  si  comprometteva  troppo  agii  occhi  degli  alleati  fedeli,  i  quali 
avrebbero  iDotuto  attendere  sopra  qualsiasi  sospetto,  fondato  o  in- 
fondato, d' essere  trattati  allo  stesso  modo  dai  generali  romani. 
Quanto  ai  Campani  di  Regio,  essi  erano  paglii  della  tolleranza  di 
Roma,  tanto  più  clie  avevano  l'api30ggio  dei  loro  vicini  di  Messina 
con  cui  presto  si  strinsero  in  alleanza. 

Pirro  dopo  la  battaglia  di  Eraclea  mandò  col  bottino  un  dono 
votivo  nella  città  sacra  dell'Epiro,  Dodona  (2).  Ma  anche  più  che 
preparar  doni  votivi,  importava  profittare  della  vittoria.  Sanniti, 
Lucani  e  Bruzi  cominciarono  a  concorrere  al  suo  campo,  in  parte 
2Jercliè  la  vittoria  aveva  dato  loro  la  fiducia  che  prima  mancava, 
in  parte  perchè,  allontanatosi  Levino,  erano  ormai  liberi  di  con- 
giungersi coi  G-reci.  L'esercito  romano  però  non  era  stato  distrutto. 
Levino  ritiratosi  nella  Campania  aveva  cercato  di  rimettere  in  as- 
setto le  sue  legioni  coi  soccorsi  mandatigli  da  Roma,  dove,  vista 
la  gravità  della  situazione,  non  si  esitò  ad  armare  perfino  i  pro- 
letari, ordinariamente  dispensati  dal  servizio  militare  (3),  Lifatti 
la  classe  abbiente  era  stanca  dei  sacrifici  sopportati  nella  terza 
sannitica  e  nella  guerra  gallica,  e  se  sulla  devozione  dei  cittadini 
senza  suffragio  si  poteva  contare ,  era  prudente  non  metterla  a 
prova  troppo  dura;  e  adoperarli  non  era  del  resto  senza  rischio, 
come  aveva  dimostrato  il  presidio  campano  di  Regio.  Questo  spiega 
perchè  si  dovesse  ricorrere  a  qiiell'espediente  nonostante  che  il  censo 
del  280  avesse  dato  il  numero  non  mai  raggiunto    sino    allora  di 


(1)  PoLYB.  I  7.  Cass.  Dio  fr.  40,  .5-10.  Appian.  Samn.  9.  Dio.nys.  XX  4-5.  Diod. 
XXII  1.  Cfr.  Beloch  III  2  p.  404  segg.  Si  capisce  che  la  tradizione,  memore 
del  castigo  toccato  ai  Campani  di  Regio,  assolva  da  ogni  colpa  i  Greci  di 
quella  città. 

(2)  DiTTENBERGER  SifUogc  '  203  =  CoLi.iTz  II  1368  :  [PaoiXeù]<;  TTùppo[(;  koì] 
'A'tT€ip[Où]Tai  Kaì  T[apavTìvoi]  ànò  'Puiuaiujv  koì  [tujv]  au|u|udxujv  Ali  Na[iuji]. 
La  menzione  dei  soli  Tarentini  sembra  dimostrare  che  non  presero  i^arte  al 
combattimento  altri  alleati,  e  che  quindi  deve  trattarsi  della  battaglia  di 
Eraclea. 

(3)  Oros.  IV  1,  2.  3,  cfr.  Augustis.  de  cir.  dei  III  17.  Forse  qui  va  riferito 
Enn.  fr.  136  Baehrens. 


ilAKCTA    DI     PIRRO    VERSO    ROMA  397 

287  mila  cittadini  atti  alle  armi  (1).  Con  tutto  ciò  i  Romani  non 
avevano  ancora  un  esercito  con  cui  tener  testa  a  Pirro.  E  quando 
il  re  invase  audacemente  il  tenitorio  romano  (2),  le  milizie  di  Va- 
lerio Levino  rinforzate  si  limitarono  a  tenergli  dietro  passo  passo 
sorveo-liandolo  e  scaramucciando.  Tuttavia  in  Campania,  dove  Pirro 
sperava  d' essere  ricevuto  come  un  liberatore,  nessuno  si  mosse  in 
favor  suo;  e  il  suo  tentativo  di  sorprendere  Capua  fu  prevenuto 
dal  console,  die  riusci  a  introdurvi  in  tempo  un  presidio.  Si  volse 
allora  il  re  contro  Napoli  sperando  che  almeno  questa  città  greca 
a\Tebbe  dato  Tesempio  della  ribellione;  ma  Napoli  viveva  tranquil- 
lamente da  quasi  mezzo  secolo  sotto  regemonia  di  Roma,  e  non 
volle  mettere  a  pericolo  il  proprio  benessere  per  seguire  le  solle- 
citazioni dei  connazionali.  Do^do  di  che  Pirro,  devastando  la  valle 
del  Liri  e  in  particolare  il  territorio  di  Fregelle  (3),  la  colonia  la- 
tina che  i  Sanniti  avevano  sempre  guerreggiato,  si  avanzò  verso 
Roma,  procedendo  lungo  la  via  Latina ,  sino  ad  Anagni,  a  circa 
sessanta  chilometri  dalla  capitale  (4).  Scopo  di  Pirro  era  probabil- 
mente non  di  tentare  una  sorpresa  su  Roma,  troppo  ben  j^rotetta 
dalle  mui'a  serviane,  né  di  assediarla,  il  che  non  jioteva  con  le  sole 
forze  che  aveva  allora  a'  suoi  ordini  e  a  tanta  distanza  dalla  sua 
base  d'ojDerazione,  ma  di  passare  in  Etruria  per  congiungersi  con 
gli  Etrusclii  in  ribellione.  Se  vi  riusciva,  i  Romani  si  sarebbero 
trovati  in  un  rischio  simile  a  quello  che  avevano  corso  prima  della 
battaglia  di  Sentino.  Il  congiungersi  con  gli  Etruschi  peraltro  non 
era  cosa  facile,  perchè,  non  potendo  passare  il  Tevere  nella  imme- 
diata vicinanza  di  Roma,  Pirro  avrebbe  dovuto  addentrarsi  in  re- 
gioni montuose  e  interamente  nemiche  come  l'Umbria  e  la  Sabina 
per  i30Ì  varcare  l'alto  Tevere. 

Ma  il  re  non  ebbe  a  mettere  in    atto   un  compito  cosi  arduo. 
Infatti  i  Romani  avevano  frattanto  condotto  innanzi  vigorosamente 


(1)  Liv.  epit.  13. 

(2)  Sulla  spedizione  di  Pirro  v.  Zonar.  VITI  4.  Cass.  Dio  fr.  40,  23-24.  Ap- 
piAN.  Samn.  10.  Plut.  Pyrrh.  17.  Flor.  I  13,  24. 

(3)  Flor.  ].  e:  Lirim  Freyellasque  populatus,  interpretato  rettamente  dal 
Beloch  III  1  p.  567  n. 

(4)  Così  Appian.  1.  e.  con  cui  si  accorda  approssimativamente  Plutarco  di- 
cendo che  giunse  a  300  stadi  ossia,  computando  il  miglio  ad  8  stadi,  a  37 
miglia  e  mezzo  da  Roma.  Secondo  Floro  invece  Pirro  prope  captimi  iirbem  e 
Praenestina  arce  conspexit.  Da  Eutropio  li  12,  1  risulta  che  già  Livio  faceva 
giungere  Pirro  fino  a  Frenaste.  Fra  le  due  tradizioni  è  preferibile  quella  di 
Appiano:  ad  ogninnodo  è  evidente   die  di  Preneste  Pirro    non  si  impadronì. 


398  CAPO    XXI    -    LA    SOTTO.MISSIOXE    DE(tLI    JTALIOTl 

la  guerra  etrusca  riportando  qualclie  nuovo  felice  succesàso  su  Volci 
e  su  Volsini  ;  ed  ora  dopo  la  battaglia  d'Eraclea  mandarono  istru- 
zione a  Ti.  Coruncanio  di  concludere  la  pace  con  gli  Etruschi.  E 
la  pace  fu  conclusa.  I  Volcienti  fui^ono  obbligati  a  cedere  buona 
parte  del  loro  territorio,  il  distretto  in  cui  fu  fondata  nel  273  la 
colonia  latina  di  Cosa  (1),  l'agro  Caletrano  dove  nel  183  si  dedusse 
la  colonia  romana  di  Saturnia  (2),  il  territorio  di  cui  divenne  centro 
Foro  d'Aurelio  sulla  via  Clodia  e  finalmente  il  distretto  di  Statonia, 
che  sembra  però  non  venisse  confiscato  e  distribuito  prima  o  poi  a 
cittadini  romani,  ma  ordinato  a  prefettura  dando  agli  abitanti  la  cit- 
tadinanza senza  suffragio  (3)  ;  mentre  in  mezzo  ai  territori  ceduti 
Volci  dovette  continuare,  almeno  non  si  ha  ragione  per  dubitarne  (4), 
a  vivere  indipendente,  sebbene  priva  ormai  di  ogni  importanza.  Vol- 
sini invece  ebbe  pace  a  condizioni  assai  meno  gravose  rinnovando 
la  sua  alleanza  con  Roma;  e  serbarono  del  pari  la  indipendenza 
ed  il  territorio  le  altre  città  etrusche  che  avevano  preso  parte  alla 
guerra.  Fatta  eccezione  pei  Volciei^ti  che  si  trovavano  probabil- 
mente ridotti  agli  estremi,  gli  Etruschi,  dopo  aver  visto  fiaccate 
le  loro  forze  e  le  loro  speranze  al  Vadimone  e  dopo  che  in  parte 
erano  stati  schiacciati,  in  parte  s'erano  affrettati  a  far  pace  con 
Roma  quei  G-alli  che  li  avevano  istigati  alla  sollevazione,  pote- 
vano essere  ben  paghi  d'una  pace  che  reintegrava  in  sostanza  la 
condizione  delle  cose  anteriore  alla  guerra.  Il  fondamento  che  po- 
tevano fare  sul  soccorso  greco  era  del  resto  assai  poco,  tenuto 
conto  della  distanza  ;  e  dopo  aver  veduto  riuscire  al  nulla  Taiuto 
dato  loro  dai  Sanniti  e  dai  Galli,  non  dovevano  aver  più  molta 
fiducia  in  aiuti  stranieri. 

La  notizia  della  pace  consigliò  Pirro  a  retrocedere  da  Anagni 
ove  era  pervenuto.  E  presto  Ti.  Coruncanio  con  le  due  legioni 
con  cui  aveva  fronteggiato  gli  Etruschi  si  mise  in  marcia  a  grandi 
giornate  per  congiungersi  con  Levino.  Ora  le  forze  del  re  dove- 
vano essere  di  molto  inferiori  a  (luattro  legioni  romane,  non  su- 
perando un  trentamila  uomini:  egli  non  aveva  potuto  usufruire 
che  in  modo  assai  limitato  degli  alleati  italici  per  questa  difficile 
spedizione,  il  cui  successo  dipendeva  soprattutto  dalla  perizia  nel 
manovrare  e  dalla  severità  della  disci])lina,  in  mezzo  al  paese  ne- 


(1)  Vell.  1  14.  Liv.  epit.  14.  Cfr.  Plin.  n.  h.  Ili  .51. 

(2)  Liv.  XXXIX  55.  Cfr.  Plin.  n.  h.  Ili  52. 

(3)  ViTRuv.  de  arch.  II  7. 

(4)  Come  fa  Beloch  It.  Biind  p.  59. 


BATTAGLIA    DI    ASCOLI  399 


mico,  tra  città  forti  e  in  parte  presidiate,  avendo  alle  calcagna  un 
esercito  avversario  non  dispregevole,  ancorché  alquanto  disanimato 
dalla  sconfitta.  Ora  clie  quattro  legioni  erano  in  campo  contro  di 
lui,  non  potendo  iniziare  l'assedio  di  città  nemiche  in  presenza  di 
un  esercito  avversario  assai  superiore  numericamente  al  suo,  non 
gli  rimase  che  sgombrare  il  territorio  romano  rixoiegando  verso 
la  sua  base  d'operazione  e  prendere  i  quartieri  d'inverno  prei)a- 
rando  per  la  campagna  successiva  forze  sufficienti  a  tener  fronte 
ai  due  eserciti  consolari  riuniti.  La  marcia  di  Pirro  era  stata  del 
resto  assai  bene  ideata  ed  eseguita  mirabilmente  ;  e  grave  era  l'umi- 
liazione inflitta  al  nemico  che  aveva  visto  devastare  il  territorio 
proprio  e  quello  degli  alleati  senza  osare  di  venire  a  battaglia.  Ma 
tuttavia  l'effetto  pratico  fu  nullo;  anzi  Pirro  ebbe  ora,  troppo 
tardi,  l'occasione  d'ammirare  la  com]3agine  saldissima  dello  Stato 
romano  e  dovette  riconoscere  la  difficoltà  dell'impresa  cui  s'era 
accinto. 

Il  re  aijri  la  camx3agna  dell'anno  seguente  279  in  Apulia,  oc- 
cupando parte  per  accordo  parte  a  forza  varie  terre,  certo  di  pic- 
cola importanza,  nella  Peucezia  (1),  ossia  in  una  regione  in  cui  i 
Romani  avevano  avuto  poco  agio  di  consolidarsi.  Non  vennero 
meno  però  alla  loro  fedeltà  verso  Roma  né  le  colonie  latine  del- 
l'Apulia,  Venusia  e  Lucerla,  né  gii  alleati  romani  di  Daunia, 
Ascoli  di  Puglia  ed  Ai'pi.  Probabilmente  Pirro  era  intento  all'as- 
sedio di  Venusia  (2)  quando  ambedue  gli  eserciti  consolari  mossero 
verso  rA]3ulia  agli  ordini  di  P.  Sulpicio  e  P.  Decio  Mm-e,  figlio 
quest'  ultimo  del  Decio  caduto  a  Sentine.  Nell'aver  nominato  due 
consoli  che  non  avevano  mai  tenuto  il  comando  di  faccia  al  nemico, 
invece  di  ricorrere  a  capitani  sperimentati  come  Fabricio  Luscino, 
CorneHo  Rufino,  Curio  Dentato  o  Fabio  G-m-gite  sta  la  xjrova  che 
i  Romani  non  giudicavano  la  situazione  estremamente  grave  e  si 
persuadevano  che  fosse  bastante  al  vincere  la  riunione  dei  due 
eserciti  consolari.  Le  forze  loro  erano  di  circa  quarantamila 
uomini;  né  molto  più  scarse  di  numero  erano  le  milizie  di  Pirro; 
ma  i  Romani  dovevano  essere  alquanto  superiori,  senza  di  che 
non  si  sarebbero  arriscliiati  a  battaglia  dopo  la  prova  fatta  ad 
Eraclea  (3).  I  consoli  si  accamparono  sulle  sponde  dell'Ofanto  nel 


(1)  ZoNAR.  vili  5. 

(2)  È  supposizione  del  Niebuhr  R.  G.  Ili  588. 

(3)  Secondo  Dionys.  XX  1  i  Romani  avevano  sopra  70.000  fanti  ed  8000  ca- 
valieri, Pirro  70.000  fanti,  oltre  8000  cavalieri  e  19  elefanti.  Questi  dati 
sono  indegni  di  fede.    I  Romani  fino    alla  battaglia   di  Canne  non  hanno  mai 


400  CAPO   XXI    -    LA    SOTTOMISSIONE   DEGLI   ITALIOTI 

territorio  di  Ascoli  di  Apulia,  proteggendo  cosi  tutte  le  città  al- 
leate della  Daimia  e  in  specie  Arpi,  mentre  la  loro  vicinanza  im- 
pediva a  Pirro  di  disporre  le  sue  forze  in  modo  da  bloccare  effi- 
cacemente Venusia;  la  posizione  era  scelta  con  retto  giudizio  anclie 
percliè  cosi  in  caso  di  sconfìtta  avevano  libera  i  Romani  la  riti- 
rata sia  verso  la  fedele  Arpi  sia  verso  la  colonia  di  Luceria.  Pirro 
allora  non  potendo  far  più  alcun  progresso  senza  battaglia  e  d'altra 
parte  fidando  nella  superiorità  della  sua  strategia  e  più  della  tat- 
tica determinò  di  andare  incontro  ai  Romani  e  si  accampò  sulla 
destra  dell'Ofanto  (1).  I   due  eserciti    si    fronteggiarono    alquanto 


avuto  in  campo  insieme  più  di  quattro  legioni  ossia  un  40.000  uomini.  Pirro 
poi,  detratti  dai  30.000  Epiroti  che  aveva  sbarcato  in  Italia  le  perdite  e  i 
presidi  di  Taranto  e  di  Locri,  non  poteva  averne  seco  più  di  20.000.  Dionisio 
anzi  ne  numera,  forse  non  a  torto,  solo  16.000.  Per  ragioni  ovvie  il  re  difficil- 
mente avrà  avuto  con  se  più  d'altrettanti  alleati.  Quindi  anch'egli  disponeva 
al  più  di  40.000  uomini.  Queste  cifre  sono  quelle  che  dà  appunto  Frontin. 
strat.  Il  3,  21  trascrivendo  da  Livio  XL  milia  utrimque  fiiisse  constai.  Cfr.  Beloch 
Gr.  G.  Ili  2  p.  394  seg. 

(1)  Sulla  battaglia  abbiamo  una  sola  relazione  fededegna,  quella  di  Plut. 
Pi/rrh.  5,  che  deriva  da  Ieronimo.  Tutte  le  altre,  abbastanza  dissimili  tra  loro 
(Liv.  per.  13.  Oros.  IV  1,  19-22.  Eutrop.  II  13,  4.  Flor.  I  13,  9-10.  Frontin.  strat. 
II  3,  21.  DioNYS.  XX  1-3.  Cass.  Dio  fr.  40,  43.  Zonar.  Vili  5),  provengono  da  anna- 
listi romani  recenti  e  rappresentano  la  battaglia  come  indecisa  o  persino  come 
una  vittoria  romana,  sebbene  anche  per  Val.  Anziate  fr.  21  si  trattasse  di 
una  vittoria  di  Pirro.  Dei  moderni,  un  cenno  affatto  insufficiente  dà  il  Del- 
BRUECK  I  264,  un'ampia  ed  eccellente  discussione  il  Beloch  III  2,  388  segg., 
cui  in  generale  mi  attengo  soprattutto  per  la  questione  topografica  trattata 
in  modo  esauriente.  —  La  battaglia  avvenne,  come  riferiscono  concordemente 
le  fonti,  nelle  vicinanze  di  Ascoli  presso  un  fiume  che  divideva  dapprima  i 
due  eserciti.  Senonchè  mentre  secondo  Ieronimo  Pirro  passò  il  fiume  e  com- 
battè i  Romani  sulla  riva  settentrionale  ossia  sulla  sinistra,  secondo  Cassio 
Dione  i  Romani  passarono  il  fiume  e  assalirono  Pirro.  Non  c'è  dubbio  che 
merita  maggior  fede  Ieronimo,  e  che  l'altra  versione  è  dovuta  alla  tendenza 
di  accrescere  la  gloria  della  resistenza  romana  o  fors'anche  semplicemente  a 
quella  di  copiare  per  la  battaglia  di  Ascoli  il  racconto  dato  per  la  battaglia 
di  Eraclea.  Rispetto  al  fiume  Plutarco  dice  che  era  ùXuObric;  e  Tpaxùi;,  e  il 
racconto  stesso  della  battaglia  mostra  che  era  un  ostacolo  serio.  Si  può  far  que- 
stione se  sia  il  fiume  Carapella  al  nord  di  Ausculum  ovvero  l'Ofanto  (Aufidus) 
al  sud.  Per  la  vicinanza  ad  Ausctdum  parrebbe  convenir  meglio  il  Carapella. 
Ma  questo  è  un  fiume  povero  d'acqua  e  a  rive  molto  piane.  Corrisponde  assai 
meglio  l'Ofanto,  fiume  violens  ed  acer  come  lo  chiama  Orazio,  tanto  più  che 
la  linea  dell'Ofanto  era  anche  strategicamente  assai  importante.  La  battaglia 
fu  chiamata  di  Ascoli,  perchè  si  combattè  in  territorio  ascolano,  dovendo  il 
fiume  formare  appunto  il  confine  tra  il  territorio  di  Ascoli  e  quello  di  Venosa. 


BATTAGLIA    DI    ASCOLI  401 


prima  di  combattere,  daccliè  TOfanto  costituiva  un  ostacolo  ben 
altrimenti  grave  del  Siri.  Il  primo  tentativo  che  fece  Pirro  per 
passare  il  fiume  non  riusci  a  buon  fine,  perchè  il  terreno  difficile 
e  boscoso  diede  agio  ai  Romani  di  sorprendere  i  G-reci  menti-e 
erano  ancora  intenti  al  passaggio  e  non  avevano  potuto  spiegarsi 
in  forze  sufficienti  sull'altra  sponda  né  giovarsi  degli  elefanti,  che 
avevano  bisogno  di  tempo  anche  maggiore  per  esser  trasportati 
oltre  il  fiume.  Ma  il  giorno  seguente  il  re,  ingannata  la  vigilanza 
del  nemico,  iniziando  il  passaggio  in  un  punto  più  distante,  riuscì  a 
tragittare  il  grosso  delle  forze  e  ad  ordinare  in  battaglia  la 
falange  prima  che  i  consoli  potessero  accorrere  alla  riscossa.  Tut- 
tavia i  Romani  giunsero  innanzi  che  fossero  passati  gli  elefanti. 
E  la  battaglia  fu  accanita  e  per  lungo  tempo  incerta.  Ma  final- 
mente le  legioni  cominciarono  a  piegare ,  non  reggendo  all'urto 
formidabile  della  falange.  E  sopravvennero  allora  a  compiere  la 
vittoria  gli  elefanti  che  avevano  finito  di  x>assare  il  fiume;  ma 
prima  che  potessero  mettere  lo  scomi3Ìgli.o  tra  le  file  dei  legionari, 
i  Romani  ripiegarono  in  buon  ordine  fino  al  loro  accampamento, 
lasciando  sul  terreno  seimila  morti.  E  cosi  non  venne  fatto  a  Pirro, 
che  aveva  perduto  anch'egii  3505  uomini,  di  riportare  una  vittoria 
decisiva  (1);  poiché  non  accadeva  d'assaltare  i  Romani  nel  loro 
campo  fortificato  con  forze  all'incirca  eguali,  come  doveva  avere, 
anche  detratte  d'ambe  le  parti  le  X3erdite.  La  vittoria  di  Pirro,  che 
aveva  lasciato  sostanzialmente  intatto  l'esercito  romano,  non  era 
tale  da  indm-re  a  ribellione  nessuna  delle  città  alleate  di  Roma 
in  quelle  regioni.  Continuare  ]30Ì  la  sua  marcia  attraverso  la  Puglia 
il  re  avi'ebbe  potuto;  ma  il  profitto  non  poteva  essere  che  infe- 
riore a  quello  dell'anno  precedente;  perché  oltre  alla  difficoltà  di 
trattenersi  in  estate  in  una  regione  povera  d'acque,  egli  sarebbe 
stato  seguito  passo  passo  da  un  esercito  vinto  si,  ma  non  disfatto 
e  numericamente  ancora  eguale  all'incirca  al  suo;  onde  avrebbe 
corso  un  rischio  maggiore  e  non  giustificato  da  alcuna  speranza 
di  successi  corrispondenti.  Né  era  possibile  rimanere  stringendo 
\'enusia  in  xjresenza  dell'esercito  romano,  X3erché  era  troppo  perico- 
loso dividere  le  forze,  come   si   sarebbe   richiesto  ad  istituire  un 


(1)  Queste  cifre  sono  date  da  Ieronimo  presso  Plutarco,  che  dice  d'averle 
attinte  alle  memorie  del  re,  e  son  preferibili  a  quelle  di  Dionisio  che  parla 
di  15.000  uomini  perduti  da  ambedue  le  parti  ;  le  fonti  derivate  da  Livio  giun- 
gono a  dire  che  Pirro  avrebbe  perduto  20.000  uomini  e  i  Romani  5000  soltanto 
(Oros.  IV  1,  22.  EuTRoi'.  II  13,  4.  Frontin.  II  3,  21). 

Cr.  De  Sakctis,  Storia  dei  Romani,  IL  2<j 


•i()2  CAPO    XXI    -    LA    SOTTOMISS lOX E    DEOLI    ITAI.IOT 


blocco  efficace.  Alla  loro  volta  i  Romani  dopo  la  battaglia  di 
Ascoli  non  avevano  né  forze  sufficienti  né  tanto  di  fiducia  in  sé 
X^er  riprendere  le  offese  contro  Pirro  e  i  suoi  alleati  ;  onde  la  guerra 
rischiava  di  prolungarsi  indefinitamente.  Questo  però  doveva 
esser  cliiaro  ormai  a  Pirro:  clie  grandi  vantaggi  in  Italia  non  si 
potevano  raggiungere  e  die  ogni  speranza  di  formarsi  un  impero 
italiano  a  spese  dei  Romani  era  fallito.  Ma  era  pur  sempre  qual- 
cosa assicm^are  la  indipendenza  dei  Sanniti,  dei  Lucani,  dei  Bruzì 
e  dei  Tarentini  da  Roma:  tanto  più  clie  se  ciò  gli  veniva  fatto, 
questi  popoli  avrebbero  tenuto  in  gran  conto  la  sua  amicizia  e 
sarebbero  stati  sempre  disposti  a  fornirlo  di  soccorsi  per  ulteriori 
imprese  in  Grecia  e  in  Sicilia. 

Frattanto  la  Macedonia  nel  280,  dopo  morto  Tolemeo  Cerauno 
combattendo  contro  i  Galli,  era  caduta  nell' anarchia  ;  e  m.entre  vari 
pretendenti  tentavano  l'un  dopo  l'altro  di  occupare  il  trono,  nel  279 
i  Galli  avevano  invaso  la  Grecia  e,  nonostante  la  difesa  dei  Greci, 
forzato  il  passo  delle  Termopile,  s'erano  avanzati  fino  a  Delfi.  Qui 
il  rigore  della  stagione,  le  difficoltà  dei  luoghi  a  loro  poco  noti, 
l'accanimento  degli  indigeni  che  combattevano  per  la  loro  patria 
e  pei  loro  dèi,  il  pericolo  di  trovarsi  aggirati  alle  spalle  da  forze 
beotiche  ed  ateniesi,  li  indusse  ad  una  ritirata  in  cui  ebbero  a  sof- 
frire perdite  tali  che  ben  pochi  tornarono  alle  loro  sedi  (1).  Tra 
questi  avvenimenti  Pirro  se  fosse  stato  in  Grecia  avrebbe  avuto 
un'occasione  assai  j)ropizia  sia  d'insignorirsi  della  Macedonia  sia 
d'offrirsi  ai  Greci  come  loro  salvatore  dalla  minaccia  dei  barbari. 
Questo,  oltreché  le  ragioni  militari  già  dette,  contribuì  certo  alla 
sua  inazione  nel  resto  dell'anno  279.  Non  j)oteva  infatti  allonta- 
narsi di  tropxDO  dalla  sponda  del  mar  Ionio  quando  i  barbari  corre- 
vano la  Grecia  menando  orrenda  strage  in  Etolia  a  poca  distanza 
dal  confine  epirotico  e  quando  il  sentimento  nazionale  e  l'oppor- 
tunità politica  potevano  da  un  momento  all'altro  costringerlo  a 
varcare  il  mare  per  intervenire  in  Grecia.  La  tempesta  si  dileguò 
con  la  rotta  dei  Galli  a  Delfi;  ma  poteva  addensarsi  novaniente; 
e  frattanto  lo  stato  della  Sicilia  era  tale  da  richiamare  anch'esso 
l'attenzione  del  re. 


(1)  La  tradizione  è  nel  vero  escludendo  che  il  tempio  delfico  sia  caduto  in 
mano  dei  Celti.  Lo  scetticismo  del  Van  Geldek  Galatarum  res  p.  60  seg.  e  del 
Beloch  Gr.  G.  Ili  2  p.  413  è  confutato  dalla  iscrizione  commentata  dal  Reinach 
e  dal  Herzog  nei  '  Comptes  rendus  de  l'Académie  des  inscriptions  et  belles 
lettres  '  1904  p.  158  segg. 


XKCO/IATI    DT    l'ACK  40;? 


In  queste  condizioni  era  nel  suo  interesse  di  concludere  la  pace 
coi  Romani  (1).  La  tradizione  pervenutaci  parla,  in  generale  di  due 
ambascerie  inviate  da  Pirro  a  tal  fine  a  Roma:  ambedue  le  volte 
lo  stesso  è  l'ambasciatore,  il  tessalo  Cinea,  e  lo  stesso  l'esito,  del 
tutto  sfavorevole  ^2).  Ma  questa  do]3pia  ambasceria  sembra  una 
delle  tante  reduplicazioni  onde  la  tradizione  annalistica  abbonda; 
nò  mancano  indizi  che  più  anticamente  si  narrasse  d'una  sola  am- 
basceria e  si  collocasse  dopo  la  battaglia  d'Ascoli  (3)  quando  Pirro 
aveva  motivo  di  bramare  la  pace,  non  dopo  la  battaglia  d'Eraclea 
quando,  non  avendo  ancora  sperimentato  la  saldezza  dello  Stato 
romano,  aveva  ogni  ragione  di  porre  nella  energica  continuazione 
della  guerra  le  maggiori  speranze.  Intorno  alle  condizioni  della 
13ace  vi  ha  chi  dice  che  Pirro  prometteva  di  restituire  i  prigionieri 
e  di  aiutare  i  Romani  alla  sottomissione  d'Italia  sol  che  stringes- 
sero amicizia  con  lui  e  perdonando  ai  Tarentini  ne  riconoscessero 
la  indipendenza;  ma  accanto  a  queste  notizie  evidentemente  poco 
fededegne  (-1)  altre  ve  ne  hanno  secondo  cui  Pirro  chiese  la  libertà 
degli  Elleni  e  la  restituzione  a'  suoi  alleati  italici  dei  territori  tolti 
loro  dai  Romani  (5)  o  persino  pretese  di  limitare  ai  soli  Latini  il 
dominio  romano  (6).  E  assai  difficile  peraltro  che  il  re  potesse 
mettere  innanzi  una  simile  i3retesa,  perchè  non  si  vede  come  le 
sue  vittorie  di  Eraclea  o  di  Ascoli  lo  i3onessero  in  condizione  di 
dettar  legge  ai  Romani  intorno  a  quel  che  avrebbero  dovuto  fare 


(l'I  Delle  trattative  ha  ragionato  assai  bene  il  Niesk  '  Hermes  '  XXXI  (1896) 
p.  485  segg.,  al  quale  mi  attengo. 

(2)  Plot.  Pyrrh.  18  seg.  21.  Cfr.  Appian.  Samn.  ]0.  11.  Liv.  e-int.  13.  Cass.  Dio 
fr.  40,  41.  ZoNAR.  Vili  4. 

(3)  lusTiN.  XVm  1,  11.  Cfr.  DioD.  XXII  6,  2-3.  Non  così  chiara  come  ritiene 
il  NiESE  è  la  data  che  assegnava  Cicerone  alla  orazione  detta  da  Ap.  Claudio 
Ceco  per  impedire  la  pace  septimo  decimo  anno  dopo  il  suo  consolato  {de 
senect.  6,  16). 

(4)  Plut.  Pyrrh.  1.  e. 

(5)  Appian.  Samn.  10,  1  :  èòibou  h'  aÒTOìt;  eìpnvriv  Kai  ipiXiav  koì  0U|Lt|uoxiav 
iTpò<;  TTùppov  et  Tapavrivoui;  |uèv  è;  raOra  auf.iTTepi\àPoi6v,  toù<;  b'  fiXXouc;  "EX- 
Xr^vac;  toù<;  iv  'iTaXia  KaTOiKoOvTa(;  èXeu9épouq  koì  aÙTovó|aou(;  éiùev,  AeuKavoìc; 
hi  Kai  ZauviTttK;  Kai  Aauvioi<;  koì  BpexTioiq  àiroboìev  6aa  aùxujv  è'xouai  iroX^iauj 
Xa^óvreq. 

(6)  YiaW Ineditiim  Vaticanum  pubblicato  da  H.  von  Arnim  '  Hermes  '  XXVII 
(1892)  p.  120:  xò  juév  'E\Xr|viKÒv  xò  èv  MxaXiqt  ttòv  èXeùGepov  elvai  Kai  aùxóvojuov  • 
XpóoOai  bè  Koi  Zauv(xa<;  koI  AeuKavoùc;  koI  -rrdvxac;  BpexTiou;  xoìi;  aùxujv  vóuoit; 
TTùppou  ovxa^  av^^àxovq,  'PuJiuafouQ  bì  Aaxivuuv  fipxeiv  ^óvov. 


404  CAPO   XXT    -    LA    SOTTOMISSIONE    CECILI   ITALIOTI 

nell'Umbria  e  nella  Etruria  ;  ma  è  verisimile  clie  cliiedesse  la  piena 
indipendenza  dei  Sanniti,  dei  Lucani,  dei  Bruzì  e  forse  degli  Apuli, 
la  restituzione  dei  territori  occupati  nel  Sannio  e  l'abbandono  delle 
colonie  di  Venusia,  di  Lucerla  e  fors'anclie  di  Fregelle.  Certo  non 
tutte  queste  condizioni  i^otevano  essere  accolte  dai  Romani;  ma 
anche  molti  Romani  avranno  pensato  che  un  accordo  tollerabile 
era  da  preferù-e  ad  una  guerra  in  cui  non  avevano  toccato  altro  che 
sconfìtte.  Del  resto  un  accordo  con  PiiTO  non  importava  la  rinuncia 
al  proposito  d'acquistare  il  primato  in  Italia,  ma  soltanto  costrin- 
geva a  soprassedervi  alquanto  :  che  le  condizioni  dell'Epiro  e  della 
Grecia  in  generale  erano  cosi  instabili  da  dar  luogo  a  sperare  che 
la  potenza  di  Pirro  declinasse  con  la  stessa  rapidità  con  cui  era 
sorta.  Un  breve  periodo  di  raccoglimento  non  sarebbe  stato  poi 
troppo  dannoso,  tanto  più  che  per  tenere  durevolmente  in  campo 
buon  nerbo  di  truppe  erano  insufficienti  le  entrate  modeste  dello 
Stato  romano,  e  d'altra  parte  continuando  la  guerra  si  dovevano 
imporre  ai  piccoli  proprietari  già  tanto  provati  sacrifizi  superiori 
quasi  alle  forze;  e  della  pace  si  poteva  frattanto  profittare  per 
estendere  e  rafforzare  l'autorità  di  Roma  verso  settentrione.  Certo 
rinunciare  a  Lucerla  e  a  Fregelle  non  era  possibile:  poiché  ri  du- 
cendo cosi  al  nulla  i  guadagni  di  tanti  anni  di  lotta  accanita  si 
sarebbe  dato  nuovo  vigore  ai  Sanniti  già  quasi  prostrati  e  si  sareb- 
bero abbandonati  alla  mercè  degli  Oschi  i  fedeli  Danni  di  Arpi: 
ma  forse  si  sarebbe  potuto  venire  ad  un  accordo  mediante  la  ces- 
sione della  sola  Venusia.  Ad  ogni  modo  l'iniziativa  dei  negoziati 
fu  presa  dai  Romani;  e  fra  il  re  e  Fabricio  inviato  a  Pirro  dopo 
la  battaglia  d'Ascoli  pel  riscatto  dei  prigionieri  si  stabilirono  i 
preliminari  della  pace  (1).  Per  farli  ratificare  dal  senato  Pirro  inviò 
a  Roma  l'oratore  tessalo  Cinea  nella  cui  perizia  aveva  piena  fiducia. 
Ma  Oinea  trovò  difficoltà  inattese  non  tanto  per  la  eloquente  op- 
posizione che  rese  famoso  Ap.  Claudio  Ceco  (2),  giacché  l'elo- 
quenza d'un  uomo  non  poteva  modificare  le  condizioni  reciproche 
dei  belligeranti,  ma  jjer  fatto  d'un' armata  cartaginese  forte  di 
centoventi  navi  da  guerra  che  approdò  allora  o  poco  innanzi  presso 
Ostia  (3).  Ne  scese  a  terra  lo  stesso  ammiraglio  Magone  per  tratr_ 


(1)  lusTiN.  XVIII  2,  6:  legatns  a  senatu  Romano  Fahricinn  Lnscinus  missus 
pacem  cum  Pyrrho  composuit.  Non  molto  diversa  doveva  essere  la  relazione 
della  fonte  di  Appian.  Samn.  12  :  òri  TTuppo;  luerà  tt^v  furtxiv  koì  rat;  irpòt;  'Piu- 
)ua(ou(;  auvGnKa^  elq  IiKeXiav  biéirXei. 

(2)  Sulla  sua  orazione  v.  oltre  e.  XXIV. 

(3)  lusTiN.  1.  e.  Val.  Max.  Ili  17,  10. 


NEGOZIATI    DI    PACE  405 


tare  col  senato  in  nome  di  Cartagine  (1);  e  senza  dubbio  ricor- 
Uaifdo  Tantica  amicizia  tra  le  due  repubbliclie  cercò  di  dimostrare 
clie  i  Romani  e  i  Cartaginesi  avevano  gli  uni  in  Italia  gli  altri  in 
Sicilia  il  medesimo  interesse  ad  opprimere  i  Grreci  e  che  conveniva 
proceder  di  conserva.  Molto  probabilmente  accrebbe  la  efficacia 
del  suo  dii'e  la  offerta  di  quei  mezzi  in  denaro  di  cui  allora  i 
Romani  abbisognavano  anche  più  che  degli  aiuti  navali  dei  Car- 
taginesi e  che  al  governo  cartaginese  costava  ijoco  offrire  per  lo 
stato  floridissimo  della  pubblica  finanza.  Ciò  spiega  come  il  senato 
romano  respingesse,  nonostante  la  facondia  di  Cinea,  i  preliminari 
convenuti  con  Fabricio  e  concludesse  invece  un  trattato  d'alleanza 
con  Cartagine  (2).  In  questo  trattato  si  stabiliva  che  Romani  e  Car- 
taginesi solo  di  comune  accordo  potessero  fermar  pace  con  Pirro  e 
.si  determmavano  i  modi  opportuni  perchè  i  contraenti  potessero 
prestarsi  scambievole  aiuto  contro  il  re,  confermando  pel  resto  i 
patti  sanciti  dai  trattati  x^recedenti  tra  le  due  repubbliche. 

L'intervento  cartagmese  fu  provocato  .dal  timore  che  Pirro  si 
preparasse  a  passare  in  Sicilia.  La  dissoluzione  dell'impero  d'Aga- 
tocle  (289)  aveva  fatto  cader  la  Sicilia  greca  nell'anarchia;  e  ne 
profittarono  i  mercenari  italici  del  tu-anno,  che  poco  dopo  la  sua 
morte  s'  erano  insignoriti  di  Messina  col  nome  di  Mamertini  (3), 
per  far  nell'isola  stragi  e  rapine  distruggendo  persino  le  due  città 
greche  di  Gela  e  di  Camarina  ;  anche  i  Cartaginesi  colsero  l'occa- 
sione per  accrescere  la  loro  autorità  sui  Grreci  di  Sicilia  interve- 
nendo in  qualche  caso  come  mediatori,  in  qualche  altro  occupando,- 
d'accordo  con  gli  abitanti,  città  che  preferirono  il  dominio  stra- 
niero alla  egemonia  di  qualche  connazionale:  tra  cui  persino  la 
forte  Enna  nel  centro  dell'isola.  Fra  tanta  anarchia  a  Sù'acusa  si 
celebrava  la  libertà  ricuperata  coniando  monete  col  nome  di  Giove 


(1)  Questo  particolare  ci  è  noto  dal  solo  Giustino;  ma  tanto  bene  si  spiega 
il  silenzio  delle  fonti  romane  su  ciò  e  tanta  è  la  luce  che  il  fatto  porta  sul- 
l'andamento altrimenti  poco  comprensibile  delle  trattative  che  non  dobbiamo 
esitare  ad  accettare  il  racconto  di  Giustino  ossia  di  Trogo.  Cfr.  del  resto  Dioi>. 
XXII  7,  5. 

(2)  11  testo  n'è  conservato  in  Polyb.  Ili  25,  3-4.  Per  la  intelligenza  di  esso 
^rfr.  Beloch  Gr.  G.  Ili  2  p.  401  segg. 

(3)  PoLYH.  1  7.  DioD.  XXI  18.  Il  racconto  dello  storico  Alfio  presso  Fkst. 
p.  158  s.  V.  Mamertini  ha  a  un  dipresso  il  valore  medesimo  che  ha  per  questa 
età  la  tradizione  annalistica.  Pei  fatti  tra  la  morte  di  Agatocle  e  quella  di 
Pirro  nostra  fonte  quasi  unica  è  del  resto  Diod.  XXI.  XXll.  Cfr.  Holm  Storia 
della  Sicilia  li  509  segg. 


406  CAPO   XX.I    -    LA    yOTTOMISSIOXK    DEliLI   ITALIOTI 

liberatore;  ma  intanto  nella  città  stessa  aveva  di  fatto  il    potere 
supremo  quelFIceta  che  i  Siracusani   avevano   nominato  stratego 
contro  Menone  (sopra  p.  374),  a  Tam-omenio  s'era  fatto  tiranno  Tin- 
darione,  a  Leontini  Eraclida,  ad  Agrigento   Finzia.  E   parve    per 
un  istante  die  l'egemonia  della  Sicilia  stesse  per  passare  da  Sira- 
cusa ad  Agrigento  il  cui  tiranno,  solerte  ed  ambizioso,  nell'interno 
dell'isola  dilatò  i  contini  del  suo  Stato  lino  ad  Agirlo  e  ad  oriente 
d'Agrigento  raccolse  i  dispersi  Greloi  in  una  città  clie  cliiamò  dal 
suo  nome  Finziade.  Da  questo  incremento  della  potenza  agrigen- 
tina nacque  però  una  guerra  tra  Siracusa  ed  Agrigento  in  cui  sul 
fiume  Ibleo,  clie  è  forse  l'odierno  Dirillo,  Finzia   fu   sconfìtto    da 
Iceta.  La  umiliazione  di  Agrigento  invogliò  alla  sua   volta  Iceta 
a  ristabilire  almeno  parzialmente  Fegemonia  siracusana  nell'isola; 
ma  questo  tentativo  fu  frastornato  dall'intervento  dei  Cartaginesi 
che  batterono  i  Sii-acusani  i3resso  il  Terias  nella  pianura  di  LentiuL 
Peraltro,  perito  non  molto  dopo  Finzia  in  Agrigento  di  morte  vio- 
lenta e  cacciato  Iceta  da  Siracusa  dopo  avervi  dominato  nove  anni, 
non  andò  guari  che  tra  i  nuovi  signori  di  Siracusa  e  d'Agrigento, 
Tenone  e  Sosistrato ,   scoppiò   una  nuova   guerra   accanita ,  e  So- 
sistrato  con  l'aiuto  dei  democratici  siracusani  fini  con  rimpadro- 
nirsi persino  della  parte  di  Siracusa  posta  in   terraferma,  mentre 
Tenone  conservava  solo  il  possesso  della  cittadella  ossia  dell'isola 
di  Ortigia.  Ma  i  Cartaginesi  non  volevano  che,  cadute  sotto  il  do- 
minio d'un  solo  Agrigento  e  Siracusa,  si  ricostituisse  l'unità  della 
Sicilia  greca.  Perciò,  come  avevano  protetto  le  città  minori  contro 
Finzia  e  impedito  che  i  Siracusani  profittassero  della  vittoria  del 
fiume  Ibleo,  cosi  intervennero  ora  a  Sirac'usa  assediandola  per  mare 
con  un'armata  di  cento  navi  da  guerra  e  per  terra  con  un  esercito 
considerevole.  Questa  singolare  energia    di   cui   dopo   la  morte  di 
Agatocle  diede  prova  il  governo  cartaginese  si  spiega  con  la  evi- 
denza degli  effetti  disastrosi  della   politica   dimessa  e  poco  ener- 
gica cui  prima  in  vari  casi  s'era  attenuto.  Quella  politica  aveva 
permesso  più  volte  alla  Sicilia  greca  di  costituirsi  ad  unità  e  aveva 
poi  costretto  i  Cartaginesi  a  guerre  sanguinose  e  rischiose  per  con- 
servare i  loro  domini  nell'isola.  E  però  ora  parve  loro  il  momento 
TTintervenire  vigorosamente  per  imi)edire  Tunione  dei  Greci  di  Si- 
cilia e  col  favore  delle   loro  discordie  stabilire  saldamente,  occu- 
pando Siracusa,  il  predominio  punico  nell'isola.  E  questa  volta  pa- 
revano assai  vicini  a  conseguire  l'intento  vagheggiato.  Senonchè  si 
trovava  allora  in  Italia  con  un  esercito  agguerrito  Pirro,  difensore 
degli  interessi  nazionali  dei  Greci  d'Occidente  e  vittorioso  dei  Ro- 
mani. Per  trattenerlo  ad  ogni  costo  in  Italia  i  Cartaginesi  con  savio 


LA    SICILIA    DOl'O    LA    MOKTK    d'aCATOCLE  407 

consiglio  incitarono  i  Romani  a  continuare  la  guerra  fornendo  loro 
probabilmente  anclie  sussidi  in  denari.  Ma  Tenone  e  Sosistrato,  visto 
il  pericolo  comune,  per  interesse  e  per  carità  di  patria  si  accor- 
darono ad  inviare  ambasciatori  a  Pirro  offrendo  di  consegnargli 
Siracusa  e  quante  altre  città  erano  in  loro  potere  purcliè  accorresse 
alla  difesa  dei  Sicelioti  contro  Cartagine.  Pirro  accolse  l'invito  e 
mandò  Cinea,  clie  la  tradizione  ricorda  qui  per  l'ultima  volta,  a 
trattare  coi  delegati  delle  città  greche  (1).  Disponendosi  cosi  ad 
intervenire  in  Sicilia  Pirro  agi  da  patriotta  e  da  uomo  assennato. 
Se  rimaneva  in  Italia  infatti  non  i30teva  contare  di  raggiungere 
più  nessun  notevole  successo  sui  Romani,  mentre  intanto  i  Car- 
taginesi si  sarebbero  impadroniti  di  Siracusa  e  l'isola  sarebbe  ca- 
duta sotto  il  dominio  semitico.  Passando  invece  in  Sicilia  Pirro, 
avendo  forze  terrestri  assai  superiori  a  quelle  clie  erano  in  grado 
di  mettere  in  campo  i  Cartaginesi,  poteva  sperare  di  liberare  da 
essi  la  Sicilia  greca  e  di  riunirla  sotto  il  suo  dominio  come  aveva 
fatto  il  suocero  Agatocle:  dopo  di  che  a\T.'ebbe  potuto  ripren- 
dere con  maggiori  forze  e  con  nuove  speranze  la  guerra  contro 
Roma.  V'erano  anche  qui  due  inconvenienti  :  l'uno  che  non  era  da 
far  molto  assegnamento  sulla  fedeltà  dei  repubblicani  di  Sicilia 
ad  un  re  non  siceliota,  l'altro  che  i  Romani  durante  la  sua  assenza 
avrebbero  probabilmente  fatto  ogni  sforzo  per  riportare ,  successi 
decisivi  in  Italia  ;  ma  ad  inconvenienti  anche  maggiori  andava 
incontro  qualsiasi  altra  deliberazione  potesse  prendersi. 

Mentre  i  Cartaginesi  assediavano  Siracusa  con  cento  navi  da 
guerra,  con  altre  centoventi  volteggiavano  presso  Messina  per 
chiudere  a  Pirro  lo  stretto,  d'accordo  coi  Mamertini  con  cui  s'erano 
alleati.  Magone,  che  comandava  la  seconda  squadra,  aveva  imbar- 
cato un  piccolo  corpo  di  cinquecento  Romani,  con  cui  prese  terra 
presso  Regio,  e  tentò  inutilmente  d'impadronirsi  di  Locri,  riuscendo 
soltanto  a  dare  alle  fiamme  una  gran  quantità  di  legname  che  Pirro 
vi  aveva  fatto  raccogliere  per  costruire  navi.  Frattanto  Pirro  ad 
estate  inoltrata  del  278,  dopo  due  anni  e  quattro  mesi  di  soggiorno 
in  Italia  (2),  s'imbarcò  per  Locri,  dove  giunse  con  dieci  giorni  di 
na\'igazione.  Aveva  con  sé  ottomila  uomini  di  fanteria,  un  corpo 
di  cavalleria,  gli  elefanti,  molti  trasporti  per  truppe   ed  una  ses- 


(1)  Sulla  spedizione  di  Pirro  in  Sicilia  fonte  principale  è  Dico.  XXII.  Vedi 
inoltre  Plut.  Pi/rrh.  22-24.  Iustin.  XXIII  3.  Dionys.  XX  8.  Di  moderni  v.  il 
poco  importante  scritto  speciale  di  E.  Ciaceri  Sulla  spedizione  di  re  Pirro  in 
Sicilia  (Catania  1902). 

(2)  DioD.  XXII  8. 


408  CAPO   XXI    -    LA    SOTTOMISSIONE    DRfrLI   ITALIOTI 

Santina  di  navi  da  guerra  che  scortavano  i  trasporti  (1).  Quindi 
non  solo  non  conduceva  aiuti  italici,  prescindendo  dalle  navi  da 
guerra  che  saranno  state  in  buona  parte  fornite  da  Taranto  —  e 
ciò  si  spiega,  perchè  gli  Italici  abbisognavano  di  tutte  le  loro  forze 
per  resistere  contro  Roma  —  ma  aveva  anche  lasciato  in  Italia 
più  della  metà  de'  suoi  Epii'oti.  Veniva  quindi  non  per  vincere  con 
le  sole  sue  forze  i  Cartaginesi,  che  sarebbe  stato  impossibile,  ma 
per  mettere  i  Sicelioti  in  condizioni  da  apparecchiare  nell'isola  la 
guerra  dell'indipendenza  contro  lo  straniero. 

PiiTO  non  aveva  una  squadra  sufficiente  x^er  mism'arsi  con  le 
centoventi  navi  di  Magone,  e  perciò  gli  conveniva  di  evitare  lo 
scontro.  D'altra  i3arte  sorvegliare  un'ampia  distesa  di  mare  con 
navi  come  le  antiche  e  con  l'uso  degli  antichi  di  trarlo  frequen- 
temente a  secco  e  bivaccare  a  terra  non  era  troppo  facile;  e  per 
questo  gli  esempì  di  violazione  di  blocco  nella  storia  antica  sono 
assai  numerosi.  Ad  ogni  modo  a  Pirro  riuscì,  passando  alquanto 
al  largo  del  Faro,  di  far  rotta,  senza  che  Magone  se  ne  avvedesse, 
da  Locri  per  Taormina,  dove  Tindarione  che  ne  era  tiranno  lo 
accolse  come  alleato  e  lo  soccorse  con  truppe.  Griunto  poi  a  Ca- 
tania, dove  fu  accolto  come  un  salvatore,  il  re  sbarcò  co'  suoi  sol- 
dati e  procedette  i^er  terra  sulla  via  costiera  verso  Siracusa,  mentre 
l'armata  rasentava  la  sponda.  E  quando  si  presentò  con  le  sue 
forze  di  terra  e  di  mare  dinanzi  a  Siracusa,  la  squadra  di  Magone 
che  avrebbe  dovuto  inseguirlo  non  si  scorgeva  nei3pure  all'oriz- 
zonte, e  gli  assedianti  che  avevano  distaccato  proprio  in  quel  punto 
trenta  navi,  probabilmente  per  scortare  qualche  trasporto  di  vet- 
tovaglie ,  non  osarono  con  le  settanta  rimanenti  scontrarsi  con 
l'armata  di  Pirro  temendo  che  i  Siracusani,  messe  in  mare  le  loro 
navi  da  guerra,  non  li  assalissero  frattanto  da  tergo.  Cosi  Pm-o 
entrò  liberamente  in  Siracusa  e  fu  messo  da  Tenone  e  da  Sosi- 
strato  in  possesso  dei  quartieri  di  Siracusa  che  ciascuno  di  essi 
occupava,  di  centoventi  navi  da  guerra  protette  e  di  venti  sco- 
perte. E  mentre  l'esercito  cartaginese  che  assediava  la  città  per 
terra  si  ritirava  in  fretta,  correndo  ormai  pericolo,  dopo  la  partenza 
della  squadra,  d'esser  tagliato  fuori  dalla  provincia  punica,  conve- 
nivano a  Siracusa  i  rappresentanti  delle  principali  città  greche  del- 
l'isola, da  cui  Pirro  fu  ])roclamato  capo  e  re  della  Sicilia  (2).  Come 


(1)  Appian.  Samn.  20,  dove  e  da  leggere  col  Niebuhr  R.  G.  Ili  p.  598:  M^fd 
re  Tujv  èXeflpdvTijuv  koI  ÒKTaKiaxiXitJuv  (kc^ùiv  koì)  ...  Imréujv. 

(2)  'Hyeiaàiv  koI  paaiXeù^,  Polyh.  VII  4,  5.  Cfr.  Iustin.  XXIII  3,  3.  Sulle  sue 
monete  v.  Holm  St.  della  Sicilia  III  2,  203  segg. 


PIKKO    IX    SICILIA  409 


re  di  Sicilia  Pirro  battè  anche  moneta,  e  alla  successione  destinò 
il  figlio  natogli  da  Lanassa,  Alessandro,  che,  quale  discendente  da 
Agatocle,  poteva  contare  sul  favore  di  quanti  rimpiangevano  il 
grande  tiranno. 

Trascorso  fra  negoziati  ed  apparecchi  l'inverno  278/7,  sul  prin- 
cipio della  primavera  del  277  Pirro  cominciò  la  sua  offensiva 
contro  i  Cartaginesi.  Per  via  quelli  di  Enna  si  diedero  al  re,  cac- 
ciato il  presidio  punico  (1),  e  Sosistrato  gli  rimise  Agrigento  e  le 
città  che  avevano  formato  l'impero  di  Finzia.  Computate  le  forze 
proprie  e  quelle  dei  Sicelioti,  Pirro  disponeva  ormai  nell'isola  di 
trentamila  fanti  e  duemilacinquecento  cavalli,  sicché  i  Cartaginesi 
per  timore  dell'esercito  greco  e  del  suo  duce  non  osavano  neppure 
di  cimentarsi  in  campo.  Pùto  quindi  occupò  l'una  dopo  l'altra  le 
città  greche  ed  alcune  della  provincia  cartaginese,  Eraclea,  Seli- 
nunte,  Alicie,  Segesta,  poi  nonostante  la  fortezza  della  posizione 
Erice.  nel  cui  assalto  die  saggio  di  grande  valore,  da  ultimo  il  porto 
fenicio  di  Panormo  e  la  fortezza  che  lo  dominava  del  monte  Heh'kte 
(monte  Pellegrino)  ;  onde  ai  Cartaginesi  non  rimase  più  che  Lilibeo. 

La  ragione  dei  rapidi  e  meravigliosi  successi,  per  cui  il  re  in 
una  sola  campagna  ebbe  ridotto  i  Cartaginesi  in  distrette  peg- 
giori di  quelle  cui  i  Romani  prima  della  vittoria  delle  Egadi  li 
ridussero  in  ventiquattro  anni  di  guerra,  stava  nella  energia  e 
nella  genialità  del  duce  e  nel  fervore  patriottico  con  cui  ini- 
ziarono sotto  di  lui  la  riscossa  contro  lo  straniero  i  Sicelioti.  Le 
cose  dei  Cartaginesi  erano  a  tale  che  chiesero  pace  rinunciando 
a  tutti  i  possedimenti  di  Sicilia,  salvo  Lilibeo,  e  promettendo  de- 
nari e  navi.  Offrendo  questi  patti  i  Cartaginesi  violavano  il  trat- 
tato concluso  poco  innanzi  con  Roma;  ma  l'esempio  del  provvedere 
agli  interessi  propri  senza  occuparsi  degli  alleati  l'avevano  avuto 
dai  Romani  che,  profittando  dell'assenza  di  Pirro  per  prendere 
una  vigorosa  offensiva  contro  i  loro  avversari  italici,  non  s'erano 
punto  curati  di  soccorrere,  nelle  distrette  in  cui  si  trovavano,  i 
Cartaginesi.  Se  ora  Pirro  accettava  e  tornava  in  Italia  nella  pri- 
mavera del  276  coi  sussidi  cartaginesi,  coi  rinforzi  siciliani  e  con 
la  gloria  dei  successi  riportati,  avrebbe  potuto  riprendere  coi  mi- 
gliori auspici  la  lotta  con  Roma.  Né  del  resto  doveva  restargli 
nascosta  la  difficoltà  di  conquistar  Lilibeo  assalendola  soltanto 
per  terra,  come  pel  momento  egli  sarebbe  stato  costretto  a  fare. 


fi)  DioD.  XXII  10,  1  con  la  correzione  del  Bicloch  '  Hermes  '  XXVIII  (1893) 
p.  630. 


410  CAI'O    XXI    -    LA    SOTTOMISSIONE    DEOLI    ITALIOTI 

data  la  suporiorità  della  marina  cartaginese.  Lilibeo  era  posta 
sopra  un  promontorio  sijorgente  a  modo  di  penisola,  che  i  Carta- 
ginesi avevano  con  gran  ciu-a  fortificato  dalla  parte  di  terraferma, 
mentre  avevano  anche  provveduto  largamente  di  vettovaglie  e 
d'armi  d'ogni  maniera  la  città;  sicché  se  i  difensori  non  erano 
presi  dal  panico  o  non  peccavano  di  negligenza,  conciuistaiia  non 
si  poteva  se  non  battendola  per  parte  di  mare;  né  ciò  era  possi- 
bile a  Pirro  senza  aumentare  di  molto  la  marina  da  guerra,  il  che 
richiedeva  tempo  e  tali  sacrifizi  per  parte  dei  Sicelioti  che  era 
molto  incerto  se  avrebbero  avuto  la  volontà  di  sopportarli.  Cosi 
stando  le  cose  par  difficile  a  spiegai'e  come  Pirro  non  fermasse  la 
pace  coi  Cartaginesi  alle  condizioni  da  essi  offerte  ;  ma  la  ragione 
deve  cercarsi  nel  riguardo  che  egli  doveva  alla  opinione  pubblica 
dei  Greci  di  Sicilia.  Questi  infatti  si  vedevano  vicini  ad  esser  libe- 
rati da  ogni  ingerenza  straniera  e  volevano  che  tale  liberazione 
fosse  piena  e  dtu'atura,  x^ersuadendosi,  e  con  ragione,  che  il  peri- 
colo cartaginese  persisteva  semiDre  finché  i  Cartaginesi  avevano 
un  piede  in  Sicilia  e  che,  appena  liberi  dal  timore  di  Pirro,  co- 
storo avrebbero  ripreso  da  Lilibeo  le  loro  mene  a  danno  dell'el- 
lenismo, come  in  effetto  avvenne.  E  Pirro  era  costretto  a  tener 
conto  assai  maggiore  dell'  opinione  pubblica  de'  suoi  alleati  di 
(|uel  che  non  facesse  in  un  caso  analogo  Napoleone  HI  quando, 
sfidando  l'opinione  pubblica  italiana,  segnò  i  preliminari  di  Villa- 
franca  che  lasciavano  all'Austria  il  Veneto;  poicliè  la  sua  autorità 
in  Sicilia  non  procedeva  dalle  poche  migliaia  d'Epiroti  che  aveva 
condotto  seco,  ma  dalla  libera  volontà  e  dal  sentimento  nazionale 
dei  Sicelioti.  E  la  guerra  continuò.  Pirro  tentò  prima  di  tutto  di 
impadronirsi  di  Ijilibeo  assalendola  dalla  parte  di  terra,  valendosi 
d'ogni  sussidio  dell'arte  militare  ellenica,  ma,  come  era  prevedibile, 
non  gli  venne  fatto;  onde,  dopo  due  mesi  di  vani  tentativi,  levato 
non  senza  perdite  l'assedio,  cominciò  a  prendere  i  provvedimenti 
necessari  per  l'aumento  del  naviglio.  Col  quale,  quando  avesse 
acquistato  il  dominio  del  mare,  disegnava  di  portar  la  guerra  in 
Africa  come  aveva  fatto  Agatocle;  ed  è  da  credere  che  in  Africa 
avrebbe  potuto  emulare  i  felici  successi  del  suocero  e  prevenire 
fors'anche  quelli  del  maggiore  Africano.  Senonchè  i  Sicelioti,  con 
la  stessa  leggerezza  con  cui,  non  paghi  di  quel  che  s'era  ottenuto, 
avevano  chiesto  poco  prima  la  guerra  all'ultimo  sangue  con  lo  stra- 
niero, quando  ebbero  provato  con  lo  smacco  di  Lilibeo  le  sorti 
incerte  della  guerra  e  videro  che  a  vincere  si  ricercavano  ingenti 
sacrifizi  di  denaro  e  di  sangue,  sentirono  sbollire  la  loro  ardenza 
bellicosa  e  cominciarono  a  dimostrarsi  recalcitranti  o  ribelli  all'au- 


PIRRO    IX    SICILIA  411 


torità  del  re.  Ma  Pìito  procedeva  ne'  suoi  apparecchi  adoijerando 
co'  riottosi  rude  energia  di  soldato  e  non  esitando  ad  occupare 
militarmente  le  città  e  ad  arrestare  o  mettere  a  morte  gli  avver- 
sari o  quelli  che  erano  creduti  tali;  tra  i  quali,  non  sappiamo  se 
sospettato  a  ragione  o  a  torto^  fece  uccidere  quel  Tenone  che  gli 
aveva  dato  in  mano  l'isola  di  Ortigia.  Peraltro  la  violenza  non 
valse  che  ad  alienargli  maggiormente  gii  animi,  dacché  le  sue 
forze  erano  troppo  scarse  per  tenere  l'isola  contro  il  volere  dei 
Sicelioti.  E  chi  si  credeva  in  pericolo  pensò  alla  propria  sicurezza: 
cosi  Sosistrato  che,  am.monito  dalla  sorte  di  Tenone,  si  mise  in 
salvo  in  Agrigento,  xjrivando  Pirro  degli  aiuti  della  seconda  città 
dell'isola.  Ormai  ribellioni  cominciarono  da  ogni  parte,  e,  secondo 
il  consueto,  i  ribelli  non  si  tennero  dal  chiedere  aiuto  a  quegli 
stranieri  contro  cui  avevano  chiamato  Pirro,  ai  Cartaginesi  ed  ai 
Mamertini.  Frattanto  i  Cartaginesi  per  profittare  degli  umori  mu- 
tati, rifornitisi  di  mercenari,  in  Italia,  si  affrettarono  a  sbarcare 
un  nuovo  esercito  in  Sicilia,  con  cui  osarono  mostrarsi  in  campo 
contro  Phro,  il  quale,  privo  degli  aiuti  di  Sosistrato,  non  poteva 
disporre  in  nessuna  maniera  di  più  che  ventimila  uomini.  Purtut- 
tavia  il  re  vinse  ancora  una  volta  (1);  ma,  giudicando  la  sua  po- 
sizione in  Sicilia  ormai  insostenibile,  profittò  della  vittoria  non 
per  riguadagnare  terreno,  ma  per  imbarcarsi  salvando  il  suo  de- 
coro, in  modo  che  la  ritirata  non  avesse  colore  di  fuga. 

Litanto  i  Romani  avevano  saputo  trar  profitto  dalla  lontananza 
del  re.  La  scelta  stessa  dei  consoli  che  dal  278  al  274  furono  di 
regola  duci  già  sperimentati  a  fronte  del  nemico,  Fabricio  Luscino, 
Emilio  Pax)o,  Cornelio  Rufino,  Griunio  Bubulco,  Fabio  Gurgite  e 
Curio  Dentato,  mostrava  il  loro  proposito  di  condurre  innanzi  con 
prudenza  e  risolutezza  la  guerra.  Grià  nel  278,  dopo  la  partenza 
di  Pirro,  Fabricio  corse  vittoriosamente  l'Italia  meridionale,  per 
modo  che  potè  trionfare  dei  Lucani,  Sanniti,  Tarentini  e  Bruzi  (2), 
e  sembra  perfino  che  riuscisse  a  guadagnarsi  Eraclea  sul  golfo  di 
Taranto,   l' antica  sede  d^l  consiglio  della  lega  italiota  (3).  Nel- 


(1)  lusTiN.  XXllI  .3,  9,  degno  di  fede,  sebbene  ci  manchi  su  questa  vittoria 
qualsiasi  particolare,  piìi  di  altre  fonti  che  dicono  Pirro  cacciato  di  Sicilia 
dai  Cartaginesi,  come  Zonar.  Vili  5  e  più  chiaramente  Appian.  Sanui.  12:  Kap- 
Xlboviujv  aÙTÒv  é£e\aodvTujv  éK  ZiKeXiaq. 

(2)  F.  triKinph.  ad  a.  278. 

(3)  Cic.  jjfo  Balbo  22,  50:  quacuin  (Heracleu)  prope  ningulure  foedus  Pijrrìii 
temporibus,  C.  Fabricio  constile  ictum  putatur.  II  j^^ttatur  di  Cicerone  si  riferisce 
forse  alla  singolarità  del  foedus,  non  alla  data.  E  ad  ogni  modo  le  condizioni 


412  CAPO   XXI   -   LA   SOTTOMISSIONE    DEGLI    ITALIOTI 

l'anno  seguente  (277)  il  console  Giunio  Bubulco  trionfò  sui  Lucani 
e  sui  Bruzi;  e  anclie  nel  Sannio  penetrarono  i  Romani  devastando 
l'aperta  campagna,  mentre  i  Sanniti  si  rifugiavano  tra  i  monti  o 
nei  luoghi  fortificati.  E  vero  che  nel  tentare  l'assalto  di  uno  di 
questi  rifugi  nei  monti  Graniti  gli  invasori  soffersero  non  pochi 
danni  (1)  ;  ma  non  per  questo  furono  in  grado  i  Sanniti  di  affron- 
tare il  nemico  in  battaglia  campale.  Contro  i  Grreci  poi  consegui- 
rono i  Romani  vantaggi  notevoli,  come  il  riacquisto  di  Crotone  e  di 
Locri  (277),  che  forse  scoraggita  da  ciò  che  le  era  toccato  soffrii'e 
per  l'assalto  dei  Cartaginesi,  x^assò  ai  Romani  cui  tradì  il  suo  pre- 
sidio epirota  (2).  E  l'anno  seguente  276,  in  cui  Q.  Fabio  Glm-gite 
trionfò  sui  Sanniti,  sui  Lucani  e  sui  Bruzì,  continuò  l'avanzata  dei 
Romani,  diretta,  a  quanto  pare,  principalmente  in  questa  e  nelle 
seguenti  campagne,  a .  separare  la  maggior  tribù  dei  Sanniti,  i 
Pentri,  dall'altra  pur  molto  importante  degli  Irpini  (v.  oltre  p.  420). 
Onde  lo  stato  delle  cose  divenne  tale  che  i  Sanniti,  ormai  stremati, 
e  i  Tcirentini  ebbero  a  chiamare  novamente  con  viva  istanza  Pirro 
al  soccorso.  Pùto  pertanto  nella  primavera  del  275  si  preparò  a 
passare  di  nuovo  m  Italia:  tanto  più  volentieri  in  quanto  che  di 
nulla  Bra  più  in  grado  di  venù'e  a  capo  in  Sicilia. 

Il  ritorno  di  Pirro  fu  poco  fortunato:  poiché,  colto  presso  lo 
stretto  dalla  squadra  cartaginese,  perdette  molte  delle  sue  navi  (3)  ; 
e  sbarcato  poi  nelle  vicinanze  di  Regio  e  assalito  dai  Regini 
aiutati  da  quelli  di  Messina,  non  senza  difficoltà  riuscì  a  conduiTe 
in  salvo  le  sue  milizie  (4),  che  non  dovevano  salire  del  resto  a  più 


favorevoli  fatte  aj^li  Eracleoti  (tanto  che  neir89  esitarono  ad  accettare  la  cit- 
tadinanza l'omana,  Cic.  ibid.  8,  21)  confermano  che  s'accordarono  con  Roma 
prima  che  Taranto  fosse  obbligata  a  cedere. 

(1)  ZoNAK.  Vili  6.  Il  nome  non  ricorre  altrove. 

(2)  ZoNAR.  1.  e.  La  presa  di  Crotone  è  attestata  anche  da  Frontin.  strat.  HI  4, 
quella  di  Locri  anche  da  Appian.  Samn.  12.  È  molto  inverisimile  poi  la  sup- 
posizione del  Beloch  III  1  p.  574  n.  1  che  la  ribellione  di  Locri  a  Pirro  sia 
un  duplicato  della  ribellione  ai  Romani  nel  280.  Il  silenzio  dei  fasti  trionfali 
mostra  qui  solo  che  in  questa  età  il  senato  non  era  prodigo  di  ti-ionfi. 

(3)  Questa  rotta  navale  è  ricordata  da  parecchie  fonti  (Appian.  Samn.  12. 
Plut.  Pyri-h.  24.  Pausan.  I  12,  5.  Itted.  Vatic.  '  Hermes  '  XXVII  p.  121)  e  non 
è  da  mettersi  in  dubbio;  probabilmente  l'ha  esagerata  Appiano  parlando  di 
70  navi  affondate;  giacche  sembra  che  Pirro  sia  riuscito,  sia  pure  con  qualche 
difficoltà,  a  mettere  in  salvo  le  sue  truppe  e  i  suoi  elefanti. 

(4)  Plut.  Pijrrh.  1.  e.  Questi  combattimenti  nel  territorio  di  Regio  diedero 
occasione  all'equivoco  dell'assalto  dato  da  Pin*o  a  Regio  partendo  da  Locri, 
ZONAF.    VIII   6. 


RITORNO    DI    PIRRO    IX    ITALIA  413 

(Vun  ottoniila  uomini  (Ij.  Dopo  ciò  come  Pirro  oiunse  presso  Locri, 
e,  avendo  i  suoi  partigiani  ripreso  il  sopravvento,  gli  si  diede  la 
città,  egli  si  comportò  assai  severamente  verso  quelli  che  avevano 
tradito  il  suo  presidio  ai  Romani  e  (forse  dando,  com'era  uso.,  alla 
sua  usurpazione  colore  di  prestito)  s'impadroni  dei  tesori  del  tempio 
di  Persefone,  che  più  tardi  restituì  almeno  in  parte,  temendo  l'ira 
della  dea  (2).  Da  Locri  recatosi  a  Taranto,  s'apparecchiò  il  re  alla 
nuova  campagna.  Ma  le  milizie  epirotiche  e  macedoniche  da  lui 
condotte  in  Italia  e  in  Sicilia  avevano  troppo  sofferto  nelle  guerre 
micidiali  coi  Romani  e  coi  Cartaginesi,  ne  si  potevano  rifornire 
con  nuove  leve,  perchè  non  conveniva  spogliare  ulteriormente  delle 
sue  milizie  il  piccolo  Eph'o,  e  tra  gli  alleati  italiani  alcuni,  come 
Crotone  ed  Eraclea,  erano  stati  sottomessi  da  Roma,  altri,  come 
i  Sanniti,  erano  ridotti  da  una  guerra  incessante  ed  accanita  in 
tali  angustie  che  non  si  trovavano  più  in  grado  d'inviare  al  re 
contingenti  notevoli;  cosicché  Pirro  non  valeva  più  a  misurarsi 
con  due  eserciti  consolari  riuniti. 

Consoli  nel  275  erano  M'.  Curio  Dentato  e  L.  Cornelio  Lentulo, 
dei  quali  mentre  il  secondo  guerreggiava  nella  Lucania,  M'.  Curio 
aveva  preso  l'offensiva  nel  Sannio  ed  era  a  campo  presso  quella 
città  di  Maluento  o  Malevento,  che  i  Romani  jyoì  per  buon  augurio 
cliiamarono  Benevento,  sia  che,  com'è  probabile,  fosse  già  conqui- 
stata, sia  che  si  trovasse  sul  punto  di  cadere.  Il  re  si  propose,  in- 
nanzi che  i  due  consoli  si  fossero  potuti  congiungere,  di  piombare 


(1)  Si  ricordi  che  ne  aveva  condotti  in  Sicilia  diecimila  (v.  s.  j).  407).  Se- 
condo Plutarco  1.  e.  giunse  a  Tai-anto  con  20  mila  fanti  e  3  mila  cavalli  :  se 
non  v'è  esagerazione,  sono  in  buona  parte  gli  aiuti  degli  alleati  Bruzì  e  Lu- 
cani da  lui  raccolti  per  via. 

(2)  Appian.  Samn.  12.  Zonak.  Vili  6.  Dionys.  XX  9-10.  Liv.  XXIX  18  etc.  Se- 
condo le  nostre  fonti  le  navi  che  portavano  i  tesori  della  dea,  sorprese  dalla 
tempesta,  naufragarono,  e  mentre  gli  equipaggi  perivano  tra  le  onde,  il  mare 
stesso  riversava  sulla  sponda  i  tesori,  che  poi  Pirro,  pentito,  avrebbe  fatto  re- 
stituire al  tempio.  La  fallacia  di  questo  racconto,  evidente  per  se,  è  dimo- 
strata anche  dall'analogia  del  racconto  sui  tesori  di  Eolo  rubati  da  Agatoclc. 
Ed  a  ragione  ritiene  lo  Schubert  p.  219  che  l'ultimo  (in  cui  l'ira  del  re  dei 
venti  motiva  assai  meglio  la  tempesta)  sia  l'originale  dell'altro.  Fondamento 
dell'invenzione  è  che  l'opinione  pubblica  condannò  come  sacrilego  l'atto  del  re 
e  Pirro  stesso,  che  non  era  scevro  di  òeiobiai|uovia,  attribuì  all'ira  della  dea  il 
cattivo  esito  dell'ultima  sua  campagna  italiana,  come  risultava  da'  suoi  com- 
mentari (Dionys.  1.  e),  e  per  resipiscenza,  certo  quando  partì  dall'Italia,  fece 
ricollocare  nel  tempio  quel  che  rimaneva  dei  tesori. 


414  CAPO    XXL    -    LA    SOTTO?,irs.S]OXF,    UFA-ÌA    rTAl,If)Tr 

con  la  maggior  rapidità  sopra  Curio,  mandando  iioclie  forze  per 
tenere  a  bada  l'altro  console  o,  nel  caso  peggiore,  ])er  ritardare  la 
sua  avanzata.  Di  fatto  giunse  presso  Benevento  mentre  Cornelio 
n'era  ancora  lontano,  sebbene,  messo  sull'avviso,  movesse  al  soc- 
corso del  collega.  Ed  ora  Pirro  voleva  ad  ogni  costo  dare  battaglia 
prima  che  Cornelio  sopraggiungesse^  mentre  invece  M'.  Curio  Den- 
tato, clie  era  il  più  sperimentato  tra  i  generali  romani,  si  teneva 
prudentemente  nel  suo  accampamento  fortificato  aspettando  l'ar- 
rivo del  collega.  Pirro,  ]3er  costringerlo  a  battaglia,  divisò  di  oc- 
cupare di  notte  per  sorpresa  certe  alture  che  dominavano  il  campo 
romano,  e  di  là  poi  tentare  l'assalto.  Ma  la  marcia  nottui'na  in 
paese  boscoso  e  poco  conosciuto  fu  alquanto  disordinata,  e.  già  era 
mattino  quando  le  prime  file  delle  colonne  di  Pirro  coi  soldati 
stracchi  e  gli  ordini  perturbati  apparvero  in  vista  del  campo 
romano.  Del  disordine  profittò  Curio  Dentato  per  fare  con  le  sue 
milizie  fresche  una  sortita  che  sulle  prime  gli  riuscì  assai  felice- 
mente, tanto  che,  respinti  i  Greci,  caddero  in  sua  mano  alcuni 
elefanti.  Ma  riavutisi  dalla  sorpresa,  gli  Epiroti  riordinarono  le 
loro  schiere,  e  i  Romani  alla  lor  volta  dovettero,  all'urto  della  fa- 
lange, piegare  fino,  all'accampamento.  Senonchè  allora  Cmno  fece 
salh'e  sul  vallo  le  sue  riserve  e  con  armi  da  getto  ferire  i  Grreci  che 
si  avanzavano,  e  scompigliare  i  loro  elefanti  superstiti.  Onde  Pirro 
dovette  retrocedere,  perchè  con  le  milizie  stanche  dalla  marcia 
notturna  e  disanimate  dal  successo  non  buono  delle  prime  avvi- 
saglie non  era  prudente  un  assalto  ad  un  campo  fortificato  e  messo 
ormai  dal  nemico  in  assetto  di  difesa.  E  non  avendo  potuto  con- 
durre a  buon  termine  la  sua  sorpresa,  come  l'altro  console  si  av- 
vicinava, e  mancavano  a  Pirro  forze  sufficienti  per  resistere  ad 
ambedue,  non  gli  restava  che  ritirarsi  (1). 


(1)  La  sola  relazione  passabile  su  questa  battaglia  è  in  Plut.  Pvrrh.  25,  cfr. 
DioNYS.  XX  10.  PoLYB.  XVIII  28,  10  rappresenta  la  battaglia  come  indecisa. 
lusTiN.  in  un  luogo  (XXIII  3,  12)  chiama  la  battaglia  di  Benevento  foeda  ad- 
versus  Romanos  pugna,  in  un  altro  (XXV  5,  5)  riguarda  Pirro  come  sempre 
invitto.  La  tradizione  romana  la  considera  invece  concordemente  come  una 
grande  vittoria  (Flou.  1  18.  Eutkop.  Il  14,  3.  Oros.  IV  2.  Fkontin.  sti-at.  IV  1,  14. 
ZoNAR.  VIII  16).  Il  trionfo  di  M'.  Curio  de  Samnitihua  et  rege  Pijrrho,  attestato 
dai  fasti  trionfali,  non  è  da  revocare  in  dubbio,  come  neppure  la  notizia  con- 
fermata da  Plin.  n.  h.  Vili  16  sugli  elefanti  caduti  in  mano  dei  Romani.  Il 
fatto  che  l'altro  console,  Lentulo,  trionfò  non  di  Pirro,  ma  de  SmnmtiÒHft  et 
[Lucaneis]  (il  supplemento  par  sicuro)  conferma  il  racconto  tradizionale  della 
battaglia.  E  poiché  non  Curio,  ma  Lentulo,  trionfò  dei  Lucani,  ciò   conferma 


BATTAGLIA     DI     lii:Xi:\' l'.N'rO.    l'AKTKXZA     DI     l'IUllO  41.5 

Sebbene  potesse  dirsi  incerto  l'esito  della  battaglia  campale, 
non  ebbero  torto  i  Romani  di  considerarla  come  una  vittoria  ; 
])OÌcliè  la  ritirata  di  Pirro  determinò  le  sorti  della  guerra.  Pirro 
infatti,  riconosciuto  che  non  era  più  in  grado  di  affrontare  i  Ro- 
mani in  campo  ax3erto,  poteva,  non  i^iù  impedire,  ma  solo  tentare 
di  ritardare  i  progressi  loro  a  danno  de'  suoi  alleati.  Altra  via  per 
poter  riprendere  le  offese  non  gli  rimaneva  fuorché  quella  di  chie- 
dere soccorsi  di  soldati  a  quei  sovrani  greci  che  potevano  aver  in- 
teresse a  difendere  l'ellenismo  in  Italia  e  a  tener  lui  lontano  dalla 
Grecia,  quali  Antioco  Sotere,  che,  succeduto  al  padre  Seleuco  IsTica- 
tore,  non  ne  aveva  conservato  che  i  j)ossedimenti  asiatici,  e  Anti- 
gono Gronata,  il  tiglio  di  Demetrio  Poliorcete,  cui  era  riuscito  (277) 
l' acquisto  della  Macedonia  caduta  nell'  anarchia  dojDO  l' invasione 
gallica.  Ma  i  due  re,  alieni  del  resto  ambedue  da  imprese  incerte 
e  rischiose,  avevano  cure  più  stringenti  né  potevano  allora  ridurre 
i  loro  eserciti  inviandone  parte  nella  penisola;  poiché  Antigono 
doveva  assicui^arsi  del  regno  di  recente  conquistato  e  farne  sparire 
il  disordine  lasciatovi  dai  barbari,  e  Antioco,  mentre  da  una  parte 
doveva  tenere  a  segno  i  Celti  che  erano  passati  nell'Asia  Minore, 
dall'altra  era  sul  punto  d'iniziare  quella  guerra  con  Tolemeo  Fila- 
delfo  re  d'Egitto,  che  è  nota-  col  nome  di  prima  guerra  di  Siria. 
Privo  dei  loro  soccorsi,  Pirro,  visto  ormai  che  consumava  in  Italia 
senza  un  guadagno  proporzionato  le  sue  forze,  lasciando  a  Taranto 
un  validissimo  presidio  sotto  il  figlio  Eleno  e  il  comandante  Mi- 
lone,  intorno  all'equinozio  d'autunno  del  275  (1)  con  ottomila  fanti 
e  cinquecento  cavalli  s'irabarcò  segretamente  (2) ,  non  tanto  per 
partire  senza  che  i  Tarentini  se  ne  accorgessero  quanto  per  giun- 


che la  battaglia  fu  combattuta  nel  Samiio,  come  si  trae  da  Plutarco  che  la 
colloca  presso  Benevento  {Pyrrh.  25).  Livio  collocava  invece  la  battaglia  in 
Lucania  nei  campi  Arutini  (Flor.  I  13,  11.  Ouos.  IV  2,  3.  Frontin.  loc.  cit.),  di 
cui  Frontino  dice  che  erano  circa  urbem  Maluentum  (i  codd.  hanno  Statuentum 
0  Fatuentum,  ma  la  correzione  pare  evidente).  Sicché  anche  per  Livio  pro- 
babilmente il  combattimento  avvenne  presso  Benevento,  e  solo  per  un  errore 
geogx'afico,  che  in  lui  non  deve  far  meraviglia,  egli  ha  riputato  Benevento 
come  città  lucana.  Cfr.  Beloch  Gr.  G.  Ili  2,  400  seg. 

(1)  Oros.  IV  2,  7  computa  a  cinque  anni  la  sua  permanenza  in  Italia.  Plut. 
1.  e.  a  sei,  ed  essendo  il  re  giunto  nel  marzo  o  aprile  280,  i  due  dati  si  con- 
ciliano se  Pirro  partì  intorno  all'equinozio  d'autunno  del  275,  perchè  erano 
trascorsi  circa  cinque  anni  e  mezzo. 

(2)  Pi.uT.  Pyrrh.   26. 


41G  ('Aro    XXI    -    LA    yOTTOMIS.SlOXK    DKaLI   ITALIOTI 

gere  in  Epiro  prima  che  la  notizia  del  suo  arrivo  pervenisse 
in  Macedonia.  Il  numero  dei  soldati  con  cui  parti,  anche  compu- 
tando largamente  il  presidio  da  lui  lasciato  a  Taranto  e  forse  pur 
quello  d'altre  città,  benché  d'altri  presidi  non  abbiamo  contezza 
sicura,  mostra  che  più  della  metà  delle  sue  truppe  eran  rimaste 
sul  campo  di  battaglia, 

Pirro,  partendo  dall'Italia  non  intendeva  punto  di  abbandonare 
in  modo  definitivo  i  Grreci  d'Occidente,  come  mostra  l'avervi 
lasciato  il  figlio  Eleno;  che  anzi  si  disponeva,  a  quel  che  pare, 
ad  intervenire  novamente  con  forze  maggiori.  Se  riusciva  il  ten- 
tativo di  riduiTe  ad  unità  la  Grecia  con  la  Macedonia  e  l'Epiro,  la 
guerra  con  Roma  si  sarebbe  potuta  riprendere  con  ben  altra  spe- 
ranza di  vittoria.  Ma  sebbene  sulle  prime  gli  arridesse  la  fortuna 
nella  conquista  della  Macedonia,  poco  di  poi,  nel  273  o  72,  il  re, 
mentre  tentava  di  sottomettere  la  Grecia,  peri  in  un  combattimento 
per  le  vie  d'Argo.  E  l'Epiro  che  era  venuto  in  grande  potenza  e 
riputazione  soprattutto  per  la  debolezza  della  Macedonia  e  ]3el 
genio  militare  del  suo  re,  declinò  immediatamente  non  appena 
Pirro  fu  morto,  e  la  Macedonia,  riacquistata  da  Antigono  Gonata, 
che  riuscì  ad  assicurarla  alla  sua  casa  cui  rimase  per  un  secolo, 
tornò  ad  essere  una  delle  grandi  i^otenze  ellenistiche. 

A  torto  il  re  geniale  e  sfortunato  con  cui  sorse  e  decadde  la 
potenza  epirota  venne  rappresentato  come  un  cavalleresco  av- 
ventui'iere.  Pirro  era  in  realtà  un  valentissimo  generale  educato 
alla  scuola  di  Demetrio  Poliorcete  e  superava  fors'anche  Alessandro 
Magno,  che  gli  antichi  gli  mettevano  innanzi,  perchè  non  solo  era 
valoroso  della  persona  e  sapeva  come  Alessandro  assalù^e  impe- 
tuosamente il  nemico  alla  testa  della  cavalleria,  ma  sapeva  anche, 
senza  i  consigli  d'uno  stratega  provetto  come  Parmenione,  pre- 
parare assai  bene  piani  di  campagna  e  di  battaglia,  ne  dimenti- 
cava nell'ebbrezza  dell'incalzare  il  dovere  di  diligere,  ed  aveva  la 
prudenza  di  risparmiare  a  tempo  nel  combattimento  la  sua  per- 
sona come  il  coraggio  di  es^DOiia  quando  credeva  con  ciò  rialzare 
le  sorti  della  battaglia.  E  cosi  in  Sicilia,  favorito  è  vero  dal  senti- 
mento nazionale  dei  Greci,  conseguì  in  breve  quello  cui  non  per- 
vennero i  Romani,  che  pui"e  disponevano  di  mezzi  assai  maggiori, 
in  vent'anni  di  battaglie;  e  nonostante  la  inferiorità  numerica 
delle  sue  truppe  non  fu  mai  sconfitto  dai  Romani,  e  potè  condm-re 
a  buon  termine  quella  invasione  del  territorio  romano  nel  280  che 
è  memorabile  nella  storia  dell'arte  militare  e  che  può  paragonarsi 
alle  ijìù  belle  marcie  di  Annibale.  Come  politico  poi  Puto  non 
mancò  né  d'energia,  ne  d'avvedutezza,  se  pur  forse  talora  gli  fece 


PIRRO   E    LE    SUE    IMPRESE  417 

difetto  quella  moderazione  e  quel  garbo  con  cui  avrebbe  potuto 
tentare  di  conciliarsi  gli  animi  dei  repubblicani  greci:  impresa 
disperata  del  resto,  giacché  nessun  principe  ne  venne  mai  a  capo 
dm-evolmente.  Offertasi  a  Pirro  quasi  ad  un  tempo  l'opportunità 
di  difendere  i  Greci  d'Italia  contro  i  Romani,  i  Grreci  di  Sicilia 
contro  i  Cartaginesi  e  di  dare  unità  alla  Grecia  propria,  egli 
tentò  successivamente  tutte  e  tre  queste  imprese,  e  tutte  e  tre  con 
assennatezza  di  politico  e  genialità  di  stratega.  E  assai  difficile 
dire  se  a  quei  tentativi  fosse  Pin"o  incitato  dall'ambizione  o  dal 
sentimento  patriottico;  ma,  certo  non  può  darglisi  carico  se  sejDpe 
trarre  profitto  della  congiuntura  avveMm^ata  che,  dal  280  in  poi, 
il  suo  interesse  personale  bene  inteso  era  conforme  a  quello  della 
nazione;  per  modo  che  se  prima  era  soltanto  un  principe  ambi- 
zioso che  cercava  d'estendere  il  suo  Stato,  dal  280  in  poi,  nel 
maggior  fiore  della  sua  potenza,  Pirro  si  dimostrò  il  vero  rappre- 
sentante degli  interessi  nazionali  greci  nell'Occidente.  Moralmente, 
per  ciò  che  riguarda  le  relazioni  sessuali,  il  suo  tenore  di  vita  era 
rilassato  come  quello  dei  principi  ellenistici  dell'età  sua:  e  anche 
per  altri  rispetti  si  mostrò  figlio  del  suo  tempo,  quando  non  fu 
perplesso  ad  uccidere  o  persino  ad  assassinare  prima  nell'interesse 
proprio,  poi  nell'interesse  della  nazione  ellenica,  o  quando  per  gli 
stessi  motivi  non  esitò  né  a  trasgredire  i  patti  giurati,  né.  a  cal- 
pestare il  diritto  delle  genti.  Ma  se  per  lui  lo  spargimento  di 
sangue,  come  in  generale  pei  principi  ellenistici,  era  un  mezzo  ado- 
perato senza  scrupolo  per  raggiungere  i  suoi  fini,  egli  seppe  anche 
procedere,  quando  ciò  non  era  alieno  dal  suo  interesse,  con  gene- 
rosità cavalleresca. 

Pirro  non  consegui  il  suo  intento  in  Italia  per  la  compagine 
saldissima  dello  Stato  romano,  in  Sicilia  e  in  Grecia  perché  le 
aspirazioni  particolaristiche  e  il  sentimento  repubblicano  sventu- 
ratamente per  la  nazione  ellenica  concitarono  gli  animi  contro  la 
monarchia  unitaria.  Ancora  era  tempo  pei  Greci  d'Occidente  di 
stringersi  insieme  e  con  l' aiuto  dei  connazionali  della  madre 
patria  rialzare  le  sorti  dell'ellenismo:  mentre  una  ventina  d'anni 
dopo  questo  ebbe  a  cedere  senza  riparo  di  fronte  ai  Romani  in 
Italia  e  in  Sicilia.  Il  successo  avverso  dell'impresa  di  Pirro,  di 
cui  la  colpa  non  é  sua,  ma  della  nazione,  fu  dunque  per  la  na- 
zione ellenica  stessa  un  disastro  irreparabile.  Per  l'Italia  fu  in- 
vece un  vantaggio,  perchè  la  vittoria  del  romanesimo  sull'elle- 
nismo rimosse  il  maggiore  impedimento  alla  formazione  di  quella 
omogenea  nazionalità  che  vi  si  è  costituita  appunto  per  effetto 
della   conquista  romana,   laddove  la  forza  espansiva  della  razza 

G.  De  Sanctis,  Storia  dei  Romani,  U.  27 


418  CAPO   XXI    -    LA    SOTTOMISSIONE    DEGLI   ITALIOTI 

greca  era  ormai  cosi  ridotta  che  se  anche  i  Greci  avessero  supe- 
rati gli  Italici  assai  difficilmente  avrebbero  potuto  assimilarli,  e 
ne  sarebbe  seguito  il  perpetuarsi  nella  nostra  penisola  delle  lotte 
nazionali.  Ma  se  in  Italia  Pirro  ritardò  soltanto  di  dieci  anni  la 
conquista  romana,  non  può  negarglisi  la  lode  d'aver  impedito  che 
la  Sicilia  divenisse  una  provincia  cartaginese;  e  si  rese  così  bene- 
m.erito  della  umanità  civile,  agevolando  la  vittoria  degli  Indoeu- 
ropei sui  Semiti  in  Sicilia  e  conseguentemente  nelF  intero  bacmo 
occidentale  del  Mediterraneo.  E  insomma  ci  separiamo  a  malincuore 
da  quest'uomo  che,  qualunque  sia  stata  la  misura  delle  sue  colpe, 
fu  prode,  generoso,  colto,  geniale  e  sfortunato,  per  tornare  ai  me- 
diocri e  poco  geniali  comandanti  romani. 

Poco  dopo  ]Dartito  dall'Italia,  Pirro  aveva  richiamato  da  Ta- 
ranto il  figlio  Eleno  che,  forse  conducendo  al  padre  una  parte 
degli  Epiroti  rimasti  nella  penisola,  prese  parte  con  lui  alla  cam.- 
pagna  del  Peloponneso  (1).  La  partenza  di  Eleno  diede  animo  in 
Taranto  al  jDartito  desideroso  di  pace  con  Roma,  che  si  raccoglieva 
probabilmente  nella  classe  più  ricca,  a  tentar  cose  nuove.  Scoppiò 
infatti  una  sommossa  contro  gli  Epiroti,  guidata  da  un  tal  IsTi- 
cone,  che  fu  i3erò  repressa  dal  comandante  del  presidio  regio 
(274  o  273)  (2).  Tuttavia  quelli  che  vi  erano  compromessi,  riusciti 
in  parte  a  scampare  con  la  fuga,  s' impadi^onirono  d'una  fortezza 
del  territorio  tarentino,  donde,  accordatisi  coi  Romani,  fecero  guerra 
ai  loro  connazionali  rimasti  in  città;  esempio  caratteristico  delle 
discordie  intestine  che  laceravano  i  G-reci  proprio  nel  momento 
in  cui  più  sarebbe  stata  necessaria  l'unione  di  tutti  contro  lo  stra- 
niero. Queste  discordie  affrettarono  il  termine  della  guerra  taren- 
tina.  Morto  Pirro,  suo  figlio  Alessandro,  divenuto  re  d'Epiro,  po- 
teva conservare  a  mala  pena  il  regno  avito ,  e  non  era  in  grado 
di  pensare  a  nuove  imprese  in  Italia.  Ma  non  era  facile  poter  ri- 
tirare da  Taranto  le  milizie  che  la  presidiavano,  poiché  il  partito 
nazionale,  disperando  con  ragione  di  poter  ottenere  dai  Romani 
condizioni  tollerabili,  si  sarebbe  opposto  con  la  forza  alla  loro 
partenza.  Onde  il  comandante  epirotico  Milone,  d'accordo  s'intende 
col  suo  re,  posponendo  gli  interessi  vitali  della  nazione  a  quelli 
della  dinastia  epirota,  s'accordò  per  conto  suo  coi  Romani  e  in- 
trodusse a  tradimento  un   presidio  romano  nella  rocca  a  patto  di 


(1)  Plut.  Pyrrh.  33-34. 

(2)  ZONAR.   Vili  6. 


RESA    DT   TARANTO  419 


poter  liberamente  tornare  co'  suoi  in  Ej)iro  (272)  (1).  Questo  vile 
tradimento  clie  cliiuse  Fimpresa  pel  resto  sfortunata,  ma  gloriosa 
degli  Eijiroti  in  Italia,  spiega  come  Taranto  dovesse  queir  anno 
adattarsi  a  far  pace  ed  alleanza  con  Roma  a  condizioni  assai  dure, 
accogliendo  stabilmente  nella  sua  rocca,  quasi  sola  tra  le  città  fe- 
derate, mi  presidio  romano,  rinunciando  al  diritto  di  batter  mo- 
neta, obbligandosi  a  fornire  ai  Romani  un  contingente  di  navi 
da  guerra  e  guarentendo  infine  l'osservanza  del  trattato  per  mezzo 
della  consegna  di  ostaggi  (2).  E  vero  die  i  Cartaginesi,  preve- 
dendo elle  alla  morte  di  Pirro  i  Tarentini  sarebbero  stati  abban- 
donati dagli  Epiroti,  avevano  pensato  di  cogliere  T  occasione  per 
guadagnare  alla  loro  alleanza  quella  importante  città  marittima,  fer- 
mando cosi  un  piede  in  Italia,  e  avevano  perciò  inviato  una  squadra 
nelle  acque  di  Taranto.  Ma  li  prevennero  i  Romani,  costringendo 
i  Tarentini  all'accordo  xier  effetto  del  tradimento  di  Milone.  Ed  ai 
Cartaginesi  che  non  erano  punto  disposti  a  muover  guerra  a  Roma 
e  die  potevano  coprire  sotto  colore  d'una  tentata  mediazione  il 
loro  intervento  non  troppo  conforme  allo  spirito  dei  trattati,  non 
rimase  die  ritirarsi  (3),  dolenti  certo  d'aver  perduto  tanta  oppor- 
tunità iiroprio  quando,  morto  Pirro,  xiensavano  di  poter  tra  non 
molto  acquistare  una  posizione  preponderante  sul  mar  Ionio  im- 
padronendosi della  Sicilia  orientale;  in  modo  clie  il  loro  tentativo 
su  Taranto  non  ebbe  altro  effetto  se  non  quello  di  raffreddare  le 
loro  relazioni  coi  Romani,  le  quali  non  erano  più  fondate  sulla 
comunanza  degli  interessi  dopo  die  la  morte  di  PiiTO  ebbe  liberato 
i  Romani  dal  pericolo  greco. 


(1)  Liv.  jìer.  14.  Oros.  IV  3,  1.  Frontin.  strat.  Ili  3,  1.  Cass.  Dio  fr.  43,  1. 
ZoNAR.  Vili  6.  Fasti  triumph.  ad  a.  272.  Non  e'  è  dubbio  che  la  resa  accadde 
nel  272  e  non  nei  primi  mesi  del  271.  Cfr.  Beloch  Gr.  G.  Ili  2  p.  224  seg.  Iustin. 
XXV  3,  6  confonde  la  partenza  di  Milone  con   quella  di  Eleno. 

(2)  Beloch  Gr.  G.  Ili  1  p.  665  n.  1.  Pel  presidio  v.  Poi,yb.  II  24,  13.  Ili  75,  4, 
pel  contingente  I  20,  14,  per  gli  ostaggi  Vili  26.  Liv.  XXV  7. 

(3)  L'intervento  cartaginese  è  menzionato  da  tutte  le  fonti  s.  cit.  Orosio, 
probabilmente  fraintendendo  Livio,  vi  aggiunse  del  suo  una  vittoria  navale 
dei  Romani  sui  Cartaginesi ,  che  certo  non  ebbe  luogo.  Ne  il  silenzio  di  Po- 
libio ne  molto  meno  l'asserzione  di  Filino  che 'Pa)|uaioi(;  koI  Kapxn^ovion;  ùnóp- 
Xoiev  auvOriKai  Ka6'  Sq  lòei  'Puj|uaiou^  \xiv  àrréxeoGai  ZiKeXiat;  àiT(i{Jri(;,  Kapxrjboviouq 
ò'  'iTttXiaq  (PoLYB.  II  26,  3)  provano  nulla  in  contrario  :  perchè  quali  che  fos- 
sero le  intenzioni  dei  Cartaginesi,  essi  non  eseguirono  alcuno  sbarco.  E  però 
mi  paiono  infondate  le  negazioni  del  Niese  Gesrh.  dcr  griech.  und  maked. 
Staaten  II  63  e  del  Beloch  Gr.  G.  Ili  2,  225. 


420  CAPO   XXI    -    LA    SOTTOMISSIONE    DEGLI   ITALIOTI 

Frattanto  i  Romani,  mentre  continuavano  vittoriosamente  la 
guerra  contro  i  Sanniti,  i  Lucani  e  i  Bruzì  (1),  avevano  fondato 
la  colonia  latina  di  Pesto  (273)  in  territorio  tolto  ai  Lucani,  nel- 
l'antica città  greca  di  Posidonia,  die  da  più  di  un  secolo  era  pos- 
sedimento lucano  (2).  Nel  272  poi  costrinsero  a  venire  a  patti  in- 
sieme coi  Tarentini  anclie  quei  tre  popoli,  clie  erano  in  armi 
dal  284  (3),  chiudendo  cosi  con  una  piena  vittoria,  dopo  circa  set- 
tant'anni,  le  guerre  sanniticlie.  Per  questa  pace  fu  distrutto  lo 
Stato  sannita  clie  tanto  fieramente  aveva  lottato  con  Roma,  e 
furono  obbligate  a  stringere  leghe  separate  con  Roma  le  federa- 
zioni degl'Irpini  e  dei  Pentri  e  le  singole  città  che,  come  Telesia, 
Compulteria,  Caiazia,  Gaudio,  avevano  fatto  parte  del  distretto 
dei  Caudini.  Spezzata  cosi  l'unità  del  Sannio,  a  render  definitiva 
la  divisione,  separando  il  territorio  dei  Pentri  o,  come  d'allora  in 
poi  si  chiamarono  senz'altro,  dei  Sanniti,  da  quello  degl'Irpini, 
che  d'allora  in  poi  neppure  si  comprendono  più  ordinariamente 
sotto  il  nome  di  Sanniti,  e  mettendo  al  tempo  stesso  in  contatto 
i  possedimenti  romani  della  Campania  con  quelli  dell' Apulia,  si 
confiscò  il  vasto  territorio  di  un  migliaio  di  chilometri  quadrati 
in  cui  si  dedusse  nel  268  la  colonia  latina  di  Benevento,  e  più  ad 
oriente  il  distretto  taurasino,  che  per  allora  rimase  agro  pubblico 
dello  Stato  romano.  Ne  a  questo  si  tennero  paghi  i  Romani,  che 
ai  distretti  di  Atina,  Casino,  Venafro,  Alhfe,  già  tolti  ai  Sanniti, 
vollero  aggiunto  quello  esteso  un  360  km*  in  cui  poi  si  fondò 
nel  263  la  colonia  latina  di  Esernia,  e  probabilmente  s'appropria- 
rono allora  anche  il  tratto  di  territorio  api)artenuto  prima  ai 
Sanniti,  tra  il  confine  meridionale  della  lega  nucerina  e  il  Silaro 
ossia  il  confine  settentrionale  della  lega  lucana,    che  fu  poi  noto 


(1)  I  fasti  triumph.  registrano  all'a.  273  la  vittoria  di  C.  Claudio  Canina  de 
Lucaneis  Samnitibus  Bruti ieisqiie. 

(2)  La  data  è  in  Vell.  I  14.  Il  fatto  è  ricordato  anche  da  Liv.  epit.  14. 

(.3)  I  fasti  trionfali  registrano  trionfi  dei  consoli  Sp.  Carvilio  Massimo  e 
L.  Papirio  Cursore  su  questi  tre  popoli  e  sui  Tarentini.  Ambedue  costoro  erano 
stati  già  insieme  consoli  durante  la  terza  sannitica,  nel  293.  Si  conservava 
ancora  qualche  secolo  dopo  una  pittura  nel  tempio  di  Conso  sull'Aventino  che 
rappresentava  Papirio  con  la  veste  trionfale  (Fest.  p.  209),  riferentesi  probabil- 
mente non  al  suo  trionfo  del  293,  ma  a  quello  del  272,  perchè  il  bottino  del 
293  fu  impiegato,  secondo  Livio  (X  46,  7),  ad  addobbare  il  tempio  di  Quirino. 
Stando  a  Zonara  (Vili  6,  cfr.  Frontin.  Ili  3,  1),  la  vittoria  sui  Sanniti  spette- 
rebbe a  Carvilio,  quella  sugli  altri  popoli  a  Papirio. 


FINE    DELLA   GUERRA    COI   SANNITI.    I   CAMPANI   DI   REGIO  421 

col  nome  di  agro  Picentino.  Pertanto  il  territorio  dei  Sanniti  che 
conservarono  sotto  l'egemonia  di  Roma  la  propria  indipendenza 
non  comprendeva  più  ormai  che  un  ottomila  chilometri  quadrati, 
ossia  meno  della  metà  di  quello  che  i  Sanniti  possedevano  nel  343 
quando  avevano  cominciato  la  loro  lotta  coi  Romani.  E  dopo  tante 
guerre  sfortunate  e  tante  perdite  di  territorio,  privi  della  coesione 
tra  loro,  si  capisce  che  d'  allora  in  poi  dovessero  rassegnarsi  al 
dominio  romano.  E  vero  che  nel  269  avvennero  alcuni  moti  nel 
Sannio  settentrionale  che  mostrarono  come  quei  montanari  vi  si 
acconciassero  riluttanti.  La  coscienza  però  della  inutilità  d'una 
nuova  lotta  coi  Romani  fece  si  che  la  piccola  insurrezione  dei  Ca- 
recini  rimanesse  isolata,  e  quindi  potesse  tosto  soffocarsi  (1)  ;  dopo 
di  che  dal  giogo  romano  innanzi  alla  guerra  sociale  i  Sanniti  ten- 
tarono di  liberarsi  solo  una  volta,  nella  guerra  annibalica,  é  anche 
allora  parzialmente,  perchè  i  provvedimenti  presi  a  tempo  dai  Ro- 
mani impedirono  che  potessero  essere  uniti  nella  ribellione. 

Degli  altri  ]3opoli  sottomessi,  i  Lucani  non  sembra  che  avessero 
a  soffrire  altre  xDerdite  fuorché  quella  del  territorio  di  Posidonia, 
mentre  invece  i  Bruzi  furono  obbligati  a  cedere  la  metà  della 
selva  della  Sila  (2).  Fra  le  città  greche  di  quelle  regioni  Velia  era 
probabilmente  da  qualche  tempo  alleata  con  Roma  (3),  Locri, 
Turi  e  Metapontio,  se  non  prima,  si  strinsero  certo  in  alleanza  con 
Roma  almeno  dal  272,  ricevendo  nelle  cittadelle  presidi  romani  (4). 
Rimanevano  frattanto  in  armi  gli  antichi  avversari  di  Taranto, 
recentemente  alleati  a  quella  città  contro  Roma,  i  Calabri  e  i  Sal- 
lentini.  E  restava  ancora  di  mettere  a  segno  i  Campani  di  Regio 
che,  facendo  troi3po  conto  sulla  pazienza  romana  e  credendosi 
ormai  assicurata  l'impunità  qualunque  cosa  facessero,  distrussero 
Caulonia  (5)  e  s' insignorù'ono  di  Crotone,  che  dal  passaggio  di 
Pirro  in  Sicilia  era  alleata  dei  Romani  e  occupata  da  un  loro 
presidio  (sopra  p.  412)  (6).  Allora  la  misura  fu  colma  e,  in  mezzo 


(1)  ZoNAR.  vili  7.  DioNYS.  XX  17.  11  silenzio  dei  fasti  trionfali  mostra  che 
la  cosa  si  reputò  priva  d'importanza.  Sui  Carecini  v.  I  p.  103  n.  3. 

(2)  DioNYs.  XX  15. 

(3j  Non  pare  infatti  avesse  dal  suo  foedus  altro  onere  che  quello  di  sommi- 
nistrare un  contingente  di  navi  da  guerra,  Polyh.  1  20,  14.  Liv.  XXVI  39. 

(4)  Metapontio  e  Turi:  Liv.  XXV  15;  Locri  ;  Liv.  XXIV  1.  1  Turini  obbligati 
a  consegnare  ostaggi:  Liv.  XXV  7;  i  Locresi  a  fornire  un  contingente  all'ar- 
mata: PoLYB.  XII  5,  2.  Liv.  XLII  48. 

(5)  Pausan.  vi  3,  12. 

(6)  ZoNAR.  vili  6. 


422  CAl'O    XXI    -    LA    SOTTOMISSIONE    DEGLI   ITALIOTI 

alla  pace  quasi  generale,  i  Romani  ebbero  tutta  la  libertà  di  as- 
salire Regio  e  stringerla  d'assedio.  Ma  impadronirsi  senza  un'ar- 
mata navale  di  una  città  marittima  non  era  agevole,  e  per  di  più 
l'esercito  assediante  aveva  poca  comodità  di  vettovaglia.  Senonchè 
ai  Siracusani  clie  in  quel  tempo  combattevano  contro  i  Mamertini 
di  Messina  tornava  assai  in  acconcio  che  non  avessero  più  a  ri- 
cevere soccorsi  dai  loro  connazionali  della  penisola,  e  perciò  aiu- 
tarono efficacemente  le  milizie  clie  assediavano  Regio;  sicché  la 
città  non  tardò  a  cadere  in  mano  dei  Romani  (270)  (1),  e  fu  resti- 
tuita a'  suoi  antichi  abitanti,  che  natm"almente  rinnovarono  tosto  il 
loro  trattato  d'alleanza  con  Roma  (2).  I  Campani  di  Regio  furono 
a  buon  diritto  trattati  come  delinquenti.  I  superstiti  in  numero  di 
sopra  trecento,  condotti  a  Roma,  fui'ono  giustiziati  nel  Foro  a  mal 
grado  di  M.  Fulvio  Fiacco,  tribuno  della  plebe,  che  come  cittadini 
romani  avrebbe  voluto  che  fossero  sottoposti  a  regolare  processo 
dinanzi  al  popolo  (3). 

La  guerra  coi  Picenti,  che  scoppiò  l'anno  dopo  la  presa  di 
Regio,  il  269  (4),  e  la  guerra  con  Sarsina  si  collegano  forse  con 
la  ribellione  dei  Carecini.  I  Picenti  nel  299  erano  entrati  nell'  al- 
leanza romana  cercandovi  una  difesa  contro  i  Pretuttii  loro  vi- 
cini meridionali  e  contro  i  Senoni  loro  confinanti  da  settentrione. 
L'api30ggio  ricevuto  da  Roma  aveva  sorpassato  le  loro  speranze 
tanto  che,  soggiogati  dai  Romani  i  Pretuttii  e  distrutti  i  Senoni, 
il  territorio  piceno  si  trovava  quasi  da  ogni  parte  chiuso  fra  ter- 
ritorio spettante  a  Roma:  onde  era  tolta  ai  Picenti  ogni  libertà  di 
movimento.  Forse  il  x^roposito  fatto  dai.  Romani  di  fortificare  da 
questa  parte  il  loro  confine  settentrionale  fondandovi  a  Rimini 
una  valida  colonia  di  diritto  latino,  che  fu  poi  in  effetto  dedotta 
nel  268  (5),  concitò  i  Picenti  alla  insurrezione.   Ma  era  tardi  per 


(1)  PoLYi?.  I  7.  ZoNAR.  1.  c.  UiONYs.  XX  16.  Liv.  eptt.  15  (cfr.  XXVIII  28).  Okos. 
IV  3.  La  data  è  tratta  dai  fasti  trionfali  che  registrano  al  270  il  trionfo  di 
On.  Cornelio  sui  Regini.  Concorda  Dionisio,  solo  che  invece  di  Cornelio  attri- 
buisce la  presa  di  Regio  al  collega  Genucio.  Orosio  pure  menziona  Genucio, 
ma  pare  che  per  equivoco  intenda  il  console  dell'anno  precedente.  Il  numero 
degli  uccisi  è  dato  da  Polibio  :  altre  fonti  parlano  di  4000  o  4500,  come  se  il 
presidio  campano  tutto  fosse  sopravvissuto  e  tutto  si  fosse  arreso. 

(2)  Regio  fu  presidiata,  ma  non  permanentemente,  dai  Romani,  Liv.  XXIV 
1,  12,  e  fu  obbligata  a  fornire  all'armata  un  contingente  di  navi,  Liv.  XXVI  39. 

(3)  Val.  Max.  II  7,  15,  in  contraddizione  con  Dionisio  ed  Orosio. 

(4)  EuTROP.  Il  16. 

(5)  Vell.  I  14.  Liv.  epit.  15.  Eutrop.  1.  e. 


GUERRA   COI   PICENTI  423 


insorgere;  né  di  molto  momento  era  l'appoggio  della  potente 
città  umbra  di  Sarsina,  che,  certamente  in  guerra  coi  Romani 
nel  266  (1),  sembra  avesse  prese  le  armi  insieme  coi  Picenti  e  per 
la  stessa  cagione.  Soggiogati  i  Picenti  con  due  campagne  nel  269 
e  268  (2),  una  parte  del  loro  paese  fu  incorporata  nel  territorio 
romano,  dando  agli  abitanti  il  diritto  di  cittadinanza  senza  suf- 
fragio (3),  l'altra  fu  confiscata  (4),  deportandone  la  popolazione  in 
quella  regione  compresa  tra  la  Campania  e  la  Lucania  (sopra  p.  420), 
che  n'è  ebbe  nome  di  agro  picentino  (5).  Una  sola  città  picena  ri- 
mase indipendente,  sebbene  costretta  all'alleanza  romana,  Ascoli; 
accanto  a  cui  si  conservò  indipendente  ed  alleata  in  quella  regione 
la  città  greca  di  Ancona,  che  probabilmente  già  prima  aveva  fatto 
adesione  all'alleanza  romana  e  che,  almeno  a  giudicare  dal  silenzio 
delle  fonti,  non  ebbe  alcuna  parte  nella  ribellione  dei  Picenti;  e 
rimase  del  pari  nella  condizione  di  alleata  l'umbra  Sarsina,  che  si 
sottomise  nel  266.  Pochi  anni  dopo,  nel  264,  i  Romani  fondarono, 
a  guardia  del  conquistato  agro  piceno,  la  colonia  latina  di  Eermo 
e,  come  pare,  la  colonia  romana  di  Castro  Novo  (6). 


(1)  Come  sappiamo  dai  fasti  trionfali.  La  importanza  di  Sarsina  risulta  anche 
da  ciò  che,  parlando  degli  alleati  romani  nel  225,  Polibio  II  24,  7  mette  in 
lista  gli  Umbri  ed  i  Sarsinati,  quasi  ritenendo  questi  degni  di  figurare  da 
soli  di  fronte  a  tutte  le  altre  città  umbre;  ma  del  resto  i  Sarsinati,  come  ci 
dice  p.  e.  il  Sarsinate  Plauto  (Mostell.  770),  si  ritengono  Umbri. 

(2)  EuTROP.  e  Liv.  11.  ce.  Flor.  I  19.  Oros.  IV  4,  5-7.  Frontin.  stmf.  I  12,  3. 
F.  triumph.  ad  a.  268.  I  fasti  fanno  trionfare  dei  Picenti  i  due  consoli.  La  tra- 
dizione attribuisce  con  ragione  la  vittoria  decisiva  a  uno  solo. 

(3j  Cfr.  Beloch  Ital.  Band  p.  55.  Ciò  risulta  dalla  testimonianza  esplicita 
di  Livio  per  Auximum,  XLI  26,  e  dalla  menzione  di  prefetture  in  questa  re- 
gione (Caes.  b.  e.  I  15). 

(4)  Che  una  parte  considerevole  del  Piceno  fosse  ager  puUicus  risulta  dalla 
posteriore  deduzione  della  colonia  latina  di  Firmum  (264)  e  delle  colonie  citta- 
dine di  Castrum  Novum  (v.  sotto),  Potentia  (184)  e  Auximum  (157)  e  più  dalla 
rogazione  Flaminia  de  agro  Gallico  et  Piceno  viritim  dividendo,  cfr.  Beloch  1.  e. 

(5)  Così  Strab.  V  251.  È  vero  che  potrebbe  sorgere  il  sospetto  che  si  tratti 
di  un  mito  etimologico  e  che  i  Picentini  siano  una  tribù  sannitica  stabilita 
sul  golfo  di  Salerno  omonima  alla  tribù  sabellica  stabilita  nel  Piceno.  Ma  qui 
peraltro  siamo  in  piena  età  storica.  D'altronde  il  trasporto  di  popolazioni  sog- 
giogate non  manca  di  altri  esempì  nella  storia  d'Italia,  come  quello  dei  Li- 
guri Apuani,  che  nel  180  furono  trasportati  nell'agro  Taurasino  nel  Sannio. 

(6)  Velleio  I  14  dice  che  lo  stesso  anno  di  Fermo  fu  fondata  la  colonia 
di  Castrum.  Livio  {epit.  11)  parla  di  una  colonia  di  Castrum  Novum  pel  289. 
Come  vedemmo  (s.  p.  368  n.  1),  Livio  pare  alludere  a  Castrum  Novum  Etruriae, 
Velleio  a  Castrum  Novum  Piceni,  colonia  romana  in  questa  regione. 


424  CAPO   XXI    -    LA    SOTTOMISSIOXE    DEGLI   ITALIOTI 

Ormai  tutti  i  popoli  della  penisola  italiana  erano  soggetti  a 
Roma  salvo  quelle  tribù  iapigie  della  Terra  d'Otranto  che,  chiamate 
dai  Grreci  Messapì,  si  davano  esse  stesse  il  nome  di  Calabri  nella 
parte  settentrionale,  di  Sallentini  nella  meridionale  di  quella  re- 
gione (I  \).  164  seg.)  (1).  Anche  questi  furono  sottomessi  rapidamente 
in  due  campagne  nel  267  e  266,  e  dovettero  cedere  quella  parte 
del  loro  territorio,  in  cui  era  il  porto  meglio  adatto  pei  commerci 
con  miiria  meridionale  e  la  penisola  greca,  Brindisi  :  segno  che  i 
Romani  si  preparavano  a  iniziare  con  quei  paesi  relazioni  più 
strette.  Quanto  alle  altre  terre  Calabre  e  sallentine,  non  sappiamo 
se  continuassero  a  far  parte  di  quelle  due  leghe  ovvero  se,  sciolte 
dai  Romani  le  leghe,  stringessero  separatamente  trattati  d'alleanza 
con  Roma;  e  dicasi  lo  stesso  dei  Pediculi  o  Peucezì  che  allora, 
se  non  prima,  entrarono  nell'alleanza  romana  (2). 

Sottomessi  i  Calabri,  non  posarono  ancora  del  tutto  le  armi 
nella  penisola.  Grià  prima  s' era  veduto  che  l'Etrmia  non  era  a 
pieno  pacificata.  Forse  il  comportarsi  dei  Ceretani  durante  la  guerra 
di  Pirro  era  parso  a  Roma  alquanto  sospetto  :  certo  è  che  passato 
il  pericolo  i  Romani,  minacciando  guerra,  CQnfiscarono  a  Cere  la 
metal  del  suo  territorio  (3).  Nel  265  j)oi  scoppiò  una  guerra  con 
Volsinì,  la  potente  città  etrusca  che  aveva  fatto  iDace  ed  alleanza 


(1)  I  Sallentini  sono  per  la  prima  volta  menzionati  nella  storia  a  pi"oposito 
della  guerra  del  306  (Liv.  IX  42,  4,  cfr.  X  2).  Pei  Messapì  di  cui  parlano  i 
fasti  trionfali  registrando  il  trionfo  dei  due  consoli  de  Sallentineis  Afessapieisque 
probabilmente  debbono  intendersi  i  Calabri.  Sulla  guerra  sallentina  v.  oltre  i 
fasti  trionfali  Liv.  epit.  15.  Flor.  I  20.  Euteop.  II  11.  Auct.  devir.  illustrib.  40,  1. 
ZoNAE.  Vili  7.  Secondo  i  fasti  nel  266  ambedue  i  consoli  trionfarono  tanto  sui 
Sarsinati  quanto  dopo  quattro  mesi  sui  Sallentini  e  i  Messapi,  il  che  non  può 
ammettersi  e  per  rispetto  alla  cronologia  e  perchè  è  singolare  che  ambedue 
i  consoli  siano  stati  inviati  insieine  a  combattere  contro  nemici  per  cui  un 
ordinario  esercito  consolare  era  piti  che  sufficiente.  Quindi  nei  fasti  son  regi- 
strati due  trionfi  falsi  in  piìi,  per  quanto  in  questo  periodo  i  trionfi  siano  per 
la  pivi  parte  autentici.  Su  ciò  vedi  le  giuste  osservazioni  del  Beloch  '  Riv.  di 
storia  ant.  '  IX  (1905)  p.  273. 

(2)  Cfr.  Beloch  It.  Band  p.  175. 

(3)  Cass.  Dio  fr.  33  :  6ti  'AyuWaìoi  èireibi?)  fjaOovTO  toùc;  'Piuiuaiouq  ocpiai  tto- 
X€^)ìaol  PouXo|uévou<;  TrpéaPei^  xe  el<;  t)iv  'Pdi|Lir|v  lareiXav  irpiv  Kai  ótioOv  ipr)fpia- 
Qf]vai  Koì  elpnvriq  èirl  tuj  >^|niaei  Tf);  x*J^P«<;  ^tuxov,  riferito  giustamente  al  273 
dal  BoissKvAiN  (l  p.  138)  mediante  il  confronto  con  Zonar.  Vili  6,  10.  Il  fatto 
è  da  paragonare  con  la  punizione  inflitta  alle  colonie  latine  che  rifiutarono 
soccorsi  nella  guerra  annibalica. 


I 


I    CALABRI.    YOLSINl  425 


con  Roma  nel  280.  I  servi  della  gleba,  assai  numerosi,  a  quanto 
pare,  a  Volsinì,  dopo  aver  acquistato  la  libertà  perchè  l'aristo- 
crazia aveva  avuto  bisogno  di  loro  nella  guerra,  ora  s'impadroni- 
rono interamente  del  governo.  Ma  rivoltisi  per  aiuto  a  Roma  i 
fuorusciti  aristocratici,  i  Romani  presero  la  città  per  assedio,  e  re- 
stam'arono  tra  i  Yolsiniensi  il  governo  aristocratico  senza  privarli 
della  loro  indipendenza,  ma  costringendoli  ad  abbandonare  l'antica 
loro  sede,  che  era  in  posizione  fortissima  (I  p.  151),  ed  a  sce- 
glierne una  nuova  in  posizione  amena,  ma  non  forte,  sulle  sponde 
del  lago  di  Bolsena  (1).  Con  questa  guerra  pertanto  che,  comin- 
ciata nel  265,  terminò  nel  264,  l'anno  in  cui  ebbe  iDrincipio  la 
prima  punica,  si  compi  l'affermazione  del  dominio  romano  sull'Italia 
peninsulare.  La  penisola  italiana  da  Pisa  e  da  Rimini  al  Faro, 
comprese  le  iDiccole  isole  adiacenti,  ha  una  superficie  di  130  mila 
chilometri  quadrati.  Di  questi  il  territorio  romano ,  incluso  l' agro 
Piceno  di  recente  conquistato,  ma  senza  la  Sila,  l'agro  Tam^asino  e 
i  distretti  in  cui  si  dedussero  le  colonie  di  Brindisi  e  di  Spoleto, 
abbracciava  solo  un  25.000,  12.000  ne  appartenevano  alle  colonie 
latine  e  alle  antiche  città  di  diritto  latino,  il  resto  si  divideva  tra 
gli  altri  alleati.  Ormai  lo  Stato  romano  era  mio  dei  i3Ìù  vasti  di 
quel  tempo.  Aveva  estensione  quasi  doppia  della  Macedonia  con 
le  sue  dipendenze,  superava,  sia  pur  di  poco,  il  dominio  cartaginese 
e  l'Egitto  tolemaico,  ed  era  inferiore  al  solo  impero  dei  Seleucidi, 
]a  cui  estensione  del  resto  non  era  in  proporzione  con  la  potenza. 
Per  popolazione  tra  questi  Stati  veniva  prima  il  regno  dei  Se- 
leucidi con  una  trentina,  poi  l'impero  tolemaico  con  una  decina 
di  milioni  d'abitanti,  il  dominio  cartaginese  con  cinque  milioni, 
la  Macedonia  •  e  l'Italia  romana  con  tre  o  poco  più  (2).  Il  territorio 
romano  propriamente  detto  era  popolato,  secondo  la  lista  del 
censo  del  265/4,  da  292.000  cittadini  maschi  adulti  (3),  quanti,  dopo 


(1)  Lxv.  epit.  16.  Flor.  I  21.  Val.  Max.  IX  1  ext.  2.  Auct.  de  vii:  illastrib.  36. 
Oros.  IV  5.  Johann.  Antioch.  fr.  50  {FHG.  IV  557).  Zonar.  Vili  7.  Fasti  triumph. 
ad  a.  264.  Cfr.  Plin.  n.  h.  XXXIV  34.  Fkst.  p.  209  s.  v.  pietà.  Pare  che  la  tra- 
dizione ascrivesse  a  Fabio  Gurgite,  console  per  la  terza  volta,  una  gran  parte 
del  merito  della  vittoria.  Se  è  vero  però  ch'egli  morisse  d'una  ferita,  si  spie- 
gherebbe come  nei  fasti  trionfali  compaia  soltanto  il  successore  M.  Fulvio 
Fiacco  e  come  nel  libretto  de  tir.  illustrib.  la  punizione  dei  Volsiniensi  possa 
essere  attribuita  a  P.  Decio  Mure  (come  consul  suffectun  del  265  ?  ). 

(2)  Queste  cifre  e  questi  raffronti  sono  attinti  al  Beloch  Gr.  G.  IH  1  p.  330  seg. 

(3)  Liv.  epit.  16:  382.233.  Edtrop.  Il  18:292.334.  Paean.:  292.234.  La  prima 
cifra  dell'epitome  è  certamente  errata,  come  mostra  il  confronto  dei  prossimi 


426  CAPO   XXI    -    LA    SOTTOMISSIONE    DEGLI   ITALIOTI 

le  i^erdite  sofferte  nella  prima  guerra  punica,  non  si  tornarono  ad 
avere  se  non  cento  anni  dopo. 

Rimaneva  a  vedere  se  il  nuovo  grande  Stato  avi-ebbe  saputo  pa- 
cificamente promuovere  la  coltm^a  e  il  benessere  materiale  de'  suoi 
sudditi,  o  se  forza  di  cose  o  libidine  d'impero  lo  avrebbero  implicato 
in  lotte  con  gli  Stati  contigui.  Coi  Greci  dell' Oriente  fino  al  tempo 
di  Filippo  V  i  Romani  non  ebbero  clie  assai  scarse  relazioni.  Pre- 
scindendo dal  mitico  viaggio  dei  figli  di  Tarquinio  il  Superbo  per 
consultare  l'oracolo  di  Delfi  (1)  e  dalla  non  meno  mitica  amba- 
sceria che  si  sarebbe  recata  in  Atene  a  studiare  le  leggi  di  Solone 
per  preparare  il  codice  delle  dodici  tavole  (e.  XRO?  come  i3ure  da 
quella  storica  inviata  a  Delfi  dopo  la  presa  di  Veì  (e.  XVI),  da 
quella  non  storica  die  vi  sarebbe  stata  inviata  prima  e  che  il 
mito  collegava  con  lo  scavo  dell'emissario  del  lago  Albano  e  infine 
da  un'altra  riferita  all'età  delle  guerre  sannitiche  (2),  che  non 
hanno  carattere  politico,  la  prima  legazione  politica  romana  in 
Oriente  è  quella  che  si  recò  a  Babilonia  nel  323  a  fare  omaggio 
ad  Alessandro  Magno  (3).  Questa  ambasceria,  della  cui  storicità 
non  è  lecito  dubitare,  rende  testimonianza  dell'impressione  che 


censimenti;  e  solo  è  incerto  se  debba  leggersi  282  o  292  mila.  Tenendo  conto 
della  concessione  della  cittadinanza  ai  Sabini  la  seconda  ipotesi  è  più  proba- 
bile, V.  Beloch  Bevolkerung  p.  345. 

(1)  Cic.  de  re  p.  II  24,  45.  Liv.  I  56.  Dionts.  IV  6,  9.  Val.  Max.  VII  3,  2. 

(2)  Plin.  n.  h.  XXXIV  26  :  invenio  et  Pythagorae  et  Alcibiadi  in  cornibus  comitii 
positas  (statuas)  cum  bello  Smnniti  Apollo  Pythius  iiississet  fortissimo  Graiae 
gentis  et  alteri  sapientissimo  simulacra  celebri  loco  dicaì-i.  Cfr.  sopra  p.  184  n.  1. 

(3)  Di  questa  la  più  antica  menzione  è  in  Clitarco  fr.  23  M.  presso  Plin. 
n.  h.  Ili  57,  a  cui,  per  quanto  colpevole  di  molte  invenzioni,  non  si  può  attri- 
buire quella  della  ambasceria  romana,  poiché  Roma  al  suo  tempo  era  ben  lon- 
tana dall'avere  agli  occhi  dei  Greci  specialmente  orientali  l'importanza  che 
acquistò  più  tardi.  Gli  altri  particolari  presso  Arrian.  Anab.  VII  15,  5.  Memn. 
e.  25,  3  {FHG.  Ili  p.  538)  sono  indegni  di  fede.  Poco  prova  il  silenzio  delle 
fonti  romane  e  di  Tolemeo  ed  Aristobulo  presso  Arrian.  anàb.  VII  15,  6,  i  quali 
però,  come  dice  poco  prima  lo  stesso  Arriano,  parlavano  di  ambascerie  dei 
Bruzì,  dei  Lucani  e  dei  Tirreni,  e  può  darsi  benissimo  che  tra  le  città  tirrene 
comprendessero  anche  Roma.  Diodoro  XVII  113  dice  soltanto  che  mandarono 
ambascerie  tuùv  TT€pl  tòv  'Abpiav  oIkouvtuiv  oi  -rrXeìaTOi.  Giudicò  rettamente  della 
cosa  Kaerst  Geschichte  des  hell.  Zeitalters  I  415  n.  2  e  prima  di  lui  Niebuhr 
B.  G.  Ili  194  seg.  e  Droysen  Geschichte  des  Hell.  I  2,  319  n.  Paiono  infondati 
i  dubbi  del  Mommsen  R.  G.  I^  383  n.  e  del  Niese  Geschichte  der  griech.  und 
maked.  Staaten  l  182  n.  1. 


JIOMA    E    LA    (ìKUCTA  427 


facevano  anche  in  Italia  le  vittorie  di  Alessandro  e  dei  riguardi 
che  i  Romani  come  gli  altri  indigeni  d'Italia  credevano  prudente 
di  usare  all'uomo  più  potente  del  mondo  conosciuto,  riguardi  tanto 
più  opportuni  in  quanto  si  parlava  di  vasti  piani  di  conquista  in 
Occidente  di  quel  j)rincipe  (1),  cui  nessuna  forse  tra  le  popolazioni 
indigene  d'Italia  presumeva  di  poter  resistere.  Inoltre  i  Romani 
avevano  un  motivo  maggiore  degli  altri  per  fare  omaggio  ad 
Alessandro  Magno,  cioè ,  il  trattato  che  avevano  stretto  non  molto 
l)rima  (e.  XV Ili)  col  suo  parente  Alessandro  d'Epiro;  ed  erano 
poi  anche  in  debito  di  una  risposta  all'ambasceria  mandata  dal 
grande  re  di  Macedonia  per  lagnarsi  delle  piraterie  degli  An- 
ziati  (2).  Più  tardi  ci  è  ricordata  un'ambasceria  di  Demetrio  Po- 
liorcete  ai  Romani  che  ebbe  a  restituire  certi  predoni  di  Anzio, 
fatti  prigionieri  da  Demetrio,  invitando  cortesemente  i  Romani  a 
non  tollerar  più  simili  atti  di  pirateria  (3).  Questa  legazione  è 
forse  da  collocare  dopo  la  vittoria  di  Sentino,  quando  quell'impor- 
tantissimo  successo  dei  Romani  richiamò  su  di  loro  l'attenzione  delle 
Potenze  greche.  Dopo  ciò  non  abbiamo  menzione  di  ambascerie 
romane  in  Grrecia  o  greche  in  Roma  sino  al  termine  della  guerra 
di  Pirro,  a  prescindere  da  quelle  di  Pirro  stesso  (4)  ;  tuttavia  è  da 
credere  che  non  mancassero  i  Romani  di  concludere  trattati  com- 
merciali coi  più  importanti  Stati  marinareschi  dell'Oriente,  p.  e. 
con  Rodi;  ne  intorno  a  ciò  siamo  privi  d'ogni  accenno  nelle  fonti  (5). 


(1)  DioD.  XVIII  4,  4.  Arrian.  anab.  VII  1,  2. 

(2)  Che  le  lagnanze  siano  state  fatte  da  Alessandro  il  Grande  e  non  dal  Mo- 
losso, come  afferma  p.  e.  il  Mommsen  CIL.  X  660,  risulta  dal  modo  d'esprimersi 
di  Strab.  V  232;  ne  è  da  credere  che  Strabone  sia  caduto  in  equivoco,  poiché 
quando  morì  Alessandro  il  Molosso  la  colonia  d'Anzio  era  stata  appena  fondata. 

(3)  Strab.  1.  e.  È  pei'ò  assai  difficile  che  Demetrio  abbia  detto  rimprove- 
rando i  Romani  oùk  àEioOv  Toùq  aÙToùc;  àvbpac,  orparriYCiv  xe  fijua  Tfiq  'iTaXioi; 
Kol  Xriaxripia  lKné|UTreiv  Kai  èv  |uèv  rfl  àYopól  AioaKoùpmv  iepòv  Ibpuoaiuévouc;  Tijuàv 
oi)<;  uàvret;  oujTfipac  òvoi-ióucuoiv,  eìq  òè  Tr^v  'EXXóòa  iréiuTTeiv  xi^v  èKeivtuv  irarpiòa 
Toùq  XeriXaxnaovTaq.  Questi  sembrano  flosculi  retorici  di  Timeo. 

(4)  Sull'ambasceria  mandata  nel  293  ad  Epidauro  per  istituire  in  Roma  il 
culto  di  Asclepio  v.  oltre   e.  XXIV. 

(5)  Ad  un  simile  trattato  concluso  circa  il  306  si  hanno  da  riferire  le  parole 
di  PoLYU.  XXX  5,  6  (all'anno  167)  :  outuj  YÒp  rjv  npaTMaTiKÒv  tò  TTo\iTeu|aa 
tOùv  'Pobiujv  ujc;  a%ehòv  ^rr)  TCTTapdiKOVTa  TTpòt;  Tot<;  éKaxòv  KeKOivr|KiÌJ^  ó  bf\iÀOc, 
'Pui^aioic,  TÓJV  ènitpaveOTfiTUJv  koì  KaXXiaxujv  ?pTUJV  oùk  ènenoiriTo  Ttpò^  aiiToùq 
aumaaxictv.  Polibio  con  una  stessa  frase  alquanto  imprecisa  accenna  alle  piìi 
antiche  relazioni  d'amicizia  e  di  commercio  ed  alle  più  recenti  militari  e  po- 
litiche. È  arbitrario  espungere  col  Beloch  Gr.  <?.  I  1  p.  299  n.  2  irpòq  TOtq  éKOTÓv. 
Sulla  questione  cfr.  M.  Holleaux  nei  '  Mélanges  Perrot'  (Paris  1902)  p.  183  segg. 


428  CAPO   XXI   -   LA   SOTTOMISSIONE    DEGLI   ITALIOTI 

Abbiamo  invece  ripetute  notizie  di  legazioni  amiclievoli  scam- 
biatesi tra  Roma  e  Alessandria  d'Egitto,  dopo  la  guerra  pirrica, 
nel  273,  che  forse  non  erano  senza  un  certo  significato  politico  (1). 
I  Tolemei  infatti  combatterono  sempre  l'influenza  macedonica  nel 
Peloponneso  e  nelle  isole,  e  per  ciò  il  ridursi  ad  unità  della 
Grrecia,  della  Macedonia  e  dell'Epiro,  com'era  pericoloso  i3ei  Ro- 
mani, altrettanto  doveva  riuscire  poco  accetto  a  Tolemeo  Eiladelfo, 
cbe  vi  scorgeva  una  minaccia  i3e'  suoi  possedimenti  delF  Egeo. 
Poco  dopo,  caduto  Pirro  e  disgregatosi  il  suo  impero^  una  città  che 
vi  apparteneva,  la  colonia  corinzia  di  Apollonia  sull'altra  sponda 
del  canale  d'  Otranto,  adombrata  dalla  occupazione  romana  del 
porto  di  Brindisi  (266),  credette  opportuno  di  mandare  un'amba- 
sceria a  Roma  (2).  I  legati  ebbero  un  trattamento  poco  decoroso 
IDcr  parte  di  alcuni  senatori.  Ma  il  senato,  cui  premeva  di  stringere 
buone  relazioni  coi  vicini  dell'altra  sponda  del  canale,  deliberò  che 
uno  o  tutti  e  due  i  colpevoli  fossero  consegnati  agli  Apolloniati, 
i  quali,  animati  dallo  stesso  desiderio,  li  rimandarono  incolumi. 

Questo  è  tutto  ciò  che  sappiamo  sulle  relazioni  tra  Roma  e 
l'Oriente  ellenico  innanzi  alle  guerre  puniche;  e  basta  a  mostrare 
che  se  primi  cercarono  i  Romani  l'amicizia  dei  Crreci,  dal  principio 
del  ni  sec.  toccò  ai  Oreci  di  cercare  l'amicizia  di.  Roma.  Nessuno 
del  resto  in  quel  tempo  neir Oriente  ellenico  prevedeva,  prossimo 
o  remoto,  un  pericolo  romano,  mentre  il  regno  tolemaico  era  nel 
suo  massimo  flore  ed  Atene  e  Si3arta  riprendevano  contro  la  Ma- 
cedonia riordinata  da  Antigono  Oonata  l'eterna  lotta  i^er  la  li- 
bertà. Intanto  che  le  poderose  armate  tolemaiche  e  rodie  volteg- 
giavano per  l'Egeo,  ognuno  avrebbe  sorriso  al  pensiero  che  potesse 
comparirvi  ostilmente  una  squadra  di  poche  e  pesanti  navi  romane. 
Nulla  pareva  mutato  nella  posizione  predominante  che  la  nazione 
ellenica  occupava  nel  mondo  civile  se  alcuni  avamposti  dell'  elle- 
nismo erano  caduti  in  mano  degli  stranieri,  che  ne  avevano  ri- 
spettato del  resto  la  nazionalità  e  le  istituzioni.  Ma,  segno  doloroso 


(1)  Liv.  epit.  14.  Val.  Max.  IV  3,  9.  Eutrop.  II  15.  Iustin.  XVIII  2,  9.  Dionys. 
XX  14.  Cass.  Dio  fr.  41.  Zonar.  Vili  6.  La  data  è  in  Eutropio;  ne  v'e  la  mi- 
nima ragione  di  dubitarne;  poiché  la  cronologia  delle  fonti  romane  è  dalla 
guerra  di  Pii-ro  d'accordo  con  quella  delle  fonti  greche. 

(2)  Liv:  epit.  15.  Val.  Max.  VI  6,  5.  Cass.  Dio  fr.  42.  Zonar.  Vili  7.  L'anno 
è  ricavato  da  Zonara.  Sull'ordine  dei  fatti  nelle  perioche  liviane,  che  indur- 
rebbe a  riportare  l'ambasciata  prima  della  guerra  coi  Picenti  ossia  al  270  circa, 
non  è  da  fare  troppo  assegnamento.  Sulle  condizioni  di  Apollonia  in  questo 
tempo  son  da  respingere  le  osservazioni  del  Beloch  Gr.  G.  Ili  2  j).  318. 


ROMA    E    LA    (rRECIA  429 


dei  tempi,  dalla  Grecia,  che  tante  volte  aveva  mandato  al  soccorso 
degli  Italioti  i  suoi  principi  e  la  sua  balda  gioventù,  nessuno  più 
si  mosse  per  sovvenirli;  tanto  le  conseguenze  della  ritirata  di 
Pirro  erano  parse  ai  Greci  definitive  ed  irrimediabili.  Eppm-e 
questo  stesso  abbandono  d'ogni  pensiero  di  rivincita  pareva  clie 
dovesse  costituire  un'arra  di  pace.  E  nessuno  a  Roma  sognava 
allora  guerre  di  conquista  in  Oriente,  e  nessuno  immaginava  die 
tutte  quelle  monarcbie  potenti  e  quelle  repubbliche  assetate  di 
libertà  avrebbero  tra  meno  d'un  secolo  boccheggiato  sotto  il  cal- 
cagno romano.  Costretti  dalla  lotta  per  l'esistenza  ad  una  serie  di 
gueiTe  per  cui  avevano  finito  col  ridurre  ad  unità  sotto  il  loro 
primato  l'Italia,  non  avevano  i  Romani  quelle  aspirazioni  al  do- 
minio, quel  desiderio  d'asservire  e  di  sfruttare  che  ora  si  designe- 
rebbe col  nome  d'imperialismo.  Non  le  relazioni  coi  Greci  diedero 
occasione  al  sorgere  di  siffatte  aspirazioni,  si  la  lotta  con  la  grande 
potenza  semitica  che  era  stata  fin  allora  amica  ed  alleata  dei  Ro- 
mani: Cartagine. 


CAPO  xxn. 

Il  Comune  e  lo  Stato  nell'Italia  unita. 


Air  iniziarsi  della  storia  dei  popoli  classici  il  Comune,  fornito 
o  no  di  un  centro  cittadino,  era  una  cosa  sola  con  lo  Stato.  Il 
difetto  di  distinzione  tra  Comune  e  Stato,  naturale  e  necessiirio 
lincile  questo  non  aveva  che  piccole  dimensioni,  col  formarsi  di 
Stati  sempre  maggiori  finiva  col  portare  il  sacrifizio  dei  vari  inte- 
ressi locali  a  quelli  del  maggiore  o  del  solo  centro  cittadino:  il 
che  talora  equivaleva  in  parte  a  sacrificare  la  classe  più  sana  e 
laboriosa  alle  moltitudini  cittadine  né  laboriose  né  sane.  Lioltre 
era  posto  cosi  un  limite  forzato  ed  artificiale  agl'incrementi  dello 
Stato:  perchè  quando  in  pace  od  in  guerra  veniva  il  momento  di 
incorporare  un  altro  centro  cittadino,  lo  si  aveva  da  distruggere  di 
fatto  o  almeno  di  diritto;  e  ciò  non  sempre  poteva  farsi,  giacche 
per  resistere  alla  distruzione  si  rinvengono  energie  che  non  si  tro- 
verebbero per  difendere  la  sola  indipendenza;  e  ripugnava  poi  la 
piena  distruzione  d'uno  Stato  vinto  al  sentimento  umanitario 
rinvigorito  talvolta  da  tradizioni  d' antica  amicizia.  Allora  non 
rimaneva  altro  che  lasciarlo  sussistere  come  Stato  più  o  meno  di- 
pendente: il  che  importava  il  tenerlo  in  una  condizione  perma- 
nente d' inferiorità  che  faceva  perennemente  rimpiangere  la  indi- 
pendenza, dandogli  al  tempo  stesso  la  possibilità  di  ricuperarla 
alla  prima  occasione  favorevole.  Per  tal  modo  il  Comune-Stato 
primitivo  non  rispondeva  più  alla  tendenza  d'  età  progredita  di 
creare  Stati  maggiori.  Il  contrasto  non  conciliato  fra  la  tradizione 
e  la  tendenza  nuova  cagionò  successivamente  nel  V  e  nel  IV  se- 
colo in  Grecia  la  rovina  dell'impero  ateniese,  della  egemonia 
spartana  e  della  tebana.  Pei  filosofi,  ignari  della  convenienza  di 
una  evoluzione  progressiva  della  società,  il  rimedio  consisteva  sol- 


LO    STATO   ANTICHISSIMO  431 

tanto  nel  restringere  novamente  lo  Stato  in  quei  limiti  entro  cui 
può  prosperare  un  Comune  ben  ordinato.  La  lega  etolica  e  l'achea 
tentarono  invece  con  altri  mezzi  nella  età  ellenistica  di  conciliare 
con  le  autonomie  locali  l'esistenza  dello  Stato.  Ma  al  grave  pro- 
blema diedero  la  sua  soluzione  più  perfetta  nell'anticliità  i  Ro- 
mani; e  ne  dipende  geneticamente  la  soluzione  che  il  problema 
stesso  ha  nello  Stato  moderno.  Di  qui  l'interesse  che  ha  lo  studio 
degli  incunaboli  di  quella  vita  municipale  romana  che  fu  poi  si 
fiorente  nelFetà  dell'impero. 

Roma  ampliò  il  suo  territorio  fino  all'incendio  gallico  soltanto 
distruggendo,  almeno  di  diritto,  ma  in  generale  anche  di  fatto, 
quei  centri  che  v'  incorporava  e  senza  guari  procedere  alla  fon- 
dazione di  Comuni  di  cittadini.  Né  fa  eccezione  Ostia,  che  era 
un  semplice  presidio  permanente  di  cittadini  stabilito  fin  dall'età 
regia  alla  foce  del  Tevere  (1),  e  secondo  ogni  verisimiglianza  non 
fu  ordinata  a  Comune  che  molto  più  tardi,  dopo  la  metà  del 
rV  secolo.  Nel  VI  e  nel  V  secolo  non  s'incorporarono  nel  territorio 
romano  città  cui  togliendo  la  indipendenza  politica  si  conservas- 
sero franchigie  comunali.  Non  cade  a  taglio  l'esempio  che  suole 
addm'sene  di  Gabì.  Gabì  concluse  fin  dall'età  regia  un  trattato 
d'alleanza  con  Roma,  in  forza  del  quale  il  Gabino  stabilitosi  in 
Roma  godeva  la  cittadinanza  romana  e  il  Romano  stabilitosi  in 
Gi-abì  la  cittadinanza  gabina  (I  p.  389).  Certo  quel  trattato,  per  cui 
Gabì  rimase  d'allora  in  i)oi  strettamente  unita  per  secoli  con 
Roma,  la  trasformò  a  grado  a  grado  di  uno  Stato  indipendente 
in  un  Comune  del  territorio  romano;  ma  quando  questa  trasfor- 
mazione fosse  compiuta  s'ignora  (2)  ;  né  per  la  minima  importanza 
di  Gabì  e  pel  fatto  che  gli  stadi  della  trasformazione  dovettero 
rimanere  inavvertiti  a  Romani  e  Gabini,  può  ammettersi  che  l'or- 
dinamento di  Gabì  servisse  d'esemplare  a  quelli  dei  Comuni  ro- 
mani. Né  primo  Comune  va  riputata  quella  che  Livio  riguarda 
come  la  seconda  colonia  romana,  Labici  (3)  ;  poiché  il  non  trovarsi 
essa  sul  mare  come  le  più  antiche  colonie  di  cittadini  romani  e 
più  l'esser  chiamata  municipio  sul  chiudersi  della  età  repubbli- 


(1)  Sui  magistrati  ostiensi  v.  I  p.  384  n.  1  e  p.  405  n.  2. 

(2)  La  prima  menzione  di  Gabì  come  municipio  è  in  Cic.  prò  Piane.  9,  23. 
Tuttavia  che  fosse  municipio  prima  della  guerra  annibalica  rendono  verisimile 
i  prodigi  colà  avvenuti  (cfr.  sotto  p.  440)  riferiti  da  Liv.  XXIV  10.  XLI  16. 
Obseq.  14.  Intorno  a  Gabì  piìx  del  Beloch  It.  Btind  p.  47  giudica  rettamente 
il  Dessau  CIL.  XIV  p.  278  n.  4. 

(3)  V.  sopra   p.  119  n.  3. 


432  CAPO  XXII.  -  IL  COMUNE  E  LO  STATO  NELLITALIA  UNITA 

cana  (1),  mostra  che  non  era  punto  costituita  come  colonia,  ma  si 
trattava  d'assegnazione  viritana,  il  cui  ordinamento  a  municipio 
fu  senza  dubbio  molto  tardo.  Infine  è  assai  incerto  se  come  primo 
dei  Comuni  romani  s'abbia  a  riguardare  Capena,  che  fu  sottomessa, 
secondo  la  tradizione,  nel  395  (v.  sopra  p.  149),  e  incorporata  nel 
territorio  romano,  come  risulta  sia  da  notizie  che  si  riferiscono 
ai  tempi  della  guerra  annibalica  (2),  sia  dal  trovarsi  in  territorio 
contiguo  a  Capena  l'agro  Stellate  onde  prese  nome  la  tribù  Stel- 
latina  istituita  nel  387  (3),  alla  quale  apiDarteneva,  come  mostrano 
iscrizioni  posteriori  (4),  anche  Capena.  E  certo  da  ritenere  che  a 
Romani  e  a  quelH  tra  i  Capenati  che  si  sottomisero  in  tempo  a 
Roma  (5)  sia  stato  assegnato  indi\'idualmente  il  territorio  cape- 
nate,  in  cui  s'istituì  la  nuova  tribù  Stellatina;  ma  non  essendovi 
traccia  di  franchigie  comunali  allora  concesse  a  Capena,  può  sti- 
marsi che  il  municipio  capenate  al  pari  del  veiente  sia  posteriore 
alla  guerra  sociale  o,  se  anche  anteriore,  certo  non  antichissimo. 
Da  alcune  iscrizioni  d'età  imperiale  che  menzionano  il  municipio 
federato  di  Capena  o  il  municipio  dei  Cai3enati  confederati  (6)  si 
è  voluto  ricavare  che,  aj)punto  perchè  uno  dei  primi  municij)ì, 
Capena  non  avesse  nello  Stato  romano  la  posizione  precisa  e  ben 
definita  degli  altri,  ed  essendo  alcunché  di  mezzo  tra  il  Comune 
dello  Stato  romano  e  la  città  alleata  dipendente,  potesse  dirsi  a 
buon  diritto,  sebbene  con  singolare  ibridismo  di  frase,  municipio 
federato  (7).  Ma  è  assai  incerto  che  si  avesse  cura  in  queir  età 
remota  di  assegnare  alle  città  denominazioni  speciali  secondo  la 
loro  posizione  nello  Stato  ;  e  non  facile  è  pure  che  si  trasmettes- 


(1)  Cic.  1.  cit. 

(2)  Liv.  XXII  1,  10.  XXVII  4,  14.  XXXIII  26,  8. 

(3)  Fest.  p.  343  :  Stellati[na  trihus  dieta  non  a  campo]  eo  qui  in  Campania  est, 
sed  eo  qui  [prope  ahest  ab  urbe  Ca]pena,  ex  quo  Tusci  profecti  St\ellatinum  illuni] 
campum  appellaverunt. 

(4)  CIL.  XI  3958.  3959.  4004.  4015. 

(5)  LiT.  VI  4,  4:  eo  anno  (389)  in  civitatem  accepti  qui  Veientium  Capena- 
tiumque  ac  Faliscoruni  per  ea  bella  transfugerant  ad  Romanos  agerque  Jiis  novis 
civibus  adsignatus. 

(6)  Municipiiim  Cappna  foederatum,  CIL.  XI  3932;  municipium  Capenatium 
foederatorum,  3936  ;   Capenates  foederati,  3883.  3876  a. 

(7)  Bkloch  It.  Bund  p.  119  seg.,  il  quale  confronta  la  frase  di  Cic.  Phil.lll 
6,  15  a  proposito  di  Aricia:  Aricinum  municipium  antiquissimum  iure  foede- 
ratum. Ma  questa  frase  allude  probabilmente  alla  lega  sacra,  ancora  esistente, 
del  monte  Albano. 


I    PKIMI    COMUNI    DKLLO    STATO   ROMANO  433 

sero  invariate  per  tanti  secoli,  in  specie  quando  non  corrispon- 
devano più  alle  condizioni  di  fatto,  e  forse  è  nel  vero  chi  stima  die 
quel  nome  indichi  risultare  il  municipio  capenate  dell'età  impe- 
riale dalla  fusione  di  tre  città  (1). 

Ma  il  primo  Comune  vero  e  proprio  dello  Stato  romano  fu  Tu- 
scolo,  che  vi  fu  annesso,  pare,  nel  381  (v.  sopra  pag.  243)  (2).  E 
tuttavia  la  somma  d'autonomia  concessa  ai  Tuscolani  era  assai 
limitata.  Magistrati  supremi  di  Tuscolo  erano  in  età  posteriore 
gli  edili  (3).  Par  chiaro  che,  non  distrutta  Tuscolo,  ma  iDrivata 
affatto  di  giurisdizione  e  obbligati  i  Tuscolani  a  ricorrere  al  pre- 
tore romano,  ad  essi  non  si  lasciò  che  la  nomina  di  propri  edili 
destinati  alla  j)olizia  della  città  e  del  mercato,  ossia  il  minimo  pos- 
sibile di  franchigie  comunali.  Fu  dunque  dopo  la  guerra  gallica, 
quando  il  disastro  sofferto  e  la  conseguente  dissoluzione  della  lega 
latina  faceva  palese  ai  Romani  la  necessità  d'impegnare  tutte  le 
proprie  forze  nella  lotta  per  l'esistenza  e  li  costringeva  a  conces- 
sioni all'interno,  che  incorporando  Tuscolo  allo  Stato  romano  non 
solo  non  la  distrussero  materialmente,  non  solo  diedero  ai  Tusco- 
lani i  pieni  diritti  di  cittadinanza  romana,  ma  anche,  rispettando 
in  qualche  modo  le  tradizioni  d'autonomia  della  città,  largirono  a 
Tuscolo  una  larva  di  franchigie  comunali. 

Questo  era  un  primo  passo  d'una  certa  gravità  in  sé,  sebbene 
j)raticamente  di  non  molto  conto.  Ma  d'assai  maggior  momento  fu 
il  modo  che  si  tenne  nell'incorporare  allo  Stato  romano  la  imi)or- 
tante  città  etrusca  di  Cere  nel  353  (v.  sopra  p.  255).  Col  diritto 
di  cittadinanza  senza  suffragio,  i  Ceriti  ottennero,  e  ciò  è  pur 
molto  notevole,  libertà  comunali  che  servirono  poi  d'esemplare  a 
({uelle  accordate  ad  altri  Comuni  della  stessa  categoria.  Conser- 
varono il  supremo  magistrato  annuo,  che  latinamente  si  chiamò 
dittatore  (4)  e  che,  in  origine  almeno,  avrà  esercitato  una  certa 
giurisdizione,  ebbero  due  edili  per  la  polizia  locale  e  per  la  cura 
dell'annona  e  un  consiglio  municipale  col  nome  di  senato.  Queste 
istituzioni,  differendo  di  non  poco  da  quelle  che  ricevettero  le  città 
italiche  dopo  la  guerra  sociale,  convien  riferirne  l'origine  al  mo- 
mento in  cui  la  città  entrò  a  far  parte  dello  Stato  romano.  Cosi 


(1)  De  Rossi  '  Bull,  di  arch.  cristiana  '  IV  (1883)  p.  115  segg. 

(2)  Gic.  prò  Balbo  13,  31.  de  off.  I  11,  35  enumera  sempre  i  Tuscolani  primi 
tra  quelli  che  ricevettero  la  cittadinanza,  cfr.  2^ro  Piane.  8,  19. 

(3)  Dell'  antico  dittatore  tuscolano  (I  p.  423  n.  2)  non    appare   più   traccia. 
Per  gli  edili  v.  CIL.  XIV  2579.  2590. 

(4)  CIL.  XI  3593.  3614-15. 

Gr.  De  Sanctis,  Storia  dei  Romani,  II.  V8 


434         CAPO  xxn.  -  il  comune  e  lo  stato  nell'italea  unita 

avevano  dunque  cominciato  ad  esistervi  due  categorie  di  C^omuni: 
Comuni  con  diritto  di  suffragio  e  Comuni  senza  tale  diritto.  Ac- 
canto a  queste  se  n'ebbe  presto  una  terza:  Comuni  forniti  dei  pieni 
diritti  di  cittadinanza,  ma  non  preesistenti  come  Tuscolo  o  Cere, 
si  creati  con  legge  dello  Stato ,  cioè  le  colonie  ;  o  se  anche  pre- 
esistenti come  centri  abitati,  giuridicamente  creazioni  nuove,  senza 
addentellati  cogli  ordini  anteriori  quali  che  fossero.  Il  i^rimo  Co- 
mune coloniale  fu  Anzio  (p.  283),  fondata  nel  338,  sul  cui  esempio 
fu  poi  ordinata  a  Comune  la  colonia  più  antica  di  Ostia,  che  non 
era  stata  fino  allora  in  possesso  di  vere  franchigie  comunali,  ma 
che  il  suo  stesso  progredire  obbligava  a  non  mettere  in  condizione 
d' inferiorità  a  paragone  di  colonie  più  giovani.  Per  vero  quelle 
franchigie  non  si  erano  date  in  origine  neppm-e  ai  coloni  Anziati  ; 
ma  la  impossibilità  pei  coloni,  ben  più  distanti  da  Roma  d'Ostia 
o  di  Tuscolo,  di  portare  i  loro  piccoli  litigi  davanti  al  pretore  ro- 
mano e  la  necessità  di  dirimere  con  speciali  norme  di  dmtto  le 
questioni  che  insorgevano  tra  essi  e  gì'  indigeni  rimasti,  fecero  si 
che  i  coloni  avvertissero  presto  la  necessità  di  propri  magistrati 
e  che  il  senato  dovesse  accondiscendere  ai  loro  desideri  (1).  Il  mol- 
tiplicarsi delle  colonie  romane  negli  anni  seguenti  presuppone  che 
si  fosse  risoluto  il  problema  del  conciliare  la  piena  cittadinanza 
coi  diritti  comunali  dei  coloni,  i^erchè  il  non  essersi  ai;)pianato 
questo  apj)arente  contrasto  era  uno  dei  motivi  che  fino  allora 
aveva  fatto  istituire  solo  in  via  eccezionalissima  colonie  romane, 
mentre  tante  se  ne  deducevano  di  diritto  latino. 

Ai  Comuni  senza  diritto  di  suffragio  s'applicava  esclusivamente, 
pare,  in  origine  la  denominazione  di  municipi.  "  Municipe  „  è  in 
senso  proprio  chiunque  è  obbligato  ai  doveri  {mimia)  (2)  del  cit- 
tadino. Soltanto  come  con  la  denominazione  di  "  erari  „  (contri- 
buenti) si  designano  non  tutti  i  cittadini  che  pagano  tiibuto,  ma 
quelli  che  sono  registrati  nelle  liste  civiche  solo  in  qualità  di  con- 
tribuenti senza  avere  il  pieno  esercizio  dei  diritti  cittadini,  cosi  col 
termine  di  "  municipi  „  si  denotarono  quelli  che  erano  tenuti  agli 
stessi  doveri  dei  cittadini  romani   senza   possederne  tutti  i  diritti. 


(1)  Ciò  è  narrato  al  317  da  Liv.  IX  20,  10  (v.  sopra  p.  283  n.  3);  da  questo 
passo  risulta  anche  implicitamente  che  fu  soddisfatta  la  richiesta  dei  coloni 
per  avere  propri  magistrati. 

(2)  Sul  significato  di  questa  parola  v.  I  p.  357  n.  2.  La  definizione  esatta  del 
miiniceps  fu  data  già  dagli  antichi,  Gell.  n.  A.  XVI  13.  Varrò  de  l.  l.  V  179. 
Dig.  L  1,  1,  1.  L  16,  18.  La  interpretazione  del  Rudorff  '  quello  che  riceve  doni' 
è  a  ragione  respinta  dal  Mommsen  Staatsrecht  III  p.  281. 


MUNICIPI  435 

Non  v'è  alcuna  prova  che  questa  designazione  s'applicasse  in  ori- 
gine ai  Latini  clie,  in  forza  del  diritto  di  commercio,  possedendo 
stabili  nel  territorio  romano,  erano  obbligati  ai  "  niunia  „  (tributo 
e  prestazione  d'opera)  che  si  collegavano  con  la  proprietà.  In  realtà 
non  è  da  credere  che  questa  classe,  senza  dubbio  assai  limitata, 
avesse  denominazione  speciale:  in  quella  età  il  Latino  che  posse- 
deva beni  fondiari  nel  territorio  romano  doveva  in  generale  es- 
servi stabilito,  e  quindi  era  partecipe  altresì  del  dii^itto  di  voto  a 
norma  dei  trattati.  Inoltre  il  Latino  proprietario  e  non  residente 
non  poteva  essere  costretto  al  più  importante  dei  doveri  del  cit- 
tadino, il  servizio  militare  (1).  E  quindi  da  credere  che  il  termine 
di  "'  municipe  „  sia  sorto  quando  cominciarono  ad  esservi  citta- 
dini senza  la  pienezza  dei  diritti  politici.  ""'  Municipio  „  avrà  quindi 
indicato  dapprima  la  relazione  di  diritto  del  municipe  con  Roma, 
passando  poi  a  designare  il  Comune  costituito  di  municipi,  ossia 
di  cittadini  senza  suffragio.  A  poco  a  poco  subi  un  ulteriore  cam- 
biamento di  significato.  Man  mano  che-  i  Comuni  senza  diritto  di 
suffragio  ricevevano  questa  facoltà,  municipio  passò  a  significare 
qualunque  Comune  non  fosse  stato  costituito  come  le  colonie  per 
opera  del  governo  romano  (2).  Quando  poi  dopo  la  guerra  sociale 


(1)  Contro  MoMMSEN  Staatsrecht  III  232  seg.  Come  possa  trovarsi  una  con- 
ferma a  questa  teoria  nelle  confuse  frasi  di  Fest.  p.  127  non  è  chiaro  :  muni- 
cipium  id  genus  hominum  dicitiir  qui  ciim  Romani  venissent  neque  cives  Romani 
essent  participes  (amen  fuerunt  omnium  rerum  ad  munus  fungendtim  una  cum 
Romanis  civibus  praeterquam  de  suffragio  ferendo  aut  magistratu  capiendo  sicut 
fuerunt  Fundani  Formiani  Cuinani  Acerrani  Lanurini  Tuficulani  qui.  post  aìiquot 
annos  cives  Romani  effecti  sunt.  Meglio  la  stessa  categoria  è  definita  nella 
epit.  p.  131  :  item  municipes  erant  qui  ex  aliis  civitatibus  Romam,  venissent  quibtis 
non  licebat  magistratum  capere  sed  tantum  muneris  partem  ut  fuerunt  Cumani, 
Acerrani,  Atellani,  qui  et  cives  Romani  erant  et  in  legiones  merebant  sed  digni- 
tates  non  capiebant.  E  chiaro  che  qui  si  tratta  di  municipi  senza  suffragio. 

(2)  A  questo  significato  più  largo  allude  Fest.  p.  127  nella  continuazione 
dell'articolo  cit.  :  alio  modo  cum  id  genus  hominum  definitur  quorum  civitas  uni- 
versa in  civitatem  Romanam  venit,  ut  Aricini  Caerites  Anagnini.  Dei  tre  popoli 
citati  i  primi  ebbero  la  piena  cittadinanza,  i  secondi  la  cittadinanza  senza 
suffragio,  gli  ultimi  ricevendo  la  cittadinanza  senza  suffi-agio  furono  privati  di 
ogni  franchigia  comunale.  Lo  stesso  significato  dà  pure  alla  parola  Servio  Sulpicio 
presso  Fest.  p.  142  :  at  Servius  aiebat  initio  fuisse  (municipes),  qui  cu  condicione 
cives  Romani  fuissent  ut  sentper  renipublicam  separatim  a  populo  Romano  haberent, 
Cumanos,  Acerranos,  Atellanos.  Non  differisce  da  questa  la  terza  categoria  di 
municipi  di  cui  discorre  Fest.  p.  127  :  tertio  cum  id  genus  hominum  definitur 
qui  ad  civitatem  Romanam  ita  venerunt  ut  municipes  essent  suae  cuiusque  ciri- 
tatis  et  coloniae,  ut    Tiburtes'  Praenestini   Pisani    Urvinutes   Nolani   Bononienses 


436  CAPO  XXII.  -  IL  COMUNE  E  LO  STATO  NELl'iTALIA  UXITA 

per  preparare  alla  cittadinanza  i  Comuni  della  Traspadana,  si 
concedette  ad  essi  il  diritto  latino,  allora  la  designazione  di  mu- 
nicipi si  applicò  anche  a'  Comuni  latini,  mentre  fino  allora  Comuni 
di  diritto  latino  non  erano  stati  che  città  alleate  o  colonie  (li. 
Infine  in  età  assai  posteriore  si  designarono  abusivamente  come 
municipi  tutti  i  Comuni  di  diritto  romano  o  latino  dell'impero,  com- 
prese le  colonie  (2). 

Tra  i  distretti  popolati  da  cittadini  senza  diritto  di  suffragio 
s'iianno  da  distinguere  due  categorie,  Tuna  in  migliori,  l'altra  in 
peggiori  condizioni.  All'ultima  appartenevano  quelli  cui  s'era  tolta 
ogni  autonomia  comunale  :  e  non  portavano  neppure  probabilmente 
il  nome  di  municipi,  perchè  il  municipio  sembra  presupporre  una 
repubblica.  In  tale  condizione  furono  ridotti  gli  Anagnini  nel  306 
dopo  la  rivolta  degli  Eriiici,  privati  d'ogni  magistratura  propria 
fuorché  delle  magistratin-e  sacre  (3).  I  distretti  di  questa  categoria 
furono  assai  pochi.  Con  piena  sicurezza  possiamo  attribuirvi,  oltre 
Anagnia,  soltanto  Capua,  da  quando  dopo  la  sua  insurrezione  nella 
guerra  annibalica  venne  risottomessa  a  Roma  (211).  Da  allora  in 
poi  Capua  vien  detta  una  città  mutila,  senza  senato,  senza  plebe, 
senza  magistrati,  ovvero,  dal  punto  di  vista  giuridico,  non  altro 
che  un  luogo  per  riporre  raccolti  e  ricoverare  i  contadini  (1). 


Piacentini  Nepesini  Sutrini  Locrenses;  solo  che,  come  mosti-ano  gli  esempì,  qui 
si  allude  specialmente  alle  città  alleate  ed  alle  colonie  latine  che  ricevettero 
la  cittadinanza  dopo  la  guerra  sociale. 

(1)  Un  esempio  più  antico  vuoisene  trovare  nella  legge  agraria  del  111  v.  31  : 
[sei  quei  colonieis  seive  moijnicipieis  seive  qtiae  prò  moinicipieis  colo[nieisve  simf 
civium  Rom.]  nominisve  Latini,  etc.  Ma  nominisve  Latini  può  assai  bene  riferirsi 
alle  sole  colonie  come  a  differenza  del  Mommsen  Ges.  Schriften  I  p.  116  so- 
stiene il  Marquardt  L'amm.  romana  (trad.  Solaini)  I  140.  In  caso  diverso 
converrebbe  dire  che  quella  designazione  si  fosse  già  estesa  abusivamente  allo 
città  federate  latine  sopravviventi. 

(2)  Ulpian!  dig.  LI,  1,  1  :  sed  nunc  abusive  municìpes  dicimiis  suae  cuiusque  civi- 
tatis  cives,  ut  puta  Campanos  Puteolanos  (mentre  Capua  e  Puteoli  sono  colonie). 

(3)  V.  sopra  p.  337  n.  4. 

(4)  Liv.  XXXI  29,  11:  Capua  quidem,  septdcrum  ac  moniimentum  Campani  po- 
puli,  elato  et  extorri  eiecto  ipso  populo,  superest,  urhs  trunca,  sine  senatu,  siiie 
plebe,  sine  magistratibus.  Cic.  de  l.  agr.  II  32,  88  :  statuerunt  homines  sapientes  t<i 
agrum  Campania  ademissent,  magistratus,  senatum  publicum  ex  illa  urbe  consilium 
sustulissent,  imaginem  reipublicae   nullam   reliquissent   nihil   fare  quod  Capuani 

timeremus  ut  esset  urbs  quae  res  eas  quibus   ager    Campanus  coleretur  suppe- 

ditare  posset,  ut  esset  locus  comportandis  condendisque  fructibus,  ut  aratores  cultii 
agrorum  defessi  urbis  domiciliis  uterentur,  idcirco  illa  aedificia  non  esse  deleta. 


STATUTI   MUNICIPALI  437 


Se  in  tale  condizione   si   fossero  ridotti  tutti  i  municipi  senza 
suffragio,  lungi  dall'essere  un  punto  d'appoggio  per  Roma,  sareb- 
bero stati  un  pericolo  permanente.  Ma  la  condizione  della  maggior 
parte  degli  altri  era  ben  diversa.  Conservavano  i  loro  magistrati, 
e  poicliè  il  magistrato,  secondo  il  modo  di  vedere  dei  Romani,  ha 
mestieri  d'un  consiglio,  anche  il  consiglio  municipale,  comunque 
nei  vari  municipi  prendesse  nome  (il  nome  più  frequente,  se  non 
unico,  fino  al  264,  era  di  senato)  ;  e  i3er  di  più  ebbero  anche  i  co- 
mizi XDopolari,  perchè  i  Romani  non  conoscevano  se  non  magistrati 
procedenti  dal  voto  del  popolo.  La  misura  dei  diritti  dei  magi- 
strati locali  a  fronte  dei  magistrati  romani  era  certamente  stabi- 
lita volta  per  volta  nella  legge  stessa  che   sanciva  la  incorpora- 
zione d'una  città  nello  Stato  romano  in  qualità  di  municipio  senza 
suffragio.  E  quindi  vi  potevano  essere  tra  l'uno  e  l'altro  municipio 
per  questo  rispetto  non  ])Oche  disparità  provenienti  dalla  diversa 
importanza,  dalla  maggiore  o  minore  affinità  delle  leggi  locali  con 
le  romane  e  dalla  resistenza  più  o  meno  pertinace  opposta  all'an- 
nessione a  Roma.  Ed  anche  per  ciò  che  concerne  il  diritto  ci\nle 
e  penale,  è  da  credere  che  nell'atto   della  costituzione  di  un  mu- 
nicipio,  con   opportuna   rogazione    sancita  dal   popolo  romano,  si 
determinasse  in  quanto    le  norme  locali    potevano   continuare  ad 
aver  vigore  di  legge  ed  in  quanto  dovevano   essere  sostituite  dal 
diritto  romano.  S'intende  che  al  diritto  romano  doveva  essere  data 
in  questi  statuti  municipali  una  parte  preponderante;  ma  è  pur 
certo  che  non  ogni  traccia  del  diritto  locale  si  abolì.  Ciò  non  vale 
soltanto  per  Capua,  che  nel  periodo    anteriore    alla  battaglia,  di 
Canne  ebbe  una  posizione  privilegiata  tra  i  Comuni  romani,  ma 
anche  per  altre  città,  come  provano  alcune  norme  che  ad  Arpino. 
pur  dopo  la  sua  annessione,  vigevano  intorno  alle  successioni,  di- 
verse da  quelle  del  dhitto   romano  (1).  Ad  ogni  modo  in  questa 
categoria  di  municipi  senza   suffragio    la  giurisdizione  fu  divisa 
in   varia  mism-a  tra  i  magistrati  locali  e  il  pretore  di  Roma,  il 
quale    alla   sua   volta  o  la  esercitava   direttamente  in  Roma  ov- 
vero delegando  sul  luogo  speciali  rappresentanti  detti  prefetti  (2). 
Se  perfino  nel  diritto  sovrano  per  eccellenza  della  giurisdizione 
<'ontinuavano  ad  aver  parte  le   autorità   municipali,  può  ritenersi 
(ho   le    altre   competenze   dei  magistrati    e    dei  corpi  delilìcranti 


(1)  Cato  fr.  61   Pkteu:  si  quis  mortnus  est   Arpinatis  eitis  heredem  sacra  non 
■■^equuntur. 

(2)  Della  giurisdizione  dei  magistrati  locali   nei    municipi    piii   favoriti  può 
<lar'ì  un'idea  Liv.  XXIII  4,  4  (sopra  p.  288  n.  2). 


438  CAPO  xxn.  -  il  comune  k  lo  stato  nkf.l'italta  cxtta 

locali  fossero  anche  più  estese.  Tuttavia  v'era  per  questo  rispetto 
una  limitazione  caj) itale.  Lo  statuto  comunale  fissato  definitiva- 
mente con  deliberazione  dei  comici  romani  non  si  poteva  mutare 
che  col  voto  degli  stessi  comizi:  il  che  in  pratica  faceva  che  non 
si  mutasse  mai  e  assicurava  la  stabilità  degli  ordinamenti  non- 
ostante la  mutabilità  delle  maggioranze  locali.  Dappertutto  i  Ro- 
mani avevano  o  promulgato  o  confermato  statuti  per  cui  il  potere 
effettivo  era  nelle  mani  della  classe  abbiente,  mentre  al  proleta- 
riato, che  poteva  avere  considerevole  importanza  e  pel  numero  e 
pel  lavoro  cui  attendeva  in  città  industriali  e  commercianti  come 
Cere  o  Ca^^ua,  veniva  imi^edito  di  esercitare  sulla  classe  possidente 
(piella  tirannide  che  s'arrogava  talora  in  Grecia.  L'effetto  più  ma- 
nifesto era  che  per  ogni  dove  la  classe  abbiente  si  sentiva  legata 
a  Roma  in  cui  vedeva  il  suo  punto  d'appoggio.  Ma  ne  procede- 
vano anche  altre  conseguenze  singolari.  Mentre  nelle  città  alleate 
di  Roma  gli  ordinamenti  locali  spesso  si  modificarono  ad  immagine 
di  quelli  della  città  dominatrice,  nei  municipi  romani  ne  rimasero 
spesso  assai  diversi.  Cosi  le  città  alleate  latine  sostituirono  in  ge- 
nerale all'antico  dittatore  due  magistrati  eponimi  ad  imitazione  di 
Roma,  mentre  le  città  latine  od  ordinate  a  somiglianza  delle  la- 
tine che  vennero  incorporate  nello  Stato  romano  senza  diritto  di 
suffragio,  come  Cere,  o  anche  con  quel .  diritto,  come  Aricia,  La- 
nuvio  e  Nomento,  continuavano  ad  eleggere  l'unico  dittatore  (1).  E 
la  sorveglianza  sugli  statuti  municipali  era  tale  che  Cuma  nel  180 
per  introdurre  il  latino  come  lingua  ufficiale,  dovette  chiederne 
facoltà  a  Roma  (2).  Siffatta  notizia  del  resto  insieme  coi  monu- 
menti locali  ci  mostra  che  i  Romani  non  imposero  ai  municipi 
senza  suffragio  una  latinizzazione  violenta,  anzi  sancirono  nei 
vari  statuti  che  continuasse  ad  usarsi  come  lingua  ufficiale  la 
lingua  parlata,  osco,  volsco  od  etrusco  che  fosse.  Altro  effetto 
della  posizione  subordinata  dei  municipi  è  naturalmente  che  essi 
non  hanno  il  diritto  che  compete  agli  Stati  soAa-ani  di  concedere 
a  chi  vogliono  la  cittadinanza,  usando  del  quale  ogni  municipio 
avrebbe  potuto  introdurre  con  piena  libertà  nuo^à  elementi  nella 
cittadinanza  romana.  La  prova  di  fatto  della  mancanza  di  questo 
diritto  si  ha  in  ciò  che  quando  nella  guerra  annibalica  si  volle 
provvedere  a  regolare  la  condizione  di  trecento  cavalieri  campani 
che  servivano  in  Sicilia  al  momento  della  ribellione  di  Capua  e 
s'erano  serbati  fedeli  a  Roma,  essi   furono   con  un  plebiscito   di- 


(1)  Beloch  It.  Bund  p.  125. 

(2)  Liv.  XL  42,  l.S. 


STATUTI    MUNICIPALI.    ISTITUZIONI    SACRE  439 

chiarati  municipi  dimani:  donde  si  trae  die  i  municipi  erano  in- 
competenti a  conferire  la  propria  cittadinanza,  mentre  invece  i 
comizi  romani  potevano  conferire  la  cittadinanza  in  qualsiasi  mu- 
nicipio (1). 

Per  ciò  elle  concerne  i  diritti  civili  dei  municipi,  è  notevole 
l'esempio  dei  Campani  che  da  gran  tempo  avevano  facoltà  di  con- 
nubio con  gli  altri  cittadini  romani  prima  della  loro  ribellione  nella 
seconda  punica  (2)  e,  perdutala  transitoriamente  alla  resa  della  loro 
città  nel  211,  la  ricuperarono  poi  nel  188  (3).  E  poiché  nessuno 
dei  municipi  è  stato  ridotto  in  condizione  più  mniliante  di  Capua 
dopo  il  211,  si  deve  ritenere  che  in  generale  i  cittadini  senza  suf- 
fragio fossero  in  possesso  del  connubio.  Passeggiera  fu  anche  la 
eccezione  di  Anagnia  e  degli  Ernici  sottomessi  nel  306,  se  pure  vi 
è  stata,  giacché  la  notizia  che  in  tal  proposito  dà  Livio  par  riferirsi 
non  al  connubio  coi  Romani,  ma  con  gli  altri  Ernici  (4).  Quanto 
al  diritto  di  commercio  par  certo  che  non  poteva  mancare;  X3erchè 
può  aversi  commercio  senza  connubio;  ma  connubio  senza  com- 
mercio non  può  concepirsi,  non  essendovi  in  questo  caso  la  possi- 
bilità di  regolare  come  che  sia  i  rapporti  economici  tra  gli  sposi 
e  tra  le  loro  famiglie  (5). 

Le  istituzioni  sacre  dei  Comuni  senza  diritto  di  suffragio  se- 
condo alcuni  divenivano  senz'altro  istituzioni  dello  Stato  romano 
(iuando  trattavasi  di  Comuni  della  stessa  nazionalità  (6).  Certo 
sacerdoti  dello  Stato  romano  erano,  almeno  nell'età  imperiale,  il 
flamine  Yirbiale  di  Ai'icia  e  i  sacerdoti  che  attendevano  ai  culti 
di  Tuscolo  e  di  Laurento;  per  modo  che  in  questi  casi  non  si  tratta 
più  di  culti  municipali,  si  di  veri  culti  pubblici  del  popolo  romano. 
Ma  Tuscolo,  Aricia,  Lanuvio,  secondo  ogni  verisimiglianza,  otten- 
nero i  pieni  diritti  cittadini  da  quando  s'incorporarono  nello  Stato 
romano;  e  ciò  implicava  naturalmente  che  come  culti  pubblici  del 
popolo  romano  fossero  riguardati  i  loro  culti;  mentre  le  città  che 
non  ebbero  il  diritto  di   suffragio  erano  in   condizione   alquanto 


(1)  Liv.  XXIII  31. 

(2)  Liv.  XXIII  4,  7  :  conuhium  vetuntum  multas  familias  claras  ac  potentes  Ro- 
inanis  miscuerat. 

(3)  Liv.  XXXVIII  86. 

(4)  Liv.  IX  43,  24  (sopra  p.  337  n.  4):  conuhia   conciliaque  adempia,  cfr.  Vili 
14,  10. 

(5)  Perciò  non  paiono  da  accettarsi  le  riserve  del  Mommsen  Stauffr'-rlit  HI  577. 
V.  invece  Beloch  p.  125  seg, 

(6)  Mommsen  Staatsrecht  III  579  seg. 


440  CAPO  xxri.  -  tl  comuxe  e  lo  stato  xell' Italia  unita 

diversa.  Le  loro  ceremonie  religiose  passarono  bensì  sotto  la  sor- 
veglianza dei  pontefici  di  Roma,  ma  rimasero  affidate  ai  magistrati 
del  luogo  e  si  continuarono  a  celebrare  appunto  per  deliberazione 
dei  pontefici  secondo  le  norme  già  prima  vigenti:  insomma  non  en- 
trarono a  far  xjarte  dei  culti  del  popolo  romano,  ma  furono  culti 
municipali  (municipalia  sacra)  (1).  Una  prova  del  sopravvivere 
di  questi  culti  e  del  loro  carattere  locale  si  ha  anche  ad  Anagni;i 
dove  i  magistrati  non  rimasero  che  per  le  ceremonie  di  culto,  «■ 
perfino  per  Capua,  dove  varie  iscrizioni  del  periodo  tra  il  211  e  l;i 
guerra  sociale  sono  poste  dai  locali  curatori  dei  sacrari  imagistri 
faiiorum)  (2).  Però  l'ingerenza  dei  pontefici  romani  è  manifesta 
in  ciò  che  i  x3rodigi  avvenuti  nei  municipi  erano  normalmente  an- 
nunziati a  Roma  affinchè  i  pontefici  provvedessero  alla  loro  espia- 
zione, mentre  assai  meno  sovente  vi  si  denunziavano  quelli  delle 
colonie  latine  e  delle  città  federate:  onde  dalla  frequenza  con  cui 
son  riferiti  prodigi  avvenuti  in  un  dato  Comune  ed  espiati  in  Roma 
può  in  generale  desumersi  la  sua  condizione  di  municipio  o  di 
colonia  cittadina  (3). 

In  ordine  alle  finanze  comunali,  non  par  dubbio  che  i  municipi 
senza  suffragio  avessero  diritto  di  possedere  e  che  a  loro  profitto 
si  riscuotessero  i  dazi  locali.  Quando  Capua  cadde  nel  211  in  potere 
dei  Romani,  poco  dopo  i  Romani  ebbero  ad  occuparsi  della  riscos- 
sione dei  dazi  sulle  merci  esportate  ed  importate  (4)  :  il  che  mostra 
che  prima  si  erano  riscossi  a  ijrofitto  di  Capua  e  della  lega  cam- 
pana. E  del  resto  anche  i  lavori  edilizi  in  queste  città  erano  fatti 
per  cura  ed  a  spese  del  Comune  e  non  compaiono  mai  tra  le 
opere  pubbliche  appaltate  dai  censori  in  Roma  (5).  Invece  il  di- 
ritto sovrano  di  battere  moneta  mancava  a  tutti  i  municipi  in 
queste  condizioni,  con  la  sola  eccezione  di  alcune  città  della  lega 


(1)  Fest.  ejìit.  p.  157  :  municipalia  sacra  vocantur  quae  ah  initio  hahuerunt 
ante  civitateni  Romanam  acceptam,  quae  observare  eos  roluerunt  jwntifices  et  eo 
more  facere  quo  adsuessent  antiquitus. 

(2^  CIL.  X  3772-3789. 

(3)  MoMMSEN  nella  edizione  delle  jìeriochae  liviane  del  Jahn  (Lipsiae  1853) 
p.  XXII  segg.  Cfr.  anche  Wuelkek  Die  Entwicklung  des  Prodigienwesetis  bei  den 
Roinern  (Leipzig  1903,  diss.). 

(4)  Liv.  XXXII  7,  3  (a.  199).  Beloch  It.  Band  p.  129. 

(5)  Se  per  tal  rispetto  si  parla  nel  174  (Liv.  XLI  27,  10)  di  lavori  ad  Au- 
ximum  e  Calatia,  conviene  riflettere  che  questa  aveva  subito  le  sorti  di  Capua 
e  non  costituiva  quindi  Comune,  quella  a  questo  tempo  doveva  già  possedere 
la  pienezza  dei  diritti  cittadini. 


'INAXZK    CO.MITXALI  441 


campana,  Capua  cioè  con  le  vicine  Atella  e  Calazia.  Queste  dap- 
prima battevano  moneta  in  oro,  argento  e  bronzo  col  nome  di 
Roma  in  latino,  quando  Roma  non  coniava  ancora  né  in  oro  ne 
in  argento  ;  e  più  tardi,  a  quel  che  sembra  dal  268,  quando  Roma 
prese  ad  emettere  moneta  d'argento,  perduto  il  diritto  di  coniare 
in  metalli  preziosi,  batterono  moneta  divisionaria  di  bronzo  col 
proprio  nome  in  caratteri  osclii,  forse  ricevendo  cosi  un  piccolo  com- 
penso del  diritto  importantissimo  di  cui  venivano  private  (1). 

In  quanto  alle  relazioni  finanziarie  dei  municipi  con  Roma,  non 
c'è  alcuna  prova,  anzi  tutto  pare  escludere  die  speciali  gravami 
pesassero  sui  municipi.  Ma  i  municipi  dovevano  sottostare  agli 
stessi  oneri  finanziari  degli  altri  cittadini  romani,  ossia  soprat- 
tutto all'imposta  diretta  sul  reddito,  il  tributo,  levato  in  via 
straordinaria  allorché  occorreva  per  le  spese  militari.  Sebbene  si 
sia  fatta  questione  (2)  se  i  cittadini  senza  suffragio  vi  fossero  ob- 
bligati, in  realtà  non  può  esservi  dubbio  in  materia,  vista  l'iden- 
tità dei  Ceriti  e  degli  erari  (3)  ed  essendo  del  resto  inammissibile 
che  fossero  costoro  privilegiati  per  questo  rispetto  a  confronto  elei 
Romani  forniti  dei  igieni  diletti.  Ma  si  è  detto  che  in  origine  mi- 
litando i  cittadini  senza  suffragio  in  legioni  a  parte,  queste  veni- 
vano stipendiate  per  cui'a  dei  magistrati  delle  varie  città;  e  però 
i  municipi  non  avrebbero  avuto  ragione  di  pagare  il  tributo  che 
serviva  al  mantenimento  delle  truppe  romane.  Senonchè  solo  fon- 
damento della  ipotesi  che  i  cittadini  senza  suffragio  servissero  in 
speciali  legioni  è  il  nome  di  "  legione  campana  „  che  dalle  fonti 
vien  dato  al  presidio  di  Regio  sul  principio  della  guerra  di 
PuTO  (4)  ;  mentre  nel  iDeriodo  su  cui  abbiamo  tradizione  più  larga 
e  sicura,  per  la  guerra  annibalica,  i  contingenti  municix^ali  appa- 
riscono fusi  pienamente  nell'esercito  romano.  Or  da  uno  storico, 
che  non  è  tenuto  alla  precisione  di  termini  d'uno  scrittore  di  di- 
ritto pubblico,  un  distaccamento  di  quattromila  soldati  campani, 


(1)  Ciò  secondo  MoMMSEN  Rijm.  Mihizwesen  p.  212  segg.  La  questione  della 
monetazione  romano-campana  è  del  resto  tutt'  altro  che  chiara,  cfr.  e.  XXIII, 
Conviene,  ammessa  questa  ipotesi,  attribuire  con  Haeukrlin  Zion  Corpus  nii- 
inoram  aeris  (jravis  (Berlin  1905)  p.  10  al  216-211  la  moneta  d'argento  di  Capua 
con  leggenda  osca. 

(2)  Così  dal  Beloch  p.  129. 

(3)  ScHOL.  Cic.    Verr.  p.   103  Orelli  :  censores cires   sic  notahant  ut qui 

plebeius  (esset)  in  Caeritum  tahulas  referretur  et  uerariust  fìrrct.  Cfr.  sopra   pa- 
gina 257  n.  1. 

(4)  Liv.  epit.  15.  Oros.  IV  3,  cfr.  Polyiì.   [  7,  7. 


442  CAPO  XXII.  -  IL  COMUNE  E  LO  STATO  NE LL ITALIA  UNITA 

([uaiita  era  a  un  dipresso  la  forza  normale  d'una  legione,  poteva 
facilmente  esser  designato  come  legione  senza  che  a  rigore  gli 
competesse  questo  titolo.  Ben  altre  prove  si  richiederebbero  per 
sostenere  che  i  Romani  commettessero  Fimprudenza  di  costituire 
normalmente  vere  e  proprie  legioni  comandate  da  tribuni  militari 
indigeni  coi  contingenti  dei  cittadini  senza  suffragio,  e,  quel  che 
è  anche  più  grave,  d' affidarne  il  mantenimento  agli  ufficiali  muni- 
cipali: ciò  senza  dii'e  che  la  maggior  parte  dei  municiiDi  senza 
suffragio  non  era  in  grado  di  fornire  contingenti  così  ragguar- 
devoli come  i  Camptani,  e  quindi  sarebbe  convenuto  in  ogni  caso 
aggruppare  i  Comuni  facendone  distretti  per  la  coscrizione  e  pel 
tributo,  di  cui  avrebbero  dovuto  essere  a  capo  necessariamente  fun- 
zionari nominati  dal  governo  centrale.  Ne  può  far  difficoltà  l'unica 
lingua  del  comando,  laddove  era  tollerato  l'uso  della  lingua  indi- 
gena nella  vita  municipale  ;  perchè  non  mancano  analogie  in  eser- 
citi moderni  arrolati  tra  nazionalità  disparatissime  ;  e  ciò  sebbene 
i  comandi  e  le  istruzioni  militari  che  oggi  s' impartiscono  siano 
ancor  più  complicati  di  quelli  dei  Romani. 

I  cittadini  senza  suffragio  non  erano  registrati  in  Roma  nelle 
liste  degl'iscritti  alla  tribù,  ma  nelle  tavole  dei  Ceriti  od  erari.  Non 
erano  però  tenuti  a  recarsi  tutti  personalmente  in  Roma  davanti 
ai  censori  per  farsi  segnare  nei  registri.  Ciò  dovevano  fare  sol- 
tanto quelli  che  mancavano  di  propri  magistrati,  come  fu  stabilito 
pei  Campani  nel  189  (1)  ;  e  simile  sarà  stato  p)robabilmente  da 
prima  il  caso  degli  Anagnini.  Per  gli  altri  dobbiamo  ritenere  che 
in  generale  fossero  censiti  sul  luogo  da  propri  magistrati,  even- 
tualmente con  la  sorveglianza  dei  delegati  del  pretore  urbano 
{praefecti)^  e  che  le  liste  fossero  poi  passate  ai  censori  di  Roma. 
Ciò  sembra  confermato  non  solo  dall'esistere  in  Cere  anche  nell'etìi 
imperiale  un  censore  perpetuo  (2),  ma  più  dal  fatto  che  i  Campani 
anche  dopo  il  211  credevano  d'aver  diritto  ad  esser  censiti  sul  luogo 
e  convenne  che  una  speciale  deliberazione  li  chiamasse  a  tal  uopo 
in  Roma.  Non  è  dubbio  del  resto  che  nelle  somme  tramandateci 
dei  cittadini  censiti  sian  compresi  anche  quelli  senza  suffragio; 
altrimenti  non  si  saprebbe  spiegare  l'altezza  di  quelle  somme  in 
confronto  con  la  piccola  estensione  del  territorio  abitato  da  citta- 
dini con  pienezza  di  diritti  (3).  Anche  Fabio  Pittore  dando  la  lista 


(1)  Liv.  XXXVIII  28,  4:  Campani    ubi    censerentxr  senatiiin  consitluerunt.  de- 
cretum  liti  Romae  censerentur.  ibid.  36. 

(2)  CIL.  XI  3616.  17. 

(3)  Beloch  Bevolkerung  I  318. 


TAVOLE    DEI   CERITI.    JIAGISTRATI    MUNICIPALI  443 

delle  forze  romane  nel  225  non  fa  nessuna  categ-oria  a  parte  pei 
cittadini  senza  suffragio;  e  mentre  nota  separatamente  le  forze 
degli  alleati  a  cominciare  dai  Latini,  registra  insieme,  dandone 
una  sola  somma.  Romani  e  Campani  (1);  nella  qnal  somma  è  in- 
dubitato che  coi  più  importanti  tra  i  cittadini  senza  suffragio,  i 
Campani,  son  compresi  tutti  gli  altri. 

L'ordinamento  interno  d'alcuni  di  questi  Comuni  ci  è  parzial- 
inente  noto,  in  quanto  almeno  essi  dopo  la  guerra  sociale  non 
modilicarono  le  loro  istituzioni  secondo  lo  scliema  uniforme  d'ordi- 
namento elle  s'introdusse  allora  pei  Comuni  romani.  Sappiamo  cosi 
clie  a  Cere  era  a  capo  della  città  un  dittatore  (sopra  p.  433).  A  capo 
della  lega  campana  fino  al  211  è  il  "  meddix  tuticus  ,,  (2\  sotto  cui 
sono  uno  o  più  "  meddices  ,,  per  ciascuna  delle  varie  città  con- 
federate (3);  Cuma  ha  .due  "meddices,,  o,  come  poi  presero  a 
chiamarsi  in  latino,  "  pretori  „  (4)  ;  Anagnia  dopo  ricuperata,  non 
sappiamo  quando,  ma  certo  prima  della  guerra  sociale,  la  sua-  auto- 
nomia, due  pretori  (5);  Velletri  due  "  meddices  „  (6);  Fundi,  Formie 
ed  Arpino  tre  edili  (7).  Li  vari  Comuni  poi  della  Sabina  ricorre 
come  magistrato  supremo  un  collegio  d'  "  octoviri  „  di  cui  due  per 
la  giurisdizione,  due  per  l'edilizia,  due  pel  culto  e  due  per  la  fi- 
nanza (8).  Questa  grande  varietà  mostra  che  in  parte  sopravvissero 
nei  municipi  le  antiche  magistrature  locali  e  che  negli  sta'tuti  mu- 
nicipali Roma  era  affatto  aliena  dal  cercare  quella  uniformità  che 
si  studiò  poi  sistematicamente  d'introdurre  dopo  la  guerra  sociale: 
ma  al  tempo  stesso  si  vede  chiaro  che  nella  compilazione  di  quegli 
statuti  non  mancò  d'influire  largamente  l'ordinamento  romano,  il 
che  spiega,  per  es.,  come  quasi  dappertutto  ricorrano  due  edili  e 
due  questori  ricopiati  sugli  edili  e  sui  questori  romani. 

Grià  s'è  detto  che  in  alcuni  municipi  venivano  inviati  da  Roma 
dei  prefetti  (9).   E  incerto  se  in  tutti.  Non  sajjpiamo,  per  es.,  se 


(1)  PoT.YR.  II  24,  U.  Su  questa  lista  v.  oltre  p.  462. 

(2)  Sul  meddix  della  lega  campana  v.  sopra  p.  268  n.  2. 

(3)  Il  meddix  di  Capua  è  ricordato   presso  Zveta.teff  Syll.  inscr.  Ose.  41. 

(4)  CIL.  X  3698,  cfr.  3685. 

(5)  CIL.  X  5919.  20.  25-29. 

(6)  ZvETAJEFF  InHcr.  It.  med.  dial.  n.   46. 

(7)  CIL.  X  6234.  35.  38.  39.  42.  —  X  6105.  08.  —  X  5679.  82.  Crc.  ad 
fam.  XIII   11. 

(8)  Testi  p.  e.  presso  Liebenam  St&dteverwaltung  p.  256  n.  3. 

(9)  Testo  principale  sulle  prefetture  è  Fest.  p.  233:  praefecturae  eae  ajìpel- 
lahantur  in  Italia  in  quihun  et  ina  dicebatur  et  nundinae  agehanfur  et  erat  qiiaedam 
earnm  respublica  neqiie  tamen  maffistratiin  .luofi  hahebant  (tutto  ciò  è  molto  ine- 


44:4:         CAPO  xxn.  -  il  comuxe  e  lo  stato  nell'itali  a  unita 

so  ne  mandassero  a  Velitre.  Poteva  farsene  di  meno  in  città  pic- 
cole situate  a  non  grande  distanza  da  Roma,  in  specie  se  le  com- 
petenze dei  magistrati  locali  erano  tanto  considerevoli  e  tanto 
scarsi  i  casi  riservati  al  pretore  o  a'  snoi  delegati  die  fossero  rare 
le  occasioni  al  suo  intervento.  Le  prefetture,  a  cominciare  dalla  più 
importante  di  esse  che  abbracciava  tutto  il  territorio  deirantica 
lega  campana  con  Cuma  ed  Acerra,  non  sempre  comprendevano  un 
Comune  solo.  Nel  distretto  campano  s'inviavano  quattro  prefetti 
designati,  se  non  in  origine,  almeno  in  decorso  di  tempo,  dal  suf- 
fragio popolare,  noti  col  nome  di  prefetti  per  Capua  e  i^er  Cuma  (1). 
Disciolta  la  lega  campana,  questi  prefetti  ebbero  gim-isdizione 
sopra  non  meno  di  dieci  centri  nelle  cui  condizioni,  rispetto  a 
Roma,  era  gran  divario:  gli  uni  privi  di  propria  autonomia  co- 
munale, cioè  Capua,  Calazia  e  Casilino  (2);  altri  in  possesso  delle 
comuni  franchigie  municipali,  cioè  Cuma,  Acerre,  Atella  e  Sues- 
sula,  altri  infine,  cioè  Puteoli,  Volturno  e  Literno,  colonie  di  citta- 
dini romani  dedotte  dopo  la  guerra  annibalica.  Da  questo  distretto 
all'infuori,  il  pretore  urbano  inviava  prefetti  di  sua  nomina  nelle 
altre  prefettui-e,  che  avevano  anch'esse  di  frequente  una  conside- 
revole estensione.  Cinque  x^i'efetture  abbracciava  ad  esempio  il 
territorio  sabino,  compreso  il  tratto  sabino-vestino  incori^orato  nel 
290,  Nui'sia,  Reate,  Amiterno,  Aveia,  Peltuino  (3).  Il  titolo  di  pre- 
fettui'a  rimasto  a  queste  città  fin  nell'età  imperiale,  quando  certo 
non  vi  s'inviavano  più  i  ^Drefetti,  mostra  che  non  possono  essere 
state  effettive  prefettui'e  solo  pel  breve  periodo  tra  il  290  e  il  268, 
anno  in  cui  i  Sabini  ricevettero  la  cittadinanza  con  pieni  diritti,  e 
che  quindi,  anche  dopo  mutate  così  le  loro  condizioni,  essi  conti- 


satto),  in  quas  legibus  praefecti  mittehantur  quotannis  qui  iiis  dicerent.  quonon 
genera  fuerunt  duo  :  alterum  in  quas  solebant  ire  praefecti  quaituor  e  riginti  ftex 
virum  numero  populi  suffragio  creati  in  haec  opjjida  :  Capuani  Cumas  Casilinnm 
Volturnum  Liternum  Pufeolos  Acerras  Suessulam  Atellani  Caìatiam  :  alterum  in 
quas  ihant  quos  praetor  iirhanus  quotannis  in  quaeque  loca  miserai  legibus  ut 
Fundos  Formias  Caere  Venafrum  Allifas  Prirernum  Anagniam  Frusinonem 
Reate  Saturniam  Nursiam  Arpinum  aliaque  complura. 

(1)  Liv.  IX  20.  Cass.  Dio  LIV  26.   CIL.  XI  3717. 

(2)  MoMMSEN  CIL.  X  p.  369. 

(3)  Per  le  due  prime  v.  Fest.  1.  e.  —  Amiterno,  Mommsen  CIL.  IX  p.  397.  — 
Aveia' p.  341.  —  Peltuinum  p.  324  (sopra  p.  360  n.  4).  Oltre  a  queste  e  alle 
prefetture  menzionate  da  Festo,  sono  dichiarate  esplicitamente  prefetture  Forum 
Clodii  (Plin.  n.  h.  Ili  52.  CIL.  XI  3310  a),  Statonia  (Vitruv.  II  7),  Fulginium 
(sopra  p.  359  n.  4\  Atina  {CIL.  X  p.  499),  Casinum  {CIL.  X  5193.  941  A  pre- 
fetture nel  Piceno  accenna  Caes.  h.  r.  I  15. 


PREFETTI.    COMUNI   CON    DIRITTO    DI    SUFFRAGIO  445 


nuarono  ad  esser  giudicati  dai  delegati  del  pretore  urbano  (1). 
Qualsiasi  Comune  pertanto  o  distretto  di  cittadini,  in  qualsiasi  con- 
dizione giuridica  a  fronte  di  Roma,  poteva  essere  prefettura,  e  il 
prevalere  di  questo  termine  sopra  un  altro  i^er  designare  un  Co- 
mune o  distretto  non  dipendeva  clie  dal  caso  e  niun  lume  dà  sul 
suo  essere  preciso  (2);  solo  è  certo  clie  prefettm-e  non  possono  essere 
se  non  quei  distretti  che  acquistarono  i  diritti  cittadini  pieni  o 
limitati  prima  della  guerra  sociale. 

Quei  Comuni  i  cui  abitanti  erano  forniti  della  pienezza  dei 
diritti  cittadini,  chiamati  probabilmente  municipi  solo  ad  imita- 
zione degli  altri  dove  non  s'aveva  il  diritto  di  suffragio,  gode- 
vano prima  della  guerra  sociale  franchigie  comunali  minori  che 
non  questi,  compensate  però  dalla  somma  maggiore  di  diritti  che 
provenivano  dal  possesso  integrale  della  cittadinanza  romana. 
Anche  qui  sopravvissero  più  o  meno  le  antiche  magistrature  locali, 
come  in  Aricia,  Lanuvio  e  Nomento  la  dittatura  (3),  ma  fornite 
probabilmente,  per  ciò  che  s'appartiene  alla  giurisdizione,  di  co<m- 
petenze  assai  minori,  perchè  piena  doveva  essere  la  latinizzazione 
nel  diritto,  nelle  istituzioni  e  nella  lingua  e  quindi  assai  minore 
la  necessità  dell'intervento  di  magistrati  locali.  Onde,  se  non  ab- 
biamo menzione  di  prefetti  a  Tuscolo,  Aricia,  Lanuvio,  Laurento, 
deve  probabilmente  cercarsene  la  cagione  nella  vicinanza  di  Roma 
che  permetteva  di  iDortar  facilmente  i  piati  innanzi  al  pretore 
urbano.  E  come  minore  era  l'autonomia  nella  giurisdizione,  cosi 
Ijiù  limitate  erano  le  competenze  finanziarie  dei  magistrati  locali. 
Neppm-e  doveva  aversi  un  vero  bilancio  comunale,  talché  sembra 
che  perfino  costruzioni  d'interesse  iDubblico  non  potessero  farsi  in 
origine  se  non  coi  denari  dell'erario  romano  e  per  ordine  dei  cen- 
sori (4).  Fa  appena  d'uopo  notare  che  del  diritto  di  batter  moneta 


(1)  Così  pine  è  probabilmente  posteriore  al  188,  ossia  alla  concessione  dei 
pieni  diritti  di  cittadinanza,  il  decreto  in  cui  i  conscriptes  di  Fondi,  col  con- 
senso del  prefetto,  si  nominano  un  patrono,  CIL.  X  6231. 

(2j  Così  si  spiej^a  come  nella  lex  lidia  miinicipalis  1.  85  seg.  quando  si  enu- 
merano i  centri  dei  cittadini  romani  si  discorra  di  municipia  coloniae  praefe- 
cturae  fora  conciliabiila,  quantunque  le  prefetture  siano  comuni  che  spettano  ad 
una  delle  altre  quattro  categorie.  —  La  prefettura  nel  senso  di  cui  qui  s'è  par- 
lato non  deve  confondersi  del  resto  con  quei  vici  fuori  dei  confini  d'un  dato 
Comune,  ma  ad  esso  attribuiti  e  detti  pur  prefetture,  nei  quali  i  magistrati 
comunali  mandavano  rappresentanti  per  esercitare  la  giurisdizione,  v.  Mommsen 
Staatsrecht  111  769. 

(3)  V.  1  p.  423  n.  2. 

(4;  Liv.  XLl  27.  Mommsen  Staatsrecht  11      429. 


446  CAPO  XXII.  -  IL  COMUNE  K   1.0  STATO  XKLl/lTALIA  UNITA 

erano  in  tutto  privi  questi  Comuni,  mentre  eccezionalmente  se  ne 
conservava  qualclie  traccia  nei  municipi  senza  facoltà  di  suffragio. 

I  cittadini  in  possesso  di  questa  facoltà  esercitavano  i  loro  di- 
ritti x^olitici  in  Roma  in  forza  della  loro  iscrizione  nelle  tribù.  In 
o-enerale  quando  s'incorporava  un  Comune  nello  Stato  romano  non 
si  creava  per  esso  una  nuova  tribù  (1):  sarebbe  stato  dar  troppa 
importanza  ai  nuovi  cittadini;  e  poi  il  distinguersi  di  tribù  di 
nuovi  e  tribù  di  vecchi  cittadini  poteva  esser  pericoloso  per  la 
pubblica  concordia.  Nuove  tribù  non  s' istituirono  per  solito  se 
non  quando  in  un  dato  distretto  s'erano  fatte  larghe  assegnazioni 
vintane  ai  cittadini  romani.  Invece  1  Comuni  incorporati  si  ascris- 
sero di  regola  a  tribù  vicine  al  loro  confine:  cosi  Tuscolo  alla 
Papiria,  Lanuvio  alla  Mecia,  Alicia,  alla  Grazia,  Priverno,  quando 
ebbe  la  piena  cittadinanza  romana,  alla  Ufentina.  S'intende  che  non 
fu  questa  ujia  regola  senza  eccezione.  Quando  si  diede  la  cittadinanza 
con  pieni  diritti  ai  Sabini,  si  dovette  non  molto  do^DO  provvedere 
alla  creazione  di  due  nuove  tribù  in  quella  regione,  la  Quirina, 
in  cui  s'iscrissero  quasi  tutti  i  Comuni  sabini,  e  la  Velina,  in  cui 
votarono  specialmente  i  Picenti  (2).  Del  resto  in  x^roceder  di  tempo 
la  contiguità  locale  tra  i  distretti,  forniti  o  no  d'autonomia  comu- 
nale, appartenenti  ad  una  data  tribù  non  potè  più  essere  rigo- 
rosamente mantenuta.  Infatti  a  quel  modo,  mentre  le  tribù  poste 
alla  periferia  del  territorio  romano  si  dilatavano  indefinitamente, 
rimanevano  stazionarie  quelle  x^oste  nel  centro,  di  guisa  che  tra 
i  vari  collegi  d'elettori  si  venivano  a  formare  differenze  notevoli. 
E  quantunque  ciò  nel  tutt'insieme  avvantaggiasse  le  condizioni 
delle  tribù  x^oste  al  centro  dello  Stato,  ossia  delle  più  antiche,  è 
evidente  che  non  si  poteva,  insistendo  di  soverchio  in  questo 
modo  di  fare,  introdiuTe  fra  le  tribù  Una  disparità  troppo  stri- 
dente. Cosi,  x^er  es.,  quando  nel  188  si  diede  la  cittadinanza  con 
Xileni  diritti  a  Fundi  ed  a  Formie,  si  iscrissero  nella  tribù  Emilia, 
quantunque  non  x^otesse  estendersi  in  alcun  modo  fin  là  il  terri- 
torio della  Emilia,  una  delle  antiche  tribù  rustiche. 

Le  colonie  cittadine  (3),  anche  quando  fu  sux)erata  \a  difficoltà 


(1)  Belocu  It.  Bund  p.  28  segg. 

(2)  Liv.  epit.  18.  Fest.  p.  254.  Sulla  tribù  Velina  v.  Kubitschek  De  Roman,  tri- 
buum  origine  ac  proj).  p.  25  seg. 

(3)  Beloch  It.  Bund  p.  Ili  segg.  Mommsen  Staatsreclit  IP  p.  624  segg.  Gli 
ordini  delle  colonie  cittadine  per  un'età  alquanto  più  recente  ci  son  noti  dalla 
legge  rinvenuta  ad  Osuna  (Tirso)  della  colonia  Julia  Genetiva,  spettante  all'a.  44 
av.  Cr.,  su  cui  vedasi  soprattutto  il  magistrale  commentario  del  Mommsex  Gca. 
Schriften  I  p.  194  segg. 


('t)l.(K\'lK    CITTA  UIXE  ■  447 


di  conciliare  il  possesso  dei  diritti  civici  con  l'autonomia  comunale, 
incontrarono  al  loro  moltiplicarsi  una  difficoltà  pratica  che  i  Ro- 
mani non  superarono  mai.  L'esercizio  reale  dei  diritti  cittadini  in 
Roma  andava  infatti  perduto  per  la  maggior  parte  dei  coloni, 
quantunque  in  teoria  si  conservasse;  e  cosi  fino  alla  guerra  anni- 
balica si  dedussero  sempre  ijoclie  colonie  romane.  I  Romani  stessi 
preferivano  d'essere  inviati  in  colonie  latine,  perchè  in  compenso 
dei  diritti  di  cittadinanza  che  in  effetto  non  avrebbero  potuto 
esercitare,  acquistavano  il  diritto  di  costituire  un  proprio  Stato  au- 
tonomo. Ma  dopo  la  guerra  annibalica,  quando  l'esser  cittadino 
romano  portava  con  sé  una  quantità  di  vantaggi  in  specie  finan- 
ziari, anche  se  i  diritti  politici  di  fatto  non  si  esercitavano,  e  quando 
la  condizione  degli  alleati  si  faceva  sempre  meno  tollerabile  e 
sempre  minor  difesa  trovavano  contro  gli  atti  d'arbitrio  dei  ma- 
gistrati romani,  pochi  si  poterono  più  acconciare  a  perdere  i  di- 
ritti di  cittadinanza  romana  per  diventare  cittadini  d'una  colonia 
latina  che  di  diritto  era  uno  Stato  sovrano,  ma  di  fatto  i)oteva 
essere  trattata  come  paese  di  conquista.  Allora  cominciò  pertanto 
una  larga  deduzione  di  colonie  cittadine.  Ma  prima  di  quella 
guerra  le  colonie  di  cittadini  non  furono  che  sette  od  otto  e  cioè, 
oltre  Ostia  ed  Anzio,  Tarracina  (329)  nel  paese  dei  Volsci.,  Minturne 
e  Sinuessa  (296)  nel  paese  degli  Aurunci,  Sena  Gallica  (289  circa) 
nel  paese  dei  Senoni,  Castro  Novo  (289)  nell'Etruria  meridionale 
e  un'altra  Castro  Novo  (264)  nel  Piceno  (1).  Tutte  codeste  erano 
colonie  marittime.  Infatti  mentre  Roma  aveva  per  terra  un  eser- 
cito formidabile,  non  era  possibile  né  conveniente  che  per  mare 
dipendesse  interamente  dal  buon  volere  dei  suoi  alleati,  onde  le 
convenne  occupare  una  serie  di  porti  per  servirsene  come  base 
d'operazione  e  arsenali  per  la  sua  marina  militare.  Quanto  ai  co- 
loni stessi,  troppo  scarsi  perché  potessero  bastare  ai  bisogni  della 
marina  da  guerra  romana,  servivano  soltanto  a  occupare  militar- 
mente i  porti  che  potevano  esserle  indispensabili. 

Per  la  deduzione  d'una  colonia  (2)  si  richiedeva  una  legge 
speciale  che  determinasse  il  luogo,  il  numero  dei  coloni  e  la  gran- 
dezza dei  lotti  da  distribuire.  I  magistrati  incaricati  di  fondare  la 
colonia  si  eleggevano  nei  comizi,  in  generale  in  numero  di  ti-e 
{triumviri  coloniae  dediicendae),  ma  talvolta  anche  in  numero 
assai   maggiore.  La  deduzione  si  faceva  con    grande  solennità.  I 


(1)  Sulle  due  ultime  v.  sopra  p.  368  n.  1. 

(2)  V.  Marquarut  L'ainmin.  romanu    I    p.    133   segg.  Rudori-i-  Feldmesser  II 
p.  229  segg. 


448  CAPO  XXII.  -  IL  COMUNE  E  LO  STATO  XKLl'itaLIA  UNITA 


coloni  entravano  in  ordine  militare  sotto  la  guida  dei  triumviri  nel 
territorio  ad  essi  destinato.  Allora  con  rito  solenne  uno  dei  triumviri, 
coperto  il  capo  della  toga,  tracciava  il  solco  del  pomerio,  ossia  la 
linea  ideale  che  doveva  separare  la  città  dal  contado,  con  un  aratro 
cui  era  aggiogato  a-  destra  un  toro,  a  sinistra  una  vacca.  Si  aveva 
cura  che  la  terra  sollevata  dall'aratro  cadesse  all'interno  simboleg- 
giando in  certo  modo  l'elevazione  delle  mura:  dove  poi  dovevano 
corrispondere  le  porte  o  le  vie  uscenti  da  esse  si  alzava  la  stiva 
dell'aratro,  in  modo  che  si  avesse  una  interruzione  del  solco  (1). 
Gli  agrimensori  avevano  già  innanzi  alla  solenne  fondazione  mi- 
surato e  diviso  il  territorio  a  fine  di  preparare  i  lotti  pei  coloni, 
prendendo  per  i3unto  di  partenza,  quando  il  terreno  era  piano  e 
la  città  era  da  edificare  di  pianta,  quel  punto  che  doveva  esserne 
il  centro.  Di  lì  essi  conducevano  due  linee  che  si  tagliavano  ad 
angoli  retti,  una  da  occidente  ad  oriente,  che  si  diceva  decumano 
massimo  (2),  la  via  principale,  l'altra  da  tramontana  a  mezzo- 
giorno, che  era  detta  cardine  massimo,  dividendo  così  il  terri- 
torio della  colonia  in  quattro  quadrangoli.  La  colonia  si  conside- 
rava come  orientata  verso  occidente:  la  parte  a  settentrione  del 
decumano  si  chiamava  destra,  la  ]Darte  a  mezzogiorno  sinistra,  la 
parte  ad  occidente  del  cardine  ulteriore  {ultra  Z;.),  la  parte  ad 
oriente  citeriore  {citra  k.).  Parallele  alle  due  linee  principali  ne 
erano  condotte  tante  altre,  dette  genericamente  limiti  e  specifica- 
mente cardini  o  decumani,  che  s'intersecavano  anch'esse  ad  angolo 
retto  (3).  Fuori  della  città,  per  mezzo  dei  limiti,  il  territorio  era 


(1)  Varrò  de  l.  l.  V  143.  Dionys.  1  88.  Ovm.  fast.  IV  825.  Plut.  q.  R.  24.  Fest. 
p.  237.  302.  Cass.  Dio  LXXII  15.  Serv.  Aen.  V  755.  Sul  concetto  del  pomerio 
V.  1  p.  188  seg. 

(2)  FuoNTiN.  de  limit.  p.  27  seg.:  limitum  prima   origo  sicut   Varrò  descripsit 

a  disciplina  Etnisca ab  hoc  fimdamento  maiores  nostri  in  agrorum  mensura 

videntur  constituisse  rationem,  primo  duo  Umites  duxenint ,  unum  ab  oriente  in 
occasum  quem  vocaverunt  decimanum,  alter nm  a  meridiano  ad  septentrionem  quem 
vocaverunt  cardinem.  decimanus  autem  dividebat  agrum  dextra  et  sinistra,  cardo 
citra  et  ultra.  Che  la  colonia  sia  orientata  verso  occidente  secondo  la  optima  ac 
rationalis  agrorum  constitutio  si  ha  da  Frontin.  p.  31  e  da  molti  altri  testi.  Non  è 
questo  il  luogo  di  insistere  sulle  alterazioni  che  subì  di  poi  siffatta  norma:  delle 
quali  discute  ottimamente  il  Valeton  '  Mnemosyne  '  XXI  (1893)  p.  410  segg. 

(3)  Per  avere  un'idea  di  ciò  che  fosse  una  colonia  romana  costruita  di  sana 
pianta  giova  soprattutto  studiare  la  pianta  dell'antica  Torino  e  quella  del- 
l'antica Aosta  col  sussidio  degli  scritti  di  C.  Promis  Storia  dell'antica  Torino 
(Torino  1869)  e  Le  antichità  di  Aosta  '  Mem.  dell' Accad.  delle  scienze  di  To- 
rino ',  ser.  I  t.  XXI  (1864)  p.  2\ 


COLONIE    CITTADINE  449 


diviso  in  tanti  quadrati  di  duecento  iugeri  in  media  per  ciascuno, 
detti  centui'ie,  che  alla  lor  volta  si  dividevano  in  lotti  {sortes)  da 
sorteggiare  tra  i  coloni.  Rimanevano  indivise  le  parti  boscose  od 
incolte  {loca  relieta  od  extra  elusa)  e  le  parti  coltive  che  per  la 
conformazione  del  suolo  non  si  erano  potute  sottoporre  ad  una 
mism-azione  precisa  (subseeiva).  Le  origini  di  questo  rito  e  di 
questo  modo  di  dividere  i  campi  si  riferivano  dagli  antichi  alla 
disciplina  etrusca;  né  s'allontanarono  essi  dal  vero,  perchè  le  ter- 
remare  della  valle  del  Po,  che  vanno  ritenute  d'origine  etrusca 
(sopra  cap.  TV),  sono  evidentemente  fondate  con  riti  assai  simili  a 
quelli  delle  colonie  romane  (1). 

I  coloni,  servendo  a  presidiare  il  luogo  ove  erano  inviati,  erano 
esenti  dal  servizio  nelle  legioni  {vaeatio  rei  ìnilitaris)  e  tenuti 
invece  in  tempo  di  guerra  a  non  allontanarsi  più  di  pochi  giorni 
dalle  mura  delle  colonie  (2).  Per  la  stessa  ragione  e  perchè  quando 
queste  furono  fondate  una  marina  militare  romana  o  non  esisteva 
o  era  appena  a'  suoi  primordi,  erano  anche  esenti  dal  servizio  ma- 
rittimo. Queste  che  erano  eque  concessioni  in  origine,  si  trasforma- 
rono in  privilegi  scevri  d'ogni  ragione  d'essere  quando,  pacificata 
appieno  la  penisola,  le  colonie  avevano  cessato  di  costituire  dei 
presidi  nel  iDaese  vinto;  e  si  dovette  cercare,  a  partire  dalla  se- 
conda punica,  il  modo  d'abolirli  o  di  ridurli  (3). 

Per  ciò  che  s'appartiene  alla  misui'a  d'autonomia  concessa  alle 
colonie,  essa  era  pari  a  quella  dei  municipi  forniti  di  pieni  diritti  ; 
per  modo  che  com'essi  le  colonie  potevano  essere  ordinate  a  pre- 
fettura o  incorporate  nel  distretto  d'altre  xjrefettm'e.  I  magistrati 
supremi  delle  colonie,  prescindendo  dalla  antichissima  Ostia  (4), 
pare  che  in  generale  fossero  due  col  titolo  di  pretori  (5)  o  di 
duoviri  (6),  titolo  questo  che  divenne  poi  caratteristico  dei  Comuni 
ordinati  a  colonia. 


(1)  V.  anche  sulla  limitazione  sacra  I  p.  304  seg. 

(2)  Liv.  XXVII  38. 

(3)  Liv.  1.  e.  e  XXXVI  3. 

(4)  Sui  magistrati  di  Ostia  v.  I  p.  384  n.  1.  p.  405  n.  2. 

(5)  Così  ad  Osimo,  CIL.  IX  5838-41.  48.  45.  49,  a  Castrum  Novum  Piceni,  CIL. 
IX  5145,  e  a  Capua  dopo  la  colonizzazione  dell'SS,  Cic.  de  l.  agr.  II  31,  86. 

(6)  Così,  almeno  nell'età  imperiale,  ad  Anzio,  Cic.  ad  Att.  II  6,  1.  CIL.  X 
6661.  6680,  Tarracina,  CIL.  X  6318.  30,  Minturne,  Vell.  II  19.  CIL.  X  6012. 
13.  15.  19,  Sinuessa,  CIL.  X  4727.  36.  11  piìi  antico  documento  in  cui  appaiano 
magistrati  col  titolo  di  duoviri  è  la  lex  parieti  faciundo  di  Puteoli  del  105  av.  Cr. 
CIL.V-bll  =X  1781. 

G.  De  Sanctis,  Storia  dei  Romani.  II.  '-^ 


450  CAPO  XXII.  -  IL  COMUNE  E  LO  STATO  NKLL'iTALIA  UNITA 

Municipi,  colonie  o  prefetture  son  tutti  distretti  dello  Stato  ro- 
mano aventi  centri  cittadini  e  in  possesso  di  maggiore  o  minore 
autonomia  comunale.  Ma  vi  erano  molti  altri  distretti  popolati  di 
cittadini  romani,  i  cui  abitanti  senza  avere  un  centro  cittadino  si 
radunavano  però  in  qualche  punto  del  territorio  che  si  designava 
col  nome  di  conciliabolo  o  di  foro  per  provvedere  ai  loro  interessi 
locali,  specialmente  sacri,  per  tenere  dei  mercati,  per  ricevere  co- 
municazione delle  leggi  del  popolo  e  degli  ordini  dei  magistrati 
romani  (1).  La  prima  menzione  di  essi  è  nella  legge  Petilia  sul- 
l'ambito del  358,  che  vietava  ai  candidati  di  accaparrarsi  i  voti 
girando  pei  mercati  e  pei  conciliaboli  (2)  ;  legge  che  ha  un  con- 
trassegno d'antichità  in  ciò  ch'essa  suppone  non  esservi  ancora 
che  pochi  municipi  o  nessuno  nello  Stato  romano,  come  di  fatto 
nel  358  v'era  quello  solo  di  Tuscolo.  Al  tempo  della  guerra  anni- 
balica son  ricordati  quei  conciliaboli  che  si  trovavano  entro  un 
raggio  di  cinquanta  miglia  attorno  a  Roma  (3)  con  termini  tali 
da  mostrare  che  già  ve  n'erano  altri  al  di  là.  I  più  antichi  conci- 
liaboli debbono  essere  i  distretti  delle  antichissime  tribù  rustiche  ; 
al  di  là  se  ne  formarono  dovunque  si  fecero  in  certa  misura  asse- 
gnazioni viritane  di  territorio  a  cittadini,  e  moltissimi,  per  es.,  se  ne 
costituirono  nella  valle  padana  quando  fu  occupata  dai  Romani,  ai 
quali  debbono  la  loro  origine  non  pochi  municipi  di  quella  regione. 
Privi  affatto  in  origine  di  giurisdizione,  i  capi  dei  conciliaboli,  i 
magistri,  dovettero  necessariamente  averne  in  certo  grado  quando 
cominciarono  a  formarsene  a  grandi  distanze  da  Roma,  perchè 
non  era  possibile  obbligare  i  cittadini  che  abitavano  nel  Piceno  o 
sul  Po  a  ricorrere  per  ogni  minuzia  al  pretore  urbano;  e  si  aprì 
per  tal  modo  la  via  alla  trasformazione  dei  conciliaboli,  che  spa- 
ru-ono  tutti  sul  chiudersi  dell'età  repubblicana  o  incorporati  nei 
Comuni  jdìù  vicini  o  riconosciuti  come  municipi,  sia  che  si  fossero 
dato  o  no  col  tempo  un  centro  cittadino  (4). 


,(1)  Fest.  epit.  p.  38  :  concili abidum  locus  ubi  hi  concilium  convenitur. 

(2)  Liv.  VII  15. 

(3)  Intra  quinquagesimum  lapidem,  Liv.  XXV  5. 

(4)  Beloch  It.  Bund  p.  102  segg.  Schulten  in  Pauly-Wissowa  '  R.-E.  '  IV 
p.  779  segg.  L'ultimo  testo  che  menzioni  i  conciliaboli  come  esistenti  è  quello 
della  lex  lulia  mnnicijìalis,  CIL.  V  206.  Per  la  loro  sorte  ulteriore  cfr.  Frontin. 
'  Gromat.  '  p.  19:  ea  (Interamna)  conciliahulum  fuisse  fertur  et  postea  in  mu- 
nicipii  ius  relatum.  p.  55  :  sunt  autem  loca  puhlica  coloniarum  uhi  prius  fuere 
conciliàbula  et  postea  sunt  in  municipii  ius  relata. 


FORI   E    CONCILIABOLI.    GLI   ALLEATI   ITALICI  451 

Al  pari  dei  conciliaboli  dall'  assegnazione  viiitana  sorsero  i 
fori,  ma  non  spontaneamente  come  in  genere  quelli,  né  per  deli- 
berazione del  senato  e  del  poi)olo,  come  le  colonie,  si  per  opera 
del  magistrato  cui  era  affidata  l'assegnazione.  E  cosi  portano  in 
generale,  a  cominciare  dal  più  antico,  il  Foro  d'Appio,  che  prese 
nome  dal  censore  Appio  Claudio  Ceco,  il  nome  del  fondatore,  che 
li  costituì  come  stazioni  postali  e  come  mercati  presso  le  grandi 
vie:  in  modo  clie  hanno  sempre  un  rudimento  almeno  di  centro 
cittadino,  e  possono  dirsi  colonie  costituite  con  minore  solennità, 
a  differenza  dei  conciliaboli  cui  somigliano  del  resto  per  le  istitu- 
zioni e  per  la  storia  (1). 

Da  Rimini  e  da  Pisa  sino  allo  stretto  di  Messina,  quelle  città 
e  quelle  popolazioni  che  non  fanno  parte  dello  Stato  romano  sono 
però  alleate  con  esso  (2).  Ma  la  federazione  che  si  raccoglie  attorno 
a  Roma  ha  questa  nota  caratteristica,  che  i  singoli  alleati  non  sono 
stretti  da  alcun  legame  federale  tra  loro:  il  solo  legame  che  li 
unisce  è  il  iDatto  d'alleanza  che  ciascuno  di  essi  ha  con  Roma.  Tra 
l'uno  e  l'altro  di  tali  patti  corre  molto  divario  secondo  che  i  con- 
traenti si  sono  alleati  spontaneamente  con  Roma  o  vi  sono  stati 
costretti  per  forza  d'armi,  e  secondo  la  loro  potenza  e  i  maggiori 
o  minori  riguardi  che  Roma  credeva  opportuno  d'usare.-  Ma  nel 
tutt'insieme  i  trattati  d'alleanza  dei  Romani  possono  dividersi  in 
due  categorie  :  trattati  con  parità  di  diritti  {foedera  aequa)  e  trat- 
tati con  diseguaglianza  di  diritti.  Nei  primi,  teoricamente  parlando, 
non  si  afferma  punto  la  supremazia  di  Roma  sulla  città  alleata; 
negli  altri  la  supremazia  romana  è  apertamente  riconosciuta  (3). 
La  differenza  di  fatto  più  rilevante  ammessa  da  alcuni  (4)  tra  le 
due  categorie  di  trattati,  è  che  i  primi  son  solo  leghe  difensive 
come  il  trattato  di  Cassio.  Ma  par  difficile  a  credere  che  i  Romani 
quando  più  ebbero  bisogno  di  forze  nella  lotta  pel  jirimato  d'Italia, 


(1)  Beloch  It.  Band  p.  108  segg.  Fest.  p.  84:  forum...  negotiatoris  est  locus 
ut  Forum  Flaminium,  Forum  Icilium  ab  eorum  nominibus  qui  ea  fora  consti- 
iuenda  curarunt.  —  Nella  Gallia  Cisalpina  si  trovano  in  generale  come  magi- 
strati dei  fori  i  li  viri  i.  d.;  e  quindi  almeno  colà  i  fori  debbono  aver  goduto 
una  parziale  autonomia  giudiziaria. 

(2j  Beloch  Ital.  Band  p.  194  segg.  Makquardt  Amm.  Romana  I  p.  47  segg. 
Madvig  Verfasfiung  und  Verwaltung  p.  39  segg.  Mommsen  Staatsrecht  III  645  segg. 

(3)  Con  la  formula  maiestatem  populi  Romani  comiter  conservanto.  Id  habet 
hanc  vim  (così  Cic.  prò  Balbo  16,  35)  ut  sit  ille  (l'altro  contraente)  in  foedere 
inferior. 

(4)  Come  il  Beloch  It.  Band  p.  197. 


452  CAPO  XXTI.  -  IL  COMUNE  E  LO  STATO  NELL'iTALIA  UNITA 

si  siano  appagati  di  pattuire  la  pura  difesa  del  loro  territorio.  Se 
a  condizione  di  semplice  difesa  reciproca  patteggiarono  talora  i 
Romani  con  alcuni  alleati  fuori  d'Italia  (1),  nulla  ]duò  inferirsene 
rispetto  agli  alleati  italiani:  perchè  il  fulcro  della  potenza  militare 
romana  fino  ad  Augusto  rimase  l'Italia.  Ne  del  resto  la  ilarità  di 
diritti  era  teoricamente  menomata  dall'obbligo  di  cooperare  non 
solo  alla  difesa,  ma  anche  alla  offesa,  perchè  questo  era  reciproco. 
S'intende  che  in  fatto  la  facoltà  di  guerreggiare  per  proprio  conto 
e  d'invocare  in  tal  caso  l'aiuto  romano,  se  non  in  origine,  certo 
in  proceder  di  tempo  divenne  illusoria,  quando  le  città  che  gode- 
vano di  questo  dhitto  rimasero  circondate  da  territorio  romano  o 
d'alleati  romani.  Pochi  del  resto  sono  i  trattati  con  parità  di  di- 
ritti di  cui  abbiamo  menzione,  cioè  quelli  soltanto  con  Camerino 
e  con  Eraclea  (2),  ai  quali  deve  probabilmente  unksi  il  trattato  con 
Napoli,  che,  sebbene  la  obbligasse  a  partecipare  alle  guerre  offen- 
sive dei  Romani  (3),  era  tanto  favorevole  da  lasciar  persino  dubbiosi 
i  Napoletani  al  tempo  della  guerra  sociale  se  non  fosse  preferibile 
alla  stessa  cittadinanza  romana  (sopra  p.  301). 

Gli  alleati  italici  erano  soprattutto  tenuti  ad  inviar  contingenti 
all'esercito  romano.  La  misura  precisa  dei  loro  contingenti  dev'es- 
sere stata  determinata  o  dal  trattato  j^rimitivo  o  per  mezzo  di 
convenzioni  successive  nell'interesse  degli  alleati  pei  quali  sarebbe 
stato  un  sacrifizio  troppo  gravoso,  come  del  resto  superfluo  nel- 
l'interesse dei  Romani,  quello  di  venire  al  soccorso  con  tutte  le 
loro  forze.  Dalla  determinazione  del  contingente  si  poteva  pre- 
scindere per  gli  alleati  tenuti  soltanto  a  concorrere  alla  guerra 
difensiva,  al  cui  aiuto  di  fatto  non  si  ricorreva  che  eccezionalmente, 
ossia  per  gli  alleati  che  ebbero  di  poi  i  Romani  fuori  d'Italia. 
Quanto  agli  alleati  italici,  per  fissare  la  misura  delle  truppe  ausi- 
liarie che  avevano  a  fornire,  si  potevano  obbligare  a  contribuire 
all'esercito  federale  con  una  data  percentuale  della  intera  popola- 
zione 0  degli  adulti  tenuti  al  servizio  militare  (4).  Ma  questo  pre- 
supponeva,  oltre  a  censimenti  forniti  con  unità  di  criteri,  inge- 


(1)  Così  nel  105  con  Astipalea,  /.  Gr.  Ins.  Ili  173,  v.  anche  CicnoRius 
'  Rh.  M.  '  XLIV  (1889)  p.  444  segg.;  così  pure  con  Metimna,  J.  Gr.  Ins.  U  510. 

(2)  Il  primo  sanctissimum  atqiie  aequissiinum  secondo  Cic.  prò  Balbo  20,  46 
(v.  sopra  p.  331  n.  2),  il  secondo  prope  singulare,  ibid.  22,  50  (sopra  p.  411  n.  3). 
È  nota  la  iscrizione  onoraria  posta  nel  210  d.  Cr.  dai  Camerti  a  Settimio  Severo 
iure  aequi  foederis  sibi  confirmato,  CIL.  XI  5681. 

(3)  PoLYB.  I  20.  Cfr.  sopra  p.  301  n.  4. 

(4)  Su  ciò  V.  soprattutto  Beloch  1.  e. 


OLI   ALLEATI   ITALICI  453 


renza  dell'aTitorità  centrale  nel  censimento,  perchè  il  singolo  Stato 
avrebbe  potuto  far  comparire  le  sue  forze  inferiori  al  vero  per 
riduiTe  i  suoi  doveri  federali.  Ora,  sia  l'unità  di  criteri  nel  censi- 
mento sia  la  sorveglianza  romana,  avrebbero  ristretto  d'assai  la 
piena  sovranità  degli  alleati,  e  però  si  preferì  di  stabilire  una 
volta  per  sempre  la  somma  massima  dei  soccorsi  che  ciascuna  città 
alleata  doveva  fornire  (1).  Ciò  non  toglieva  che  a  quando  a  quando 
Roma  d'accordo  coi  singoli  Stati  alleati  potesse  procedere  alla 
revisione  di  quelle  liste.  Una  di  queste  revisioni  ebbe  luogo  nel  225 
in  occasione  del  pericolo  della  guerra  gallica,  e  i  risultamenti  ne 
son  conservati  da  Polibio,  che  li  attinse  da  Fabio  Pittore  (2).  In- 
fatti doveva  accadere  che  si  avverassero  accrescimenti  o  diminu- 
zioni delle  forze  dei  singoli  alleati.  Nel  177  ad  esempio  i  Sanniti  ed 
i  Peligni  mossero  lagnanze  che  4000  loro  famiglie  si  erano  stabilite 
a  Fregelle  (ricevendovi,  come  par  detto  implicitamente,  la  cittadi- 
nanza) e  che  tuttavia  il  loro  contingente  non  era  stato  ridotto  né 
quello  dei  Fregellani  accresciuto  (3).  E  tuttavia  le  revisioni,  seb- 
bene indispensabili,  non  si  potevano  fare  che  di  rado  e  quando 
gli  alleati  stessi  le  avessero  accettate  (4),  il  che  in  generale  non 
si  dava  se  non  in  caso  di  qualche  gravissimo  pericolo  comune.  È 
quindi  i)robabile  che  la  revisione  del  225,  almeno  come  revisione 
collettiva,  sia  stata  la  prima  e  l'ultima.  Degli  eserciti  alleati  sin 
dalla  fine  del  sec.  V  il  comando  spettava  sempre  ai  supremi  magi- 
strati romani,  perchè  la  lega  italica,  come  non  aveva  proprie  as- 
semblee, cosi  non  aveva  altri  magistrati  federali  che  i  consoli  e  i 
pretori  romani  e  poi  anche  i  quattro  questori  classici  che  si  isti- 
tuirono nel  267  per  le  cose  navali  (5)  ;  e  questi  pm-e  solo  in  quanto 


(1)  La  lista  di  questi  contingenti  era  detta  la  formula  dei  togati.  Gli  alleati 
si  chiamavano  ufficialmente  sodi  nominisve  Latini  quibus  ex  formula  togatorum 
milites  in  terra  Italia  inperare  solent,  v.  la  legge  agraria  del  111,  CIL.  ^  200 
V.  21.  50.  Cfr.  Liv.  XXII  57,  10.  XXVII  9,  3. 

(2)  PoLYB.  II  24.  MoMMSEN  Rom.  Forschiingen  li  382  segg.  Beloch  Bevolkerung  I 
p.  353  segg. 

(3)  Liv.  XLI  8,  8  :  Fregellas  quoque  milia  quattuor  familiarum  transisne  ab  se 
Samnites  Paelignique  querebantur  neque  eo  minus  aut  hos  aut  illos  in  dilectu  mi- 
litum  dare. 

(4)  Ossia,  secondo  l'espressione  consacrata  per  la  libera  adesione  ad  una 
legge  0  disposizione  romana,  si  funài  facti  essent.  Per  la  frase  cfr.  Cic.  prò  Balbo 
8,  21.  Fest.  s.  V.  fundus. 

(5)  Lyd.  de  mag.  I  27.  Cfr.  Tac.  ann.  XI  22.  Liv.  epit.  15.  Momusen  Staatsrecht 
Il  •■'  p.  570  segg. 


45J:  CAPO  XXII.  -  IL  COMUNE  E  LO  STATO  NELLlTALIA  UNITA 

presiedevano  alle  guerre  comuni.  Gli  alleati  del  resto  erano  tenuti 
non  solo  a  fornire  milizie  di  terra,  ma  anche  in  parte  ad  armare 
navi,  di  cui  il  numero  e  la  qualità  erano  precisamente  regolati  (1). 
Si  fa  questione  se  quelli  clie  avevano  l'obbligo  di  allestir  navi  do- 
vessero altresì  inviare  truppe  di  terra.  Ma  sebbene  per  questo  ri- 
spetto non  si  abbiano  clie  scarse  informazioni,  saj)piamo  clie  alcuni 
alleati,  come  i  Sallentini,  erano  tenuti  alFuna  cosa  ed  all'altra  (2). 
E  Roma  j)oteva  inoltre  servii'si  per  mare  delle  forze  degli  Italici 
anche  se  il  loro  trattato  non  li  obbligava  a  fornire  navi  da  guerra; 
si  poteva  infatti  chiedere  alle  città  marittime  che  invece  del  loro 
contingente  militare  inviassero  ciurme  altrettanto  numerose  per 
le  navi  (3),  il  che  è  probabile  abbiano  preferito,  e  per  la  più  lieve 
spesa  e  pel  minor  disagio  che  recava  alla  classe  possidente,  gli 
stessi  alleati.  Cosi  si  spiega  l'espressione  "  soci  navali  „  con  cui  s'in- 
dicavano gli  equipaggi  delle  navi  da  guerra,  onde  risulta  che  vi 
era  un  tempo  in  cui  le  ciurme  si  componevano  soprattutto  d'alleati. 
In  caso  di  guerra,  il  governo  romano  indicava  agli  Stati  alleati 
la  quantità  di  soldati  da  inviare,  il  dove  e  il  quando;  e  quegli  Stati 
dovevano  provvedere  ad  arrolarli,  ad  equipaggiarli  e  a  stipen- 
diarli (4),  e  in  cambio  erano  liberi  da  qualsiasi  tributo  e  in  pos- 
sesso della  ]3Ìù  piena  autonomia  finanziaria.  I  contingenti  federali, 
a  differenza  di  quelli  dei  municipi,  formavano  distaccamenti  sepa- 
rati (cohortes)  al  comando  di  ufficiali  appartenenti  agli  Stati  che 
li  inviavano;  queste  coorti  si  aggregavano  in  ale  forti  all'incirca 
quanto  la  legione  romana  cui  ciascuna  ala  veniva  unita,  e  i  con- 
soli designavano  a  capitanarle  tre  ufficiali  romani  per  ala  col 
nome  di  prefetti  dei  soci  (5).  Ciò  si  conciliava  perfino  con  l'esistenza 


(1)  Cic.  Verr.  V  19,  50:  Mamertinis  in  ipso  foedere  sanctum  utque  praescriptum 
ut  navem  dare  necesse  sit.  V  24,  60:  sumptum  omnem  in  classem  frumento  sti- 
pendio ceterisque  rebus  suo  quaeque  navarcho  semjìer  civitas  dare  solebat  ...  erat 
hoc  ut  dico  factitatum  semper  ...  etiam  in  sociorum  Latinorum  stipendio  ac  sumptit 
tum  cum  illorum  auxiliis  uti  solebamus. 

(2)  PoLYB.  II  24,  11.  Liv.  XLII  48.  Della  cosa  giudica  rettamente  Beloch  It. 
Bund  p.  207. 

(3)  Liv.  XLII  27.  31. 

(4)  PoLYB.  VI  21,  5  :  ai    bè    iróXeK;  ^KTréiuTrouaiv    dpxovTO    auoxriaaaai    koì 

luiaBobÓTiiv. 

(5)  Tre  parrebbero  almeno  stando  alla  lettera  di  Polyb.  VI  26,  5.  Il  Mommsen 
suppose  con  qualche  ragione  che  fossero  sei  come  i  tribuni  della  legione, 
Staatsrecht  III  p.  675  n.  1.  Sull'  ordinamento  militare  dei  soci  v.  Marquardt 
Staatsverwaltung  II  ^  p.  389  segg.  Madvig  Verfassung  und  Verwaltung  II  520  segg. 


GLI    ALLEATI   ITALICI  455 


di  trattati  a  parità  di  diritti  ;  perchè  le  alleanze  affidavano  sempre 
il  comando  a  quel  popolo  per  cui  conto  si  combatteva;  e  le  con- 
dizioni di  fatto  erano  tali  che  sempre  la  guerra  era  mossa  dai  Ro- 
mani o  contro  i  Romani. 

Questione  grave  e  controversa  rispetto  agli  alleati  di  Roma  è 
quella  del  loro  diritto  di  batter  moneta.  Non  è  sicuro  che  questo 
venisse  tolto  agli  alleati  quanto  ai  metalli  preziosi  intorno  al  268, 
quando  cominciarono  a  coniar  moneta  d'argento  anche  i  Romani  (1)  ; 
e  pare  dimostrato  anzi  che  qualche  città  alleata  abbia  continuato 
a  batter  moneta  d'argento  anche  dopo  quella  data.  Ad  ogni  modo 
non  par  che  potesse  trattarsi  d'una  imposizione  di  chiuder  le  zecche 
locali.  Si  debbono  esser  chiuse  presto  o  tardi  di  per  sé,  poiché  la 
moneta  romana,  ricevuta  natiu^almente  dappertutto  e  in  isxjecie 
dov'erano  eserciti  romani,  eliminava  dal  mercato  la  moneta  delle 
città  alleate;  e  cosi  non  trovando  queste  abbastanza  rimunerativa 
l'emissione  di  moneta  in  metallo  prezioso,  cessarono  in  generale 
di  batterne  limitandosi  alla  moneta  divisionaria  opportuna  per 
l'uso  locale. 

La  maggior  parte  delle  città  alleate  erano  libere  da  presidi  ro- 
mani tranne  il  caso  che  ne  facessero  richiesta  esse  stesse.  Alcune 
peraltro,  meno  favorite  dalle  loro  convenzioni  con  Roma,  erano 
permanentemente  presidiate,  come  Taranto,  e  sempre,  a  richiesta 
del  senato,  erano  tenute  a  fornù-e  a  Roma  ostaggi  (2).  Anche  delle 
grandi  strade  militari  romane  le  più  antiche  fm^ono  aperte,  tolti 
piccolissimi  tratti,  in  territorio  interamente  romano,  come  l'Appia, 
o  in  teiTitorio  in  parte  romano,  in  x^arte  di  colonie  latine;  né  per 
tal  rispetto  le  cose  cambiarono  che  dopo  la  guerra  annibalica. 

Pel  resto  la  sovi^anità  degli  Stati  alleati  era  limitata  soprattutto 
in  questo  che,  sorgendo  litigi  tra  l'uno  e  l'altro,  il  tribunale  arbi- 
trale non  poteva  essere  che  quello  di  Roma  (3).  E  inoltre ,  non 
tanto  in  forza  della  lettera  delle  convenzioni,  quanto  per  la  supre- 
mazia che  di  fatto  Roma  esercitava  su  tutti  gli  alleati ,  quando 
concludeva  trattati  con  una  potenza  estera,  li  stringeva  anche  a 
nome  di  quelli  ;  di  che  primo  esempio  è  la  convenzione  tra  Roma 


(1)  MoMMSEN  Rom.  Milnzwesen  p.  317.  V.  però  le  riserve  del  Beloch  It.  Burnì 
p.  213.  Sul  prolungarsi  p.  es.  della  monetazione  napoletana  entro  il  sec.  Ili 
V.  Evans  Horseman  of  Tarentum  p.  171. 

(2)  V.  sopra  p.  419  n.  2  e  p.  421   n.  4. 

(3)  V.  De  Ruggiero  L'arbitrato  pubblico  in  relazione  col  privato  presso  i  Ro- 
mani (Roma  1893)  p.  68  segg.  268  segg. 


456  CAPO  XXII.  -  IL  COMUNE  E  LO  STATO  NELL'iTALIA  UNITA 

e  Cartagine  conclusa  circa  la  metà  del  IV  sec.  av.  C.  Altra  limi- 
tazione alla  sovranità  degli  alleati  era  che  non  avevano  facoltà 
di  stringere  accordi  politici  o  commerciali  tra  loro,  salvo  i  pocliis- 
simi  in  possesso  di  trattati  a  parità  di  diritti,  pei  quali  del  resto, 
pochi  e  isolati  com'erano,  tale  facoltà  riusciva  del  tutto  illusoria. 
Cosi  è  probabile  che  se  a  Fregelle  si  accolsero  nella  cittadinanza 
tutti  quei  Sanniti  e  Peligni  che  vi  si  stabilirono  sul  principio  del 
sec.  n,  non  fosse  in  forza  d'un  trattato,  ma  solo  j)er  la  tolleranza 
dei  magistrati  locali:  tolleranza  non  irragionevole,  perchè  la  pre- 
senza degli  immigranti  rendeva  meno  gravoso  l'adempimento  dei 
doveri  federali  verso  Roma.  Come  la  cittadinanza,  cosi  il  dii^itto 
di  possedere  e  la  facoltà  di  connubio  poteva  verisimilmente  essere 
accordata  a  piacimento  a  chicchessia  da  città  alleate,  in  qualunque 
condizione  esse  fossero,  nella  loro  qualità  di  Stati  sovrani;  ma  è 
difficile  ammettere  che  fosse  loro  concesso  di  concludere  a  vicenda 
trattati  in  materia,  che  avrebbero  permesso  d'unirsi  più  strettamente 
tra  loro  che  con  lo  Stato  romano  (1).  Con  privilegi  individuali  è 
quindi  da  spiegare  come  il  poeta  Pacuvio,  che  era  un  Latino  di 
Brindisi,  fosse  figlio  d'una  sorella  del  poeta  Ennio,  nativo  della 
città  alleata  di  Rudie;  e  in  modo  analogo  come  il  poeta  Archia 
difeso  da  Cicerone  avesse  avuto  prima  della  guerra  sociale  la  cit- 
tadinanza in  Napoli,  Eraclea,  Regio  e  Taranto  (2),  città  di  cui  se 
le  due  prime  avevano  trattati  favorevoli  con  Roma,  l'ultima  invece 
aveva  dovuto  accordarsi  a  condizioni  assai  umilianti. 

Nel  diritto  civile  e  negli  ordinamenti  interni  in  generale  gli 
alleati  godevano  piena  indipendenza,  né  ci  risulta  che  i  Romani 
prima  della  guerra  annibalica  vi  s'ingerissero,  almeno  diretta- 
mente (3).  S'intende  che  gli  amici  zelanti  di  Roma,  se  tendevano 
a  trasformare  il  governo  in  modo  che  vi  avesse  parte  soprattutto 


(1)  Credo  che  in  questo  senso  debbano  limitarsi  le  asserzioni  del  Beloch 
It.  Bund  p.  221.  Di  notizie  esplicite  in  materia  non  abbiamo  che  quella  di 
Liv.  Vili  14  (a.  338)  :  ceteris  Latinis  popidis  (deve  intendersi  quelli  a  cui  fu 
lasciata  l'indipendenza)  conubia  commerciaque  et  concilia  inter  se  ademerunt 
(ossia  abolirono  i  trattati  che  li  legavano  scambievolmente);  e  l'altra  pur  di 
Livio  IX  43,  23  (a.  306):  conubiumque  inter  ijìsos  (Alatri,  Ferentino  e  Veroli) 
quod  aliquamdiii  soli  Hernicorum  habuerunt  permissum;  ossia  aboliti  i  trattati 
scambievoli  d'alleanza  e  di  commercio  fu  riconosciuta  la  facoltà  di  connubio 
tra  essi  nel  trattato  che  ciascuna  di  queste  città  segnò  con  Roma. 

(2)  Cic.  prò  Arch.  3,  5. 

(3)  Ciò  s'esprimeva  dicendo  che  agli  alleati  era  concesso  suis  legibus  uti, 
V.  Liv.  TX  43,  23.  XXIX  21,  7.  Mommsen  Staatsrecht  III  692  n.  1. 


OLI   ALLEATI   ITALICI  457 


la  classe  possidente,  potevano  sempre  contare  sull'appoggio  indi- 
retto dei  Romani;  e  del  resto  non  è  impossibile  che  qualche  ri- 
forma a  favore  di  quella  classe  s'introducesse  quando  si  stringeva 
il  patto  d'alleanza.  Che  se  una  prova  della  cautela  usata  per  questo 
rispetto  dai  Romani  è  nell'essersi  talora  conservate  anche  costitu- 
zioni democratiche,  come  a  Nola  fino  al  216  (1),  ciò  non  esclude 
che  gli  alleati  stessi  venissero  lentamente  modificando  i  loro  or- 
dinamenti sull'esempio  di  quelli  di  Roma,  adottando  a  poco  a  poco 
gli  edili,  i  censori,  i  questori,  i  iDretori  e  fìnanco  i  tribuni  della 
plebe  e  ricopiando  in  generale  dal  romano  il  loro  diritto  pub- 
blico e  privato  (2). 

Ciò  che  spiega  la  saldezza  dell'alleanza  è  che,  mentre  richiedeva 
relativamente  pochi  sacrifizi  e  rispettava  quanto  era  possibile  le 
tradizioni  di  autonomia,  guarentiva  anche  vantaggi  non  lievi.  Un 
vantaggio  ragguardevolissimo  era  per  esemx)io  la  parte  che  si 
aveva  al  bottino.  Come  pel  trattato  cassiano  ai  Latini  toccava  nella 
preda  una  parte  eguale  a  quella  dei  Romani  (3),  cosi,  anche  abo- 
lito quel  trattato,  i  soldati  romani  non  ebbero  fin  dopo  la  guerra 
annibalica  nessmi  privilegio  pel  bottino  a  confronto  degli  alleati  (4). 
Invece  per  ciò  che  si  riferisce  ai  territori  confiscati,  essi,  doiDO  che 
cessò  d'aver  vigore  il  trattato  di  Cassio,  furono  incorporati  normal- 
mente allo  Stato  romano,  quando  il  popolo  non  avesse  deliberato 
di  ordinarli  a  colonie  latine.  E  tuttavia  anche  per  questo  rispetto 
non  si  trascurarono  al  tutto  i  commilitoni  italici.  Alle  colonie  latine 
essi  ebbero  facoltà  di  i^render  parte  come  i  cittadini  romani  (5);  e 
anche  alle  colonie  cittadine  pare  che  potessero  essere  iscritti  se  non 
tutti,  almeno  quegli  alleati  a  cui  Roma  aveva  fatto  migliori  con- 
dizioni (6).  Inoltre  di  essi  si  tenne  conto  qualche  volta  pur  nelle 
assegnazioni  vmtane  (7).  E  infine  alla  occupazione  di  agro  pub- 
blico non  assegnato  parteciparono  i  Latini   e   gli   alleati   al   pari 


(1)  Liv.  XXIII  17. 

(2)  Esempio  caratteristico  della  trasformazione  delle  istituzioni  nelle  città 
alleate  ad  imitazione  di  Roma  è  la  legge  osca  della  città  federata  di  Banzia 
nella  Lucania,  Zvetajeff  Syll.  inscr.  Oscantm  p.  75  segg.,  dove  sono  appunto 
ricordate  tutte  quelle  magistrature. 

(3)  V.  sopra  p.  97  seg. 

(4)  Liv.  XL  43,  7.  XLl  7,  3.  Il  primo  esempio  di  trattamento  diseguale  è 
del  177,  Liv.  XLI  13,  8. 

(5)  P.  es.  Liv.  XXXIIl  24. 

(6)  Liv.  XXXIV  42. 

(7)  Liv.  XLII  4,  4. 


458  CAPO  XXII.  -  IL  COMUNE  E  LO  STATO  NELL'iTALIA  UNITA 

dei  cittadini  romani,  come  risulta  dalla  agitazione  che  provocò  tra 
essi  la  legge  agraria  di  Ti.  Grracco  (1).  Queste  occupazioni  del  resto 
provano  che  gli  alleati  avevano  coi  Romani,  almeno  parzialmente, 
facoltà  di  commercio.  Certo  il  i3Ìeno  diritto  di  commercio  come 
quello  di  connubio  non  era  in  generale  concesso  agli  alleati  ro- 
mani in  forza  dei  trattati  (2)  ;  ma  molte  concessioni  di  tal  fatta 
largite  in  via  di  privilegio  a  singoli  individui  o  a  singole  città 
servirono  a  legarli  maggiormente  agli  interessi  di  Roma. 

Le  città  latine  che  pel  trattato  cassiano  erano  entrate  colletti- 
vamente in  lega  a  parità  di  diritti  con  Roma,  rescisso  quel  trat- 
tato nel  338,  furono  o  incorporate  nel  territorio  romano  o  ridotte 
in  condizioni  per  qualche  rispetto  inferiori  a  quelle  delle  altre 
città  alleate.  Disciolta  tra  esse  ogni  lega,  furono  infatti  non  solo  pri- 
vate del  diritto  di  stringere  accordi  tra  loro,  ma  x^ersino,  in  modo, 
com'è  da  credere,  transitorio,  del  vicendevole  connubio  e  com- 
mercio (3)  :  patti  in  cui  s'esprimeva  chiaro  il  riconoscimento  del- 
l'alta sovranità  di  Roma.  La  medesima  condizione  di  Tivoli,  Pre- 
neste  e  Cora  si  fece  alle  colonie  che  Romani  e  Latini  avevano 
fino  allora  fondato  insieme  e  alle  colonie  dedotte  d'allora  in  poi 
con  diritto  latino  per  iniziativa  di  Roma,  come  pure,  dopo  la  dis- 
soluzione della  lega  ernica,  alle  città  di  Alatri,  Ferentino  e  Veroli  (4). 
Ma  se  i  Latini  erano  per  qualche  rispetto  inferiori,  per  altri  erano 
d'assai  superiori  ai  rimanenti  alleati.  Li  legava    più   strettamente 


(1)  App.  b.  e.  I  36,  cfr.  Cic.  de  re  p.  Ili  29,  41. 

(2)  Veramente  le  nostre  testimonianze  su  ciò  son  dell'età  imperiale:  Gai.  II 
110:  cum  alioquin  peregrini  quidem  ratione  civili  prohibeantur  capere  heredi- 
tatem  legataque.  Qlpian.  5,  4:  conubium  habent  cives  Romani  cum  civibus  Ro- 
manis,  cum  Latinis    autem  et  peregrinis  ita  si  concessum  sit.  19,  4:  manciptatio 

locum    habet    inter    cives   Romanos   et  Latinos  eosque  peregrinos  quibus  com- 

mcrcium  datum  est.  Però  di  fatto  agli  alleati  italici  tale  privilegio  doveva  es- 
sere dato  frequentemente,  cfr.  Diod.  XXVII  15  nel  suo  racconto  della  guerra 
sociale:  auxvoùq  bè  oÌKeiouq  koì  auYTeveli;  KaTCvóouv  ouq  ó  ttì<;  liriyaiuia^  \o\xoc, 
è-rreiToiriKei  Koivuuvfiaai  Tf)<;  TOiauTn<;  qpiXia^.  Con  Diodoro  s'accordano  le  espres- 
sioni più  generiche  di  Cic.  de  re  p.  II  37,  63:  diiunctis  popnlis  tribui  solent  co- 
nubia  e  di  Liv.  IV  3,  4. 

(3)  Sopra  p.  280  n.  1. 

(4)  Testimonianza  esplicita  abbiamo  solo  per  la  latinità  di  Ferentino  (Liv. 
XXXIV  42,  5);  ma  è  da  credere  che  le  altre  due  città  fossero  nelle  medesime 
condizioni.  Il  Mommsen  Staatsrecht  III  622  ritiene  che  a  parecchie  città  italiche 
prima  della  guerra  sociale  siano  stati  concessi  i  diritti  latini,  e  un  indizio  se 
ne  trovi  nelle  monete  battute  con  leggenda  latina  ;  l'indizio  e  di  scarso  valore, 
e  la  ipotesi  par  priva  di  fondamento. 


I    LATINI  459 

a  Roma  e  li  rendeva  più.  sicuri  di  riguardi  da  parte  dei  Romani 
prima  di  tutto  il  sentimento  che  nasceva  dairaffinità  della  stirpe, 
delle  istituzioni  e  delle  fortune,  e  dall'esser  Roma  la  madi-epatria 
della  maggior  parte  delle  città  latine  indipendenti,  che  erano  ap- 
punto quasi  tutte  colonie  ;  talché  anche  quando  per  l'appresso  più 
pesò  sugli  alleati  la  prepotenza  romana,  a  L.  Opimio  che  nel  125 
distrusse  Fregelle  non  si  volle  concedere  il  trionfo,  mettendo  la 
sua  vittoria  a  pari  di  quelle  riportate  nelle  guerre  civili  per  cui 
il  trionfo  non  si  dava  (1).  Conferivano  a  rincalzare  quel  senti- 
mento ragioni  d'interesse,  perchè  a  nessun  Romano  rimaneva  na- 
scosto quanto  vigore  traesse  Roma  dalla  inconcussa  fedeltà  dei  La- 
tini ;  e  anche  ai  Latini  giovava  sommamente  di  stringersi  a  Roma, 
sia  perchè  le  loro  città,  fondate  per  la  più  parte  in  territorio  tolto 
dai  Romani  al  nemico ,  nell'aiuto  romano  avevano  la  guarentia 
della  esistenza,  sia  pei  loro  privilegi  personaK  che  risalivano  ad 
età  più  antica  ijersino  del  trattato  di  Cassio,  ma  che  in  proceder 
di  tempo,  col  crescere  della  j)otenza  romana,  avevano  acquistato 
un'importanza  che  in  origine  nessuno  poteva  prevedere  (2).  I  La- 
tini possedevano  infatti  piena  facoltà  di  connubio  e  di  commercio 
coi  Romani,  fino  al  punto  che  potevano  adottare  un  Romano  ed 
esserne  adottati,  ereditare  per  testamento  e  possedere  nel  territorio 
romano  beni  stabili  con  diritto  quiritario.  Ma  il  privilegio  princi- 
pale dei  Latini  era  la  facilità  con  cui  potevano  acquistare  il  di- 
ritto di  cittadinanza  in  Roma.  Questo  privilegio  era  ben  lontano 
dall'avere  in  origine  il  valore  che  ebbe  di  poi;  tanto  che  persino 
nella  guerra  annibalica  una  coorte  prenestina  rifiutò  la  offertale 
cittadinanza  romana  (3).  Ma  era  sem.pre  non  piccolo  vantaggio  per 
quei  Latini  che,  prendendo  per  qualsiasi  ragione  domicilio  in  Roma, 
divenivano  con  ciò  stesso  cittadini  romani,  e  non  avevano  che  a 
dichiarare  dinanzi  al  censore  la  loro  latinità  e  il  fatto  del  domi- 
cilio preso  in  Roma  per  essere  registrati  nelle  liste  dei  cittadini 
con  pieni  diritti.  V'era  certo  per  questo  rispetto  piena  reciprocità, 
nel  senso  che  un  Romano  stabilitosi  a  Preneste  o  a  Tivoli  dive- 
niva del  pari  cittadino  prenestino  o  tiburtino.  Ma  tale  reciprocità 
se  compensava  in  origine  il  privilegio  in  Roma,  divenne  quasi  del 
tutto  illusoria  «pando  Roma  soverchiò  di  gran  lunga  col  suo  me- 
raviglioso sviluppo  le  altre  città  latine;  e  non  le  rimase  una  certa 


(1)  Val.  Max.  II  8,  7.  Mommsen  Staatsrecht  P  p.  133  n.  1. 

(2)  V.  I  p.  388. 

(3)  Liv.  XXIII  20. 


460         CAPO  xxn.  -  il  comune  e  lo  stato  nell'ttalia  unita 

importanza  se  non  nel  caso  di  quei  Romani  che  credevano  bene  di 
volger  le  spalle  alla  patria  per  timore  di  condanna,  per  evitare  per- 
secuzioni politiche  o  per  trarsi  da  un  malessere  economico  che  non 
valessero  a  sopportare.  Questo  privilegio  latino,  dal  quale,  checché 
abbiano  creduto  alcuni  moderni,  erano  affatto  esclusi  gli  alleati  ita- 
lici (1),  poteva  coU'andar  del  temjDO  divenire  persino  pericoloso  al 
buon  ordine  in  Roma;  e  tuttavia  non  aveva  in  origine  che  un  li- 
mite, in  quel  diritto  che  ha  sempre  avuto  ogni  Stato  d'espellere 
sommariamente  per  pro"\'^edere  all'ordine  pubblico  i  non  cittadini, 
che  in  Roma  s'applicava  tanto  agli  altri  peregrini,  quanto  ai  La- 
tini non  ancora  iscritti  nelle  liste  civiche  (2).  S'introdussero  poi 
altri  limiti  che  tendevano  a  menomare  o  ad  annullare  il  privilegio, 
ma  ciò  non  fu  che  dopo  la  guerra  annibalica.  Quelle  espulsioni 
IDoliziesche  i^otevano  rendere  inefficace  anche  l'altro  privilegio  dei 
Latini,  x>ur  ragguardevole,  tuttoché  praticamente  assai  meno  im- 
portante del  primo,  per  cui,  anche  senza  ])ossedere  la  cittadinanza, 
quando  si  trovavano  in  Roma  avevano  diritto  di  voto  nei  comizi 
in  un  collegio  che  si  sorteggiava  volta  per  volta. 

Le  colonie  latine  (3)  si  distinguevano  dalle  antiche  città  latine 
solo  per  la  loro  origine  e  perchè  la  loro  costituzione  s'accostava 
di  più  a  quella  di  Roma.  Cosi  invece  del  dittatore  ebbero  come 
magistrati  supremi  usualmente  due  pretori;  il  loro  consiglio  co- 
munale fu  detto  in  generale  senato;  la  divisione  più  usuale  del 
popolo  pare  fosse  in  trenta  curie;  e  alle  liste  civiche  provvidero 
come  in  Roma  dei  censori.  Assai  intensa  fu  in  Italia  la  coloniz- 
zazione latina.  Mentre  fino  al  principio  delle  guerre  puniche  non 
furono  fondate  che  sette  od  otto  colonie  romane,  se  ne  istituirono 
non  meno  di  25  latine:  e  mentre  nelle  romane  s'inviavano,  pare, 
trecento  coloni  per  ciascuna,  nelle  latine  se  ne  conducevano  in 
generale  di  più.  Certo  non  tutte  le  notizie  che  si  hanno  in  materia 
son  degne  di  fede.  Ma  da  quando  aijpaiono  tali ,  i  coloni  latini 
sono  talora  in  numero  di  2500  come  per  Cales  e  Lucerla  (4),  talora 
di  4000  come  a  Interamna  sul  Liri,  a  Sora  ed  a  Carseoli  (5),  ta- 
lora di  6000  come  ad  Alba  Fucente  (6).  E  si  parla  persino  di  20  mila 


(1)  MoMMSEN  Staatsrecht  III  637  n.  2 

(2)  Cic.  j?;ro  Sest.  13,  30:  ni}iil  acerbius  sodi  et  Latini  feì-re  soliti  siint  guani  se, 
id  quod  perraro  accidit,  ex  nrhe  exire  a  consulihns  iuhevi.  È  noto  il  caso  del  122. 

(3)  Beloch  It.  Btind  p.  135  segg.  Marquardt  Amm.  romana  I  51  segg. 

(4)  Liv.  VIII  16.  IX  26. 

(5)  Liv.  IX  28.  X  1.  13. 

(6)  Liv.  X  1. 


I   LATINI.    -    LEGHE  461 

coloni  inviati  a  Venosa  (1)  :  il  numero  dei  quali  potrebbe  essere 
alquanto  esagerato,  ma  potrebbe  anche  spiegarsi  con  la  importanza 
grandissima  di  quella  posizione.  Quanto  all'area  occupata  da  tutte  le 
colonie  latine  dedotte  lino  al  jìrincipio  della  prima  punica,  comprese 
le  antiche  città  latine  che  s'erano  conservate  autonome,  essa  può- 
computarsi  a  un  dodicimila  km"^  area  assai  considerevole  che  corri- 
sponde alla  metà  circa  del  territorio  romano  xjroprianiente  detto. 

Tra  le  città  latine  come  tra  le  città  erniche  non  sussisteva  più 
alcuna  lega.  Se  pui-e  gii  Umbri  avevano  mai  costituito  una  lega, 
questa  non  esisteva  più  quando  si  allearono  con  Roma.  Le  leghe 
tra  i  Sabini,  i  Pretuttii  ed  i  Picenti  debbono  essere  state  natural- 
mente disciolte  quando  (salvo  Ascoli)  fm'ono  incorporati  nello  Stato 
romano.  Invece  i  Marrucini,  i  Peligni,  i  Marsi,  i  Vestini  e  i  Fren- 
tani  sembra  si  sieno  uniti  a  Roma  non  coi  singoli  loro  Commii, 
ma  come  altrettante  leghe.  Lo  stesso  pare  debba  dii'si  di  Nuceria 
con  le  città  ad  essa  alleate  (sopra  p.  268).  Nel  Sannio,  disciolta 
la  grande  lega  sannitica  (2),  rimasero  due  almeno  delle  leghe 
minori  che  la  costituivano,  quella  degli  L;pini,  che  tutti  insieme 
si  ribellarono  nella  guerra  annibalica  e  tutti  insieme  presero  poi 
parte  alla  guerra  sociale,  e  quella  dei  Pentri,  cui  si  applicò  spe- 
cialmente d'allora  in  x^oi  il  nome  di  Sanniti.  Invece  i  Caudini  si 
scissero,  pare,  in  tanti  Comuni,  ognuno  dei  quali  strinse  sepa- 
ratamente alleanza  con  Roma.  Qualche  menzione  posteriore  dei 
Caudini  x)ar  debba  iDrendersi  in  senso  etnografico  o  riferirsi  esclu- 
sivamente a  Caudio.  Anche  i  Lucani  continuarono  a  costituù'e  una 
vasta  lega,  che  però  col  tempo,  nel  corso  delle  guerre  puniche,  o 
fu  disciolta  o  perdette  ogni  importanza  (3).  Il  Bruzio  pur  esso  era 
entrato  come  confederazione  di  dodici  distretti  con  capitale  a  Con- 
senzia  nell'alleanza  romana,  ma  la  lega  non  dui'ò  che  fino  a  quando 
il  paese  perdette  la  sua  indipendenza  i3er  effetto  della  guerra  an- 
nibalica. Quanto  alla  Apulia,  nella  parte  settentrionale  non  vi  esi- 
steva più,  pare,  alcuna  lega  quando  essa  entrò  in  relazione  con 
Roma.  Una  lega  abbastanza  compatta  esisteva  invece  a  mezzo- 
giorno tra  i  Sallentini,  come  par  provare  la  loro  tenace  resistenza 
a  Roma  ;  ma  sembra  che  anche  questa  lega  sia  stata  disciolta 
quando  essi  dovettero  allearsi  con  i  Romani.  Infine  la  lega  etrusca, 
che  solo  nella  seconda  metà  del  IV  secolo  acquistò  anche  impor- 


(1)  DioNYS.  XVI-XVII  5.  Cfr.  sopra  p.  363  n.  3. 

(2)  V.  sopra  p.  420. 

(8)  Ciò  risulta  dalla  iscrizione  di  Banzia  citata  s.  a  p.  457  n.  2.  Cfr.  Beloch 
It.  Bund  p.  172. 


462         CAPO  XXII.  -  IL  roMuxE  E  LO  STATO  xell'italia  uxita 

tanza  politica,  non  sappiamo  se  fosse  disciolta  dai  Romani,  certo 
se  si  conservò  sopravvisse  soltanto  come  lega  religiosa.  Nell'età 
imperiale  sussisteva  una  lega  unicamente  religiosa  di  non  più  do- 
dici, bensì  quindici  popoli  d'Etruria,  clie  tutti  avevano  la  cittadi- 
nanza romana;  ma  non  sappiamo  se  fosse  una  sopravvivenza  del- 
l'antica lega  etrusca  ovvero  se  l'avesse  ricluamata  artificiosamente 
in  vita  Augusto,  conforme  a  ciò  clie  tentò  sj^esso  con  le  vetuste 
istituzioni  religiose  (1). 

Gli  alleati  italici,  per  agevolare  la  coscrizione  delle  milizie  au- 
siliarie, erano  stati  distribuiti  dai  Romani  in  sette  grandi  distretti  di 
leva.  Le  forze  che  essi  erano  tenuti  a  mettere  a  disposizione  di 
Roma  sommavano  secondo  la  formola  dei  togati  in  vigore  dopo 
il  225  (2),  clie  possiamo  ricostituire  con  sufficiente  sicurezza ,  ad 
80  mila  fanti  e  5  mila  cavalli  Latini,  70  mila  fanti  e  7  mila  ca- 
valli Sanniti,  50  mila  fanti  e  6  mila  cavalli  Apuli  e  Sallentini  (3), 
30  mila  fanti  e  3  mila  cavalli  Lucani,  40  mila  fanti  e  4  mila  ca- 
valli dei  Marsi  e  d'altre  popolazioni  sabelliclie ,  50  mila  fanti  e 
4  mila  cavalli  Etruschi  e  Sabini ,  20  mila  fanti  e  2  mila  cavalli 
Umbri  compresi  i  Sarsinati  (4)  :  in  tutto  340  mila  fanti  e  31  mila 
cavalli.  Questi  371  mila  uomini  rapj)resentano  evidentemente  solo 
l'esercito  attivo  costituito  dai  più  giovani ,  perchè  i  veterani  non 
potevano  esser  mandati  fuori  di  paese,  ma  dovevano  servhe  alla 
difesa  territoriale;  e  dei  giovani  stessi  il  computo  sarà  stato  piut- 
tosto parco,  perchè  Tinteresse  degli  alleati  era  naturalmente  in 
genere  di  spendere  quanto  meno  fosse  possibile  le  loro  energie  a 
profìtto  di  Roma.  Ad  essi  aggiungendo  i  Bruzì  ed  i  Greci,  che 
per  la  diversità  degli  ordinamenti  e  della  disciplina  e  forse  per  la 
scarsa  fiducia  che  in  loro  s'aveva  non  erano  compresi  nella  for- 
mula dei  togati,  e  computando  la  milizia  territoriale  alla  metà 
dell'esercito  attivo,  dovremo  ritenere  che  gli  alleati  italici  dispo- 
nessero d'almeno  600  mila  uomini  atti  alle  armi.  Tenuto  conto  del 
resto  della  popolazione  libera  e  degli  schiavi,  che  dovevano  abbon- 


ii) BoRMANN  '  Arch.  -  epigr.  Mitteil.  aus  Oesterreich  '  XI  (1887)  p.  112  segg. 

(2)  V.  sopra  p.  385  n.  1.  La  provenienza  da  Fabio  Pittore  risulta  da  Eutrop. 
Ili  5  ed  Oros.  IV  13. 

(3)  Così  vanno  tradotti  gli  '\àn\}fe<;  Kai  Meoaómoi  di  Polibio.  11  numero  di 
16  mila  cavalli  va  corretto  con  Belocu  Bevulkerung  I  359  seg.  in  6  mila.  Lo 
stesso  Beloch  osserva  pure  giustamente  che  20  mila  fanti  son  di  gran  lunga 
troppo  pochi  pei  Marsi,  Marrucini,  Frentani,  Vestini  (e  Peligni). 

(4)  Il  numero  dei  cavalli  manca  in  Polibio,  ed  è  supplito  secondo  la  propor- 
zione più  usuale  tra  la  fanteria  e  la  cavalleria. 


FORMOLA    DEI    TOC  ATI.    NAZIONALITÀ  463 

dare  in  Etruiia  e  nelle  città  greche,  converrà  computare  la  popo- 
lazione delle  regioni  italiche  alleate  a  Roma  a  circa  due  milioni 
di  abitanti,  di  cui  poco  meno  d"un  quarto  dimorava  nelle  colonie  e 
nelle  altre  città  di  diritto  latino.  Soltanto  la  metà  circa  di  quella 
degli  Stati  alleati,  intorno  ad  un  milione,  era  la  popolazione  dello 
Stato  romano  (1).  Ma  gli  alleati  si  distribuivano  in  non  meno  di 
120-150  Stati  sovrani  di  varia  estensione  ed  importanza,  una  doz- 
zina in  Etrui'ia,  sedici  circa  nell'Umbria,  uno  nel  Piceno,  una  dcr 
cina  in  Campania  e  nelle  vicinanze,  una  cinquantina  nelle  Puglie 
e  neiritalia  greca,  venticinque  colonie  latine,  sei  antiche  città  la- 
tine ed  erniche,  dieci  confederazioni  (Marsi,  Peligni,  A^  estini,  Mar- 
rucini,  Frentani,  Nucerini,  Pentri,  IrjDini,  Lucani,  Bruzì).  In  media 
ciascuno  di  questi  Stati  aveva,  con  una  superficie  inferiore  a  700  km-, 
una  popolazione  assoluta  di  13.000  abitanti  e  relativa  di  18  abi- 
tanti per  km^  Ma  non  tanto  la  inferiorità  numerica  di  ciascuno  e 
la  difficoltà  di  unii'si  per  un'azione  comune  assicurava  i  Romani 
della  fedeltà  degli  alleati  quanto  il  trattamento  che  ad  essi  Roma 
faceva  rispettandone  l'autonomia,  non  gravandoli  di  tributi,  trat- 
tandone le  milizie  come  le  sue  proprie,  legandoli  ai  cittadini  coi 
vincoli  della  fratellanza  militare  e  dei  vantaggi  d'ogni  maniera 
che  procedevano  dalle  comuni  vittorie. 

Quattro  nazionalità  diverse  Roma  aveva  raccolte  ad  unità  poli- 
tica nella  penisola,  tre  indoem-opee,  Italici,  Iapigi  e  Grreci,  ed  una 
che  non  era  tale,  gli  Etruschi.  E  tanto  ]3Ìù  valido  e  duratm"0  fu 
il  dominio  romano  in  quanto  Roma  non  cercò  una  assimilazione 
violenta  dei  popoli  sottomessi,  che  anzi  essa,  con  l'arte  consueta 
dei  conquistatori  di  appoggiarsi  ai  più  deboli,  sostenne  le  nazionalità 
minori  contro  gii  aiDiDetiti  di  quella  che  era  di  gran  lunga  la  più 
densa  e  invadente  di  tutte  le  altre,  l'italica,  e  però  ebbe  spesso  dalle 
nazionalità  minori  soccorso  efficace  contro  gli  altri  Italici  riluttanti 
ad  accogliere  la  sua  egemonia.  Come  difese  gli  Iapigi  di  Arpi  contro 
l'espansione  sannitica  e  i  Greci  di  Turi  contro  i  Lucani,  cosi  anche 
l'aristocrazia  etnisca  contro  la  classe  iJopolare  che,  parlante  o  no 
lingua  etrusca,  apparteneva  alla  stirpe  soggiogata  cui  gli  Etruschi  si 
erano  sovrapposti.  Senza  l'intervento  romano  la  lingua  greca  e  la 
iapigia  avrebbero  cessato  assai  più  presto  d'esser  parlate  in  Italia  ; 


(1)  Cfr.  Beloch  Bevolkerung  1  p.  367  e  sopra  p.  425.  La  popolazione  italica 
del  225/4  doveva  essere  a  un  dipresso  eguale  a  quella  della  prima  metà  del 
secolo  anteriormente  alla  prima  punica.  I  Romani  e  Campani  atti  alle  armi 
erano  infatti  secondo  Polibio  (Fabio)  nel  225  in  numero  di  273  mila,  all'incirca 
quanti  nel  276/5  secondo  Liv.  epit.  14. 


464         CAPO  xxir.  -  il  comune  e  lo  stato  nell'Italia  unita 

e  in  Etrui'ia  1'  aristocrazia  conquistatrice  sarebbe  stata  spazzata 
via  dalla  ribellione  dei  dominati  italici ,  se  pur  la  lingua  etrusca 
fosse  rimasta  la  lingua  del  paese.  Cosi  i  Romani,  cui  la  maggiore 
nazionalità  della  penisola  era  legata  coi  vincoli  dell'affinità  di 
lingua,  di  carattere,  di  coltura  e  d'istituzioni,  seppero  anche  con- 
ciliare a  sé  le  nazionalità  minori  col  vincolo  dell'interesse  e,  se 
ritardarono  momentaneamente,  resero  tanto  più  sicm'o  e  dm^evole 
il  trionfo  dei  loro  connazionali  sugli  altri  popoli  d'Italia.  Tra  i 
quali  i  meno  provati  dalle  guerre  e  in  possesso  di  maggior  di- 
stesa di  territorio  e  maggior  benessere  materiale  erano  senza  dubbio 
gli  Etruschi.  Ma  la  guerra  di  Volsini  (sopra  p.  425)  rivela  quale 
fosse  il  punto  debole  degli  Etruschi  e  perchè  si  acconciassero  volen- 
tieri al  dominio  romano  :  la  classe  dominatrice  aveva  infatti  contro 
di  sé  tutta  la  popolazione  italica  soggetta  e  si  trovava  assai  con- 
tenta dell'appoggio  interessato  che  le  prestavano  i  Romani. 

Tuttavia  non  poteva  restar  nascosto  ai  Romani  stessi  che  il 
vero  sostegno  della  loro  potenza,  i  cittadini  forniti  del  diritto  di 
suffragio,  era  troppo  debole  in  proporzione  dell'immenso  territorio 
su  cui  s'estendeva  l'egemonia  romana  ;  solo  5000  km^  erano  privi- 
legiati su  130.000.  E  andò  poco  in  là  che  s'accinsero  a  rimuovere 
il  pericolo  dando  nel  268  il  diritto  di  suffragio  ai  Sabini  (1),  che 
nel  290  si  erano  incorporati  nello  Stato  romano.  Cominciarono 
dalla  Sabina  perchè  per  la  sua  poca  coesione,  per  la  mancanza  di 
grandi  centri,  per  la  molta  affinità  di  istituzioni  e  di  religione,  per 
non  avere  grandi  tradizioni  di  lotta  con  Roma  offriva  minor  re- 
sistenza alla  romanizzazione;  e  anche  in  vista  delle  larghe  asse- 
gnazioni a  cittadini  romani  che  s'  erano  fatte  nell'  agro  sabino. 
Con  questa  concessione  dei  pieni  dmtti  che  assicui'ò  a  Roma  la 
fedeltà  d'una  bellicosa  tribù  italica  ricominciò  quella  lenta  pari- 
ficazione tra  i  cittadini  romani  che  pareva  essersi  arrestata  e  che 
condusse  a  poco  a  poco  alla  concessione  dei  pieni  diritti  a  tutti  i 
cittadini.  E  fu  gran  ventura  per  Roma.  Un  procedere  più  gretto 
avrebbe  potuto  indurre  ad  unirsi  ai  Campani  ribelli  nell'ora  del 
pericolo  dopo  Canne  anche  molti  e  molti  altri  di  quelli  che  aiu- 
tarono invece  le  legioni  romane  a  domarli:  al  modo  stesso  che  la 
condotta  liberale  tenuta  verso  gli  alleati  fece  che  non  molti  imitatori 
trovassero  quelli  cui  eccezionalmente  s'erano  imposte  condizioni  più 
dure,  come  Taranto,  quando  tentarono  di  scuotere  il  giogo. 

(1)  Vell.  I  14,  7. 


CAPO  xxni. 

Condizioni  sociali  ed  economiche. 


Quando  gl'Italici  pervennero  nella  nostra  penisola,  già  conosce- 
vano e  praticavano  da  molto  tempo  accanto  alla  pastorizia  l'agri- 
coltni'a.  Questa  poi  prese  in  Italia  il  soprav^'^ento  su  quella,  quanto 
maggiore  diveniva  la  stabilità  nelle  sedi  e  più  numerosa  la  popo- 
lazione, non  senza  però  che  qua  e  là  per  effetto  delle  condizioni 
locali  la  pastorizia  conservasse  sull'agTicoltm-a  l'antico  predominio. 
Perciò  la  questione  che  suol  farsi  se  i  primi  Latini  che  occuparono 
il  Palatino  fossero  pastori  o  agricoltori  (1)  andrebbe  trasformata 
nell'altra  se  colà  nel  momento  ignoto  in  cui  quell'occupazione  si 
fece  prevalesse  l'agricoltura  sulla  pastorizia  o  viceversa  :  questione 
insolubile,  sebbene  sembri  favorire  l'ultima  ipotesi  la  tradizione  che 
considera  Romolo  e  Remo  come  pastori  delle  greggie  dei  re  d'Alba. 
Ma  questa,  se  pure  è  tradizione  vera  e  non  v'è  commista  specula- 
zione sul  succedersi  originario  delle  industrie  umane,  proverebbe 
al  più  che  un  languido  ricordo  della  precedenza  cronologica  della 
pastorizia  s'era  conservato  presso  gl'Italici;  e  troppo  ardito  sarebbe 
cavarne  induzioni  pel  luogo  e  pel  tempo  preciso  cui  essa  si  rife- 
risce. Il  nome  poi  del  Palatino  che  sembra  collegarsi  con  la  dea 
pastorale  Pale,  l'antichissima  festa  pure  pastorale  delle  Parilie  e 
il  culto  di  Luperco  non  bastano  davvero  a  mostrare  che  il  Palatino 
fosse  soprattutto  sede  di  pastori,  dacché  antichissimo  è  pure  il  culto 
di  Censo,  dio  agricolo  in  cui  onore  si  celebravano  le  Consualia,  che 
aveva  un  altare  ai  piedi  del  Palatino.  In  età  storica  del  resto  il 


(1)  V.  p.  e.  I.  Guidi  '  Bull.  arch.  comunale  '  IX  (1881)  p.  64  segg. 
G.  De  Sa.nctis,  Storia  dei  Romani,  II.  80 


466  CAPO   XXIII.    -    CONDIZIONI    SOCIALI    ED    ECONOMICHE 

popolo  romano  era  un  popolo  di  robusti  agricoltori  che  cercavano 
di  far  fruttificare  con  l'opera  indefessa  il  suolo  mediocremente  fer- 
tile della  campagna,  procurando  di  salvarsi  dalla  malaria  con 
suppliche  alla  dea  Febre  e  con  continui  lavori  di  prosciuga- 
mento (1). 

Grli  agricoltori  romani  coltivavano  principalmente  il  f  arre  (spelta), 
di  cui  si  nutrivano  essi  stessi,  e  l'orzo,  che  serviva  pei  loro  cavalli, 
mentre  pare  invece  che  non  coltivassero  in  origine,  o  in  scarsa  mism-a, 
il  frumento  {triticum).  E  cosi  il  loro  nutrimento  era  formato  so- 
prattutto dalla  polta  (puìs),  una  specie  di  polenta  XDreparata  di 
farre  cotto  con  acqua  e  sale  (2),  che  si  mangiava  insieme  con  quel 
che  noi  diremmo  il  companatico  (piilmentarium)^  consistente  al- 
lora di  latticini  e  di  erbaggi,  come  la  fava,  la  cipolla  e  la  rapa  (3). 
Solo  quando  si  diffuse  la  coltivazione  del  frumento,  ossia  dopo 
la  metà  del  sec.  V,  cominciarono  i  Romani  ad  avere  il  pane  (4), 
ma  senza  smettere  per  lungo  tempo  la  loro  j)redilezione  per  la 
polta  di  farre.  Quanto  alla  carne,  se  ne  mangiava  ordinariamente 
assai  poca,  riservandola  alle  solenni  occasioni  di  feste  o  di  sacrifizi, 
e  anche  minor  consumo  si  faceva  di  pesce.  Il  parco  cibo  si  condiva 
con  olio,  sale,  aceto  e  miele,  che  teneva  le  veci  dello  zucchero.  G-li 
aromi  x^redominanti,  che  rimasero  caratteristici  del  Romano  del 
buon  tempo  antico,  dovevano  essere  quelli  dell'aglio  e  della  ci- 
polla (5). 

n  modo  che  tenevano  i  Romani  nel  coltivare  il  grano  era  assai 
primitivo  :  un  anno  il  campo  lavorava,  un  anno  riposava,  e  solo 
più  tardi,  forse  sotto  linfluenza,  più  che  dell'agricoltura  greca,  di 
quella  assai  diligente  dei  Cartaginesi,  si  cominciarono  a  introdui're 
rotazioni  j)er  cui  i  campi,  dopo  aver  prodotto  per  due  anni,  per 
un  anno  riposavano.  Coi  terreni  non  troppo  grassi  della  campagna 


(1)  Sulle  condizioni  economico-sociali  dei  Prisci  Latini  v.  Fk.  Cipolla  '  Riv. 
di  fil.  •  VII  (1878)  p.  54  segg. 

(2)  Plin.  n.    h.  XVIII    83:   primiis    antiqui  Latti  cibus    (far) ^;ì<?^^  autem, 

non  patte,  vixisse  longo  tempore  Romanos  manifestum  est.  Cfr.  Marquardt  Pri- 
vatleben  V  p.  298  n.  4.  La  polta  si  faceva  anche  di  miglio.  Cfr.  Plin.  «.  h. 
XVIII  100. 

(3)  Maequaedt  ibid.  n.  5. 

(4)  Plin.  ibid.  62:  populum  Romanuni  farre  tantum  e  frumento  CCC  annis 
usum  Verrius  tradit.  La  notizia  era  forse  ricavata  dal  parlarsi  soltanto  di  farre 
nelle  dodici  tavole. 

(5j  Varrò  ap.  Non.  p.  201  :  avi  et  atavi  nostri  cum  allium  et  cepe  eorum  verba 
olerent,  tamen  optime  animati  erant. 


AGRICOLTURA   E    PASTORIZIA  467 

romana,  con  l'aratro  imperfetto,  con  l'uso  insufficiente  del  concime 
è  da  credere  che  il  prodotto  medio  del  terreno  coltivato  a  frumento 
fosse  inferiore  persino  a  quello  già  scarso  che  si  ottiene  in  media 
nell'Italia  odierna,  che  è  di  circa  undici  ettolitri  per  ettaro.  Molto 
inferiore  peraltro  non  poteva  essere,  altrimenti  un  campicello  di 
sette  iugeri  non  sarebbe  bastato  a  sfamare  una  famiglinola,  come 
certo  doveva  insieme  con  quel  po'  di  bestiame  il  cui  p)Ossesso  an- 
dava normalmente  unito  con  quello  di  sette  iugeri  di  terreno.  Ad 
ogni  modo  all'agricoltore  romano,  se  mancava  in  jìaxte  la  perizia, 
non  mancava  la  buona  volontà,  e  s'affannava  a  solcare  il  terreno 
con  l'aratro  (1)  e  ad  iiTigarlo,  non  senza  accapigliarsi  coi  vicini 
(rivales)  j)el  possesso  delle  povere  vene  d'acqua  della  campagna. 
Le  coltm-e  nobili  non  erano  ignote  ai  Latini,  ma  erano  meno 
diffuse  di  quelle  dei  cereali,  perchè^  in  difetto  d'un  fiorente  com- 
mercio di  scambi,  occorreva  anzitutto  al  contadino  trarre  diretta- 
mente dal  suolo  il  suo  sostentamento  (2).  La  coltura  della  vite, 
sebbene  posteriore  cronologicamente  presso  gii  Arii  a  quella  del 
grano,  era  già  praticata  da  parecchio  tempo  cenando  penetrarono 
nel  Lazio.  Se  la  religione  romana  conserva  traccio  di  quei  tempi 
in  cui  il  vino  era  ignoto,  ne'  sacrifizi  x^iù  arcaici  ove  non  era  lecito 
usar  vino  e  in  mia  norma  pontificia  attribuita  k  Numa  che  -vietava 
di  spargere  vino  sul  rogo  (3),  tuttavia  la  festa  delle  vinalia,  rico- 
nosciuta dal  feriale  romano  dell'età  dei  decemviri,  l'uso  clie  al 
flamine  diale  spettasse  di  consacrare  e  d'iniziare  la  vendemmia  (4), 
la  consuetudine,  di  cui  si  ascriveva  pur  l'origine  a  Numa,  di  non 
libare  agii  dèi  se  non  da  una  vite  clie  si  fosse  x^otata  (5),  conferma 
l'anticliità  che  la  filologia  conij^arata  ascrive  all'industria  vinicola  : 
la  quale  fin  dalla  seconda  metà  del  sec.  V  assume  una  certa  im- 
Xjortanza,  se  non  nel  resto  della  xjenisola,  almeno  nei  territori  delle 
colonie  greclie  del  Ionio  (6j.  A  queste  colonie   s^^etta   il   vanto  di 


(1)  Cato  de  agric.  61,  1  :  quid  est  bene  agriim  colere  ?  bene  arare,  quid  secu?idutn? 
arare,  quid  tertiuni  ?  stercorare. 

(2)  In  questo  penso  non  si  allontana  dal  vero  Plin.  n.  h.  XVIll  24:  a2}ud 
Bomanos  multo  serior  vitium  cultura  esse  coepit,  primoque,  ut  necesse  erat,  arva 
tantum  coluere. 

(3)  Plin.  n.  h.  XIV  88. 
(4j  Varrò  de  l.  l.  VI  16. 
(5j  Plin.  1.  cit. 

(6)  SoPHocL.  Antig.  1117,  dove  'IraXia  va  intesa  nel  senso  che  questo  ter- 
mine aveva  nel  V  sec.  11  vino  laziale  del  resto  anche  parecchio  più  tardi  spia- 
ceva per  la  sua  asprezza  ai  buongustai.  Vedasi  il  motto  attribuito  a  Cinea  presso 
Plin.  n.  h.  XIV  12. 


468  CAPO   XXIII,    -    CONDIZIONI    SOCIALI   ED   ECONOMICHE 

aver  introdotto  in  Italia  la  coltivazione  dell'olivo,  come  mostrano 
molti  termini  latini  d'origine  evidentemente  greca  concernenti 
quella  coltivazione  (1);  e  appunto  alla  Magna  Grecia  e  in  particolare 
alla  regione  turina  si  riferisce  la  prima  menzione  pervenutaci  di 
olio  italiano,  che  risale  alla  seconda  metà  del  IV  secolo.  Anche  la 
tradizione  conservò  memoria  del  tardo  introdm-si  dell'ulivo  nel 
Lazio,  quantunque  la  notizia  data  dagli  antichi  che  non  si  coltivasse 
in  Italia  quell'albero  fino  al  tempo  di  Tarquinio  Prisco  sia,  per  la 
sua  soverchia  precisione,  degna  di  fede  mediocre  (2).  D'altri  alberi 
fruttiferi^  indigeni  od  importati,  che  si  coltivassero  in  Italia  prima 
delle  guerre  puniche  sono  da  menzionare  il  pero,  il  melo,  il  mela- 
grano e  il  fico  ;  quest'ultimo  in  specie  che,  sebbene  d'origine  stra- 
niera (3),  era  divenuto  cosi  caratteristico  della  penisola  da  apparire 
appunto  come  tale  nelle  leggende  sulla  invasione  celtica  (sopra 
p.  160j  :  ne  tra  le  piante  utili  va  dimenticato  il  lino,  la  cui  coltiva- 
zione risale  in  Italia  ad  età  antichissima  (4). 

Sebbene  di  minor  conto  dell' agricoltm-a,  non  mancava  d'impor- 
tanza nel  Lazio  la  pastorizia.  Il  suo  fiorire  è  dimostrato  dai  culti 
pastorali,  dalla  frequenza  relativa  dei  sacrifizi  cruenti,  dall'uso  di 
considerare  il  bestiame  come  misura  del  valore  e  da  quello  d'im- 
porre multe  in  capi  di  bestiame.  In  ijarticolare  poi  la  scarsa  esten- 
sione che  spesso  avevano  le  parcelle  attribuite  in  assoluta  proprietà 
sia  nelle  colonie  sia  nelle  assegnazioni  viritane  presuppone  un  co- 
mune terreno  pascolativo  di  mism^a  non  troppo  ristretta  che  per- 
mettesse al  contadino  proprietario  di  provvedere  con  l'aiuto  dei 
prodotti  delle  greggie  a  quel  sostentamento  che  il  campicello  era 
da  solo  insufficiente  a  fornirgli  :  di  che  è  pure  argomento  il  nome 
di  pascolare  (pascua),  rimasto  anche  più  tardi  all'  agro  pubblico 
in  generale. 

Degli  animali  domestici  del  resto  si  avevano  nel  Lazio,  oltre 
tutti  quelli  già  conosciuti  in  età  antichissima  dagli  Arii,  anche 
gli  animali  del  cortile  che  quelli  non  conoscevano  e  che  erano 
stati  importati  in  Italia  dai  Greci  in  età  abbastanza  remota.  L'an- 


(1)  Kretschmer  Einleitung  p.  112  segg.  Hkhn  Kitlfurpflanzen  und  Haustìnere  ' 
(Berlin  1902)  p.  112  segg. 

(2)  Plin.  n.  h.  XV  1. 

(3)  Cfr.    SoLMS    Laubach    '  Abhancllungen  der  Ges.  der  Wiss.  zu  Gottingen 
XXVIII  (1881). 

(4)  Sull'agricoltura  degli  anticlii  Italici  v.  in  generale  A.  Dickson  The  hiisbandnj 
of  the  ancients  (Edinburg  1788),  utilissimo,  sebbene  antiquato.  Dureau  de  la 
Malle  Economie  politique  des  Romains  II  (Paris  1840)  1  segg. 


AtilUrOLTUKA  E  PASTORIZIA.  ESPROPRIAZIONI  E  COLONIE  469 

tichità  delFoca  domestica  in  Roma  è  attestata  dalla  leggenda  delle 
oche  capitoline  ;  quella  del  pollame  dall'uso  che  se  ne  faceva  nelle 
spedizioni  militari  ijer  gli  auspici  (1).  Per  la  Magna  Grrecia  poi  e 
per  la  Sicilia  ne  fa  testimonianza  per  età  anche  più  antica,  oltre 
la  leggenda  che  i  Sibariti  non  tollerassero  galli  in  città  per  non 
essere  destati  dal  loro  canto  (2) ,  1'  apparire  del  gallo  come  em- 
blema su  monete  di  città  greche  al  principio  del  secolo  Y  o  alla 
fine  del  A^  (3). 

Mentre  nell'età  regia  e  nei  primordi  della  repubblica  l'aumentar 
della  xiopolazione  nel  territorio  ristretto  favoriva  il  dissodamento 
dei  terreni  incolti  e  lo  sfruttamento  semi3re  più  intenso  dei  colti- 
vati, l'accrescersi  smisuratamente  dell'agro  pubblico  dalla  metà 
del  sec.  TV  doveva,  se  pur  non  ancora  favorire  l'incremento  della 
pastorizia  a  danno  dell'agricoltura,  almeno  segnare  un  arresto  nel 
progresso  di  questa:  nonché  dissodar  nuovi  terreni  era  infatti  già 
molto  se  tra  i  vincitori  si  trovavano  braccia  e  capitali  sufficienti 
per  sostituir  sempre  nei  campi,  coltivati  le  ijopolazioni  distrutte  o 
spossessate  ;  e  diffìcile  era  resistere  alla  tentazione  di  lasciare  i 
terreni  magri  e  male  irrigati  su  cui  s'erano  affaticati  i  padri,  per 
i  nuovi  terreni  che  s'offrivano  in  ogni  parte  d'Italia  ;  come  pure 
era  difficile  che  in  quella  parte  dell'agro  pubblico  che  non  si  di- 
stribuiva, ma  si  lasciava  occupare  a  chi  volesse,  il  ricco  occupante 
rinunciasse  ad  usare  il  terreno  in  quel  modo  che  gli  assicurava 
con  minima  spesa  un  considerevole  profitto,  ossia  riducendolo  a 
pascolo.  A  ciò  si  aggiungevano  i  mali  che  seguono  necessariamente 
ad  un'alterazione  violenta  della  distribuzione  della  proprietà  fon- 
diaria qual'era  quella  che  aveva  tenuto  dietro  non  di  rado  alla 
conquista  romana.  Forse  da  più  di  un  decimo  della  penisola  gli 
antichi  proprietari  erano  stati  cacciati  violentemente;  e  quanto  ciò 
dovesse  esser  dannoso  alla  stessa  agricoltura  non  è  chi  non  veda  : 
poiché  coi  coltivatori  espulsi  od  uccisi  venivano  meno  tradizioni 
d'esperienza  e  vecchie  relazioni  d'affetto  tra  la  famiglia  ed  il 
suolo;  e  si  richiedeva  tempo  perchè  il  nuovo  proprietario  prendesse 
ad  amare  e  a  conoscere  il  terreno  per  lui  nuovo.  Né  certo  doveva 
essere  molto  favorevole  all'agricoltura  il  modo  violento  e  quasi  bru- 


ii) Uso  per  altro  non  antichissimo,  come  ben  sapeva  1'  aufjnre  Cicerone  de 
divin.  II  35,  73. 

(2)  Athen.  XII  518  d. 

(3)  Hehn   Kultiirpflanzen  and  Hausthieve^  p.  327  segg.  Ct'r.  Krktschmek  nella 
'  Zeitschrift  '  del  Kuhn  XXXIII  (1893)  p.  560. 


470  CAPO  xxni.  -  coxdtzioxi  socfau  ed  px'oxomtche 


tale  con  cui  gli  agTimensori  romani  procedevano  all'assegnazione 
del  terreno  conquistato  mettendo  ogni  studio  a  superare,  per  quanto 
era  xjossibile,  nel  dividerlo  in  regolari  appezzamenti  quadrilateri, 
gì'  impedimenti  che  opponeva  la  natm-a  del  terreno  e  ignorando 
il  riguardo  agli  interessi  della  coltivazione  e  della  irrigazione  clie 
a\T.'ebbe  spesso  suggerito  un  modo  di  procedere  meno  matematico, 
ma  più  ragionevole.  E^opure  non  è  dubbio  che  questi  inconvenienti, 
inseparabili  da  Ciualsiasi  periodo  di  transizione,  sarebbero  stati  su- 
perati se,  chiuso  col  iDeriodo  della  conquista  quello  dei  mutamenti 
violenti  nella  distribuzione  della  proprietà  fondiaria,  fossero  rimaste 
le  stesse  le  condizioni  economico-sociali  della  penisola.  ■  Il  duro 
tirocinio  che  gli  agricoltori  latini  avevano  fatto  nella  pianura  la- 
ziale li  rendeva  atti  a  continuar  dappertutto  con  la  stessa  tenacità 
a  lavorare  i  campi  che  eran  loro  toccati  in  sorte.  E  la  natura 
stessa  della  divisione  dei  campi  assegnati  per  opera  degli  agrimen- 
sori e  il  concetto  amplissimo  che  della  proprietà  fondiaria  s'aveva 
nel  Lazio  giovava  in  un  certo  senso  ad  instaurare  una  nuova  rela- 
zione d'affetto  tra  la  famiglia  e  il  terreno  ch'essa  coltivava;  poiché 
in  quegli  appezzamenti  regolari  e  compatti,  separati  da  sentieri  e 
da  strade  condotte  secondo  norme  precise  dirette  a  ridurre  al  mi- 
nimo possibile  le  reciproche  servitù  d'acqua  o  di  via,  uno  doveva 
sentirsi  assai  più  padrone  del  campo  toccatogli  che  oggi  in  gene- 
rale non  accada  (1);  e  la  sicurezza  del  dominio  s'attingeva  alla 
stabilità  degli  ordini  di  Roma  e  alla  costanza  delle  sue  vittorie. 
Vedremo  perchè  rimasero  invece  in  buona  parte  infecondi  questi 
germi  promettenti  di  un  nuovo  ed  intenso  sviluppo  agricolo  nella 
Ijenisola. 

L'industria  agricola  del  Lazio,  anche  quando  bastò  al  consumo 
degli  abitanti,  non  fu  mai  in  grado  d'esportare  i  suoi  prodotti.  Le 
regioni  d'Italia  onde  s'esportavano  i  cereali  sia  in  altre  parti 
della  penisola  sia  all'estero  erano,  oltre  i  territori  d'alcune  città 
greche,  la  Campania  e  l'Etruria  (2);  ed  anche  dalla  regione  padana 
pare  che  i  Greci  traessero  granaglie  fin  dal  IV  secolo  (3).  Ma  il 
crescere  della  popolazione  e  il  diffondersi  delle  colture  nobili  nelle 
regioni  più  progredite  fece  si  che,  probabilmente  già  nella  prima 
metà  del  terzo  secolo,   l'Italia  cessasse   di  esportar  frumento   al- 


(1)  Cfr.  Weber  Roni.  Agrargeschichtp.  p.   104  seg. 

(2)  V.  sopra  p.  14. 

(3)  La  colonia  ateniese  ek  'Abpiav  (CIA.  II  809),  che  venne  deliberatane!  325/4, 
aveva  anche  lo  scopo  di  provvedere  alla  criTOTTO|HTt(a.  Cfr.  Rostoffzkw  art.  Fru- 
nientum  in  Pacly-Wissowa   VI. 


ESPROPRIAZIONI  E  COLONIE.  INDUSTRIA  471 

Testerò  ;  quanto  airolio  e  al  vino,  questi  cominciarono  dal  V  o  dal 
IV  secolo  a  prodursi  in  copia  nelle  colonie  greche  del  mezzo- 
giorno (1);  ma  non  sappiamo  clie  x^er  allora  la  produzione  superasse 
il  consumo  che  se  ne  faceva  presso  i  coloni  o  x)resso  gì'  indigeni 
confinanti  ;  e  i  trovamenti  archeologici  dimostrano  che  in  parte  al- 
meno della  penisola  continuò  anche  nel  V  secolo  ad  introdursi  olio 
greco. 

Del  resto  come  i  Latini  non  avevano  modo  in  questo  periodo 
d'arricchirsi  esportando  prodotti  agricoli,  cosi  neppure  in  massima 
la  loro  industria  era  in  grado  di  lavorare  per  la  esportazione  (2).  Non 
era  favorevole  al  suo  sviluppo  la  mancanza  nel  Lazio  di  materie 
prime,  come  metalli  o  marmi,  e  il  difetto  di  capitali.  E  scarseg- 
giava inoltre  la  mano  d'opera  ;  perchè  fortunatamente  pochi  erano 
i  liberi  che  non  avessero  avuto  in  retaggio  o  per  via  d'assegnazione 
un  pezzo  di  terra,  per  piccolo  che  fosse;  e  gli  schiavi  cominciarono 
ad  abbondare  solo  con  le  guerre  condotte  fuori  d'Italia.  Sicché 
l'industria  aveva  nel  Lazio  scarsa  importanza  e  non  lavorava  che 
per  soddisfare  alla  richiesta  locale  ;  e  nulla  v'era  che  si  accostasse 
alle  fabbriche  di  Corinto,  di  Cartagine  o  anche  di  Taranto  per  la 
ciualità  del  ijrodotto  e  pel  capitale  impiegato.  Otto  nomi  ci  sono 
stati  tramandati  di  corporazioni  operaie  che  sarebbero  state  isti- 
tuite in  Roma  da  Numa  Pompilio,  i  flautisti  {tibicines),  gli  orefici 
ifabri  aurarii)^  i  calderai  {fahri  aerarli) ,  i  falegnami  {fabri  ti- 
(jnarìi).  i  conciatori  (coriarìi)^  i  calzolai  (sutores),  i  vasai  (figuli), 
ì  tintori  [infectores)  (3).  Questa  lista  non  risale  certo  a  re  Numa; 
ma  non  è  difficile  che  sia  attinta  ad  una  fonte  antica,  p.  e.  alle 
dodici  tavole.  E  degno  di  nota  infatti  che  vi  mancano  i  fabbri 
(fabri  ferra?'ii),  i  quali  si  separarono  dai  calderai  quando  cominciò 
a  diffondersi  maggiormente  l'uso  delle  suppellettili  di  ferro  ;  i 
fornai  (pistores)j  che  non  sono  anteriori  in  Roma  al  secondo  se- 
colo, quando    cominciò  a  smettersi  l'uso  generale  di  farsi  in  casa 


(1)  V.  la  menzione  dell'olio  turino  in  un  fr.  del  poeta  comico  Ampdis  (2*  metà 
del  IV  sec.)  presso  Athen.    I  30. 

(2)  Sulle  industi-ie  dell'Italia  media  in  generale  v.  Bluemner  Die  gewerbliche 
Thatigkeit  der  Volker  des  kl.  Alterthums  (Leipzig  1869)  p.  103  segg.  V.  anche 
BuECHSENSCHUETz  Die  Hauptstatten  des  Getverbfleisses  ini  klassischen  Alterthume 
(Leipzig  1869),  in  specie  p.  24  segg.  45  segg.   76. 

(3)  Plut.  Nam.  17:  >ìv  he.  ^  h\avo\xr\  kotò  xàq  réxvoi;  aùXriTuùv  xpuaoxóuuv  re- 
KTÓvotv  3otTpéujv  aKUTOTÓuujv  aKUTobei|JÓ)v  \akKé.u)v  Kepa)aéujv.  Plin.  n.  h.  XXXIV  1. 
XXXV  159. 


472  CAPO  XXIII.  -  CONDIZIONI  SOCIALI  ED  ECONOMICHE 

il  pane  (1) ,  i  gualchierai  (fidlones)^  piu"  tanto  frequentemente 
ricordati  dalle  fonti  classiche,  i  quali  ]3eraltro  non  debbono  spet- 
tare all'età  più  antica,  quando  si  lavavano  sempre  i  panni  in  casa, 
i  macellai  (laìiii),  che  sorsero  quando  crebbe  il  consumo  della  carne 
e  non  si  mangiarono  soltanto  gli  animali  sacrificati,  i  suonatori 
di  corno  6  di  tromba  (titbicines  e  co?mlcines),  che  pui-  costituivano 
due  delle  quattro  ceiitmie  di  mestieranti  deirordinamento  serviano, 
perchè,  a  differenza  dei  fabri  che  costituivano  le  altre  due  centurie, 
il  loro  non  era  tanto  un  mestiere  quanto  un  ufficio  da  prestare 
temporaneamente  nell'esercito.  Cosi  dobbiamo  ritenere  che  quella 
lista  di  corporazioni  operaie  ci  fornisca  un'  idea  adeguata  delle 
condizioni  primitive  dell'industria  romana  nella  metà  del  V  secolo. 
Forse  le  sole  industrie  romane  che,  sia  pure  scarsamente,  lavoras- 
sero fin  da  quell'età  perla  esportazione  nelle  regioni  vicine,  come 
la  Sabina  o  il  jDaese  dei  Volsci,  erano  la  ceramica,  i  cui  prodotti 
rozzi,  ma  solidi  e  a  buon  mercato,  pare  incontrassero  il  favore  dei 
contadini  italici  (2),  e  l'industria  dell'estrazione  del  sale,  che  dalle 
saline  alla  foce  del  Tevere  traeva  non  solo  quel  ch'era  necessario 
al  consumo  locale^  ma  tanto  da  sjjedire  carichi  di  sale  ai  popoli 
deirinterno  che  n'erano  privi,  per  quella  via  ch'ebbe  il  nome  di 
Salaria  (3). 

Ma  assai  più  che  l'industria  arricchì  i  Romani  il  commercio  di 
transito.  Vedemmo  infatti  come  per  la  via  di  Roma  dovesse  in- 
camminarsi il  commercio  terrestre  tra  l'Etruria  e  l'Italia  meridio- 
nale; e  mentre  dall'Etrmia,  dall'Umbria  e  dalla  Sabina  per  mezzo 
del  Tevere  potevano  facilmente  trasportarsi  a  Roma  carichi  di 
legname  e  ogni  maniera  di  prodotti  dell'agricoltura  e  deirindustria 
indigena,  le  navi  greche  e  fenicie  potevano  senza  difficoltà  risalire 
il  Tevere  e  offrire  in  cambio  di  quelli  i  prodotti  ricercati  delle 
più  raffinate  industrie  straniere.  Questo  importante  commercio 
spiega  pm-e  la  presenza  in  Roma  d'una  piccola  colonia  di  mer- 
canti etruschi  attestata  dal  vico  Tusco  presso  il  Foro.  Né  man- 
cavano, per  favorire    il    commercio,  grandi   fiere  in    occasione   di 


(1)  Varr.  ap.  Non.  152.  Plin.  n.  h.  XVIII  107:  pistores  Romae  non  fuisse  ad 
Persicum  usqite  hellum  annis  ab  urbe  condita  siqyra  DLXXX  :  ipsi  ixmem  fa- 
eiebant  Quirites. 

(2)  Peraltro  non  ne  abbiamo  nelle  fonti  testimonianza  più  antica  di  quella 
di  Catone  de  agric.  135.  Ma  prodotti  dell'industria  latina  del  III  sec.  av.  Cr.  deb- 
bono essere  anche  alcuni  vasi  con  iscrizioni  latine  graffite  {CIL.  I  '  43-50) 
trovati  in  massima  parte  in  Etruria. 

(3)  Plin.  n.  h.  XXI  89. 


COiLMEKCIO  473 


sacrifizi,  oltre  le  quali  v'erano  anche,  ben  noti  a  tutti  i  vicini,  i 
giorni  usuali  di  mercato  delle  nundine.  Comune  infatti  con  gli 
Etruschi  (1)  avevano  i  Latini  una  divisione  del  tempo  in  periodi 
di  otto  giorni  che  s'iniziavano  con  un  giorno  di  mercato.  Siffatta 
divisione,  che  è  ritenuta  tarda  e  di  provenienza  orientale  (2),  ma 
che  probabilmente  è  antica  e  d'origine  indigena,  nulla  avendo  di 
comune  con  la  settimana  degli  orientali,  serviva  a  far  si  che,  in- 
dipendentemente dai  calendari,  diversissimi  da  città  a  città,  si  j^o- 
tesse  conoscere  da  ciascuno  la  ricorrenza  periodica  dei  giorni  di 
mercato  ;  e  non  è  difficile  che  si  colleghi  con  la  divisione  in  quattro, 
propria  degli  Etruschi,  del  tempo  celeste  e  del  terrestre  (3). 

Il  diretto  commercio  dei  Latini  coi  Grreci  ebbe  per  effetto,  tra 
altro,  che  l'arte  del  navigare  si  trasformasse  sull'esempio  di  quella 
greca,  com'è  dimostrato  dall'abbondare  in  latino  di  termini  mari- 
nareschi attinti  dal  greco  (4).  Non  mancano  del  resto  neppur  molti 
termini  d'origine  indigena  (5)  ;  e  questi  e  il  più  antico  trattato  con 
Cartagine  e  la  stessa  prora  di  nave  che  i-  Romani  posero  come 
emblema  nella  più  antica  loro  moneta  mostrano  che  essi,  anche 
prima  delle  guerre  puniche,  non  furono  cosi  ignari  del  mare  come 
li  ra^jpresenta  qualche  tradizione.  Certo  è  però  che,  per  quanto 
in-aticassero  con  Grreci  e  Fenici  e  per  quanto  non  mancassero  di 
attitudini  al  progresso,  non  potè  attecchire  nel  Lazio  un'industria 
atta  ad  imitare  e  ad  emulare  i  prodotti  dell'industria  greca  e  fe- 
nicia, come  per  effetto  delle  ricchezze  minerarie  e  del  benessere 
economico  che  cagionò  il  loro  commercio  si  svolse  in  Etruria  (6). 

Un  commercio  di  scambi,  sia  pur  rudimentale,  presuppone  l'uso 
di  unità  di  peso  e  di  misura.  Ora  per  saper  misurare  conviene 
saper  fare  di  conti,  un'arte  che  è  noto  quanto  sia  poco   avanzata 


(1)  Per  gli  Etruschi  v.  Macrob.  sat.  I  15,  13. 

(2)  Così  MoMMSEiN  EoìH.  Cìifonologie  '^  255.  Ma  v.  Soltau  Rom.  Chronol.  38. 

(3)  Il  materiale  sulla  settimana  e  sui  periodi  analoghi  presso  gli  antichi  è 
raccolto  dal  Roscher  Die  enneadischen  und  hebdomadischen  Fristen  und  ÌVochen 
nelle  '  Abhandl.  der  silchs.  Gesellsch.  der  Wiss.  '  philol.-  histor.  Klasse  XXI 
(1903)  e  Die  Sieben-  und  Neimzahl  im  Kultus  und  Mythus  der  Griechen  ibid.  XXIV 
(1906).  Non  seml)ra  peraltro  accettabile  la  sua  ipotesi  che  la  scelta  dei  periodi 
ottonari  per  parte  dei  Romani  si  del)ba  ad  una  superstiziosa  avversione  al  nu- 
mero sette  (v.  a  p.  72  dell'ultimo  scritto  cit.). 

(4)  Vedili  p.  e.  in  Schradek  Reallexikon  p.  714. 
(5j  Come  velum,  malus,  carina,  puppis,  riidens. 

(6)  Cfr.  per  la  fama  che  godeva  dal  V  secolo  l'industria  etrusca  in  Grrecia 
i  testi  di  Cratino,  Ferecrate  e  Crizia  il  tiranno  ap.  Poll.  VII  86.  Atuen.  XV 
700  e.  I  28  e.  Muellek-Deecke  Etrusker  il  258. 


474  CAPO   XXIII.    -    CONDIZIONI    SOCIALI    ED    ECONOMICHE^ 

presso  i  selvaggi.  Contare,  però,  sapevano  fino  a  un  certo  punto 
già  gli  Arii  X3rimitivi,  usando  d'un  sistema  di  numerazione  fondato 
sul  dieci  (1),  che  ha  riscontro  presso  svariate  tribù  selvaggie  e  che 
evidentemente  ha  origine  dal  computo  sulle  dita  delle  mani.  Anche 
d'un  sistema  di  numerazione  fondato  sul  venti  non  manca  qualche 
traccia  presso  popoli  indoeuropei,  p.  e.  jDresso  i  Francesi,  ed  è 
sistema  che  anch'esso  ha  riscontro  presso  i  selvaggi,  originato 
com'è  dal  doppio  computo  sulle  dita  delle  mani  e  su  quelle  dei 
piedi,  ma  non  è  sicui'o  se  ]3resso  gli  Arii  debba  ascriversi  a  so- 
pravvivenza d'usi  estremamente  primitivi  o  ad  imitazione  d'usi  di 
popoli  non  Arii.  Traccie  maggiori  ha  lasciato  a  ogni  modo  fra  gli 
indoeuropei  una  numerazione  a  base  dodici.  Si  prese  infatti  a 
numerare  per  dozzine  quando  si  osservò  che  un'apparente  rivolu- 
zione del  sole,  ossia  im  anno,  comprende  approssimativamente 
dodici  lunazioni;  ma  ciò  stesso  mostra  che  questa  numerazione 
non  poteva  essere  adottata  se  non  da  popoli  relativamente  pro- 
grediti. E  si  sono  in  effetto  serviti  di  essa  popoli  d'antichissima 
civiltà  come  i  Babilonesi.  Le  traccie  che  se  ne  hanno  presso  gli 
Arii  d'Europa,  p.  e.  nella  divisione  della  libbra  romana  in  dodici 
oncie,  possono  esser  dovute  a  influssi  orientali  apertisi  comechessia 
la  strada  nell'Occidente  ;  ma  può  anche  darsi  che  presso  vari  po- 
poli, dal  momento  che  cominciarono  ad  avere  qualche  nozione  di 
astronomia,  quest'uso  di  contare  per  dozzine,  che  del  resto  rimase 
in  generale  assai  liraitato,  s'introducesse  indi^jendentemente,  come 
il  contare  per  gruppi  di  cinque,  di  dieci  o  di  venti  s'è  introdotto 
indipendentemente  presso  i  i)iù  lontani  popoli  selvaggi. 

La  natura  del  resto  non  solo  fornisce  le  basi  delle  varie  nume- 
razioni, ma  anche,  specialmente  per  le  lunghezze,  svariate  unità 
di  misura,  quali  il  pollice,  il  palmo,  il  piede,  il  braccio,  la  spanna, 
il  passo.  Quanto  alle  lunghezze  maggiori,  non  era  difficile  compu- 
tarle anche  a  popoli  in  condizioni  poco  progredite  dal  trar  d'arco 
o  dalla  giornata  di  marcia.  Queste  e  simili  misure  erano  usate  già 
dagli  Indoeuropei  primitivi,  ma  non  vi  son  traccie  fra  essi  d\m 
sistema  che  stabilisse  in  m.odo  preciso  il  valore  assoluto  e  relativo 
del  piede,  del  braccio  e  del  passo  come  mism^e  lineari  e  molto 
meno  d'un  sistema  per  le  misure  di  peso  o  di  capacità.  Tale 
passaggio  dall'approssimativo  alla  precisione  del  sistema  si  fece 
in   età   posteriore   separatamente   presso  i  vari    popoli  (2).  Tra  i 


(1)  Cfr.  ScHRADER  Reallexikon  p.  967  segg.  Tylor  Primitive  culture  I  244  segg. 

(2)  HoLTScH  Grìeckische  und  romische  Metrologie^  (Berlin  1882).  Nissen  Griech. 
und  rum.  Metrologie  in  '  Handbuch  der  klass.  Alterturaswissenschaft  '  I*  (1892j. 


l'KSf    E    ilISUKK  475 


Greci  come  primo  introduttore  di  un  sistema  di  misure  vien  ri- 
cordato re  Fidone  di  Argo  (1),  tra  i  Romani  Servio  Tullio,  l'autore 
leggendàrio  delle  istituzioni  principali  della  Roma  repubblicana  ('2): 
nelle  quali  leggende  s'esprimeva  il  netto  ricordo  che  l'ordinamento 
sistematico  delle  misure  era  di  parecchio  posteriore  al  periodo 
remoto  delle  origini.  In  Glrecia  del  resto  rispetto  ai  pesi  e  fors'anche 
rispetto  alle  altre  mism^e  siffatto  ordinamento  si  compi  sotto  l'in- 
fluenza del  più  progredito  Oriente,  come  mostra  il  rapporto  tra  il 
talento,  la  mina  e  il  siclo  o  staterò,  che  è  ricopiato  su  quello  in 
uso  nell'Asia  anteriore  (3).  Non  pare  invece  che  gli  Italici  ripetes- 
sero dall'Oriente  i  loro  sistemi  di  pesi  e  misure:  almeno  il  talento 
con  la  sua  partizione  in  mine  ed  in  sicli  è  estraneo  alla  metrologia 
italica  ;  né  l'uso  della  divisione  duodecimale  adottato  non  solo  per 
le  misure  di  peso,  ma  anche  per  le  lineari  è  argomento  sicui'O  d'in- 
flussi orientali.  Ciò  non  toglie  che  in  proceder  di  tempo  i  pesi  e 
le  misui'e  italiche  potessero  venir  alterati  alquanto  per  metterli 
in  rapporti  semplici  con  quelli  piii  usuali  tra  i  Grreci  ed  i  Fenici; 
ma  questo  è  un  procedimento  che  può  appena  dubbiosamente  in- 
travedersi. 

Base  del  sistema  romano  di  misui'e  lineari  era  il  piede  di 
m.  0,2957,  detto  i^iede  monetale,  perchè  un  esemplare  doveva  con- 
servarsene nel  tempio  di  Griunone  Moneta  (4).  Cotesto  piede  si 
divideva  o  in  dodici  parti  dette  oncie,  come  le  parti  della  libbra, 
ovvero  anche  in  quattro  palmi  e  sedici  pollici  (digiti).  L'ultima 
divisione  dev'essere  ricopiata  dai  Grreci,  altrimenti  sarebbe  difficile 
spiegare  come  Romani  e  Greci  potessero  incontrarsi  con  tanta  pre- 
cisione nello  stabilire  siffatto  ragguaglio  ;  e  la  stessa  provenienza 
ha  pure  verisimilmente  il  ragguaglio  del  cubito,  che  del  resto  è 
usato  di  rado  e  soprattutto  traducendo  dal  greco,  a  una  volta  e 
mezzo  il  piede.  Invece  nazionale  par  la  misura  del  grado,  il  passo 
semplice  di  due  piedi  e  mezzo,  e  quella  del  passo,  il  passo  doppio 
di  cinque  piedi,  come  pur  quella  della  pertica,  la  canna  usata  a 
misurare,  che  è  di  dieci  piedi  e  perciò  è  anche  detta  decempeda, 
e  finalmente  la  misura  usuale  per  le  vie,  i  mille  passi  ossia  il 
miglio  di  m.  1479.  Ma  più  che  la  origine  di  queste  misure  deri- 
vate dal  piede,  im[)orterel3be  stabilire  se  la  determinazione  precisa 


(1)  Herod.  vi  127.  Ki'HOK.  ap.  Straiì.  VIIF  p.  358.  M.  Parium  ep.  30. 

(2)  AucT.  de  vir.  ili.  7,  8:  mensuras  pondera...  constituit. 

(8)  Su  ciò  J.  Brandis   Das  Miinz-,  Mass-  itnd   Geivichtssystem  in    Vorderasien 
(Berlin  1866). 

(4)  HuLTScH  ^  p.  88  sesrf?.  Hygin.  Gromat.  ed.  Laciimann  p.  123. 


476  CAPO   XXIII.    -    CONDIZIONI    SOCIALI   ED   ECONOMICHE 

della  misura  del  piede  in  uso  presso  i  Romani  sia  o  no  dipendente 
da  sistemi  gTeci.  Per  tal  rispetto  si  è  osservato  che  il  peso  d'un 
volume  d'acqua  eguale  al  cubo  del  piede  romano  è  a  un  dipresso 
quello  del  talento  attico  di  circa  26  kgr.  In  realtà  questa  coinci- 
denza non  è  punto  precisa  e  potrebbe  anche,  almeno  in  un  certo 
senso,  esser  casuale  o  doversi  a  qualche  tardo  ritocco  fatto  a  bella 
posta  nel  sistema;  e  non  solo  non  è  dimostrato  che  gli  Ateniesi 
si  siano  serviti  neiretà  classica  di  un  piede  di  cii'ca  m.  0,296,  ma 
anzi  pare  assodato  che  non  l'adoperassero  punto  (1).  Che  del  resto 
quando  un  sistema  ammesso  da  tutti  non  c'era,  ma  molti  Stati 
avevano  proprie  mism-e  che  di  poco  differivano  da  quelle  degli 
Stati  vicini,  potesse  esservi  qualche  parte  di  Grecia  in  cui  la  mi- 
sura ufficialmente  ricevuta  del  piede  s'accostasse  a  quella  in  uso 
a  Roma,  deve  apparir  naturale  anche  a  chi  non  creda  di  attribuire 
origine  orientale  o  greca  al  piede  romano,  poiché  nel  determinare 
quella  unità  doveva  muoversi  sempre  dalla  effettiva  lunghezza 
d'un  piede  d'uomo:  ed  era  difficile  che  tra  tante  determinazioni 
di  essa,  alcune  approssimativamente  non  s'incontrassero.  L'esame 
della  distanza  usuale  tra  i  pali  delle  terremare  ha  suggerito  Tipo- 
tesi  che  già  da  quella  età  fosse  in  uso  il  piede  romano  (2),  al 
quale  converrebbe  cosi  ascrivere  origine  etrusca,  ammettendo  che 
si  fosse  introdotto  in  Roma  insieme  con  la  limitazione  e  col 
tempio  ;  e  l'ipotesi,  sebbene  non  possa  considerarsi  come  dimosti*ata, 
non  ha  nulla  d' inverisimile,  tanto  più  che  costruzioni  come  le 
terremare,  pur  essendo  antichissime,  sembra  presuppongano  già 
l'uso  d'una  unità  di  mism-a  precisamente  determinata.  Tutto  ciò 
se  non  basta  a  chiarire  al  tutto  l'origine  del  piede  romano,  basta 
almeno  a  dimostrar  destituita  di  fondamento  la  congettura  che  il 
piede  romano  di  0,2957  sia  stato  introdotto  dai  decemviri  rico- 
piando il  piede  soloniaiio  d'Atene:  come  del  resto  è  anche  assai 
malsicm-a  l'ipotesi  dell'esistenza  d'un  antico  piede  italico  di  m.  0,278 
che  alcuni  hanno  creduto  riscontrare  nelle  misure  d'edifizì  pom- 
peiani (3)  e  che  a  torto  poi  a  ogni  modo  s'è  pensato  di  riconoscere 
nelle  mism-e  del  tem])io  di  Giove  Capitolino  (4). 


(1)  DuRi'FELu  '  Athen.    Mittheil.  '    XV    (1890)    p.    167  segg.,  in  cui  distrugge 
sostanziahnente  quanto  aveva  cercato  di  dimostrare  ibid.  VII  (1882)  p.  277  segg. 

(2)  PiGOKiNi  '  Bull,  di  pai.  '  XXI  (1895)  p.  5  segg. 

(3)  NissEN  Pompeiati.  Studien  p.   70  segg. 

(4)  V.  RicHTER  'Hermes'  XVIII  (1883)  p.  616  segg.,  con  le  assennate  o.sser- 
vazioni  del  Mommsen  '  Hermes  '  XXI  (1886)  p.  421  seg. 


l'Esr  E  :mtsi;KK  477 


Base  delle  misure  romane  di  superficie  è  la  "  spinta  ,,  (actiis) 
ossia  la  lunghezza  d' un  solco  tracciato  senza  interruzione  dal- 
l' aratro  preso  clie  abbia  F  abbrivo,  lunghezza  che  si  computa 
presso  i  Romani  a  120  piedi  ossia  a  m.  35,48.  Il  quadrato  che  ha 
quella  misura  per  lato  {actus  quadratus)  rappresenta  la  superficie 
che  un  xiaio  di  buoi  può  arare  in  mezza  giornata  (ett.  0,126);  e  il 
doppio  di  siffatto  quadrato  (ett.  0,252)  è  il  terreno  che  con  un  paio 
di  buoi  si  può  arare  in  un  giorno,  ed  ha  per  ciò  il  nome  di  iugero. 
Diversa  dalla  romana  era  l'unità  di  misura  per  le  superfìcie  usata 
dagli  Oschi  e  dagli  Umbri  il  "  verso  „  {versus  o  vorsus)^  un  qua- 
drato di  cento  piedi  di  lato  (1). 

La  normale  unità  di  misura  per  il  peso  era  tra  gli  Italici  la 
libbra  (2);  di  cui  lo  stesso  nome  è  schiettamente  italico  e  designa 
propriamente  ciò  che  fa  equilibrio  nella  bilancia  all'oggetto  pesato. 
Dagli  indigeni  italici  di  Sicilia  conobbero  poi  i  coloni  greci  questa 
mism-a,  di  cui  alterarono  il  nome  in  quello  di  litra  (3).  Del  resto 
non  dappertutto  ne  sempre  in  Italia  il  peso  normale  della  libbra 
fu  quello  della  libbra  romana  dell'età  storica  di  gr.  327,45.  In 
Sicilia  la  libbra  veniva  ragguagliata  alla  metà  d'una  mina  attica 
e  quindi  corrispondeva  a  due  terzi  soltanto  della  libbra  romana; 
né  d'una  simile  libbra  mancano  tr accie  anche  fuori  di  Sicilia  (4)  ; 
altre  traccie  sembrano  aversi  d'una  libbra  italica  corrispondente 
a  cinque  sesti  circa  della  romana.  La  libbra  romana  si  raggua- 
gliava nell'uso  comune  all'ottantesimo  del  talento  euboico  (5),  ma 
la  corrispondenza  era  soltanto  approssimativa;  e  fosse  anche  più 
rigorosa  di  quel  che  non  è,  proverebbe  non  che  è  di  origine  greca 
la  libbra,  ma  che  forse  s'è  modificato  di  qualche  grammo  il  peso 
originario  di  essa  per  metterla  in  rapporto  semplice  con  la  più 
diffusa  tra  le  misure  greche  di  peso  (6). 


(1)  Va  URO  de  re  r.  I  10,  1.  Frontin.  de  Umit.  p.  30  Lachmann. 

(2)  Unità  di  peso  maggiori  di  questa,  com'era  tra  i  Greci  il  talento,  gli  Ita- 
lici non  avevano  e  s'  accontentavano  computando  i  multipli  della  libbra  fino 
al  centusse  che  ne   pesa  cento. 

(3)  Sulla  derivazione  del  greco  \ÌTpo  dall'italico  v.  le  giuste  osservazioni  di 
W.  ScuuLZE  nella  '  Zeitschrift  '  del  Kuhn  XXXIII  (1893)  p.  226. 

(4)  Cfr.   Gamurrini  '  Mon.  Ant.  '   I  p.   157  segg. 

(5)  HuLTscii  Metrologie  *  p.  208. 

(6)  Forse  a  questo  modo  è  anche  da  spiegare  il  rapporto  semplice  che  s'è 
creduto  di  notare  tra  la  libbra  romana  ed  una  delle  tante  mine  babilonesi, 
V.  p.  e.  Leumann  '  Hermes  '  XXVII  (1892)  p.  548.  '  Beitriige  zur  alten  Geschichte  ' 
VI  (1906)  p.  525  segg. 


478  CAPO   XXIII.    -    CONDIZIONI    SOCIALI   ED    ECONOMICHE 

Il  piede,  lo  iug-ero,  la  libbra  hanno  denominazioni  di  carattere 
primitivo  elle  ne  dimostrano  l'anticliità;  artificiale  affatto  appare 
invece  anche  nella  sua  denominazione  l'unità  di  misura  della  ca- 
pacità pei  liquidi,  il  "  quadi"antal  „,  che  può  computarsi  in 
litri  26,26,  il  quale  teoricamente  è,  come  dice  lo  stesso  nome,  il 
cubo  del  piede,  praticamente,  secondo  il  ragguaglio  stabilito  dal 
Ijlebiscito  Silio,  una  misura  cai)ace  di  contenere  ottanta  libbre  di 
vino  (1).  Questa  misura,  che  era  conosciuta  al  tempo  di  Cicerone 
soprattutto  col  nome  derivato  dal  greco  di  anfora,  corrispondeva 
alla  metà  del  medimno  attico  e  ai  due  terzi  del  metrete;  e  nome 
derivato  dal  greco  avevano  i  suoi  sottomultipli,  il  congio  corri- 
spondente alla  chus,  il  ciato  (KuaGo^),  Tacetabulo,  il  cui  nome  tra- 
duce quello  greco  di  oxybaphon.  Per  gli  aridi  la  misura  più  usata 
era  il  moggio  {ìnodius)^  pari  ad  un  terzo  dell'anfora  e  quindi  ad 
un  sesto  del  medimno,  ossia  all'attico  hekteus.  Da  tutto  ciò  par 
debba  trarsi  che  gli  Italici  quando  cominciarono  a  usare  coi  Grreci 
avevano  già  propri  sistemi  di  misure  lineari,  di  superficie  e  di 
peso  che  avevan  formato,  se  non  di  jier  sé,  con  l'aiuto  degli 
Etruschi,  ma  non  avevano  ancora  sentito  Tesigenza  d'un  sistema 
di  misure  di  capacità  (2),  e  perciò  presero  queste  dai  Greci  e  le 
innestarono  artificialmente  sui  sistemi  preesistenti  di  x)esi  e  misure 
per  mezzo  del  ''  quadrantal  „,  introducendo  forse  al  tempo  stesso 
in  quei  sistemi  le  piccole  modificazioni  opportune. 

Una  specie  di  misura  del  valore  non  mancava  presso  gli  Indo- 
em'opei  primitivi  ed  era  costituita  dai  buoi  e  dalle  pecore  :  di  che 
lirove  evidenti  si  hanno  per  i  Grreci  nei  poemi  omerici  e  una  traccia 
presso  i  Latini  nella  parola  pecunia,  con  cui  s' indica  la  moneta, 
e  nell'uso,  sopravvissuto  a  lungo,  di  fissare  nominalmente  le  multe 
in  capi  di  bestiame  (3). 

Ma  col  diffondersi  dei  metalli  servirono  questi  come  mezzi  di 
scambio  e  misura  del  valore;  senonchè  la  rarità  dei  metalli  pre- 
ziosi fece  sì  che  nella  nostra  penisola  tale  ufficio  toccasse  al  ramo 
ed  al  bronzo:  e  questo  stesso  non  potè  avvenire  prima  che  il 
rame  cominciasse  ad  estrarsi  in  Italia,  o  almeno    ad  imi^ortarvisi 


(1)  Fkst.  p.  246  M  secondo  la  lettura  del  Hultsch  Metrologici  scriptores  II 
p.  78  seg.  :  ex  ponderibus  publicis  quibus  Iute  tempestate  populxs  oetier  solet  co- 
aeguator  se  dolo  malo  idi  quadrantal  vitti  octoginta  pondo  siet.  Cfr.  Hlltsch 
Metrologie^  p.  113  n.  4. 

(2)  Cfr.  Brandis  op.  cit.  p.  27. 

(3)  Varrò  de  re  r.  II  1,  9:  multa  etiam  nunc  ex  retere  instituto  biibus  et  oribus 
dicitur.  Sulle  norme  secondo  cui  si  faceva   la  riduzione  v.  sopra  p.  55. 


MISURE    DKL    VALORI-:.    AKS    RUDE  479 

in  pani  per  essere  lavorato.  Pani  di  rame  fuso  in  forma  di  pia- 
strelle si  rinvengono  fin  dalla  età  del  bronzo  ;  e  nei  ripostigli  poi 
della  più  antica  età  del  ferro  si  hanno  pani  di  rame  e  di  bronzo 
in  forma,  oltrecliè  di  piastrelle,  anche  di  lame  di  picconi,  di  bar- 
chette e  di  quadrilateri  (1),  Or  certo  siffatti  pani  non  eran  solo  né 
sempre  mezzi  di  scambio  ;  ma  appunto  perchè  potevano  adoperarsi 
e  si  adoperavano  in  effetto  a  scopo  industriale  (2),  servirono  anche 
come  equivalente  di  qualsiasi  altro  oggetto.  Di  ciò  fa  prova  la 
tradizione,  la  quale  asserisce  esplicitamente  che  il  metallo  senza 
contrassegno  {aes  rude)  fu  adoperato  dai  Romani  come  moneta 
prima  di  quello  fornito  di  una  marca  a  cura  dello  Stato  {aes  si- 
gnatum)  (3).  E  prova  chiarissima  n'  è  pure  la  ceremonia  della 
mancipazione  col  rame  e  la  bilancia,  dove,  per  simboleggiare  il 
metallo  che  si  sarebbe  dovuto  pesare,  si  toccava  la  bilancia  con 
un  pezzo  di  rame  non  segnato  {raudus  o  raudusculum).  Codesto 
uso  del  metallo  senza  impronta  come  mezzo  di  scambio  dev'essersi 
protratto  per  molto  tempo  anche  dopo  introdotta  la  moneta  vera 
e  prop)ria,  i30Ìchè  accanto  a  questa  si  trova  in  copia  di  quello  nei 
ripostigli.  E  come  un  equivalente  della  moneta  lo  consideravano 
senza  dubbio  i  soldati  di  Annibale  quando  ne  accumulavano  reli- 
giosamente acervi  nel  bosco  sacro  di  Feronia  (4)  o  i  devoti  pel- 
legrini che,  cercando  la  salute  alle  Acque  ApoUinari  j)resso  Vica- 
rello,  vi  lasciarono  un  diecimila  pezzi  di  metallo  non  segnato  (5). 
Col  procedere  della  età  del  ferro  cominciano  ad  apparu-e  pani 
quadrilateri  di  rame  o  di  bronzo  fusi  mediante  due  matrici  im- 
l^erfettamente  combacianti,  prima  anch'essi  senz'alcun  contrassegno, 
poi  con  una  nervatura  mediana  a  cui  di  frequente  se  ne  aggiun- 
gono altre  oblique,  dandole  l'aspetto  d'un  ramo  secco  o  d'una 
s^jina  di  pesce.  Questi  pani,  che  non  si  rinvengono  mai  interi, 
vanno  giudicati  certo  alla  stessa  stregua  dei  precedenti  ;  non  cosi 
però  le  sbarre  quadrangolari  di  metallo  fuse  più  regolarmente  tra 
due  matrici  e  fornite  d'impronta  che  cominciano  ad  apparire  al- 
quanto più  tardi,  forse  non  prima  del  IV  sec.  o  al  più  dal  termine 


(1)  PiGORiNi  'B.  di  P.  '  XXI  (1895)  p.  5  segg. 

(2)  Entro  questi  limiti  si  può  aderire  alla  teoria  del  Chierici  '  B.  P.  '  V  (1879) 
p.  148  segg. 

(3)  Plin.  n.  h.  XXXIII  43:  Servius  rex   primus   signuvit  aes.  antea  rudi  usos 
Romae  Timaeiis  tradii. 

(4)  Liv.  XXVII  11,  9. 

(5)  Marchi  e  Tkssikri  La  stipe   tributata    alle  divinità   delle  Acque  ApoUinari 
(Ptoma  1852). 


480  CAPO  xxnr.  -  condizioni  sociali  ed  economiche 


del  V.  I  tipi  svariatissimi  clie  presentano  neiruna  e  nell'altra  faccia, 
p.  e.  tripode  ed  àncora,  spada  e  guaina,  aquila  con  fulmine  e 
spada,  aquila  e  trij)ode,  elefante  e  scrofa,  polli  augurali  e  rostri 
di  navi,  aquila  con  fulmine  a  pegaso,  permettono  di  distinguerli 
in  parecchie  serie  d'origine  diversa  pel  tempo  e  pel  luogo  (1).  A 
giudicare  appunto  dai  tipi,  la  emissione  di  questi  quadrilateri  s'è 
protratta  fino  al  250  circa ,  perchè  la  serie  con  l'elefante  e  la 
scrofa  suppone  la  conoscenza  di  quell'animale  che  in  Italia  fu 
ignoto  fino  alla  guerra  di  PiiTO,  e  la  serie  con  polli  augurali  e 
rostri  di  navi  sembra  collegarsi  con  le  vicende  della,  prima  pu- 
nica (2).  Non  v'ha  dubbio  pertanto  che,  mentre  non  son  molto 
anteriori  nell'Italia  media  alle  emissioni  di  vera  e  propria  moneta, 
i  quadi'ilateri  con  impronta  si  sien  continuati  per  lungo  tempo  a 
fabbricare  insieme  con  la  moneta,  pur  dovendo  tenersi  per  fanta- 
stici i  tentativi  di  scoprire  precise  attinenze  tra  serie  di  quadrila- 
teri e  serie  determinate  di  monete  librali.  Ciò  rende  anche  più 
diffìcile  assodar  la  natura  di  questi  23ezzi  di  bronzo  (3)  :  X3ani  per 
fondere  non  possono  essere,  che  a  tal  uopo  era  inutile  contrasse- 
gnarli con  figure  talora  non  prive  di  valore  artistico;  che  si  emet- 
tessero soltanto  a  scopo  sacro  è  difficile  ritenere,  né  ben  si  con- 
cilia con  l'epigrafe  che  alcuni  di  essi  hanno,  la  quale  presuppone 
che  fossero  fatti  per  cura  e  per  uso  dello  Stato.  Né  possono  dirsi 
propriamente  moneta  pel  peso  variabilissimo,  per  l'assenza  di  un 
segno  indicante  il  valore,  per  la  frequenza  con  cui  se  ne  rinven- 
gono frammenti,  la  quale  sembra  provare  che  si  pesavano  anch'essi, 
non  si  contavano.  Va  pertanto  ritenuto  che  prima  d'adottar,  'sul- 
l'esempio dei  Greci,  vera  e  prox^ria  moneta,  Roma  ed  altri  Stati 
dell'Italia  centrale  (4)  presero  ad  emettere  per  la  paga  delle  mi- 
lizie o  per  usi  simili  codesti  quadrilateri,  senza  però  ancor  prov- 
vedere a  guarentirne  d'ufficio  il  peso  ed  il  valore  (5).  Il  natm-ale 


(1)  V.  le  riproduzioni  non  sempre  eseguite  nel  modo  migliore  di  Garrdcci 
Le  monete  dell'Italia  antica  1  (Roma  1885)  tav.  XIII-XXIV.  Alcuni  quadrilateri 
hanno  la  epigrafe  ROMANOM:  uno,  che  però  probabilmente  non  è  autentico, 
reca  H(ummus  ?)  ROMANOM  cfr.  Babelon  Monnaies  de  la  Rép.  Romainel  p.  8. 

(2)  Su  tutto  ciò  è  da  vedere  la  memoria  del  Milani  in  parte  fantastica,  ma 
ricca  di  osservazioni  importanti:  Aes  rude,  signatum  e  grave  rinvenuto  alla 
Bruna  presso  Spoleto  nella  '  Riv.  ital.  di    numismatica'  IV  (1891)  p.  27  segg. 

(3)  Sulla  questione  v.  anche  Baurfeldt  Das  Milnzfund  von  Mainz  (Berlin  1901,i. 

(4)  In  Dalmazia,  dove  se  ne  son  trovati  in  copia,  sono  certamente  importati. 

(5)  Questo  è  Vaes  signatum  di  cui  ci  ha  conservato  ricordo  la  tradizione, 
v.  Plin.  M.  h.  XVIII  12:  Servius  rex  ovium  bounique  effigie  pr ini um  aes  signavif. 


AES   SIGNATUM.   ORIGINE    DELLA   MONETA  481 

conservativismo  delle  popolazioni  poco  civili  fece  che  continuas- 
sero ad  esser  ricliiesti  e  perciò  anche  fabbricati  pur  quando  poteva 
aversi  invece  vera  moneta. 

Mentre  in  queste  condizioni  primitive  continuava  a  provvedersi 
nel  Lazio  ai  pagamenti  ed  agli  scambi  fino  alla  metà  del  sec.  IV, 
da  tempo  assai  remoto  vi  si  provvedeva  in  maniera  assai  meno 
imperfetta  nel  più  progredito  Oriente  (1).  I  Babilonesi  usavano  a 
tale  effetto  verghe  d'oro  e  d'argento,  e  almeno  dal  sec.  XV  ave- 
vano stabilito  fra  le  due  specie  metalliche  una  relazione  fissa,  per 
cui  a  parità  di  peso  l'oro  valeva  13  volte  e  '/s  più  dell'argento  (2j. 
Ma  neppm-e  essi  giunsero  a  creare  la  moneta,  ossia  a  guarentire, 
per  mezzo  di  una  marca  impressa  a  cm-a  dello  Stato,  il  peso  e  la 
pm-ezza  del  metallo.  A  questo  si  venne  intorno  al  principio  del 
sec.  Vn  in  territorio  ellenico  o  sottoposto  agli  influssi  benefici 
della  civiltà  ellenica,  vale  a  dire  nella  Lidia  (3)  e  nelle  più  fiorenti 
colonie  greche  dell'Asia  Minore.  Le  prime  monete  fm'ono  in  elettro, 
ossia  in  una  lega  d'argento  e  d'oro  (4);  ma  presto  si  prese  a  co- 
niai-e  in  argento  e  poi,  per  opera  di  Creso  o  di  Cii'o,  sulla  metà  del 
sec.  VI,  in  oro:  coniazione  che  servi  di  base  al  sistema  bimetallico 
adottato  da  Dario  per  tutto  l'impero  persiano  intorno  al  500.  Le 
città  ioniche  avevano  in  questo  mezzo  trovato  imitatori  nella 
madrepatria  greca,  dove  fin  dal  sec.  VII  si  aprirono  le  prime 
zecche  che  coniassero  in  Europa  moneta  d'argento,  quelle  di  Egina 
e  di  Calcide  nell'Eubea.  Nella  penisola  ellenica  si  fecero  d'allora 
in  poi  concorrenza  due  sistemi  monetari:  quello  eginetico  fondato 
sulla  di'amma  d'argento  pesante  (jiaxeia)  di  gr.  6,2  e  quello  eu- 
boico,  adottato  in  Atene,  fondato  sulla  dramma  leggera  (Xeniri) 
di  gr.  4,36,  che  presto  si  ridusse  a  gr.  4,32:  all'ultimo  s'accostava 
il  sistema  corinzio,  sol  che  esso  divideva  lo  staterò  d'argento  non 
in  due,  ma  in  tre  dramme,  per  modo  che  la  sua  dramma  era  pari 
a  due  terzi  della  dramma  euboica. 


Vabro  de  re  r.  II  1,  9.  de  vita  pop.  Rom.  ap.  Non.  p.  189:  aut  bovem  aut  ovem 
aut  vervecem  habet  signiim.  Plut.  Popi.  11.  Altri  testi  si  vedano  presso  Mar- 
QUARDT  Staatsverwaltung  IP  p.  6  n. 

(1)  Per  la  storia  della  moneta  in  generale  v.  Mommsen  Gescìiichtc  des  rom. 
Milnztvesens  (Berlin  1860),  trad.  francese  del  duca  di  Blacas  MV  (Paris  1865-75). 
Fr.  Lenormant  La  mannaie  dans  l'antiquité  I-Ill  (Paris  1878-1879).  Head  Hi- 
storia  numorum  (Oxford  1887).  Babelon  Tratte'  des  inonnaies  t/rer<fiies  et  ro- 
maines  (Paris,  in  corso  di  pubblicazione). 

(2)  Brandis  op.  cit.  p.  91  segg. 

(3)  Cfr.  Xenopuan.  ap.  Poll.  IX  83.  Hekod.  1  94. 

(4)  Cfr.  Plin.  n.  h.  XXXIII  23. 

G.  De  Sa.notis,  Storia  dei  Romani,  li.  31 


482  CAPO   XXIII.    -    CONDIZIONI    SOCIALI    KD    ECONOMICHI-; 

L'esempio  delle  città  più  progredite  dell'Eliade  fu  seguito 
dopo  qualche  tempo  dalle  colonie  greche  d'Occidente  (1).  Già  nella 
seconda  metà  del  sec.  VI  cominciarono  a  coniar  moneta  in  argento 
alcune  città  della  Magna  Grecia,  tra  cui,  e  questo  è  imiDortante 
indizio  cronologico,  Siri  e  Sibari,  distrutte  nel  corso  di  quel  se- 
colo. Il  sistema  generalmente  seguito  dalle  città  del  Ionio  era  il 
corinzio,  e  solo  intorno  al  500  Taranto  sostituì  al  corinzio  l'euboico, 
dividendo  in  due  anziché  in  tre  lo  staterò.  In  Sicilia,  dove  si  co- 
minciò a  coniare  forse  alquanto  più  tardi,  sebbene  pur  sempre 
entro  il  sec.  VI,  le  città  calcidesi  seguirono  sul  principio,  ed  è 
singolare,  non  il  sistema  euboico,  ma  quello  eginetico,  e  solo  col 
tempo  adottarono  il  primo;  Siracusa  invece,  sebbene  colonia  co- 
rinzia e  con  essa  le  altre  città  doriche,  le  quali  in  generale  co- 
minciarono ad  emetter  moneta  dopo  le  colonie  calcidesi,  fin  dal 
principio  si  attennero  al  sistema  euboico.  Cosi,  mentre  questo  si- 
stema si  diffondeva  in  Sicilia,  nella  calcidese  Regio  ed  a  Taranto, 
scompariva  interamente  da  quelle  regioni  la  valuta  eginetica  e  solo 
nell'Italia  achea  rimaneva  in  vigore  un  sistema  diverso,  ma  facil- 
mente riducibile  al  primo,  il  corinzio.  Diversamente  procedevano 
peraltro  le  cose  sulla  sponda  tirrenica  d' Italia.  Ivi  il  predominio 
commerciale  dei  coloni  focesi  di  Velia  e  più  di  Marsiglia  fece  si 
che  Cuma,  dopo  aver  coniato  secondo  il  sistema  eginetico  e  se- 
condo l'euboico,  vi  sostituisse  uno  staterò  argenteo  che  aveva 
riscontro  nell'Asia  Minore,  ma  non  nella  penisola  ellenica,  del 
peso  di  gr.  7,30  e  che  allo  stesso  sistema,  il  quale  suol  designarsi 
come  sistema  fenicio,  si  attenesse  più  tardi  Napoli. 

I  Greci  giungendo  in  Sicilia  avevano  trovato  colà  in  uso  come 
misura  del  valore  il  bronzo,  che  si  pesava  a  libbre  pari  ad  otto 
oncie  della  libbra  romana.  Onde  si  dovette  tosto  stabilire  un  rag- 
guaglio tra  il  bronzo  e  l'argento  con  cui  misui-avano  il  valore  i 
coloni;  e  si  fece  fissando,  a  parità  di  peso,  il  valore  dell'argento 
a  250  volte  quello  del  bronzo.  Perciò  la  libbra  di  bronzo  o,  come 
dicevano  i  Greci,  la  litra  siciliana,  che  pesava  la  metà  della  mina 


(1)  Sulla  numismatica  d'Italia  in  generale  v.,  oltre  le  opere  citate  a  p.  480 
D.  1  e  p.  481  n.  1,  Carelli  Niimoruin  Italiae  veteris  tahulas  CCII  ed.  Cave- 
DONi  (Lipsiae  1850),  antiquato.  A  catalogne  of  the  Greek  coins  in  the  Br.  Mu- 
seum.  Italy  (London  1873).  Beschreibung  der  antikcn  Miinzen  der  konigl.  Mu- 
seen  zu  Berlin  III  1  (Italien)  Berlin  1894.  Un'abbondante  raccolta  di  monete 
italiane  è  pure  in  Macdonald  Catalogne  of  Greek  coins  in  the  Hunterian  col- 
lection  (Glasgow  1899).  Come  lavoro  riassuntivo  è  da  citare  Sambon  Les  mon- 
naies  antiques  de  l'Italie  (Paris,  in  corso  di  pubblicazione). 


ORIGINK    DELLA    MONKTA  483 

attica  di  cento  dramme,  era  valutata  ad  un  quinto  della  dram.ma, 
di  guisa  che  il  didrammo  d'argento  equivaleva  a  dieci  libbre  di 
bronzo  e  si  chiamava  anche  decalitro  (1).  Per  facilitare  i  ragguagli 
tra  le  due  specie  m.etalliche,  la  dramma,  anziché  in  sei  oboli,  come 
si  faceva  in  Grecia,  fu  divisa  in  cinque,  equivalenti  ciascuno  ad 
una  litra ,  e  l'obolo  si  chiamò  nomos,  con  termine  che  corrisponde 
al  latino  numnius  (2).  Anche  in  Taranto  l'obolo  si  considerò,  come 
pare,  equivalente  alla  libbra,  sol  che  il  ragguaglio  tra  le  due  di- 
verse specie  metalliche  dovette  essere  alquanto  diverso  o  forse 
diversa  la  libbra  di  bronzo  a  cui  paragonarono  la  loro  moneta 
argentea  i  Tarentini,  perchè  si  conservò  a  Taranto  la  divisione 
della  dramma  in  sei  anziché  in  cinque  oboli  (3).  Ad  ogni  modo 
queste  condizioni  del  mercato  monetario  occidentale  spiegano  come 
in  Sicilia  per  la  x^rima  volta,  forse  intorno  al  425,  si  prendesse  a 
coniar  moneta  spicciola  in  bronzo,  moneta  che  poco  dopo  si  co- 
minciò a  diffondere  in  Grecia:  e  in  ciò  può  in  un  certo  senso 
vedersi  uno  dei  primi  esempì  di  reazione  della  civiltà  italica  sulla 
greca. 

Frattanto  la  moneta  aurea  persiana  aveva  da  molto  tempo 
trovato  buona  accoglienza  sul  mercato  greco  prima  che  nella  pe- 
nisola ellenica  si  cominciasse  a  coniare  in  oro.  L'esempio  ne  fu 
dato  da  Atene  verso  il  termine  del  sec.  V,  e  quasi  contemporanea- 
mente prese  a  batter  moneta  aurea  Siracusa.  Ma  nell'Italia  oc- 
cidentale le  relazioni  dirette  con  gli  Ioni  dell'Asia  Minore  avevano 
fatto  sì  che  già  si  coniasse  in  oro  prima  della  Grecia  propria.  Così 
qualche  rarissima  moneta  d'oro  sembra  aver  emesso  Cuma;  ed  è 
poi  indubitato  che  già  dal  principio  del  sec.  V  ne  coniarono  al- 
cune città  etrusche  (4).  Un  prodromo    quasi  a  siffatta  coniazione 


(1)  Aristot.  ap.  PoLL.  IV  174  seg.:  oi  IiKeXuÙTai  toù<;  |uèv  òùo  xc^koOi;  éSàvxo 
KaXoOoi,  TÒv  bè  èva  oòykiov,  tolk;  òè  rpeì^  rpiàvra,  rovc,  òè  ?S  ì^iaiXixpov,  tòv  bè 
òPoXòv  Xirpav,  tòv  òè  KopivGiov  OTarfjpa  òeKÓXixpov. 

(2)  V.  HoLTscH^  p.  659  segg.  Questo  è  da  ricavare  da  Aristot.  ap.  Poll.  IX  87: 
òùvaaQai  òè  tòv  voO|U|uov  (siceliotico)  Tpia  i*||LiiujpóXia.  Non  c'è  ragione  suffi- 
ciente per  stimare  con  Willers  '  Rhein.  Mus.'  LX  (1905)  p.  351  che  si  tratti 
di  un  equivoco.  Che  però  in  Taranto  il  termine  vó|uo<;  o  voOmuoc;  denotasse 
invece  lo  staterò  era  già  noto  da  Aristot.  ap.  Poll.  IX  80,  cfr.  Hultsch  Me- 
trologie'^ p.  675,  ed  è  ora  confermato  dalla  epigrafe  delfica  edita  dal  Bourguet 
'Bull,  de  corr.  Hell.  '  XXVII  (1903),  che  ragguaglia  100  vÓ|lioi  'iTaXiwTiKoi  ver- 
sati dagli  Eracleoti  d'Italia  a  124  dramme  eginetiche  e  4  oboli. 

(3)  Hultsch  p.  674  segg. 

(4)  Per  la  moneta  etrusca  v.  Deecke  D(tfi  etrui^kische  Miimiresen  in  '  Etrus- 
kische  Forschungen  '  II  (Stuttgart  1876). 


484  CAPO  XXIII.    -    CONDIZIONI   SOCIALI   ED   ECONOMICHE 

costituiscono  disclietti  d'oro  a  f accie  lisce  clie  si  rinvengono  in 
Toscana  già  nel  sec.  VI,  ai  quali  seguono  almeno  due  serie  di  vere 
e  proprie  monete  in  oro  con  testa  di  leone  d'aspetto  arcaico  e 
rovescio  liscio  ovvero  con  rovescio  liscio  e  testa  giovanile,  fornite 
le  une  e  le  altre  di  marche  indicanti  il  valore,  donde  si  trae  che 
la  moneta  di  gr.  1,40-1,42  equivaleva  a  25  libbre  di  bronzo.  Ma 
queste  emissioni  etrusche,  che  si  protrassero  forse  sino  alla  metà 
del  secolo  IV,  furono  scarsissime.  Importanti  emissioni  di  mo- 
neta am^ea  in  Europa  non  cominciarono  che  con  Filippo  II  di 
Macedonia;  e  nella  nostra  penisola,  tuttoché  già  Taranto  avesse 
coniato  in  oro  con  una  certa  abbondanza,  non  se  ne  ebbero  di  tali 
se  non  in  età  assai  i^iù  avanzata. 

Ma  se  scarsa  importanza  ebbe  la  coniazione  dell'oro,  non  cosi, 
anche  presso  gli  indigeni  d'Italia,  la  coniazione  dell'argento.  Essi 
infatti  accolsero  con  grande  favore  come  mezzo  di  scambio  la 
moneta  greca;  così  la  moneta  tarentina^  coniata  con  tale  abbon- 
danza che  vi  si  distinsero  non  meno  di  896  tipi  diversi  (1),  gua- 
dagnò i  mercati  dell' Apulia  e  dell'interno  del  Sannio  ;  del  pari  in 
Etruria  ebbero  larga  diffusione  le  monete  dell'Asia  Minore  e  le 
massaliote,  e  in  Campania  e  nel  Sannio  le  napoletane.  Perciò  si 
spiega  come  presto  gli  indigeni  pensassero  a  batter  moneta  d'ar- 
gento essi  stessi.  Ciò  accadde  intorno  al  450  tanto  in  Sicilia,  dove 
aprirono  zecche  varie  città  elime  e  sicule,  quanto  in  Etrm-ia.  Qui  la 
diversità  dei  tipi  mostra  che  si  coniò  per  parecchio  tempo,  forse  per 
due  secoli,  e  in  varie  città,  senza  che  ci  sia  dato  se  non  di  rado 
giungere  a  conclusioni  sicure  e  per  la  cronologia  e  per  la  topo- 
grafìa. I  sistemi  monetari  in  uso  erano  due,  Tattico-euboico  ed  un 
altro  la  cui  unità  era  una  dramma  di  gr.  5,70,  introdotto  probabil- 
mente per  effetto  delle  relazioni  commerciali  con  1'  Asia  Minore. 

Ma  tolta  l'Etruria  •  e  le  colonie  greche,  nessun'  altra  regione 
della  penisola  coniò  moneta  nel  sec.  V  ;  segno  evidente  della  infe- 
riorità economica  di  cui  cercammo  altrove  le  cagioni.  Solo  nel 
IV  secolo  cominciò  a  battersi  moneta  d'argento  e  scarsamente,  in 
poche  città  indigene  del  mezzogiorno,  nella  messapica  Alezio,  nella 
ignota  Fistelia  e  ad  Hja'ia  (Nola)  dapprima,  poi  ad  Allife  presso 
il  Volturno,  tra  il  Sannio  e  la  Campania,  nella  ignota  Fensernia, 
e  nella  poco  meno  ignota  Irnthi.  Come  monete  indigene  vanno 
altresì  considerate  quelle  col  nome  dei   Campani,  che  risalgono 


(1)  Cfr.  Evans  The  Horsemau  of  Tarent  nel  "  Num.  Chronicle  '  ser.  Ili  voi.  IX 
(1889)  p.  1  segg. 


ORiaiNE    DELLA   MONETA.    AES   GRAVE  485 

ancli'esse   al  400  circa,   dato  pm-e  che  siano  state  coniate  in  una 
zecca  greca. 

Tali  erano  le  condizioni  monetarie  dell'Italia  quando  i  Romani 
poco  dopo  la  metà  del  IV  sec.  si  aprirono  la  via  della  Campania. 
Il  parziale  dominio  d'una  regione  economicamente  assai  più  i3ro- 
gredita,  dove  la  misura  del  valore  era  costituita  dalla  moneta 
d'argento  greca  od  indigena,  e  il  frequente  soggiornare  colà  dei 
loro  soldati  indusse  i  Romani  a  coniare  per  la  prima  volta  mo- 
neta. Moneta  d'argento  peraltro  essi  non  vollero  o  non  poterono 
emettere  direttamente  e  per  la  scarsezza  dei  metalli  preziosi  in 
Roma  e  per  lo  spirito  conservativo  dei  contadini  romani  che  fece 
ad  essi  prediligere  i  j)ezzi  di  bronzo  senza  marca  o  i  quadrilateri 
segnati  anche  lungo  tempo  dopo  introdotta  la  moneta.  Si  credette 
di  trovare  un  opportuno  temperamento  tra  l'uso  antico  e  le  esi- 
genze nuove  introducendo  la  moneta  di  bronzo  non  come  moneta 
divisionaria  o  di  credito,  ma  con  un  valore  corrispondente  al  va- 
lore commerciale  di  quel  metallo,  guarentito  dalla  impronta  po- 
stavi a  cura  dello  Stato.  Cominciò  cosi  ad  emettersi  allora  l'asse 
librale  fuso  di  forma  lenticolare  (aes  grave)  (1).  Questa  prima 
moneta  romana  s'attribuiva  da  alcuni  all'età  regia  o  j^ersino  ai 
tempi  mitici  delle  origini;  ma  altri  già  nell'anticliità  sapevano 
che  non  era  molto  anteriore  alla,  metà  del  V  secolo;  e  alla  metà 
di  quel  secolo  (2)  e  più  proj) ri  amente  alle  dodici  tavole  credette 
di  riferirla  qualche  moderno.  Ma  un  attento  esame  delle  varie  re- 
dazioni in  cui  ci  sono  stati  trasmessi  i  frammenti  di  quelle  leggi 
dimostra  che  i  decemviri  vi  registravano  l'importar  delle  multe 
non  in  moneta,  ma  in  libbre  di  rame.  E  conforme  a  ciò  alla  se- 
conda metà  del  IV  secolo  ci  riporta  sia  il  tipo  del  Giano  bifronte 
che  appare  sul  diritto  dell'asse  librale  romano  e  che  nulla  ha  di 
arcaico,  sia  quello,  che  compare  sul  rovescio,  della  prora  fornita 
di  rostro,  che  diffìcilmente  poteva  essere  adottato  prima  della  de- 
duzione della  colonia  in  Anzio  e  prima  che  in  mano  dei  Romani 
cadessero  le  navi  degli  Anziati  e  coi  rostri  di  esse  fosse  ornato  il 


(1)  Fest.  epit.  p.  98  M:  grave  aes  dictum  a  pondere  quia  deni  asses,  singuli 
pondo  libras,  efficiebant  denarium.  Per  la  data  v.  Samwer  Geschichte  des  illteren 
rom.  Milnzwesens  herausg.  v.  Bahri-eldt  (Wien  1883).  Manca  una  raccolta  del- 
l'ars grave  romano  che  corrisponda  alle  esigenze  della  scienza.  Se  ne  attende 
una  dallo  HAEnERLix.  Ma  le  classificazioni  da  lui  proposte  nello  scritto  Zum 
corpus  numorum  aeris  gravis  (Berlin  1905)  non  paiono  del  tutto  soddisfacenti. 

(2)  MoMMSEN  Rom.  Milnzivesen    175. 


486  CAPO   XXIII.    -   CONDIZIONI   SOCIALI   ED   ECONOMICHE 

suggesto  degli  oratori  nel  Foro.  E  così  pare  evidente  die  la  fab- 
bricazione dell'asse  pesante  romano  debba  collegarsi  coi  primordi 
delle  guerre  sanniticlie. 

Introdotto  in  Roma  l'asse  pesante,  se  ne  diffuse  l'uso  in  buona 
parte  d'Italia  da  Venosa  a  sud  a  Todi  ed  a  Volterra  a  nord,  come 
mostrano  le  numerose  serie  che  s'banno  di  queste  monete,  fornite 
in  parte  del  nome  della  città  che  le  emetteva,  in  parte,  e  special- 
mente le  più  antiche,  senza  alcun  nome.  Certo  non  ijuò  dal  solo 
esame  dei  tipi  dimostrarsi  che  la  serie  più  antica  sia  quella  ro- 
mana; ma  come  tutto  fa  credere  che  le  altre  non  possano  in 
nessun  caso  essere  state  emesse  molto  prima,  la  posizione  emi- 
nente che  ebbe  Roma  nell'Italia  media  alla  metà  del  sec.  R"^  par 
che  sola  possa  darci  una  spiegazione  adeguata  della  diffusione  di 
questo  genere  di  monete  in  regioni  tra  cui,  per  le  condizioni  eco- 
nomiche e  civili  diversissime,  era  profondo  divario  e  dove  in  parte 
i  mezzi  di  scambio,  locali  o  importati,  erano  assai  superiori 
al  rozzo  asse  librale,  come  a  Volterra.  E  chiaro  infatti  che  il 
dover  praticare  frequentemente  per  le  ragioni  più  varie  coi  Romani 
e  il  dovere  inviar  loro  del  continuo  milizie  ausiliarie  potesse  far 
stimare  opportuna  a  città  alleate  o  a  colonie  latine  l'introduzione 
d'una  moneta  analoga  a  quella  usata  in  Roma. 

Ma  questa  moneta  di  bronzo  non  bastava  agli  usi  di  tutti  i 
cittadini  romani  e  in  particolare  dei  Campani,  il  cui  sviluppo  eco- 
nomico era  assai  superiore  a  quello  degli  abitanti  del  Lazio  ;  e  non 
provvedendo  in  qualche  modo  alle  loro  esigenze,  si  lasciava  libero 
il  campo  in  territorio  romano  alla  moneta  greca.  D'altra  parte 
gli  eserciti  romani  stanziavano  assai  frequentemente  presso  popoli 
avvezzi  alla  valuta  argentea;  e  le  relazioni  economiche  che  era 
indispensabile  stringere  pel  vettovagliamento  degli  eserciti,  per 
compensare  informazioni  ricevute  o  per  vendere  il  bottino  esige- 
vano anch'esse  l'uso  di  quella.  A  siffatte  esigenze  debbono  la  loro 
origine  monete  d'argento,  cui  si  collegano  serie  in  bronzo  battuto, 
con  la  leggenda  Romano  o  Roma^  che,  cominciate  a  coniarsi, 
come  pare,  nella  seconda  metà  del  IV  secolo,  si  continuarono  ad 
emettere  nella  prima  metà  del  seguente  e  che  si  rinvengono  in 
abbondanza  nel  Sannio  e  in  altre  regioni  dell'Italia  media  ed 
inferiore  (1).  Sulla   origine   precisa   di  queste  monete  si  è  molto 


(Ij  V.  Babklon  Monnaies  de  la  rép.  romaine  I  p.  10  segg.  con  le  aggiunte 
e  correzioni  del  Bahrfeldt  '  Riv.  ital.  di  numismatica  '  XII  (1899)  p.  387  segg. 
XIII  (1900)  p.  11  segg. 


MONETA   ROMANO-CAMPANA  487 

incerti.  Da  una  parte  i  tipi  e  la  notizia  antica  che  fa  risalire 
la  coniazione  argentea  romana  all'a.  269  mostrano  che  non  pos- 
sono essere  state  coniate  in  Roma  per  conto  dello  Stato.  Che  fos- 
sero battute  dai  comandanti  d'esercito  romani  come  moneta  mili- 
tare (1),  sebbene  non  manchi  d'analogie,  offre  pur  gravi  difficoltà; 
perchè  di  rado  assai  i  comandanti  romani  potevano  in  quell'età 
disporre,  sia  pm-e  tenendo  conto  del  bottino,  di  somme  tali  da 
poter  provvedere  ad  abbondanti  emissioni  di  moneta  d'argento. 
Par  più  verisimile  l'ipotesi  che  si  desse  invece  facoltà  di  coniarne 
per  proprio  uso  ed  a  proprio  conto  a  Capua  e  ad  altre  città 
della  lega  cami^ana  (2),  e  sembra  favorir  tale  opinione  la  so- 
miglianza che  è  tra  i  tipi  di  questi  coni  e  quelli  in  uso  a  Cales, 
Benevento  e  Teano.  Non  si  tratterebbe  di  vere  emissioni  governa- 
tive romane,  fatte  soltanto  in  Capua  anziché  a  Roma,  sia  perchè 
potrebbero  in  parte  opporvisi  le  ragioni  già  dette  sia  perchè  in  tal 
caso  j)rima  cura  del  governo  romano  sarebbe  stata  quella  di  sta- 
bilire un  rapporto  semplice  e  preciso  tra  le  monete  d'argento  e 
quelle  di  bronzo:  ma  non  è  escluso  né  che  il  governo  romano  in 
compenso  della  importante  concessione  fatta  ai  sudditi  campani 
si  riserbasse  su  di  essa  qualche  guadagno,  né  che  per  mezzo  di 
opportune  convenzioni  provvedesse  a  fornire  i  comandanti  romani 
nell'Italia  meridionale  di  una  quantità  di  moneta  campana  suffi- 
ciente agli  usi  della  guerra.  Quanto  simili  emissioni  fossero  indi- 
spensabili è  anche  dimostrato  dalle  nuove  zecche  che  s'aprirono 
intorno  al  300  nella  Campania  e  nel  Lazio  per  la  coniazione  di 
moneta  d'argento  ;  prova  di  cresciuto  benessere  e  di  progresso  eco- 
nomico. Cosi  mentre  continuavano  le  loro  emissioni  Napoli  e  Nola, 
prendevano  a  seguù-ne  l'esempio  le  città  alleate  di  Teano  Sidicino 
e  di  Nuceria  Alfaterna  e  le  colonie  latine  di  Suessa,  Cales,  iVlba 
Fucente,  Signi  a  e  Cora.  Più  a  mezzogiorno  poi  cominciarono  a 
batter  moneta  d'argento  le  confederazioni  dei  Lucani  e  dei  Bruzì 
e  le  città  apule  di  Teano,  Arpi,  Canusio,  Rubi  (Ruvo)  e  Celia 
(Ceglie).  La  diffusione  della  valuta  argentea  è  pur  presupposta 
dall'uso  che  andò  diffondendosi  anche  in  altre  città,  che  esse  stesse 
non  coniavano  in  metalli  preziosi,  della  moneta  divisionaria  in 
bronzo.  E  sembra  pei'fino  che,  se  non  una  vera  e  projjria  conven- 
zione, almeno  un  accordo  di  fatto  per  l'omogeneità  di  siffatta  mo- 
neta, fondato  sui   comuni  interessi  economici,  si  stabilisse  nel  se- 


(1)  È  la  ipotesi  del  Babelon  Monnaies  de  la  rép.  rom.  I  p.  XXIX  segg. 

(2)  Cfr.  MoMMSEN  Rom.  Miimioesen  114  segg.  212  segg.  340  segg. 


488  CAPO  xxrii.  -  coedizioni  sociali  ed  economiche 


colo  IH  fra  quattro  città  di  condizione  politica  e  di  nazionalità 
diversa,  la  greca  Napoli,  la  sannitica  Compulteria  e  le  colonie 
latine  di  Suessa  e  di  Esernia. 

Questo  stato  di  cose  non  poteva  non  avere  efficacia  sulla  mo- 
netazione romana  di  bronzo.  Grià  sul  principio  gli  assi  librali,  seb- 
bene molti  di  essi  pesino  più  di  dieci  oncie,  raggiungono  assai  di 
rado  il  peso  della  libbra.  Ma  anche  prescindendo  da  questo  calo, 
elle  potrebbe  dipendere  da  una  specie  di  diritto  di  conio,  presto 
l'asse  fu  ridotto  di  non  poco,  talché  intorno  al  300  divenne  trien- 
tale,  ossia  del  peso  di  quattro  oncie  (1).  In  ciò  si  manifesta  evi- 
dente la  tendenza  a  trasformarlo  in  semplice  moneta  di  credito, 
tendenza  che  doveva  dipendere  dal  diffondersi  anche  in  Roma 
della  moneta  d'argento;  inoltre  ridotto  a  questo  modo  l'asse  si 
potè  ora  anche  col  bronzo  provvedere  al  bisogno  sempre  crescente 
di  monete  che  rappresentassero  un  valore  maggiore:  e  mentre 
prima  non  s'erano  emessi  che  i  sottomultipli  dell'asse,  ora  si  fu  in 
grado  di  fabbricarne  i  multipli  sino  al  decusse.  Né  le  cose  pote- 
vano arrestarsi  a  questo  pmito:  all'asse  trientale  fu  presto  sosti- 
tuito il  sestantario,  del  x>eso  di  due  oncie,  durante  la  prima  guerra 
punica  secondo  le  nostre  fonti  (2),  o  piuttosto  qualche  anno  prima, 
come  sembra  dimostrare  l'esame  di  queste  monete.  Infatti  il  con- 
fronto tra  certi  segni  di  zecca  che  si  riscontrano  nell'asse  sestan- 
tario e  nella  più  antica  moneta  d'argento  romana  (3)  fa  ritenere  che 
l'asse  sestantario  s'introducesse  nello  stesso  anno  269  o  268  in  cui  si 
prese  per  la  prima  volta  in  Roma  a  coniar  moneta  d'argento  (4). 
Pertanto,  compiuta  la  conquista  d'Itaha,  pochi  anni  prima  d'iniziare 


(1)  La  riduzione  ineritale  non  è  menzionata  dagli  antichi,  pei  quali  dall'asse 
librale  si  passò  senza  transizione  al  sestantario. 

(2)  Fest.  epit.  p.  98  M:  sed  bello  Punico  popuhis  Romanus  pressus  aere  alieno 
ex  singuUs  asaibus  librariis  senos  fecit  qui  tantundem  ut  illi  valerent.  Cfr.  p.  347. 
Plin.  n.  h.  XXXIII  44  :  librale  nutem  pondus  aeris  imminutiim  est  bello  Punico 
primo  Clini  inpensis  res  p.  non  sufficeret  constitutumque  ut  asses  sextantario  pon- 
dere  ferirentur....  postea  Hannibale  urguente  Q.  Fabio  Maximo  dictatore  asses 
iinciales  facti.  V.  anche  Mommsen  Rorn.  Munzivesen  p.  288  n.  14. 

(3)  Questa  osservazione  è  del  Samwer.  V.  la  tavola  da  lui  data  a  p.  90  segg. 
della  mem.  cit.  Sulla  questione  complessa  delle  riduzioni  dell'asse  romano 
V.  anche  lo  scritto  citato  dal  Haeberlin  e  K.  Reglixg  Zum  alteren  rom.  und 
ital.  Miimwesen  '  Beitriige  zur  a.  Geschichte  '  VI  (1906)  p.  489  segg. 

(4)  Plin.  1.  cit.:  argentum  signatum  anno  urbis  CCCCLXXXV  Q.  Ogulnio 
C.  Fabio  COS.  (a.  269).  Liv.  epit.  15  ne  parla  dopo  la  deduzione  delle  colonie 
di  Arimino  e  di   Benevento. 


KTDUZIOXE    dell'asse.    IL    DENARO  489 

la  grande  lotta  con  Cartagine,  lo  Stato  romano  avverti  la  neces- 
sità di  rinunciare  al  suo  monometallismo,  pur  attenuato  com'era 
dalla  coniazione  romano- campana,  ed  emise  contemporaneamente 
moneta  di  bronzo  e  d'argento  con  rapporto  fìsso.  Nel  nuovo  sistema 
la  maggior  moneta  d'argento,  del  peso  originario  di  gr.  4,55  ossia 
di  V72  della  libbra  romana  (1),  fu  riconosciuta  come  equivalente 
a  dieci  assi  (sestantarì)'  e  detta  perciò  denaro  (2).  E  cosi  questo  si- 
stema può  considerarsi  a  buon  diritto  come  bimetallico;  perchè  il 
valore  dell'argento  vi  era  ragguagliato  a  parità  di  peso  a  120 
volte  quello  del  rame,  il  rapj)orto  stesso  che  esisteva  allora  nel- 
TEgitto  tolemaico  e  che  non  si  discostava  probabilmente  dal  rap- 
porto effettivo  tra  il  valore  commerciale  dei  due  metalli.  Ciò 
mostra  che  la  tendenza  a  trasformare  l'asse  in  moneta  di  credito 
ri  ducendone  il  peso  era  stata  controbilanciata  fino  allora  dall'altra 
a  svalutare  l'asse  man  mano  che  il  peso  ne  diminuiva;  di  guisa 
che  al  nuovo  asse  era  riconosciuto  ben  minor  valore  che  all'antico: 
tanto  ciò  è  vero  che  nelle  multe  fissate  da  leggi  anteriori  in  libbre 
di  rame  o  in  assi,  non  si  considerò  ])m  Tasse  come  pari  al  decimo 
del  denaro,  ma,  con  opportuno  temperamento,  come  equivalente  al 
sesterzio,  moneta  eguale  ad  un  quarto  di  denaro  che,  come  dice  il 
suo  stesso  nome,  valeva  due  assi  e  mezzo  della  nuova  valuta  di 
bronzo.  Solo  al  periodo  seguente  era  riservato  di  veder  la  ridu- 
zione del  bronzo  a  vera  moneta  di  credito  e  al  tempo  stesso  la 
prima  emissione  aurea  per  parte  dello  Stato  romano.  Quanto  alla 
moneta  d'argento,  il  suo  peso  nel  269  era  stato  scelto  evidente- 
mente per  metterla  in  corrispondenza  con  la  dramma  di  valuta 
attica  dei  successori  di  Alessandro;  e  il  j)iccolo  soprappiù  era 
destinato  ad  agevolarle  la  conquista  del  mercato  mondiale.  Ad 
altro  periodo  spetta  e  la  sua  riduzione  e  il  pieno  svolgimento 
degli  effetti  della  coniazione  argentea  romana;  perchè  se  è  da 
credere  che  tosto  Roma  sospendesse  la  coniazione  della  moneta 
d'argento  romano-campana,  pur  compensando  in  qualche  modo  i 
Campani  del  danno  che  ne  ebbero,  solo  a  poco  a  poco,  inabili  a 
reggere  alla  formidabile  concorrenza  romana,  si  chiusero  le  zecche 
delle  città  alleate  e  delle  colonie  latine. 

L'insufficiente   sviluppo   della   circolazione  metallica  in  Roma 


(1)  Questo  ragguaglio  fu  rilevato    per  la  prima  volta  dal  Borghesi  Oeuvres 
11  p.  288.  Cfr.  HuLTSCH  Metrologie^  p.  270  n.  1. 

(2)  Plin.  1.  cit.:  et    placuit    denarium   prò  X  libris   aeris    valere,    qiiinarium 
prò   V,  sestertium  prò  dupondio  ac  semisse. 


490  CAPO  xxin.  -  condizioni  sociali  ed  economiche 

fino  alla  metà  del  sec.  IV  fu  una  delle  cagioni  delle  sofferenze 
della  plebe  e  promosse  l'abuso  dell'usura  (sopra  p.  2  segg.)  e  per 
naturale  reazione  le  leggi  che  la  restrinsero  e  poi  l'abolirono.  Di 
siffatte  leggi  proibitive  la  più  antica  sarebbe  stata  già  nelle 
dodici  tavole,  le  quali  avrebbero  permesso  soltanto  l'interesse  un- 
ciario  (fenus  unciariwm)^  ossia  quello  che  non  superava  ^/u  annuo 
del  calcitale  (8  '/a  P-  %)  (1)?  o  persino  avrebbero  del  tutto  vietato 
il  prestito  ad  interesse  condannando  il  creditore  a  restituii'e  il 
quadruplo  degli  interessi  ricevuti  (2).  Le  due  notizie  son  forse  da 
conciliare  nel  senso  che  la  condanna  del  quadniplo  colpiva  sol- 
tanto clii  avesse  oltrepassato  il  saggio  legale  dell'interesse;  e  del 
resto,  sebbene  i  prestiti  dovessero  farsi  circa  la  metà  del  sec.  V 
in  natura  e  non  in  denaro,  non  è  x)untó  inverisimile  che  il  legis- 
latore cercasse  fin  d' allora  di  attenuare  una  delle  più  gravi  ca- 
gioni del  malessere  della  plebe  :  lo  sfruttamento  di  essa  per  parte 
degli  incettatori  di  granaglie.  Questa  legge  delle  dodici  tavole, 
se  pur  fu  realmente  ]3romulgata  e  non  è  un' anticijD  azione  delle 
posteriori  leggi  proibitive,  dovette  peraltro  cadere  in  disuso  quando 
i  prestiti  in  natura  per  cui  essa  era  fatta  cominciarono  ad  essere 
sostituiti  dai  più  agevoli  e  più  pratici  prestiti  in  metallo.  Allora 
la  relativa  facilità  di  questi  prestiti  era  un  incentivo  a  contrarre 
debiti,  mentre  la  insufficienza  della  cii^colazione  metallica  teneva 
alto  il  saggio  dell'interesse,  e  il  debitore  che  non  riusciva  a  pa- 
garlo sottostava  agli  effetti  gravissimi  del  "nexum,,. 

Ciò  spiega  come  la  storia  e  la  leggenda  del  IV  secolo  siano 
piene  di  notizie  intorno  ai  debiti.  Cosi  l' aver  cercato  di  far  can- 
cellare i  debiti  della  plebe  è  additato  come  una  delle  ragioni 
della  condanna  di  Manlio  (3)  ;  e  tra  le  leggi  Licinie  Sestie  se  ne 
menziona  una  secondo  cui  gii  interessi  pagati  dai  debitori  si  sa- 
rebbero  dovuti   detrarre  dal   capitale;  ma  di  queste  due  notizie 


(1)  Tac.  ann.  VI  16:  nam  primo  diiodecim  tabulis  sanctum  ne  qiiis  unciario 
fenore  amplìus  exerceret,  cum  antea  ex  libidine  locupletium  agitaretur,  dein  roga- 
tione  tribunicia  ad  seniuncias  redactum,  postremo   vetita  versura. 

(2)  Cato  de  agricult.  1  :  maiores  nostri  sic  habuerunt  et  ita  in  legibus  posi- 
verunt  furem  dupli  condemnari  feneratorem  quadrupli:  dove  sembra  evidente 
che  Catone  voglia  riferirsi  alle  dodici  tavole.  Della  questione  tratta  assai  ac- 
curatamente BiLLETER  Geschichte  des  Zinsfusses  in  griechisch-romischen  Altertum 
(Leipzig  1898)  p.  114  segg.,  col  quale  in  generale  non  convengo  nelle  conclusioni. 

(3)  Appian.  Ital.  9:  èpoùXeuaev  xpeiwv  àiroKOTidn.  V.  anche  Liv.  VI  14.  Auct. 
de  vir.  ili.  24,  5, 


IL    SAGGIO   dell'interesse  491 

nessuna  fede  merita  la  prima  (sopra  p.  195)  e  ben  poca  la  seconda 
(p.  217).  E  invece  sicuramente  storico  il  plebiscito  Duillio  Menenio 
del  357  che  permetteva  soltanto  l'interesse  unciario  (1),  sia  che 
rinnovasse  con  altra  sanzione,  cioè  una  multa  imposta  dagli  edili  (2), 
il  divieto  delle  dodici  tavole  caduto  in  disuso  pel  mutar  delle 
condizioni,  sia  che  per  la  prima  volta  ponesse  all'usuila  quel  li- 
mite che  per  anticipazione  si  sarebbe  attribuito  ai  decemviri.  Né 
v'è  ragione  per  dubitare  che  si  creassero  nel  352,  conforme  asse- 
risce la  tradizione,  cinque  magistrati  straordinari  {quinqueviri 
mensarii)  incaricati  di  fornire  per  conto  dello  Stato,  ma  su  mal- 
leveria, anticipazioni  pei  debitori  morosi  (3).  Senonchè  lo  stesso 
interesse  unciario,  per  quanto,  in  XDroporzione  della  scarsezza  del 
denaro,  non  soverchio,  era  ancor  tropiDO  jDei  dottrinari  plebei,  i 
quali  credevano  di  vedere  il  rimedio  a  tutti  i  mali  nell'abolizione 
dell'interesse;  e  mirava  già  evidentemente  a  questo  scox)o  il  ple- 
biscito che  riduceva  nel  347  l'interesse  alla  mezza  oncia  {fenus 
semuììciarium)^  ossia  ad  V24  annuo  del  capitale  (4  Ve  P-  %)  (4), 
preparando  il  plebiscito  G-enucio  che  nel  342  aboliva  addirittm-a 
il  prestito  ad  interesse  (5).  Se  questa  abolizione  fosse  stata  effi- 
cace, avi^ebbe  avuto  per  effetto  di  distruggere  il  credito  e  quindi 
di  rovinare  senza  rimedio  i  piccoli  x3roprietari  privi  di  riserve  in 
denaro  a  cui  per  un  anno  fosse  andato  a  male  il  raccolto.  In 
realtà  essa  ebbe  il  solo  effetto  di  far  si  che  il  creditore  si  salva- 
guardasse per  mezzo  d'un  prestanome  latino  0  peregrino,  e  prati- 


(1)  Liv.  VII  16,  1.  Sul  significato  del  fenus  unciarium  v.  Billeter  op.  cit. 
p.  137  segg.  Beloch  art.  Zinsfuss  nel  '  Handworterbuch  der  Staatswissen- 
schaften  '  del  Conrad  Supplbd.  II  1002  segg. 

(2)  I  primi  processi  edilizi  contro  gli  usurai  son  ricordati  pel  345,  Liv.  VII 
28,  9.  Cfr.  Plin  n.  h.  XXXIII  19:  Flavius  ex  multaticia  (pecunia)  faeneratoribus 
condemnatis  aediculam  aeream  fecit.  Liv.  X  23.  XXXV  41. 

(3)  Liv.  VII  21.  Questo  provvedimento  si  ripetè  anche  dopo  la  battaglia  di 
Canne.  Contrassegno  di  verità  è  che  tra  i  quinqueviri  per  omnium  anncdium 
monumenta  celehres  non  ricorre  nessun  Valerio  e  nessun  Licinio.  V.  Mommsen 
Staatsrecht  III  '  p.  640  segg. 

(4)  Liv.  VII  27,  3:  semunciarium  tantum  ex  unciario  fenus  factum  et  in  pen- 
siones  aequas  triennii  ita  ut  quarta  praesens  esset  solutio  aeris  alieni  dispensata 
est.  Che  si  trattasse  di  un  plebiscito  dimostra  non  solo  l'analogia,  ma  anche 
la  testimonianza  esplicita  di  Tacito,  v.  sopra  p.  490  n.  1. 

(5)  Sopra  p.  225  n.  1.  Che  questo  plebiscito  sia  stato  approvato  è  detto  im- 
plicitamente   da    Livio,    esplicitamente    da   Tacito,    v.    Billkteu   op.    cit.   pa- 


492  CAPO   XXIII.    -    CONDIZIONI    SOCIALI   ED   ECONOMICHE 

casse  a  questo  modo  Fiisura  con  piena  libertà  (1).  Più  efficace  a 
favore  dei  debitori,  X3er  quanto  di  natura  affatto  diversa,  fu  una 
legge  promulgata  intorno  ai  tempi  della  seconda  sannitica  (2). 
che  se  non  vietò  il  contratto  sotto  la  forma  del  "  nexum  „,  almeno 
ne  attenuò  di  molto  le  conseguenze,  e  se  non  abolì  la  esecuzione 
personale,  la  subordinò  almeno  a  restrizioni  e  cautele  (3),  Del 
resto  le  dissensioni  provocate  dai  debiti  non  cessarono  con  queste 
leggi  :  sappiamo  infatti  che  anche  sul  principio  del  sec.  Ili  il  mal- 
contento dei  debitori  fu  una  delle  cagioni  della  secessione  della 
plebe  sul  Gianicolo  sedata  dal  dittatore  Ortensio  (sopra  p.  231). 

Ma  non  quelle  leggi  inefficaci  rialzarono  il  medio  ceto  romano, 
si  il  miglioramento  generale  delle  condizioni  economiche  e  pei 
naturale  progresso  e  più  per  l'effetto  delle  guerre  fortunate  con 
le  assegnazioni  di  terreno  e  Taffluii'e  di  capitali  in  Roma  che  ne 
fui'ono  la  conseguenza.  Tale  affluire  di  capitali  cominciò  ad  esser 
sentito  poco  prima  che  si  prendesse  a  coniarvi  in  argento,  ed  è 
nel  vero  Fabio  Pittore  quando  dice  che  i  Romani  ebbero  a  cono- 
scere la  ricchezza  dopo  la  sottomissione  dei  Sabini,  ossia,  come 
deve  intendersi,  dei  Sanniti  (4).  Il  fatto  indubitabile,  per  quanto 
possa  sembrare  aneddotico,  della  espulsione  dal  senato  di  P.  Cor- 
nelio Rufino  console  nel  290  e  nel  277  e  uomo  di  sperimentato 
valore,  che  fu  pronunciata  da  C.  Fabricio    come  censore  nel  275, 


(1)  Molto  dopo,  nel  193,  si  cercò  di  ovviarvi  col  plebiscito  Sempronio  ut  citm 
sociis  ac  nomine  Latino  creditae  pecuniae  ius  idem  quod  cnm  civihus  Romanis 
esset  (Liv.  XXXV  7).  Ma  un  simile  provvedimento  sarebbe  stato  impossibile 
nel  IV  secolo,  date  le  relazioni  affatto  diverse  che  allora  stringevano  i  Romani 
con  gli  alleati. 

(2)  Secondo  Liv.  Vili  28  proposta  dai  consoli  C.  Petelio  e  L.  Papirio  nel 
326,  secondo  altri  posteriore  al  disastro  caudino  (Dionys.  XVI  4,  8  =  Suid.  s.  v. 
rdioq  AaiTd;pio<;.  Val.  Max.  VI  1,  9).  Cfr.  Varrò  del.  l.  VII  105.  La  cronologia 
di  Livio  sembra  preferibile:  l'altra  non  pare  avere  altro  fondamento  che  un 
particolare  aneddotico  senza  valore. 

(3)  Liv.  1.  e:  ne  quis  nisi  qui  noxam  meruisset  donec  poenam  lueret  in  com- 
jìedibns  aut  in  nervo  teneretur,  pecuniae  creditae  bona  dehitoris  non  corpus  ob- 
noxium  esse.  Cfr.  Varrò  1.  e.  Cic.  de  re p.  Il  34,  59.  Vi  sono  però  non  pochi  testi 
i  quali  dimostrano  che  le  asserzioni  delle  fonti  vanno  prese  anche  qui  cum 
grano  salis  e  che  la  esecuzione  personale  non  fu  abolita.  V.  Sall.  Catti.  88. 
Gell.  n.  A.  XV  1,  51.  Cfr.  la  così  detta  lex  Rubria  e.  21  e  22.  Lex  col.  Gene- 
tivaeQl,  etc.  V.  Padelletti-Cogliolo  St.  del  dir.  Romano  p.  257  n.  /"  e  p.  841  seg. 

(4)  Fr.  20  Peter  ap.  Strab.  V  p.  228  C:  'PuJiaaiouc  aìoGéaSai  toO  ttXoùtou 
TÓT6  TTpuJTov  ÒTE  ToO  ?9vou^  TOÙTOu  (dci  Sabini)  KOT^arriaav  KÙpioi. 


PROCJRKSSO   ECONOMICO.    CENTRI    DI    ]>OPOLAZIONE  493 

perchè  s'era  creduto  lecito  di  tenere  per  dieci  lib})re  di  vasellame 
d'argento  sulla  sua  tavola  (1),  mostra  da  una  parte  come  pren- 
desse ad  accrescersi  l'uso  dei  metalli  preziosi  in  Roma,  dall'altra 
come  questa  necessaria  conseguenza  delle  guerre  vinte  dai  Romani 
scandolezzasse  quelli  cli'eran  più  tenaci  del  costume  antico.  Aned- 
dotico, ma  pur  caratteristico  è  ciò  che  si  narra  del  contempo- 
raneo M'.  Curio  (2).  Ambasciatori  sanniti  andati  a  visitarlo  nel  mo- 
desto poderetto,  che  aveva  nel  paese  dei  Sabini  da  lui  conquistato, 
lo  trovarono  seduto  accanto  al  focolare,  che  s'allestiva  da  sé  il  suo 
pasto  frugale;  e  alla  loro  offerta  d'oro  egli  rispose  che  non  ne 
aveva  bisogno  e  preferiva  comandare  a  quelli  che  ne  possedevano. 
Vero  o  no,  questo  aneddoto  mostra  come  la  pensassero  allora  i  più 
rigidi  tra  i  Romani  e  come  al  tempo  stesso  la  loro  semplicità  co- 
minciasse a  parere  antiquata.  Ma  l'affluenza  di  denaro  fu  gra- 
duale e  misurata,  poiché  non  v'erano  in  Italia  popoli  che  si  sfrut- 
tassero per  mezzo  di  tributi.  E  perciò  non  ebbe  quegli  effetti 
esiziali  che  ha  l'improvviso  e  smodato  arricchimento  presso  gl'in- 
dividui come  presso  i  popoli  quand'esso  non  è  in  proporzione  col 
crescere  delle  esigenze  di  carattere  più  elevato  per  effetto  della 
cultura,  n  moderato  affluire  di  capitali  finché  viveva  e  prospe- 
rava il  robusto  medio  ceto  agricolo  latino,  anziché  dare  origine  ad 
un  cai^italismo  avido  e  sfruttatore,  poteva  preparare  il  progresso 
dell'agricoltura  e  deirindustria,  mentre  lo  sviluppo  della  circola- 
zione ijermetteva  anche  al  contadino  d'accumulare  risicarmi  che 
valessero  a  salvarlo  dall'usura  meglio  dei  divieti  legali  facili  ad 
eludersi  giocando  di  sotterfugi. 

Il  progresso  economico  dell'Italia  in  questa  età  si  dimostra 
anche  neirincremento  che  vennero  prendendo  i  centri  cittadini,  in- 
cremento a  cui  contribuirono  del  resto  in  larga  misura  i  Romani 
con  la  frequente  fondazione  di  colonie  latine  (3).  Il  formarsi  delle 
prime  città  in  Italia  é  anteriore  probabilmente  alle  più  antiche 
colonie  greche  nella  penisola.  Infatti  eran  già  piccole  città  alcune 
delle  più  ampie  terremare  (I  p.  122) ,  e  anche  a  maggior  diritto 
può  chiamarsi  tale  l'antichissima  Felsina,  sin  dai  primordi  della 
età  villanoviana  (I  p.  154).   Il  rapido    sviluppo    del   commercio   e 


(1)  Val.  Max.  II  9,  4.  Gell.  «.  A.  IV  8,  7.  Dionys.  XX  13  etc. 

(2)  Val.  Max.  IV  3,  5.  Plin.  n.  h.  XIX  87.  XXXVI  111.  Flou.  I  13,  22.  Lo 
stesso  aneddoto  viene  narrato  di  C.  Fabricio  da  Frontin.  strat.  IV  3,  2.  Cfr. 
anche  Hygin.  fr.  3  Peter.  Moltissimi  altri  accenni  sono  sparsi  nelle  fonti 
(ilassiche. 

(3)  V.  Beloch  Le  città  dell'Italia  antica  in  'Atene  e  Roma'  1(1898)  nr.  6. 


494  CAPO    XXIII.    -    COXDIZIOXl    SOCIALI    ED    ECOXOMICHE 

della  industria  in  Etrmna  fece  sì  che  ivi  già  dal  VII  o  dal  VI  se- 
colo cominciassero  a  formarsi  città  relativamente  considerevoli,  che 
sul  principio  potevano  competere  con  le  maggiori  colonie  greche. 
Cosi  già  prima  del  sec.  V  Cere  si  estendeva  per  120  ettari,  Vetu- 
lonia  pure  per  120,  Volterra  per  130,  Tarqninì  i^er  150,  Volci  per  180 
(I  p.  151)  e  forse  sopra  un'area  anche  più  grande  Veì  (II  ]).  125). 
Eguale  o  maggiore  ampiezza  raggiunsero  nel  V  e  nel  IV  secolo 
le  colonie  della  Magna  Grecia.  Di  queste  la  dorica  Taranto  al 
tempo  di  Pirro  primeggiava  per  estensione  fra  le  città  della  pe- 
nisola italiana  racchiudendo  entro  le  sue  mura  non  meno  di  570 
ettari  di  terreno,  che  del  resto,  non  tutto  coperto  di  case,  s'era 
dovuto  in  parte  comprendere  nelle  fortificazioni  per  semplici  ra- 
gioni militari  (1).  Soltanto  il  secondo  posto  aveva  Roma  tra  le 
città  italiane  per  lo  spazio  racchiuso  entro  le  mura,  che  dalla 
metà  del  sec.  IV  saliva  a  circa  430  ettari.  Non  giungeva  ad  oc- 
cupare neppure  il  terzo  Capua  con  180  ettari,  essendo  superata 
anche  da  altre  città  greche.  Nessuna  città  della  penisola  poteva 
poi  paragonarsi  con  Siracusa,  che  racchiudeva  entro  le  mura  co- 
struite da  Dionisio  il  Vecchio  1800  ettari,  di  cui  peraltro  solo  una 
quarta  parte  erano  abitati. 

Qualsiasi  calcolo  sulla  popolazione  di  queste  città  non  può  riu- 
scii'e  che  assai  malsicuro  x)er  difetto  di  dati.  Tuttavia  non  ci  al- 
lontaneremo molto  dal  vero  attribuendo  centomila  abitanti  a 
Roma  cù^ca  il  tempo  della  guerra  di  Pirro,  e  ritenendo  che  le 
fossero  di  parecchio  inferiori  le  due  altre  più  popolose  città  ita- 
liane, Taranto  e  Capua  ;  delle  quali  Capua  contava  verisimilmente 
75.000  abitanti  al  tempo  della  guerra  annibalica  (2),  Taranto 
50-60  mila  (3);  e  poiché  è  probabile  che  dalla  guerra  di  Pirro  la 
popolazione  di  Capua  dovesse  essere  aumentata,  diminuita  quella 
di  Taranto,  è  verisimile  che  si  debbano  ascrivere  intorno  al  280 
70.000  abitanti  circa  a  ciascuna  di  esse.  Un  po'  meno  erano  jjopolate 
Arpi  e  Canosa  nelle  Puglie,  importanti  peraltro  anch'esse  tanto 
che  superavano  per  estensione,  a  quel  che  ci  vien  detto,  tutte  le 


(1)  PoLYB.  Vili  30,  5-8. 

(2)  La  prefettura  campana  contava  34.000  maschi  adulti  secondo  Liv.  XXIII  5 
cfr.  Beloch  Bevolkerung  p.  419.  Tenuto  conto  degli  schiavi  e  dei  peregrini 
vi  saranno  stati  almeno  150.000  abitanti,  di  cui  la  metà  forse  in  Capua,  la  sola 
grande  città  che  vi  era  compresa. 

(3)  Dacché  Q.  Fabio  Massimo  conquistandola  nel  209  potè  vendere  schiavi 
80.000  de'  suoi  abitanti. 


C'KXTKI    DI    POI'OLAZIONK  495 

città  italiche  prescindendo  dalle  colonie  greche  (1)  ;  sicché  ad  esse 
e  alla  potente  colonia  latina  di  Venosa  (sopra  p.  363)  converrà 
ascrivere  un  50.000  abitanti  o  poco  meno:,  altrettanti  o  quasi  do- 
vevano pure  averne  le  etrusche  Cere  e  .Volterra,  e,  innanzi  alla 
guerra  del  265,  Volsini.  Volci  e  Tarquinì,  che  prima  avranno  pro- 
babilmente raggiunto  una  tal  popolazione,  private  di  buona  parte 
del  territorio  e  danneggiate  dalle  guerre  sostenute  ripetutamente 
con  Roma,  dovevano  essere  in  decadenza.  Fiorivano  invece  a  sud 
di  Roma,  accostandosi  verisimilmente  anch'esse  a  quel  numero  di 
abitanti,  la  sidicina  Teano  e  Fregelle  che  si  preparava  a  divenire 
la  prima  tra  le  colonie  latine. 

Oltre  questi  centri  maggiori  non  mancavano  nell'Etruria,  nella 
Campania  e  nella  Magna  Grrecia  centri  minori  di  notevole  impor- 
tanza :  ne  difettava  invece  il  Lazio  antico  in  cui,  doxjo  Roma,  non 
v'era  che  un  altro  centro  di  qualche  conto,  Ardea  (I  p.  182),  il  Sannio, 
fatta  eccezione  per  Benevento,  la  Sabina  e  il  Piceno,  dove  sola 
città  un  po'  considerevole  era  Ancona.  A  settentrione  poi,  in  ter- 
ritorio non  soggetto  al  predominio  romano,  i  centri  cittadini  erano 
scarsissimi;  talché  forse  innanzi  al  princiiDÌo  della  prima  punica 
al  nord  di  Rimini  e  di  Pisa  meritavano  nome  di  città  sul  versante 
adriatico  soltanto  l'italica  Ravenna,  la  gallica  Bononia,  l'etrusca 
Mantova,  le  venete  Ateste,  Adria  e  Patavio  e  sul  versante  .tirreno 
al  più  la  ligui'e  Grenova. 

Frattanto  la  unificazione  d'Italia,  assicurando  piena  pace  per 
la  prima  volta  agli,  abitanti  della  penisola  e  facilitando  le  comu- 
nicazioni e  gli  scambi  tra  essi,  pareva  dover  favorire  il  progresso 
economico  di  tutti  :  tanto  più  che  a  Roma,  ormai  riconosciuta 
come  grande  potenza,  non  era  diffìcile  con  buoni  trattati  metter 
gli  Italici  in  grado  di  praticare  anche  all'estero  in  condizioni  fa- 
vorevoli il  commercio.  Sicché  non  minacciati  apparentemente  da 
alcuno,  i  j)opoli  italici,  ridottisi  a  concordia  dopo  tante  lotte,  po- 
tevano muovere  lieti  di  speranze  incontro  all'avvenire. 


(1)  Strab.  vi  p.  383. 


'MéhÀ  A#M:  <^k)hìÀd%jh  §^ft)^A£-^fe^  J^kjh  ^AA 


CAPO  XXIV. 
Coltura  e  religione. 


Fin  dagl'inizi  della  storia  romana,  i  Latini  avevano  nel  proprio 
alfabeto  un  ragguardevole  istrumento  di  coltura.  Semplici  e  pre- 
cisi, i  caratteri  latini  hanno  reso  ai  Romani  ed  a  tutti  quelli  cui 
i  Romani  hanno  trasmesso  la  propria  civiltà  assai  meno  laboriosa 
la  lettura  e  la  scrittura,  e  quindi  assai  più  facile  lo  scambio  delle 
idee  tra  i  contemjDoranei  e  il  tramandare  le  conquiste  del  pensièro 
ai  posteri  di  quel  che  non  sia  presso  i  popoli  che  significano  le 
idee  o  le  sillabe  in  modo  spesso  impreciso  ed  ambiguo  con  centi- 
naia e  centinaia  di  caratteri.  Ma  non  da  sé  si  son  procacciati  questo 
istrumento  di  coltui'a  i  Latini,  sì  l'hanno  ricevuto  già  maestrevol- 
mente foggiato  dai  Greci:  i  Greci  stessi  del  resto  lo  debbono  in 
buona  parte  ai  Tenici  ed  i  Fenici  in  buona  parte  ad  altri  popoli 
orientali.  In  Oriente  già  in  età  assai  remota  si  erano  formati  ac- 
canto ai  sistemi  di  scrittura  in  tutto  o  in  parte  ideografici ,  altri 
interamente  fonetici  con  caratteri  esprimenti  le  varie  sillabe.  I 
Fenici,  prima  del  mille  av.  Cr.,  semplificarono  questi  sillabari 
indicando  con  lo  stesso  segno  la  consonante  seguita  da  qualsiasi 
vocale.  Ma  il  rischio  d'essere  fraintesi  attenuava  il  beneficio  dèlia 
notevolissima  semplificazione,  favorita  del  resto  dal  carattere  oscil- 
lante che  avevano  nelle  lingue  semitiche  le  vocali.  Senonchè  i 
Greci,  adottando  il  sistema  fenicio  di  scrittura,  vi  introdussero  una 
modificazione  in  apparenza  di  poco  conto,  ma  in  realtà  d'im- 
portanza capitale;  adoperarono  cioè  le  semivocali  e  alcune  delle 
aspirate  fenicie  ad  esprimere  le  loro  vocali:  e  cosi  significando 
ormai  con  l'alfabeto  tutti  i  suoni,  consonanti  e  {Vocali,  lo  resero 
un  istrumento  perfetto  a  fissare  con  la  scrittm'a  la  parola  o,  per 


Gì  A    ALFABETI    LT  ALICI  49/ 


dir  meglio,  lo  crearono,  giacche  i  caratteri  fenici  non  costituivano 
che  un  sillabario  perfezionato. 

Gli  alfabeti  italici  derivano  tutti  dal  fenicio  pel  tramite  del 
greco  (1);  infatti  non  solo  adoperano  conforme  al  greco  a  signi- 
ficar le  vocali  i  segni  delle  semivocali  od  aspirate  fenicie,  ma 
possiedono  anche  segni  aggiunti  dai  Grreci  all'alfabeto  fenicio 
come  Y  (V)  e  X.  Gli  alfabeti  greci  si  distinguono  in  due  grandi 
gruppi,  1"  uno  dei  quali  adopera  il  segno  X  per  indicare  la  gut- 
turale aspii^ata  eh  e  il  segno  Y  per  la  doppia  ps^  V  altro  quello 
per  indicare  la  doppia  x  e  questo  per  la  gutturale  aspirata  eh.  Al 
primo  gru])po,  detto  orientale,  appartengono  gli  alfabeti  della  Ionia 
d'Asia,  d"  una  parte  delle  isole  e  dell' Argolide  con  le  sue  colonie  ; 
al  secondo ,  detto  occidentale,  quelli  della  penisola  ellenica,  tolta 
l'Argolide  e  l'Attica  e  compresa  l'Eubea.  Questa  divisione  in  grujDpi 
è  anteriore  alla  fondazione  delle  colonie  greche  dell'  Italia  meri- 
dionale e  della  Sicilia;  poiché  gli  emigranti  greci  vi  recarono  con 
se  gli  alfabeti  diversi  della  madrepatria;  per  modo  che  mentre 
nelle  colonie  corinzie,  come  a  Siracusa,  s' adox^erava  un  alfabeto 
orientale,  nelle  colonie  calcidesi,  per  esempio  a  Cuma,  s'adoperava 
un  alfabeto  occidentale,  finché  nel  sec.  IV  non  fu  adottato  in  tutti 
o  quasi  i  paesi  ellenici  d'Oriente  e  d'Occidente  l'alfabeto  ionico.  Gli 
indigeni  d'Italia  sulle  prime  adoperavano  senz'altro  l'alfabeto  delle 
colonie  greche  più  ijrossime.  Cosi  i  Siculi  presero  ad  usare  l'alfa- 
beto siracusano  (2) ,  i  Messapì  il  tarentino  o  il  locrese  (3) ,  gì'  in- 
digeni dell'  Italia  centrale  il  calcidese  di  Cuma  ;  ma  nelF  Italia 
centrale  1'  assimilazione  della  civiltà  greca  fu  più  lenta  e  più  li- 
bera: di  guisa  che  a  poco  a  poco  l'alfabeto  calcidése  venne  tras- 
formato e  adattato.  Un  punto  di  contatto  hanno  tutti  gli  alfabeti 
indigeni  dell'Italia  centrale,  che  mostra  coni' essi  procedano  da 
un  comune  capostipite  pure  indigeno,  l'uso  nei  documenti  più 
antichi  dei  due  segni   F0   per  esprimere  la  labiodentale  /  (4).   In 


(1)  Il  fondamento  per  lo  studio  degli  alfabeti  italici  fu  posto  dal  Mommsen 
Die  unteritalifchen  Dialekte  (Leipzig  1850).  La  derivazione  di  gran  parte  di 
essi  dal  calcidese  fu  dimostrata  dal  Kirchhoff  Studien  zur  Geschichte  des  grie- 
chischen  Alphabets  (4*  ed.  Gutersloh  1887).  Sugli  alfabeti  dell'Italia  settentrionale 
V.  Pauli  '  Altitalische  Forschungen  '  I  e  III,  le  cui  conclusioni  sono  spesso 
tutt'altro  che  sicure. 

(2)  Thurneysen  '  Zeitschrift  f.  vergleichende  Sprachforschung  '  XXXV  (1897) 
p.  212  segg.  Cfr.  I  p.  99  n.  3. 

(3)  La  prima  è  l'opinione  del  Kirchhoff,  la  seconda  del  Pauli. 

(4)  Sull'uso  di  FB  anche  nell'etrusco  primitivo,  v.  Pauli  '  Altital.  Forschungen  ' 
III  100  segg.  Per  la  origine  calcidese  dell'alfabeto  etrusco  v.  anche  I  p.  130  n.  1. 

G-.  De  Sanctis,  Storia  dei  Romani,  II.  32 


498  CAPO    XXIV.    -    COLTURA    E    KELIOIOXE 

procedere  "di  tempo  si  distinsero  due  alfabeti  diversi.  Uno  di  essi 
è  l'etrusco,  da  cui  derivano  Tosco  e  T umbro,  che  lia  per  nota 
caratteristica  1"  uso  del  nuovo  segno  8  per  la  labiodentale  e  la 
caduta  dell'  O.  La  provenienza  non  solo  dell'  alfabeto  umbro,  ma 
anche  dell'osco  dall'etrusco  (1)  è  provata  dalla  mancanza  in  essi 
dell' O,  mentre  non  mancava  a  quei  due  dialetti  italici,  come  al- 
l'etrusco, la  vocale  corrispondente,  tanto  che  gii  Oschi  cercarono 
poi  d'esprimerla  distinguendo  IV  con  un  segno  diacritico  (V). 
Invece  indipendente  dall^etrusco  è  1'  altro  alfabeto ,  il  latino,  che 
sostituisce  presto  a  FB  il  semplice  segno  F  per  esprimere  la 
labiodentale,  adopera  il  segno  V  non  solo  per  la  vocale  ?/,  ma 
anche  per  la  labiale  spirante  v\  e  al  tempo  stesso  conserva  il 
segno  O  e  lascia  cadere  quelli  delle  aspii'ate  dentale,  guttiu^ale  e 
labiale  e  della  s',  quest'ultimo  reintegrato  più  tardi  per  le  parole 
desunte  dal  greco.  Dal  V  al  IH  secolo  del  resto  nell'alfabeto  la- 
tino s'introdussero  varie  modificazioni.  Dapprima  esso  col  calcidese 
usava  C  (f)  per  la  gutturale  media  e  K  per  la  guttm-ale  tenue, 
poi  dal  400  circa,  sull'  esempio  dell'  etrusco  e  forse  per  opera  di 
scribi  o  di  scalpellini  etruschi,  lasciò  cadere  a  poco  a  poco  il  K 
e  adoperò  C  per  ambedue  le  gutturali,  infine  dalla  prima  metà 
del  m  sec.  distinse  novamente  le  due  gutturali  modificando  per 
esprimere  la  media  il  segno  C  in  G,  che  prese  il  posto  della  Z 
caduta  (2). 

Assai  più  spinosa  è  la  questione  della  origine  degli  alfabeti 
dell'Italia  settentrionale,  di  cui  abbiamo  vari  documenti  che  non 
sono  anteriori  al  IV  o  al  più  alla  fine  del  V  sec.  av.  Cr.  Sembra 
che  possa  distinguersi  un  alfabeto  gallico ,  adoperato  nelle  iscri- 
zioni del  territorio  di  Lugano,  delle  provincie  di  Novara  e  di  Mi- 
lano (3),  in  una  epigrafe  di  Todi  e  in  leggende  di  monete  della 
Provenza  e  della  Svizzera;  un  alfabeto  retico,  adoperato  nei  ter- 
ritori di  Matrey,  di  Bolzano  e  di  Trento;  un  alfabeto  veneto,  ado- 
perato ad  Ateste,  nella  Venezia,  nell'Istria  e  nella  Carinzia.  Il  far 
difetto  le  medie  a  tutti  e  tre  questi  alfabeti ,  1'  uso  per  esprimere 
una  sibilante  del  segno  X]  che  può  documentarsi  nell'  alfabeto 
gallico ,  nel  veneto ,  come   nel   campano-etrusco  e  nel   falisco ,  e 


(1)  V.  I  p.  443  n.  6. 

i2)  RiTscHL  Zur  Ge-fchichte  des  lateinischen  Alphabefs  in  Opiisculn  IV  p.  691  segg. 

(3)  Per  alcune  iscrizioni  recentemente  scoperte  v.  Kretschmer  nella  '  Zeit- 
schrift  '  del  Kuhn  XXXVIII  (1902)  p.  97  segg.  (I  p.  63  n.  1)  e  Lattes  '  Atti 
dell' Acc.  delle  scienze  di  Torino'  XXXI  (1896)  p.  102  segg.  XXXIX  (1904) 
p.  449  segg. 


GLI    ALP^ ABETI    ITALICI  499 

inliiie  (luello  di  F  i|'  (=FB)  nel  veneto  per  la  labiodentale  / 
sembrano  indicare  che  questi  alfabeti  derivano  dall'etrusco;  né 
par  da  credere  che  sia  diversa  1" origine  di  un  alfabeto  adoperato 
in  varie  iscrizioni  scoperte  intorno  a  Sondrio,  in  cui  si  riscontra 
la  media  B  :  poiché  forse  questo  se  n  '  è  staccato ,  come  1'  umbro, 
in  un  momento  in  cui  non  aveva  ancor  perduto  i  segni  delle 
medie.  Dalla  stessa  fonte  proviene  probabilmente  1'  alfabeto  così 
detto  sabellico,  rappresentato  da  iscrizioni  rinvenute  soprattutto 
nel  Piceno  (1),  uno  de'  cui  segni  più  caratteristici  è  appunto  M. 
Questo  alfabeto  peraltro  accozza  caratteri  d'origine  calcidese  con 
caratteri  d'altra  provenienza;  poiché  dall'alfabeto  di  Corinto  e 
delle  sue  colonie  esso  ha  attinto  almeno  il  segno  della  dentale 
media  i^^— •  ;  né  ciò  può  recar  meraviglia,  dato  lo  sviluppo  del  com- 
mercio corcirese  e  siracusano  sulle  coste  deir Adriatico. 

Degli  alfabeti  italici  il  più  antico  documento  che  si  abbia  non 
è  posteriore  al  sec.  VII  (2);  dell'alfabeto  latino  in  particolare  il 
documento  più  antico  a  noi  conservato  spetta  al  sec.  VI  ;  ma  non 
è  escluso,  benché  non  sia  dimostrato,  che  nell'età  augustea  se  ne 
conservassero  anche  di  anteriori.  Certo  però  la  scrittura  fu  ado- 
perata fino  al  500  con  estrema  parsimonia;  e  solo  nel  V  sec.  co- 
minciò ad  usarsene  con  un  po'  più  di  larghezza.  Ma  anche  allora 
null'altro  in  Roma  si  scriveva  se  non  liste  di  magistrati,  trattati, 
brevi  dediche  agii  dèi  di  carattere  pubblico  o  privato,  qualche 
legge,  forse  qualche  breve  epigrafe  sepolcrale.  Il  principale  ri- 
cordo scritto  che  il  V  secolo  trasmise  alle  età  successive,  fu  il 
codice  delle  dodici  tavole.  Le  memorie  dei  pontefici  e  le  liste  di 
cittadini  atti  alle  armi  non  é  provato  che  siano  anteriori  alla  fine 
del  sec.  V;  forse,  ma  non  sappiamo,  già  prima  che  ricordi  storici, 
i  pontefici  avevano  cominciato  a  notare  norme, di  diritto  sacro,  riti 
religiosi,  formole  di  preghiera.  Ma  tutti  questi  documenti  scritti 
avevano  fini  pratici.  Il  lavorio  poetico  di  quell'età  remota,  in 
quanto  non  s' esplicò  nella  composizione  di  carmi  rituali,  che 
furono,  più  o  meno  presto,  registrati  dai  sacerdoti,  non  ha  lasciato 
alcuna  traccia  scritta.  E  con  ciò  sono  perite  le  testimonianze  di- 
rette della  maggior  parte  del  movimento  intellettuale  della  l\oma 


(1)  V.  1  p.  72  n.  1. 

(2)  Son  certe  marche  di  fabbrica  in  parte  aventi  carattere  evidentemente 
di  lettere  che  si  son  rinvenute  su  bronzi  del  deposito  trovato  presso  la  chiesa 
di  San  Francesco  a  Bologna  (Montklius  Civ.  jìrim.  en  Italie  I  tav.  70  n.  19-20). 
I  segni  impressi  su  frammenti  di  vasi  in  terracotta  della  necropoli  Arnoaldi 
(Montklius  1  tav.  84  n.  10-24)  non  son  certo  segni  alfabetici. 


500  CAPO   XXIV.    -    COLTUltA    E    KELIGIONE 

Ijrimitiva,  poiché  prescindendo  dall'opera  che  si  spende  nell'ela- 
borazione delle  leggi,  finché  non  esiste  scienza  nò  riflessione  filo- 
sofica, il  movimento  intellettuale  si  esplica  soprattutto  nella  poesia 
e  nella  evoluzione  del  pensiero  religioso:  strettamente  connesse 
tra  loro,  quella  essendo  anche  il  veicolo  di  questo. 

Il  popolo  italiano  è  forse  uno  dei  più  forniti  di  attitudini  poe- 
tiche, poiché  sposa  un  senso  mirabile  dell'armonia  e  della  mism-a 
alla  profondità  e  originalità  del  sentimento,  come  prova  la  storia 
della  moderna  poesia  italiana  da  Dante  al  Manzoni,  dal  Leopardi 
al  Carducci.  Ma  non  c'è  dubbio  che  la  profondità  del  sentimento 
e  la  freschezza  della  fantasia  difettano  in  generale  alla  poesia 
classica  latina  per  quanto  essa  raggiunga  talora  una  rara  perfe- 
zione di  forma;  di  che  la  ragione  sta  nell'imitazione  greca  la 
quale  uccise  nel  Lazio  lo  sviluppo  originale  della  poesia,  che  pui' 
s"era  iniziato  in  modo  assai  promettente  con  l'epopea  popolare. 

Rispetto  a  questa  poesia  anteriore  alla  imitazione  greca,  si  suol 
dire  che  gli  antichi  Latini  erano  troppo  intenti  alla  lotta  per  l'esi- 
stenza per  potersi  occupare  con  profitto  d'arte.  Ma  in  realtà  la 
poesia  popolare  nasce  e  sorge  a  ragguardevole  altezza  presso  po- 
poli primitivi,  quando  non  manchino  di  genio  poetico,  proprio  in 
mezzo  alle  battaglie  per  l'esistenza.  E  cosi  nacque  indubitata- 
mente presso  i  Latini.  Soltanto  a  noi  nulla  o  quasi  rimane  della 
primitiva  poesia  latina,  poiché  prima  d'esser  fissata  per  mezzo 
della  scrittura  cadde  in  dimenticanza  non  appena  sorse  la  poesia 
d'arte  e  di  riflessione  ad  imitazione  della  greca. 

Se  nulla  o  quasi,  prescindendo  dai  riassunti  in  prosa  d' alcune 
leggende  ad  essi  attinte,  ci  é  pervenuto  dei  carmi  più  antichi,  ab- 
biamo almeno  qualche  saggio  del  verso  di  cui  i  Romani  si  servi- 
vano nel  comporli,  il  saturnio  (1).  Non  par  dubbio  che  questo 
verso  sia  fondato,  al  pari  di  tutta  la  poesia  classica  latina,  sulla 
diversa  quantità  delle  sillabe  che  lo  compongono,  non  sull'accento 
tonico  delle  parole.  Certo  non  v'é  alcuna  continuità  tra  esso  e  la 


(1)  La  letteratura  sulla  questione  del  saturnio  è  raccolta  con  assennate  con- 
siderazioni dallo  ScHANz  Geschichte  der  rimi.  Litteratur  1  P  (1907)  p.  14  segg. 
Vedasi  soprattutto  L.  Muf.llek  Der  saturnische  Vers  nnd  scine  Denkmahr  (.Leipzig 
1885).  Baehrens  nella  prefazione  ai  suoi  Fragmenta  poetaruin  Romanoniin 
(Lipsiae  1886).  I  documenti  epigrafici  trascurati  da  L.  Mueller  son  raccolti 
dal  BuECHELER  nella  Anth.  Latina  (ed.  Teubneri  li  (carmina  epigraphiea).  Per 
le  analogie  cfr.  Usener  Altgriech.  Versbau  (Bonn  1881).  Leo  Der  Saturnische 
Vers  nelle  '  Abhandlungen  des  Ges.  der  Wiss.  zu  Gòttingen  '  pliilol.  -  histor.  Kl 
n.  s.  Vili  (1905)  nr.  5. 


IL    TERSO    SATURNIO.    LA    POESIA    ANTICHISSIMA  501 

poesia  ritmica  della  bassa  latinità:  e  poi  se  la  poesia  quantita- 
tiva fosse  rimasta  ignota  prima  della  metà  del  secolo  III  ai  Ro- 
mani, non  si  capirebbe  come  si  adottasse  tanto  facilmente  da 
poeti  quali  erano  Livio  Andronico  o  Nevio  in  x^roduzioni  destinate 
appunto  al  xjopolo.  Del  resto  il  saturnio  non  è  un  verso  primi- 
tivo :  esso  consta  di  due  parti,  in  ciascuna  delle  quali  si  distin- 
guono tre  arsi;  e  con  ciò  si  accosta  a  quei  brevi  versi  di  otto 
sillabe  con  tre  o  quattro  arsi,  che  sono  probabilmente  i  più  an- 
tichi versi  greci  e  quelli  da  cui  nacque  l'esametro;  onde  anche 
Tanalogia  dei  più  antichi  versi  greci  come  pure  degli  indiani,  cui 
i  suoi  elementi  somigliano,  conferma  che  debba  scandersi  secondo 
la  quantità.  Questo  verso  pertanto,  che  s'  abbellisce  solo  di  fre- 
quenti allitterazioni,  e  il  cui  schema  metrico  è  spesso  difficilmente 
riconoscibile  tra  le  dure  e  molteplici  licenze,  era  l'istrumento  del- 
l'antica poesia  popolare  latina:  istrumento  certo  difettoso  al  con- 
fronto del  mirabilmente  armonico  e  vario  esametro  greco,  uno  dei 
versi  più  perfetti  che  il  genio  umano  abbia  foggiato.  In  questa 
differenza  tra  i  metri  usuali  nel!'  età  più  antica  nella  Grecia  ed 
in  Roma  si  rispecchia  il  precoce  grandeggiare  del  sentimento 
estetico  presso  gli  EUeni  con  cui  per  tale  rispetto  non  può  com- 
petere alcun  popolo  ario  :  favorito  dall'  aver  in  Grecia  -per  la 
prima  volta  gli  Indoeuropei,  mentre  sperimentavano  i  benefici  di 
un  clima  meridionale,  praticato  davvicino,  ma  non  cosi  che  ne 
rimanesse  danneggiata  l'autonomia  del  loro  sviluppo,  con  popoli 
in  possesso  di  civiltà  più  progredita.  E  tuttavia  parecchie  ana- 
logie e  più  quei  riassunti  in  prosa  cui  già  s'è  accennato  mostrano 
che  sarebbe  errato  giudicare  senz'altro  del  valore  della  poesia  ro- 
mana antichissima  dalla  imperfezione  dell'  istrumento  di  cui  si 
valeva  (1). 

Dei  prodotti  della  primitiva  poesia  romana  i  carmi  sacri,  come 
del  resto  i  più  antichi  inni  sacri  ellenici,  mancavano  di  impeto  vero 
di  sentimento,  consistendo,  per  quanto  può  giudicarsene,  in  poco 
poetiche  litanie,  di  cui  a  noi  sono  pervenuti  scarsi  e  non  molto 
intelligibili   resti    in    qualche  verso  del  carme  saliare  (2),   in  altri 


(1)  Ramorino  La  poesia  in  Roma  nei  primi  cinque  secoli  in  '  Riv.  di  tìlologia 
classica  '  XI  (1883)  p.  417  segg.  Affatto  insufficienti  son  le  poche  pagine  che 
dedica  a  questa  poesia  il  Ribbeck  nella  Geschichte  der  rom.  Dichtitmj  I  -  (1894\ 

(2)  MAunENHRECHER  Carminum  Saliariinn  reliqidae  in  '  Jahrbb.  f.  Phil.'  Supplhd. 
XXI  (1894)  p.  313  segg.  Sulla  oscurità  di  questi  carmi  v.  Quintil.  inst.  I  6,  40  : 
snliorum  carmina  vix  sacerdotibus  suis  satis  intellecta.  Hor.  epist.  II    186   segg. 


502  CAPO   XXTV.    -    COLTURA    E    RELIGIONE 

che  erano  cantati  dai  fratelli  arvali  (1) ,  e  in  certi  adagi  che  ac- 
compagnavano alcnni  incantesimi  (2).  Degli  antichissimi  vaticini 
poi  non  ci  è  dato  pronunciare  alcun  giudizio,  nulla  essendone  ri- 
masto che  possa  riguardarsi  come  autentico  (3).  Possiamo  formarci 
invece  un  concetto  della  epopea  popolare:  poiché  è  dato  ricosti- 
tuire più  d'uno  degli  antichi  carmi  epici  dai  racconti  tradizionali 
eliminandone  soltanto  le  falsificazioni  o  le  amplificazioni  annali- 
stiche.  Or  tutti  questi  carmi  non  mancano  né  d'ispirazione,  né  d'al- 
tezza di  sentimento.  Certo,  a  giudicare  da  quel  che  di  essi  rimane, 
la  fantasia  non  vi  lussureggiava,  rotto  ogni  freno  d'arte  e  di  ra- 
gione, come  nei  carmi  indiani;  e  nexDpure,  come  nella  epo^Dca  greca, 
vi  rifulgeva  tra  invenzioni  mirabili  di  semplicità  e  di  ]3otenza,  di 
ardimento  e  di  misura.  E  tuttavia  la  serietà  e  sincerità  del  senti- 
mento e  la  ingenua  efficacia  della  rappresentazione,  dovuta  all'esser 
quei  carmi  vissuti  in  certo  modo  dal  popolo  che  li  creava,  il  quale 
compiva  nella  realtà  della  vita  imprese  non  inferiori  a  quelle  in 
essi  celebrate ,  e  forse  anche  più  1'  elevato  e  pure  ingenuo  senso 
d'umanità  a  cui  s'ispiravano,  fece  si  che  attraverso  ai  rifacimenti 
prosaici  in  cui  ci  son  giunti,  essi  formino  parte  integrante  del 
patrimonio  spirituale  dei  popoli  inciviliti,  i  quali,  come  non  dimen- 
ticheranno mai  Ettore,  Achille  ed  Agamennone,  cosi  serberanno 
sempre  vive  le  immagini  certo  meno  divine,  ma  apjjunto  perciò 
più  veramente  umane  di  Cincinnato  e  di  Coriolano,  dei  Fabì  e  di 
Porsenna,  di  Lucrezia  e  di  Verginia  (4). 


(1)  Riportati  nei  verbali  degli  Arvali  del  29  maggio  '218  d.  Cr.  Per  la  in- 
terpretazione V.  GoiwANicii  Studi  di  latino  arcaico  in  '  Studi  italiani  di  filo- 
logia classica'  X  (1902)  p.  270  segg. 

(2)  P.  e.  Varrò  de  re  r.  I  2,  27  :  ctim  homini  pedes  dolere  coepissent,  qui  fui 
meininisset,  ei  mederi  posse,  ego  fui  memini,  medere  meis  pedibus,  '  ferra  peste»! 
teneto,  salus  hic  maneto  '  [in  meis  pedibus].  hoc  ter  noviens  cantare  iubet,  terram 
tangere,  despuere,  ieiutium  cantare.  Heim  Incantamenta  magica  Graeca  Latina 
'Jahrb.  f.  Phil.  '  Supplbd.  XIX  (1893)  p.  465  segg. 

(3)  Il  vaticinio  sul  lago  albano  riferito  da  Livio  al  397  av.  Cr.  (V  16)  non 
è  anteriore  all'età  di  Livio  Andronico  e  d'Ennio  (Bakhkens  FPR.  p.  21).  I  va- 
ticini dei  Marcì  che  circolavano  al  tempo  della  seconda  punica  (Liv.  XXV  12) 
non  sono  anteriori  a  quella  guerra,  e  per  di  più  Livio  ne  ha  parafrasato  non 
il  testo  originale,  ma  una  tarda  elaborazione.  Ciò  non  esclude  che  negli  annosa 
volumina  vatum  di  cui  parla  Orazio  epist.  II  1,  26  potesse  trovarsi  qualche  va- 
ticinio autentico  del  V  o  del  IV  sec. 

(4)  Sulla  esistenza  di  questi  carmi  epici  v.  le  prove  addotte  1  p.  22  segg. 
Esempì  I  p.  367  seg.  373  seg.  398.  446  segg.  TI  p.  45  seg.  109  segg.  116  segg. 


i 


EPOPEA    POPOLARE.    NENIE.    CAKMI   TRIONFALI  503 

Elementi  fantastici  e  mitici  eran  del  resto  fusi  indubitatamente 
nella  epopea  x^opol^-i"®  con  elementi  storici,  né  è  escluso  che  in 
qualche  parte  l'epopea  popolare  risentisse  l'influenza  di  due  sorta 
di  carmi  d'occasione  che  allora  usavano,  e  in  cui  si  discorreva  di 
fatti  e  d'  uomini  contemporanei ,  le  nenie  e  i  carmi  trionfali.  La 
nenia  era  una  lamentazione  fùnebre  poetica,  fatta  in  origine  da 
donne  della  parentela  del  defunto  e  più  tardi  da  donne  all'uopo 
salariate,  che  praticavano  il  mestiere  tuttora  esistente  in  certe  parti 
d'Italia  di  piagnone  o  prefiche.  A  partire  però  dalla  seconda  pu- 
nica sembra  che,  in  ispecie  nei  centri  più  progrediti  e  per  le 
famiglie  più  importanti,  quelle  primitive  lamentazioni  fossero  so- 
stituite da  carmi  corali  elaborati  artisticamente  ad  imitazione  dei 
treni  greci,  che  conservarono  il  nome  stesso  di  nenie  (1).  I  carmi 
trionfali  erano  cantati  da  cori  di  soldati  che  accompagnavano  il 
cocchio  del  duce  trionfante,  e  s'alternavano  nel  celebrarne  le  lodi 
o  nel  pungerlo  con  scherzi  talora  estremamente  mordaci  (2).  Son 
frequenti  accenni  a  simili  carmi  nella  nostra  tradizione  sulla  più 
antica  storia  romana ,  e  per  quanto  ciò  che  vien  detto  su  carmi 
comx^osti  pei  trionfi  di  Romolo,  Cincinnato  e  Camillo  (3)  sia  evi- 
dentemente inventato  dagli  annalisti  valendosi  di  ciò  che  vedevano 
accadere  nei  trionfi  del  II  e  I  secolo,  e  possa  quindi  servirci  sol- 
tanto per  integrare  il  concetto  che  per  altra  via  laossiamo  farci 
dei  carmi  trionfali  degli  ultimi  tempi  della  repubblica,  va  ritenuto 
che  l'uso  di  siffatti  carmi,  i  quali  anche  in  età  progredita  erano 
sommamente  rozzi  per  la  forma  e  per  la  sostanza,  risalga  ad  una 
remota  antichità. 

In  questi  carmi  aveva  ampio  sfogo  lo  spirito  satirico.  L'elemento 
satii-ico,  che  ha  in  generale  larga  parte  nella  poesia  primitiva  di 
tutti  i  popoli,  ne  ha  x^oi  una  larghissima  nella  i^oesia  italiana  di 
ogni  tempo  x^er  la  lucidità  della  mente  italica  che  sa  coglier  su- 
bito il  lato  ridicolo  delle  cose  dovuto  al  perenne  contrasto  tra  il 
reale  e  l'ideale.  Lo  sx>irito  satirico  s'esplicava  in  modo  anche  più 
libero  nei  versi  fescennini,  specie  di  tenzoni  x^oetiche  di  carattere 
giocoso  che  si  usavano  nelle  feste  rurali  ed  anche  in  occasione  di 


'1)  Con  queste  limitazioni  pare  vada  inteso  il  testo  di  Varrone  ap.  Non. 
p.  66  s.  V.  praefica.  Sulle  nenie  v.  Wehr  De  Romana  nenia  in  '  Abschiedschr.  f. 
E.  Curtius'  (Gottingen  1868)  p.  11  segg.  Amatucci  Neniae  e  laiidationes  funehres 
in  '  Riv.  di  fi].  '  XXXII  (1904)  p.  625  segcr. 

(2)  V.  l'importante  memoria  di  E.  Stampini  Alcune  osservazioni  sui  carmi 
trionfali  romani  in  'Riv.  di   Fil.  '  XXVI  (1898    p.  230  segg. 

{3}  DioNYs.  TI  84.  Liv.  Ili  29,  5.  V  49,  7.  Cfr.  FV  20.  r,3.  VII  38,  3.  X  30,  9. 


504  CAPO   XXIV.    -    COLTURA    E    RELIGIONE 

matrimoni:  versi  dove  non  mancavano  scherzi  maligni  ed  osceni 
cui  la  legge  cercò  col  tempo,  non  sappiamo  con  quanta  efficacia, 
di  porre  un  limite  (1).  Prendevano  nome  da  Fescennia,  terra  del 
paese  falisco,  non  perchè  avessero  avuto  origine  colà,  ma  perchè 
colà  Titalico  aceto  di  quei  carmi  richiamò  per  la  prima  volta  l'at- 
tenzione degli  Etruschi  che  s'erano  impadroniti  di  Falerì  (2). 

Nei  versi  alternati  dei  carmi  fescennini  e  dei  carmi  trionfali  era 
già  un  principio  di  drammatica.  Ma  non  fu  dato  ai  Romani  di 
elaborare  originalmente  questi  rudimenti  drammatici  e  creare  un 
dramma  nazionale  (3).  Il  nome  stesso  delle  più  antiche  composi- 
zioni drammatiche  romane,  le  sature  (4),  mostra  che   assai  presto 


(1)  Mediante  una  interpretazione  della  legge  delle  dodici  tavole  contro  la 
occentatio  di  malum  Carmen  aliena  dallo  spirito  de'  suoi  autori,  i  quali  mira- 
vano a  colpire  con  essa  non  l'ingiuria  verbale,  ma  l'incantesimo.  V.  la  me- 
moria del  HuvELiN  citata  sopra  a  p.  80  n.  6. 

(2)  A  questo  modo  mi  sembra  che  l'etimologia  da  Fescennia  non  possa  pre- 
sentare alcuna  difficoltà,  e  che  non  sia  quindi  necessario  ricorrere  all'altra  pivi 
forzata  da  fascimcm.  Ambedue  sono  state  proposte  già  dagli  antichi  :  Fest. 
epit.  p.  85  s.  v.  Fescennini  versus. 

(3)  Sulla  storia  della  drammatica  romana  la  testimonianza  antica  più  im- 
poTtante  è  quella  di  Liv.  VII  2.  Punto  di  partenza  di  questa  ricostruzione 
storica  è  che  nel  364  in  occasione  d'una  epidemia  per  la  prima  volta  si  sa- 
rebbero fatti  ludi  scenici  in  cui  ballerini  etruschi  avrebbero  eseguito  dani^e 
al  suono  del  flauto.  In  realtà  di  questi  particolari  per  un'età  sì  remota  è  dif- 
ficilissimo che  si  conservasse  un  ricordo  documentale:  e  possiamo  ritenere 
soltanto  che  dai  solenni  ludi  scenici  del  364  (fossero  o  no  per  davvero  i  primi), 
per  essere  i  primi  registrati  con  un  semplice  accenno  negli  annali  dei  ponte- 
fici, prendessero  le  mosse  le  ipotesi  degli  antichi  storici  della  letteratura.  Ma 
queste  ipotesi  hanno  ben  poco  valore.  Basti  citare  il  passo  seguente  :  imitari 
deinde  eos  (gli  artefici  etruschi)  iuventus  simul  inconditis  inter  se  iocularia  fun- 
dentes  versibus  coepere  nec  absoni,  a  voce  moti  erant,  dove  si  dimentica  che  il 
canto  e  la  danza  al  suono  degli  istrumenti  musicali  sono  antichissimi  presso 
tutti  i  popoli  e  che  i  Romani  non  avevano  bisogno  d'impararli  dagli  Etruschi. 

(4)  Della  satura  drammatica  unica  testimonianza  è  quella  di  Livio  1.  e.  dove 
dice  che  gli  scherzi  verseggiati  originarono  inpìetas  modis  saturas  descripto 
iam  ad  tibicinem  catitu  motuque  congruenti.  Or  come  qui  la  storia  della  satura 
è  fatta  movendo  da  una  congettura  (e  congettura  verisimil mente  errata),  al- 
cuni son  giunti  a  negare  ogni  valore  a  questa  notizia  sulla  esistenza  d'una 
satura  drammatica.  Così  Leo  Varrò  und  die  Satire  in  '  Hermes  '  -XXIV  (1889) 
p.  77  segg.  Ma  fu  osservato  giustamente  che  non  si  spiega  come  mai  i  critici, 
se  non  vi  fosse  stato  documento  d'una  satira  drammatica,  avrebbero  potuto 
inventarla.  Rispetto  alla  etimologia,  è  noto  che  alcuni  tengono  la  satura  come 
una  poesia  infarcita    di   ogni   sorta  di   versi  o    di    scherzi  {lanx  satura),   altri 


VEllSI    FKSCEXXIXI.    SATURE.    ATELLANE  505 

si  risenti  in  Roma,  probabilmente  per  mediazione  etrusca,  l'efficacia 
della  di'ammatica  greca;  poiché  non  par  dubbio  che  la  satura  era 
foggiata  sul  dramma  satirico  greco,  e  prendeva  nome  come  quello 
dal  coro  dei  satiri.  Le  sature  rim.asero  poi  oscurate  dalle  atellane, 
in  cui  ai  satiri  erano  sostituite  le  maschere  fìsse  (1)  ;  tra  cui  più 
note  Macco,  il  contadino  zotico,  Pappo,  il  vecchio  stolido,  il  ghiotto 
Buccone  e  il  gibboso  Dossenno.  Anche  le  atellane  dipendevano 
dal  dramma  greco,  e  in  particolare  dai  fliaci  (qpXùaKeq)  della  Magna 
Grecia;  ed  anche  questa  produzione  drammatica  non  pervenne  in 
Roma  direttamente  dai  Grreci,  si,  come  attesta  il  nome,  dalla  Cam- 
pania; poiché  Tessersi  continuate  a  recitare  a  Roma  fino  all'età 
augustea  produzioni  in  dialetto  osco  (2)  mostra  che  il  nome  deve 
sxjiegarsi  dal  luogo  d'origine,  e  non  iDerchè  vi  fossero  messi  in 
ridicolo  gii  Oschi  d' Atalia  (3).  Certo  è  del  resto  che  entro  i  ter- 
mini del  periodo  di  cui  trattiamo  cominciarono  a  recitarsi  in  Roma 
le  atellane,  sebbene  solo  assai  più  tardi  avessero  forma  letteraria. 
Infatti  gii  attori  delle  atellane  non  perdevano  come  gii  altri  attori 
la  onorabilità  né  potevano  èssere  obbligati  a  deporre  la  maschera 
dinanzi  al  pubblico,  sicché  Tatellana  fu  accolta  in  Roma  quando  era 
possibile  bensì  trovarvi  filodrammatici  volenterosi,  ma  non  ancora 
attori  di  professione,  dunque  prima  della  metà  del  secolo  TTI.  Cosi 
mentre  la  epopea  primitiva  e  la  primitiva  poesia  sacra  furono  in 
Roma  schiettamente  nazionali,  la  i:)oesia  drammatica  non  si  svolse 
se  non  sotto  gli  influssi  del  dramma  greco,  anche  prima  che  le 
traduzioni  o  le  imitazioni  servili  della  commedia  e  della  tragedia 
greca  cominciassero  a  dominare  sulla  scena. 


come  il  dramma  delle  persone  sazie.  Ma  par  di  gran  lunga  preferibile  1'  eti- 
mologia dai  satiri:  perché  sarebbe  strano  che  in  Grecia  ed  in  Roma  fossero 
state  contemporaneamente  in  uso  due  composizioni  drammatiche  di  nome 
eguale  e  di  natura  diversa,  v.  Hendkickson  The  dramatic  Satura  and  the  old 
Comedy  at  Rome  in  '  American  Journal   of  Philology  '  XV  (1894)  p.  1  segg. 

Il)  MuxK  De  fabulis  Atellanis  (con  raccolta  dei  frammenti)  Lipsiae  1840. 
SiTTL  I  personaggi  dell' AteUana  in  '  Riv.  di  st.  ant.  '  I  (1890)  fase.  3.  Oraziani 
'  Riv.  di  Fil.  '  XXIV  (1896)  p.  388  segg.  e  soprattutto  Diktkkicu  Pidcinella  (Leipzig 
1897)  p.  84  segg. 

(2)  Strab.  V  p.  233:  lòiov  ^é  ti  toT;  'OaKoi<;...  ouuPépriKe.  tuùv  m^v  ròp 'OaKUjv 
^KXeXoiTTÓTUJv  ri  òidXeKToe;  |u^v€i  uapà  Toìq  'Pujmoìok;  iIiaTe  Kaì  -noiniuaTa  OKr|vo- 
paxeioGai  Kord  riva  à-fuJva  Trdxpiov  Kai  |ui|uoXofeìo0ai.  Gre.  ad  fam.  VII  1,  2. 

(3)  Cfr.  Liv.  1.  e.  e  Diomkuk  (Keil  Gr.  L.  I  389):  tertia  spccies  est  fabtt- 
lariun  Latinarum  quae  a  civitate  Oscorum  Atella  in  qua  primum  coeptue  appel- 
latae  sunt  Atellanae. 


500  CAPO    XXIV.    -    COLTURA    E    KKLKUONE 

Avevasi  dunque  in  questa  età  in  Roma  una  letteratura  poetica, 
per  quanto  non  fissata  se  non  in  parte  minima  per  mezzo  della 
scrittura.  La  letteratui^a  prosastica  invece,  a  Roma  come  altrove,  è 
nei  suoi  inizi  assai  posteriore.  Non  erano  scritte  con  intenzione 
d'arte  né  le  note  storielle  dei  pontefici,  né  gli  atti  dei  vari  collegi 
sacerdotali,  e  nepx3ui'e  i  commentari  dei  magistrati,  i  libri  clie  ne 
contenevano  le  liste,  le  tavole  dei  censori,  documenti  tutti  non  po- 
steriori nelle  loro  origini  al  IV  secolo,  e  cosi  dicasi  degli  alberi  ge- 
nealogici e  delle  iscrizioni  clie  si  collocavano  sotto  le  imagini  degli 
avi,  ricordando  gli  onori  da  essi  raggiunti,  documenti  privati  che 
debbono  risalire  anch'essi  all'incirca  alla  medesima  età.  Avevano 
invece  carattere  letterario,  per  quanto  a  Cicerone  potessero  sembrar 
disadorni  ed  arcaici  (1),  i  panegirici  che  i  parenti  recitavano  nel 
Foro  pei  defunti  illustri  {laudationes)  (2);  ma  sebbene  abbiamo 
ragione  di  ritenere  che  l'uso  di  questi  panegirici  sia  assai  antico, 
non  si  può  davvero  prestar  fede  alla  tradizione  che  riguarda  come 
il  primo  tra  essi  quello  di  Bruto  (3),  ed  è  incerto  quanto  Tuso 
di  siffatte  laudazioni  fosse  anteriore  alla  più  antica  di  cui  abbiamo 
notizia  che  si  conservasse  qualche  secolo  di  poi,  quella  di  Q.  Ce- 
cilie Metello  pel  suo  padre  Lucio  (221)  (4). 

Il  primo  degli  scrittori  romani  fu  Ap.  Claudio  Ceco,  il  censore 
del  312  (sópra  p.  226  segg.),  uomo  che  in  letteratm-a,  come  in  po- 
litica, precorse  i  suoi  tempi.  Non  vi  sono  argomenti  fondati  per 
ritenere  non  autentica  quella  sua  orazione  contro  la  pace  con  Pirro 
(sopra  p.  404)  che  si  conservava  ancora  al  tempo  di  Cicerone  (5). 
Lo  scarso  valore  letterario  che,  a  giudizio  di  Cicerone,  essa  aveva. 


(1)  Cic.  de  orai.  II  84,  341. 

(2)  VoLLMER  Laudationum  funebrium  Romanorum  historia  et  reliquianon  editio 
'  Jahrbb.  f.  ci.  Phil.  '  Supplbd.  XVIII  (1892)  p.  506  segg. 

(3)  DioNYS.  V  17.  Plot.  Popi.  9.  Adct.  de  vir.  ili.  10.  Lyd.  de  mag.  I  33. 

(4)  Plin.  n.h.  VII  139, 

(5)  Cic.  Brut.  16,  61.  Caio  in.  6,  16.  Cfr.  Senec.  epist.  114,  13.  Tacit. 
dial.  18.  21.  Cima  L'eloquenza  latina  prima  di  Cicerone  p.  9  n.  3.  '  Boll,  di  fil. 
classica'  XI  (1904-5)  p.  60  segg.  Niese  'Hermes'  XXXI  (1896)  p.  493  seg.  La 
osservazione  del  Niese  che  Cicerone  avrebbe  dovuto  menzionar  già  quella 
orazione  nel  de  oratore  e  che  perciò  presumibilmente  essa  è  stata  falsificata 
in  vita  di  Cicerone  pare  assai  arbitraria.  Certo  la  orazione  di  Appio  non  può 
aver  che  fare  con  la  concione  che  gli  è  attribuita  da  Plut.  Pijrrh.  19,  e  piut- 
tosto è  da  credere  che  un  riassunto  abbastanza  fedele  ne  fosse  dato  da  Ennio, 
del  quale  riassunto  i  primi  versi  son  citati  da  Cic.  Caio  m.  1.  e.  e  differiscono 
notevolmente  dall'esordio  plutarcheo. 


LAUDAZIONI.    APPIO    CI.ArDIO    CKCO  507 

al  pari  delle  altre  orazioni  arcaiche  a  lui  note,  ne  conferma  la  ge- 
nninità.  Era  senza  dubbio  molto  anteriore  a  tutti  gli  altri  discorsi 
politici  romani  che  Cicerone  potè  leggere,  i  quali  non  risalivano 
che  al  sec.  II,  ed  anche  alla  più  antica  delle  laudazioni  funebri 
allora  conservate  di  cui  abbiamo  sicura  notizia.  Ma  non  è  escluso 
che  altre  laudazioni  anteriori  sopravvivessero  sullo  scorcio  dell'età 
repubblicana  e  che  altre  orazioni  politiche  edite  fossero  andate 
jierdute  pel  minore  interesse  che  avevano  in  confronto  con  quella 
di  Appio;  e  ad  ogni  modo  questo  argomento  varrebbe  se  Appio 
non  fosse  stato  in  ogni  cosa  un  ardito  novatore.  A  lui  si^etta  anche 
la  gloria  d'aver  per  la  j)rinia  volta  pubblicato  un'opera  poetica 
latina  o  per  dir  meglio  un'  opera  latina  scritta  in  versi.  Eran  sen- 
tenze in  saturni,  di  cui  non  son  conservate  che  tre  e  fra  queste  la 
scultoria:  ciascuno  è  fabbro  della  propria  fortuna.  Cicerone  diceva 
pitagoreo  questo  carme  d'Appio,  e  la  sua  oj)inione  si  allontana 
forse  dal  vero  meno  di  quella  moderna  che  crede  vedervi  gl'in- 
flussi della  nuova  commedia  attica,  perchè  quelle  sentenze,  più  che 
con  le  ultime  produzioni  dell'arte  ellenica,  si  collegano  probabil- 
mente con  le  più  antiche  raccolte  di  gnome  venute  alla  luce  nella 
Grecia  d'Occidente.  Ma  mentre  e  per  l'orazione  da  lui  scritta  e  per 
le  sentenze  da  lui  raccolte,  conoscesse  o  no  egli  stesso  il.  greco, 
dipendeva,  forse  inconsapevolmente,  da  esemplari  greci,  al  tutto  ori- 
ginale fu  Appio  come  iniziatore  della  letteratura  giuridica  romana: 
che  se  pure  l'opera  sulle  usm-p azioni  attribuitagli  da  un  giure- 
consulto molto  posteriore  non  dovesse  origine  che  ad  un  malinteso, 
certo  sotto  il  suo  patrocinio  fu  pubblicata  la  raccolta  di  azioni 
composta  da  Cn.  Flavio,  uno  tra  i  primi  scritti  gimndici  a  scopo  di 
divulgazione  che  vedessero  la  luce  in  Occidente  (sopra  p.  230), 

Queste  opere  d' Appio  e  di  Flavio  come  tutte  le  più  antiche 
opere  romane  di  prosa  e  di  poesia,  per  le  frasi  brevi  e  sintattica- 
mente indipendenti  conforme  all'uso  più  generale  delle  letterature 
jirimitive,  per  la  mancanza  cosi  caratteristica  in  latino  degli  arti- 
coli e  per  l'attitudine  che  il  latino  ereditò  dalla  primitiva  lingua 
indoeuropea  ad  esprimere  senza  il  soccorso  di  pronomi,  d'ausiliari 
e  di  particelle  per  mezzo  di  semplici  forme  verbali  e  nominali 
ogni  maniera  di  relazioni  di  dipendenza ,  di  modo  e  di  tempo, 
dovevan  rassomigliare  assai  a  costruzioni  ciclopiche  a  grandi 
blocchi  senza  cemento  (1).  Tale  rude  energi;i    della    frase   arcaica 


(1)  Il  paragone  è  dello  Skutsch  nella  sua  eccellente  caratteristica  della  let- 
teratura arcaica  latina  nel  volume  '  Griechische  und  lateinischn  Litteratur  unti 
Sprache  '  ('  Kultur  der  Gegenwart  '  I  8,  Berlin  und  Leipzig  1905). 


508  CAPO   XXIV.    -    COLTURA    Y.    Kf-:LTf;iOXE 

era  resa  ancor  più  rude  da  11"  impoverimento  dei  dittonghi  e  delle 
vocali  che  dovette  esser  molto  notevole  presso  i  Latini  nelllnter- 
vallo  com]3reso  tra  T  incisione  della  arcaica  epigrafe  del  cippo  e 
la  pubblicazione  dell'Odissea  di  Livio  Andronico. 

Con  Ai^pio  Claudio  Ceco  si  chiude  il  periodo  delle  origini  della 
letteratura  latina;  nel  quale  essa  aveva  dimostrato  e  vigoria  d'ispi- 
razione originale  e  attitudine  ad  assimilare  la  tecnica  delle  formo 
letterarie  già  svolte  presso  i  Grreci.  Questa  tendenza  imitativa  era 
inevitabile  che  prendesse  nuova  forza  quanto  più  si  usò  col  popolo 
vicino  e  meglio  se  ne  conobbe  la  letteratura.  Ma  poteva  forse  esser 
contenuta  in  limiti  tali  da  non  fiaccare  ogni  ispirazione  originale 
sol  che  il  movimento  iniziato  procedesse  a  gradi  e  fosse  dato  agli 
Italici  ed  ai  Grreci  di  continuare  ad  atteggiare  liberamente  la  loro 
vita  e  la  loro  arte  senza  che  né  il  popolo  meno  civile  imponessi^ 
politicamente  al  più  civile  il  suo  giogo  ,  né  si  mettesse  appunto 
con  ciò  in  condizione  di  esserne  intellettualmente  soggiogato. 

Musica  e  danza  rallegravano  certo  presso  gli  Indoeuropei  pri- 
mitivi le  feste  religiose  ed  esprimevano  la  gioia  per  le  vittorie  sul 
nemico,  pel  moltiplicarsi  delle  greggie  o  pel  tornare  della' prima- 
vera, come  il  lutto  o  l'amarezza  per  la  sconfìtta,  pel  disseccarsi 
della  vegetazione  al  soffìo  del  rovaio,  per  la  morte  delle  persone 
care.  Ma  nessun  istrumento  musicale  avendo  un  nome  che  possa 
risalire  all'  età  protoaria  (1),  va  ritenuto  che  solo  con  istrumenti 
assai  primitivi  x^rima  della  loro  separazione  accompagnassero  gli 
Arii  il  loro  canto:  forse  solo  con  rozzi  tamburi,  forse  anche  con 
zampogne  di  canne  di  varia  lunghezza.  Questo  spiega  anche  come 
la  musica  avesse  presso  i  vari  popoli  indoeuropei  assai  diverso 
sviluppo.  Mentre  fra  i  Greci,  ad  esempio,  la  musica  nazionale  pre- 
feriva gl'istrmnenti  a  corde,  presso  gl'Italici  si  prediligevano  e  si 
perfezionavano  gl'istrumenti  a  fiato.  E  in  Italia  per  la  prima  volta 
s'adoperarono  largamente  pei  segnali  militari  quegristrumenti  che 
paiono  a  noi  ormai  cosi  inseparabili  dall'idea  di  guerra  o  di  mi- 
lizia, le  trombe,  sia  nella  forma  d'un  tubo  diritto  e  svasato  {tuba), 
sia  ripiegate  a  foggia  di  corno  ibiicina  da  bovicino?}.  Dove  poi 
l)iù  che  mirare  ad  un  fine  pratico  s'aveva  una  certa  intenzione 
d'arte,  si  usò  la  tibia  semplice  o  doppia,  ossia  il  flauto  o  piuttosto 
il  clarinetto  (2),  tibia  che  in  origine  era  corta  e  con  quattro  fori, 
fatta  d'un  osso  cavo  onde  ebbe  il  suo  nome  latino,  poi  fu  sempre 


(1)  Cfr.  ScHUADER  Reallexikon  p.  360  segg. 

(2)  V.  su  questo  antico  istrumento  Jan  in  Pati.v-Wissowa  '  R.-E.  '  II  2416  ^egg. 


iirSKA     K    DANZA  509 


più  perfezionata  ad  imitazione  del  flauto  greco  od  etrusco.  Nei  sa- 
crifizi come  negli  accompagni  funebri,  nelle  pompe  trionfali  come 
nei  lieti  convi\a  in  cui  si  cantavano  le  glorie  dei  maggiori,  non 
mancava  mai  il  suono  delle  tibie,  accanto  alle  quali  s'introdusse 
dall'Oriente  ellenico  la  lira,  o,  come  la  dissero  i  Romani,  "  le  corde  „ 
{fides  da  (Jqpiòri  minugia),  ma  si  tenne  sempre  come  istrumento  stra- 
niero in  confronto  con  la  prediletta  tibia  nazionale  che  aveva  ral- 
legrato col  suono  i  banclietti  degli  avi.  Ciò  spiega  i  singolari  ri- 
guardi che  si  usarono  in  Roma  al  vecchio  collegio  dei  sonatori  di 
tibia  (tibicines),  riguardi  consacrati  persino  dal  mito.  H  censore 
Ap.  Claudio  Ceco  (cosi  si  narrava)  aveva  tolto  loro  il  diritto  di 
banchettare  nel  tempio  di  Giove  Capitolino;  per  cui  sdegnati  si 
erano  recati  in  esilio  volontario  a  Tivoli.  Ma  i  sacrifizi  romani  ri- 
schiavano di  non  riuscire  più  accetti  agii  dèi,  non  accompagnati  dal 
rituale  suono  delle  tibie.  Onde,  col  favore  dei  Tiburtini,  si  prov^dde 
a  ricondurre  in  Roma  gl'irritati  tibicini  placandoli  con  abrogare 
il  divieto  del  loro  solenne  banchetto  nel  tempio  di  G-iove  alle  idi 
di  giugno  e  permettere  che  per  tre  giorni  all'anno  passeggiassero 
mascherati  liberamente  per  la  città.  Questo  non  è  che  un  mito  di- 
retto a  spiegare  la  licenza  singolare  a  fronte  della  romana  seve- 
rità che  si  lasciava  ai  tibicini,  e  lo  si  è  datato  dalla  censura  d'Appio 
Claudio  solo  perchè  per  la  leggendaria  severità  e  arditezza  dei 
Claudi  era  natui^ale  che  s'attribuisse  ad  un  Claudio  il  tentativo  non 
riuscito  di  sopprimere  quella  licenza.  Ciò  prova  ad  ogni  modo 
quanto  s'indulgesse  con  la  corporazione  dei  tibicini  :  alla  quale  era 
assai  inferiore  la  più  recente  dei  sonatori  di  lira  (fidicines),  sebbene 
anche  questi  si  fossero  assicurata  la  partecipazione  a  importanti. 
per  quanto  meno  antiche  ceremonie  religiose,  quali  i  lettisternì. 

Come  della  musica,  cosi  della  danza  non  erano  tanto  sprezzanti 
i  Romani  anticlii  quanto  poi  si  mostrarono  in  età  più  recente:  di 
che  son  jjrova  le  danze  in  uso  nel  collegio  degli  arvali  e  più  quelle 
armate  dell'aristocratico  sacerdozio  dei  salii,  che  ne  prendeva  il 
nome,'  come  pure  quelle  che  si  accompagnavano  alla  processiono 
solenne  dei  ludi  romani,  dove  non  mancavano  danzatori  giovani 
e  vecchi,  seri  e  faceti  (1).  Ma  con  tutto  ciò  musica  e  danza  furono 
ben  lontane  dall'avere  nella  educazione  romana  quella  [)arte  che 
diedero  ad  esse  i  Greci,  ritenendo  anche  queste  arti  indispensabili 
all'armonico  sviluppo  della  personalità  umana. 

Né  del  tutto  trascm^àte,  né  coltivate  molto  di  i)roposito  erano 
pm-e  in  (luella  età  le  arti  del  disegno.  La  pittura,  a  quanto  ci  vien 


(ì)  DioxYs.  VII  72. 


510  CAPO    XXIV.    -    COi/njlA     i;    itKLKiiOXl-: 

detto,  sottostava  appieno  agii  influssi  etruschi  fino  al  tempo  in  cui 
Daniofilo  e  Gorgaso  decorarono  il  tempio  di  Cerere  eretto  sul  prin- 
cipio del  sec.  V  (1).  Né  par  clie  l'opera  di  questi  artisti  sia  da  met- 
tere in  dubbio;  solo  ne  rimane  incerta  Fetà,  perchè  ignoriamo  se 
le  loro  pitture  siano  antiche  quanto  il  tempio  stesso  di  Cerere,  e 
in  particolare  non  ci  è  dato  sapere  se  il  Damofilo  che  dipinse  in 
Roma  sia  lo  stesso  pittore  Demofilo  d'Imera  ritenuto  il  maestro  di 
Zeusi,  che  fiori  nella  seconda  metà  del  sec.  V  (2).  Del  pari  rima- 
niamo incerti  su  quelle  pittui'e  che  Plinio  ammirava  per  la  loro 
pertinace  freschezza  ad  Ardea,  Lanuvio  e  Cere  e  che  egli  riteneva 
più  antiche  delle  origini  di  Roma  (3)  ;  certo  se  per  Ardea  si  trattava 
di  quelle  opere  d'un  pittore  greco  dell'Asia  Minore  che  n'ebbe  in 
premio  la  cittadinanza  ardeate  e  che  celebrò  in  esametri  col  suo 
nome  latino  di  M.  Plauzio  la  ricompensa  ottenuta  (4),  l'erudito  ro- 
mano avrebbe  preso  un  grave  abbaglio,  poiché,  come  mostra  il  verso 
nsato  da  Plauzio,  questi  non  fu  anteriore  alla  età  di  Ennio;  ma 
se  non  è  sicuro  che  tra  gli  errori  del  vecchio  Plinio  si  debba  an- 
noverare pm"  questo,  perchè  abbiamo  notizia  anche  d'altre  antiche 
pitture  famose  in  un  altro  tempio  d' Ardea  (5),  è  da  ritenere  ad 
ogni  modo  che  le  pitture  da  lui  viste  sian  diffìcilmente  anteriori  al 
VI  e  fors'anche  al  V  secolo.  Ad  antiche  pitture  murali  attinte  alla 
leggenda  greca  si  riferivano  pure  le  iscrizioni  Alexanter,  Cassantra, 
Hecoba,  Pulixena  (6) ,  che  il  retore  Quintiliano  reca  come  esempì 
della  primitiva  ortografia  latina,  dicendo  d'averle  tratte  da  vetusti 
monumenti  e  dalle  pareti  di  tempi  famosi.  Ma  non  soltanto  le  leg- 
gende greche  davano  il  tema  alle  arcaiche  pitture  latine,  si  anche, 
almeno  dal  300  circa,  le  glorie  dei  duci  romani.  Cosi  nel  tempio  di 
Conso  eretto  nel  272  era  dipinto  il  trionfo  di  L.  Papirio  Cursore,  e  il 
trionfo  di  M.  Fulvio  Fiacco  in  quello  di  Vortumno  eretto  nel  264 
da  Fulvio  dopo  la  sottomissione  di  Volsinì  (7)  ;  e  poco  dopo  M.'  Va- 


li) Plin,  n.  h.  XXXV  154. 

(2)  Ibid.  61. 

(3)  Ibid.  17  seg.  :  extant  certe  hodìeque  antiquiores  urbe  picturae  Ardeae  in 
aedibus  sacris  quibtis  ego  quidem  nullas  aeque  mirar,  tam  longo  aevo  durantifi 
in  orbitate  tedi  velati  recentis,  similiter  Lanivi  ubi  Atalante  et  Heìena  coinminus 
pidae  sunt  nudae  ab  eodem  artifice  utraque  excellentissima  forma...  durant  et 
Caere  antiquiores  et  ipsae. 

(4)  Ibid.  115. 

(5)  Serv.  Aen.  1  44. 

(6)  QuiNTiL.  inst.  I  4,   16. 

(7)  Fest.  p.  209  s.  V.  pietà. 


l'ITTLIKA.    SC'OLTUKA  511 


lerio  Messalla  espose  sul  fianco  della  Curia  un  quadro  clie  cele- 
brava la  sua  vittoria  su  lerone  e  i  Cartaginesi  (1).  Simili  a  queste 
dovevano  essere  le  tavole  con  cui  un  patrizio  romano  che  si  dilet- 
tava di  pittura,  Fabio  Pittore,  decorò  sullo  scorcio  del  sec.  IV  il 
tempio  della  Salute  dedicato  nel  302  da  C.  Griunio  Bubulco  (2),  ta- 
vole che  per  la  sicurezza  del  disegno  e  per  l'armonia  dei  colori 
aliena  da  ogni  ricercatezza  non  dispiacevano  neppure  ai  Grreci  del- 
l'età augustea  (3).  Di  queste  pitture  può  darci  un'  idea  un  affresco 
delle  tombe  esquiline,  alquanto  più  tardo,  ma  difficilmente  poste- 
riore al  sec.  m,  in  cui  è  rappresentato  un  chiomato  duce  romano 
col  nome  di  Q.  Fabio,  che  par  ricevere  la  sottomissione  d'mi  co- 
mandante nemico,  M.  Fannio;  probabilmente  rappresentazione 
d'uno  dei  fatti  gloriosi  del  prode  Rulliano  o  del  figlio  suo  (4).  Delle 
attitudini  al  disegno  che  possedevano  gii  artisti  dell'Italia  media 
fanno  pure  testimonianza  assai  favorevole  i  graffiti  delle  ciste  pre- 
nestine;  tra  cui  è  segnata  in  latino  dall'artista  iSTovio  Plauzio,  pro- 
babilmente un  Prenestino,  che,  come  dice  egli  stesso,  lavorava  in 
Roma,  la  bellissima  cista  Ficoroni ,  non  molto  più  recente  della 
fine  di  questo  periodo,  dov'  è  raxjpresentato ,  certo  seguendo  mo- 
delli greci,  ma  con  libertà  e  con  singolare  finezza  nella  esecuzione, 
l'arrivo  degli  Argonauti  nel  paese  dei  Bebrici  (5). 

La  scoltura,  prescindendo  dalle  rozze  figurine  primitive,  s'iniziò 
in  Roma  coi  simulacri  di  legno  e  d'argilla  e  le  decorazioni  pla- 
stiche in  ceramica  dei  fastigi  dei  tempi.  Non  è  dubbio  che  lavori 
siffatti  cominciassero  ad  eseguh'si  in  Roma  ad  imitazione  degli 
Etruschi  fin  dall'età  regia.  Ma  ninno  se  ne  conservava  sul  termine 
dell'età  repubblicana  che  potesse  ritenersi  con  qualche  fondamento 
anteriore  ai  tempi  di  Servio  Tullio  :  questo  è  il  significato  della  te- 
stimonianza di  Varrone,  secondo  cui  per  170  anni  dalhi  fondazione 


(1)  Plin.  n.  h.  XXXV  22. 

(2)  Ibid.  19. 

(3)  DioNYs.  XVI  3  :  ai  ^vxoixioi  fpaqpal  xaiq  re  YPCMMaìq  iràvu  àKptPeì<;  f\aa-v 
Kol  Toìq  |ui^|uaaiv  l'ibeìai,  ttovtòc;  d-rrrìWaTluévov  ?xou(Jai  toO  KoXou.uévou  ^ujttoO 
TÒ  (iv6r|póv.  Che  in  questo  frammento  si  alluda  a  Fabio  Pittore  fu  riconosciuto 
per  primo  da  E.  Q.  Visconti  Op.  varie  III  p.  334. 

(4)  C.  L.  Visconti  '  Bull,  archeol.  comunale  '  XVII  (1889)  p.  340  segg.  tav. 
XI-XII.  Cfr.  Helbig  Fuhrer  durch  die  offentlichen  Sammlungen  in  Roni  I  '  (Leipzig 
1899)  p.  420  seg. 

(5)  Letteratura  presso  Helbk;  Fiihrer  I^  p.  428  segg.  CIL.  XIV  3112.  L'ipotesi 
proposta  dal  Mommsen  e  accolta  da  molti  che  Novio  forse  un  Campano  venne 

•ritirata  da  lui  stesso,  Rum.  G.  I**  p.  447  n. 


512  CAPO   XXIV.    -    COLTURA    E    REl.KilONE 

della  città  i  Romani  non  fecero  immagini  dei  loro  dèi  (  i).  Checché 
ne  sia,  a  remota  antichità  dovevano  certamente  risalire  la  statua 
in  legno  in  cui  si  credeva  di  ravvisare  quel  re  (I  p.  358)  e  la  statua 
di  Diana  Aventinense  che  si  diceva  simile  all'Artemide  dei  Mas- 
salioti  (2)  e  che  riproduceva  in  realtà  l'idolo  efesino  della  dea  (3), 
la  statua  fittile  di  Giove  nel  tempio  capitolino  attribuita  a  Vulca 
di  Veì  e  quella  pur  fittile  d'Ercole  sul  foro  Boario  attribuita  allo 
stesso  artefice  (4).  Sia  dai  monumenti  etruschi,  sia  anche  da  qualche 
frammento  fittile  romano  e  laziale  (5)  possiamo  farci  qualche  idea 
di  questa  maniera  d'arte,  che  ha  stretta  attinenza  con  la  greca 
arcaica  ;  arte  che  più  tardi  ebbe  una  rifioritura  alquanto  meno  di- 
pendente dai  modelli  greci  coi  rilievi  in  terracotta  dipinti  conosciuti 
col  nome  di  rilie\à  Campana  e  con  quelli  che  ad  essi  si  collegano. 
Assai  presto  all'idolo  del  dio  segui  la  statua  destinata  a  rap- 
presentare l'uomo.  A  ciò  diede  occasione  ed  impulso  l'uso  delle 
maschere  che  si  prendevano  sul  Anso  del  defunto,  uso  che,  diffu- 
sissimo presso  i  iDopoli  più  diversi,  assunse  imxDortanza  speciale 
presso  un  popolo  aristocratico  e  conservatore  come  i  Romani  (6). 
Le  maschere  colorate  e  montate  sopra  busti  s'esi3onevano  presso 
l'atrio  nelle  case  signorili  ;  e  la  famiglia  più  nobile  era  quella  che 
poteva  mostrare  maggior  copia  di  queste  immagini  annerite  dal 
fumo  del  focolare  che  ardeva  nell'atrio.  La  vista  continua  di  sif- 
fatte immàgini  e  il  conto  che  se  ne  teneva  fece  si  che  il  ritratto 
avesse  nella  scoltura  romana  fin  dall'origine  una  importanza  re- 
lativa che  non  ha  riscontro  nella  più  ideale  arte  greca.  Già  nel 
sec.  rV  il  Foro  e  il  Campidoglio  cominciavano  a  popolarsi  di  statue, 
alcune  delle  quali  certamente  ideali  e  molto  posteriori  ai  perso- 


(1)  Varrò  ap.  Augustin.  de  civ.  Dei  IV  31  :  dicit  etiani  (  Varrò)  antiqiios  Ro- 
manos  plus  annos .  centum  et  septuaginta  deos  sine  simulacro  coluisse.  Plut. 
Num.  8.  Clem.  Alex.  Strom.  I  15,  71.  Pel  significato  di  questi  passi  vedi 
Detlefsen  de  arte  Rem.  antiquissima  (Gluckstadt  1861)  p.  3  seg. 

(2)  Strab.  IV  180. 

(3)  Cfr.  ibid.  p.  179. 

(4)  Plin.  «.  h.  XXXV  157. 

(5)  ìÌEVBiG  Fiihrer  ì-  p.  419.  Fortwaengler  Meister werke  der  griech.  Plastik 
(Leipzig-Berlin  1893)  p.  250  segg. 

(6)  Marquarut  Privatleben  I  ^  p.  242  segg.  Qui  basti  citare  Polyh.  VI  53,  4: 
Tieéaoi  Tf]v  eÌKÓva  toO  |U€TaXX(iEavTO^  eie,  tòv  ^TTKpavéffTaxov  tóttov  rf]<,  oIkìoc;, 
EùXiva  vaibia  TrepiTiGévreq.  ì)  òè  elKiijv  éari  irpóaujiiov  eie;  ó|uoiÓTr|Ta  biacpepóvruji; 
èEeipYao|aévov  koì  Kaxà  xr^v  irXdaiv  koI  koxò  tì)v  ÙTTOYpoqpnv.  Per  la  diffusione 
di  quest'uso  v.  Benndorf  Antike  Gesichtshelme  und  Sepiilcralmasken  (Wien  1878). 


SCOLTURA.    ARCHITETTUKA  518 

naggi  rappresentati,  se  piu'  questi  avevano  avuto  realtà  storica, 
come  quelle  dei  re  di  Roma,  ma  altre,  a  cominciar  da  quelle  dei 
legati  romani  uccisi  dai  Fidenati,  imitanti  certo  il  vero  quanto  la 
perizia  degli  scultori  lo  permetteva.  Della  relativa  altezza  cui 
giunse  nel  IV  secolo  la  scoltm-a  romana  può  darci  un'  idea  il  tipo 
del  Griano  bifronte,  che  risale  probabilmente  a  quella  età,  sebbene 
venga  ascritto  a  re  Numa  (1).  Quel  tipo,  quale  è  riprodotto  nei 
più  arcaici  assi  romani,  è  certo  una  imitazione  e  un  adattamento 
delle  doppie  erme  usuali  in  Grrecia;  ma  non  può  negarsi  che  l'adat- 
tamento fosse  felice  e  che  per  esso  s'esprimesse  plasticamente'assai 
bene  il  concetto  del  nume  che  apre  e  che  chiude,  che  dalla  porta 
guarda  l'esterno  e  l'interno  e  che  appunto  per  ciò  divenne  il  sim- 
bolo del  tempo  che  dal  passato  si  protende  verso  l'awenù-e.  Non 
può  citarsi  invece  come  monumento  della  scoltura  romana  del  300 
circa  la  lupa  capitolina,  poiché  essa  non  è  punto  quella  lupa  di 
bronzo  che  nel  296  dedicarono  gli  Ogulnì  (2) ,  si  va  giudicata 
opera  arcaica  -del  500  cii'ca,  greca  d'origine  o  fors'  anche  eseguita 
in  Italia,  ma  in  stretta  dipendenza  da  esemx3lari  greci  (3). 

L'architettura  romana  (4)  più  che  crear  grandiose  opere  d'arte 
si  occupò  in  questi  secoli,  fin  circa  al  300,  di  lavori  d'utilità  pratica, 
sperimentandosi  nella  costruzione  di  mura,  di  ponti  e  di  cloache. 
Venne  inoltre  costituendosi  stabilmente  fin  dagl'  inizi  di  questo 
periodo  ne'  suoi  elementi  essenziah  la  casa  romana.  La  casa  ro- 
mana più  antica,  con  le  sue  m.ura  poco  o  nulla  aperte  sulla  via, 
tranne  che  per  la  porta  d'ingresso,  e  destinate  ad  assicurare  gl'in- 
quilini dalla  indiscreta  curiosità  degli  estranei ,  col  suo  tetto  in 
pendio  verso  l'interno,  forato  da  una  grande  apertura  {impluvium) 
che  le  dava  la  luce  e  per  cui  l'acqua  piovana  scendeva  in  un  ba- 
cino centrale  {conipluvium)^  differisce  assai  dalla  casa  moderna, 
la  cui  vita  gTavita  in  certo  modo  più  verso  l'esterno  che  verso 
l'interno  e  che  cerca  luce  ed  aria  dalle  grandi  apertm-e  onde  s'af- 


(1)  Plin.  n.  h.  XXXV  157.  Si  credeva  che  la  disposizione  delle  dita  di  questa 
statua  indicasse  il  numero  dei  giorni  dell'anno,  365  :  Plin.  «.  h.  XXXIV  33. 
Macrob.  sat.  I  9,  10.  Lyd.  de  mens.  IV  1.  Ma  questa,  che  è  una  congettura  ar- 
bitraria di  qualche  antico,  non  deve  farci  creder  davvero  che  la  statua  fosse 
tarda.  E  non  può  certo  dirsi  felice  la  ipotesi  del  Wissowa  Religion  und 
Kultus  der  ROiner  p.  93  che  il  Giano  bifronte  sia  stato  creato  ci.mo  tipo  mo- 
netario. 

(2)  Liv.  X  23,  12. 

(3j  Helbig  Filhrer  1'  p.  429  segg.  Petkr    Vom  alien  Rom  p.   17  seg. 
(4)  DuRM  Die  Baukunst  der  Etrusker  und  Riìmer'  (Stuttgart  1905). 

(t.  De  Sancti.s,  Storia  dei  Romani,  II.  83 


514  CAPO   XXTY.    -    COLTURA    E    RRLIOIOXE 

faccia  sulla  via.  Invece  il  cortile,  l'atrio,  è  il  centro  della  vita  ca- 
salinga in  Roma.  Nei  corridoi  coperti  che  lo  circondano  s'aprono  le 
stanzuccie  della  famiglia  e  quelle  ove  si  serbano  gli  arredi;  presso 
l'atrio  si  conservano  le  immagini  fumose  dei  maggiori,  e  in  esso  è 
il  focolare  attorno  a  cui  si  celebrano  i  conviti  e  sul  quale  si  venera 
il  Lare  domestico;  al  fondo,  di  faccia  alla  porta  d'entrata,  sta  al 
posto  d'onore  la  camera  matrimoniale  del  padrone  di  casa.  Questa 
corte  che,  insieme  col  talamo,  divenuto  poi  il  fablinum,  costituisce 
la  jìarte  essenziale  della  casa  romana,  si  è  voluta  riguardare  come 
una  trasformazione  della  antichissima  capanna ,  nel  cui  tetto  si 
sarebbe  praticata  una  grande  apertui^a,  e  si  sono  addotte  a  riprova 
testimonianze,  prive  peraltro  d'ogni  conferma  monumentale,  su  atri 
interamente  coperti.  Checché  ne  sia  di  siffatti  atri,  è  certo  che 
l'atrio  deve  la  sua  origine  non  alla  capanna,  ma  al  recinto  qua- 
drangolare con  cui  la  capanna  si  prese  a  cingere,  e  che  la  capanna 
stessa  si  continua  piuttosto  nel  tablino;  X3erciò  l'origine  della  casa 
romana  non  differisce  sostanzialmente  da  quella  della  casa  greca: 
il  che  non  implica  provenienza  genetica  della  prima  dalla  seconda, 
potendo  le  affinità  spiegarsi  dalle  somiglianze  del  clima  e  delle 
esigenze  e  dall'indirizzo  parallelo  dello  sviluppo  civile  (1). 

Nessuna  tomba  veramente  monumentale  è  conservata  di  questa 
età  nel  Lazio,  per  quanto  se  ne  siano  rinvenute  con  suppellettile 
assai  ricca,  in  ispecie  a  Preneste.  La  tomba  cosi  detta  degli  Orazi 
e  Cui^azi  presso  Ai'icia  (2)  sembra  appartenere  allo  scorcio  della  età 
repubblicana.  In  Roma  si  seppelliva  in  semplici  pozzi  o  fosse, 
in  arche  di  pietra,  in  camere  sepolcrali.  Al  termine  di  questo  pe- 
riodo spetta  il  più  antico  e  al  tempo  stesso  il  più  elegante  sarco- 
fago romano  conservato,  quello  di  L.  Cornelio  Scipione  Barbato. 

Mentre  però  così  modeste  erano  in  Roma  le  case  dei  morti  e 
dei  vivi  e  scarsi  e  di  meschina  apparenza  eran  gli  edifizì  pubblici, 
come  la  Curia  e  la  Regia,  si  cominciarono  ad  innalzare  in  certo 
numero  edifìzi  destinati  al  culto  (3),  Non  pochi  ne  attribuisce  la 
tradizione  al  V  e  al  IV  secolo,  dei  quali  se  anche  non  a  pieno 
sicure,  una  per  una,  son  le  date   tradizionali,  esse   son   però   nel 


(1)  Seguo  sulle  origini  della  domus  romana  la  ipotesi  geniale  svolta  dal 
Patroni  '  Rend.  dei  Lincei  '  ser.  V  voi  XI  (1902)  p.  467  segg.,  pur  respingendo 
e  la  sua  interpretazione  errata  del  testo  di  Varr.  ap.  Non.  p.  63  e  le  sue  in- 
duzioni arbitrarie  sulle  relazioni  della  casa  romana  con  la  micenea. 

(2)  Attribuita  ad  Arunte  in  base  a  Liv.  II  14.  Dionys.  V  36.  VII  5;  a 
Pompeo  Magno  in  base  a  Plut.  Pomp.  80. 

(3)  Adst  De  aedihus  sacris  pop.  Romani  (Marpurgi  1889,  diss.). 


ARCHITETTURA  515 


tutto  insieme  fededegne.  Intorno  al  300  poi  il  desiderio  di  cele- 
brare i  prosperi  successi  delle  guerre  e  di  eternare  la  gratitudine 
agli  dèi  protettori  di  Roma  insieme  col  ]3rogredire  del  sentimento 
estetico  elle  faceva  desiderare  di  abbellire  la  città  con  edilizi  arti- 
stici tali  da  poter  competere  con  quelli  clie  si  cominciavano  a  co- 
noscere delle  città  etrusclie,  della  Campania  e  delle  colonie  greche 
diede  alla  costruzione  dei  tempi  un  impulso  straordinario  :  al  quale 
molto  conferi  anche  F affluire  di  ricchezze  per  effetto  delle  vittorie 
e  delle  conquiste.  A  quegli  anni  spettano  i  tempi  della  Salute  (302), 
di  Bellona  ('296),  di  Giove  Vincitore  (295),  di  Venere  (295),  della 
Vittoria  (294),  di  Giove  Statore  (294),  di  Quirino  (293),  di  Escu- 
lapio  (291),  di  Summano  (272),  di  Conso  (272),  di  Tellm^e  (268),  di 
Pale  (267),  di  Vortumno  (264).  Nessmio  di  questi  tempi  era  ancora 
costruito  in  marmo:  soli  materiali  adoperati  erano  il  tufo  e  più 
tardi  il  peperino.  Di  questi  arcaici  tempi  eli  Roma  nessuno  rimane 
in  piedi.  Di  alcuni  peraltro  ci  è  noto  il  piano  e  le  dimensioni,  come 
del  tempio  di  Giove  Capitolino,  il  più  antico  tempio  monumentale 
romano,  perchè  ricostruito  poi  ]3er  motivi  religiosi  esattamente 
sulle  vestigia  del  tempio  originario  (1).  Dobbiamo  a  ogni  modo 
immaginarli  non  dissimili  dai  tempi  etruschi,  con  la  loro  ricca  de- 
corazione fìttile  variopinta  nella  parte  più  elevata,  della  quale  non 
è  impossibile  farci  in  particolare  un'idea  pel  tempio  di  Giove  Ca- 
pitohno  dalle  notizie  che  ne  abbiamo  presso  gli  scrittori  antichi  (2). 
Non  possiamo  dire  però  in  qual  mism^a  cominciasse  ad  affermarsi 
in  questi  tempi  quella  che  fu  poi  la  nota  caratteristica  della  archi- 
tettura monumentale  romana,  l'uso  dell'arco  e  della  volta,  non  più 
come  espediente  pratico  di  costruttori  per  le  porte,  i  ponti  e  le 
cloache ,  ma  come  mezzo  artistico  largamente  e  sapientemente 
messo  a  profitto.  Ad  ogni  modo  accanto  ai  santuari  quadrangolari 
costruirono  fin  da  questa  età  i  Romani  quei  sacri  edifìzì  rotondi 
che  forse  son  trasformazioni  artistiche  dell'antichissima  capanna: 
tale  era  fin  dalle  sue  origini  il  tempio  di  Vesta,  che  non  è  difficile 
riproducesse  nella  sua  struttura  l'antico  santuario  di  Caca  sul  Pa- 
latino (3). 

Vera  scienza  in  questa  età  non  esisteva.  Ma  non  mancavano 
norme  sicm-e  e  precise  per  lavori  d'ingegneria;  e  anche  gli  agri- 
mensori romani  {(/roniatici)  sapevano  assai  bene  misurare  e  divi- 
dere e  s'aiutavano  nei  lavori  con  lo  squadi-o  {(froma)  da  cui  appunto 


(1)  DioNYS.  IV  61.  Martha  Vart  étranque  p.  269  segg. 

(2)  Cfr.  Milani  '  Mus.  Ital.  di  ant.  classica'   I   (1888)  p.  90  n. 

(3)  ìNltmann  Die  itulienischen  Rundbauten  (Berlin   1906). 


516  CAPO   XXIV.    -    COLTUKA    E    RELKilOXE 

prendono  il  nome  (1).  In  condizioni  assai  inferiori  era  la  medicina; 
in  cui  ancora  sui  precetti  fondati  nella  esperienza  predominavano 
quelli  fondati  nella  superstizione  (2).  Anche  l' astronomia  non  si 
coltivava  che  a  scopo  pratico.  E  delle  imperfette  nozioni  che  se 
n'avevano  fa  testimonianza  la  imperfezione  del  calendario  romano  : 
del  quale  è  necessario  far  qui  un  cenno  speciale,  a  guisa  di  paren- 
tesi, affinchè  appaia  chiaro  quale  è  il  valore  che  possono  avere  per 
noi  le  date  sul  giorno  d'una  battaglia  o  dell'entrata  in  carica  d"un 
console  che,  scarsissime  in  questo  periodo,  più  abbondanti  nei  pe- 
riodi successivi,  ci  son  trasmesse  dagli  antichi  (3). 

La  natui'a  stessa  fornisce  all'uomo  una   misura  del  tempo  nei 
giorni,  nelle  lunazioni  e  nelle  rivoluzioni  del  sole,  che  determinano 


(1)  Gli  scritti  a  noi  pervenuti  degli  agrimensori  romani,  editi  ed  illustrati 
da  Blumk,  Lachjiann  e  Rudorff  Die  Schriften  der  róm.  Feldmesser  I.  II  (Bei'lin 
1848.  1852),  non  sono  anteriori  al  I  sec.  di  C,  e  risentono  la  efficacia  della 
matematica  alessandrina.  Cfr.  Cantor  Die  rom.  Agrimensoren  und  ihre  Stelhing 
in  der  Geschichte  der  Feldmesslcunst  (Leipzig  1875).  Tuttavia  la  pratica  della 
loro  disciplina  era  senza  dubbio  antichissima  in  Roma,  e  non  dai  Greci,  ma 
probabilmente  dagli  Etruschi  avevano  ricevuto  già  in  età  assai  remota  i  Ro- 
mani la  grama,  il  cui  nome  non  par  punto  collegarsi  cól  greco  Yviiiiuuuv.  V.  su 
quell'istrumento  G.  Rossi  Gronia  e  squadro  ovvero  storia  dell'agrimensura-  ita- 
liana (Torino  1877)  p.  34  segg. 

(2)  Plinio  n.  h.  XXIX  11  dice  che  il  popolo  romano  visse  per  seicento  anni 
sine  medicis  nec  tamen  sine  medicina;  e  cita  poi  secondo  Cassio  Emina  Arca- 
gato  Peloponnesiaco  come  il  primo  medico  venuto  a  Roma  nel  217.  Che  del 
resto  presso  i  Romani  non  potesse  mancare  già  prima  qualche  pratica  di 
medicina  e  di  chirurgia  è  per  se  evidente,  anche  prescindendo  da  quel  testa 
di  Plinio  e  da  una  legge  attribuita  a  re  Numa  [dig.  XI  8,  2);  che  poi  già 
prima  d'Ai'cagato  vi  fossero  in  Roma,  più  o  meno  onorati,  professionisti  in- 
digeni che  esei'citavano  quell'arte,  par  dimostrato  dal  nome  d'  origine  italica 
che  ebbero  in  latino  i  medici.  Fa  d'uopo  appena  notare  de)  resto  che  testi 
come  quello  di  Dionys.  X  53,  1  o  simili,  che  pur  si  son  citati  per  dimostrare 
l'antichità  dei.  medici  in  Roma,  hanno  assai  poco  valore.  Non  molto  critica  è 
la  memoria  del  Briau  L'introdiiction  de  la  medicine  dans  le  Latium  et  à  Rome 
'  Revue  Archéol.  '  ser.  Ili  t.  VI  (1885)  p.  385  segg.  VII  (1885)  p.  192  segg. 

(3)  La  letteratui'a  sulla  cronologia  romana  è  smisurata.  Citerò  solo  Mommsen 
Rihn.  Chronologie'^  (Berlin  1859).  Huschke  Das  alte  rom.  Jahr  und  seine  Tage 
(Berlin  1869).  Hartmann  Der  rom.  Kalender  herausg.  v.  Lange  (Leipzig  1882). 
Matzat  RìJm.  Chronologie  (Berlin  1883-4).  Soltau  Prolegomena  zìi  einer  ri'un. 
Chronologie  ('Histor.  Untersuchungen  '  herausg.  v.  Jastrow  III,  Berlin  1886). 
Rom.  Chronologie  (Freiburg  i.  B.  1889).  Holzapfel  Rom.  Chronologie  (Leipzig 
18851  Unger  Zeitrechnung  der  Griechen  und  Romer  nel  '  Handbuch  '  di 
I.  MuELLKR  r  (Munchen    1892). 


SCIENZE.    CALENDARIO  517 


il  giro  delle  stagioni.  Dodici  lunazioni  corrispondono  approssima- 
tivamente a  una  rivoluzione  solare;  e  però  dopo  trascorse  dodici 
lunazioni  si  torna  press'a  poco  alla  stessa  stagione  che  coiTeva 
prima  di  esse.  Cosi  è  che  presso  moltissimi  popoli,  come  presso 
i  Greci  ed  i  Romani,  il  calendario  comincia  con  l'anno  di  dodici 
mesi  lunari  (1).  Gli  antichi  parlano,  è  vero,  di  un  anno  di  dieci 
mesi  attribuito  a  Romolo^  a  cui  Numa  avrebbe  poi  aggiunto  i  due 
mancanti.  E  vi  sono  moderni  che,  prescindendo  da  Romolo  e  da 
Numa,  hanno  prestato  fede  a  questa  assurda  leggenda.  Ma  è  assai 
facile  spiegare  com'essa  sia  sórta.  Il  primo  mese  dell'anno  romano 
era  infatti  in  origine  il  marzo,  e  dal  marzo  cominciava  il  computo 
dei  mesi,  sicché  il  (plinto  mese  si  chiamava  quintile  e  il  decimo 
decembre.  Ma  ritenuto  poi  primo  giorno  dell'anno  il  primo  del  mese 
sacro  a  Giano,  il  gennaio,  com'era  forse  in  altri  calendari  latini, 
e  consacrata  questa  ox3Ìnione  dall'uso  civile  quando  il  primo  gen- 
naio presero  ad  entrare  in  carica  i  consoli ,  quintile  divenne  il 
settimo  mese  e  decembre  il  dodicesimo.  Questo  diede  occasione  al 
mito  che  i  mesi  in  origine  fossero  dieci  e  che  gennaio  e  febbraio, 
non  compresi  in  quel  computo,  fossero  un'aggiunta  posteriore  (2). 
L'anno  di  dodici  mesi  lunari  presenta  alcuni  gravi  inconve- 
nienti. Anzi  tutto  la  lunazione  dura  circa  29  giorni  e  mezzo  (3); 
e  quindi  i  mesi  non  possono  avere  eguale  durata,  ma  debbono  al- 
ternarsi mesi  di  29  e  mesi  di  30  giorni.  Inoltre  quell'anno  è  di  oltre 
dieci  giorni  più  breve  dell'anno  solare  (4),  in  modo  che  adottan- 
dolo, deve  x^resto  verificarsi  uno  spostamento  delle  stagioni  in  rap- 
porto coi  mesi.  A  questo  inconveniente  si  poteva  peraltro  rimediare 
anche  empiricamente  pmx;hè  lo  spostamento  si  avvertisse,  proce- 
dendo ogni  tanto  alla  inserzione  di  un  mese  intercalare  per  rista- 
bilire la  corrispondenza  tra  i  mesi  e  le  stagioni.  Ad  avvertire  poi 


(1)  È  noto  che  il  nome  di  mensis  o  ^xr\v  vuol  dire  appunto  lunazione,  e  si 
collega  con  M'ivri,  mond  ete.  Varrò  de  l.  l.  VI  10:  mensis  a  lunae  motii  dictus 
diim  a  sole  profecta  rursus  redit  ad  eum.  lana  quod  graece  olim  dieta  MÓvr)  unde 
illorum  Mf)V€<;,  ab  eo  nostri. 

(2)  Censobin.  rfe  die  nat.  22.  9-14  (secondo  M.  Fulvio  Nobiliore,  Giunio  Grac- 
cano  e  Varrone).  Plut.  Num.  18.  Fkst.  p.  150  s.  v.  Martius.  Gell.  n.  A.  HI 
16,  16.  SuETON.  fr.  119  R.  Mackor.  .sat.  I  12,  3.  Sembrano  assai  poco  convin- 
centi anche  le  prove  che  adducono  per  l'esistenza  di  questo  anno  di  dieci  mesi 
i  moderni,  raccolte  p.  es.  presso  Holzapkel  Chron.  p.  287  seg- 

(.3)  Più  precisamente  il  mese  sinodico,  cioè  il  tempo  che  la  luna  impiega 
per  tornare  in  opposizione  al  sole,  è  di  29  giorni  12  oro  44  minuti  e  8  secondi. 

(4)  Il  quale  ha  una  durata  di  365  giorni  6  ore  9  minuti  9.5  secondi  (anno 
siderale)  o  di  365  giorni  5  ore  48  minuti  46.1  secondi  (anno  tropico). 


518  CAPO   XXIV.    -    COLTl'KA    E    RELIGIONE 

lo  spostamento  giovavano  alcune  feste  lisse  che  si  collegavano 
condeterminate  stagioni:  ad  esempio  le  Cerialia  (19  aprile),  che 
dovevano  cadere  in  primavera,  e  le  Robigalia  (25  aprile),  in  cui 
s'invocava  la  liberazione  del  grano  dalla  golpe,  che  dovevano  cader 
pm-e  in  primavera  quando  il  pericolo  della  golpe  è  maggiore.  Or 
come  la  data  di  queste  feste  era  fissata  nel  feriale  dei  decemviri 
(I  p.  265),  è  pm"  chiaro  che  almeno  dai  decemviri  in  poi  V  anno 
romano  uou  ijotè  essere  un  anno  vago,  perchè  in  un  anno  vago 
le  feste  rurali  debbono  essere  feste  mobili. 

E  presumibile  che  in  origine  di  procedere  alla  aggimita  di  un 
mese  intercalare  si  siano  occupati,  in  modo  affatto  empirico,  i  pon- 
tefici, ogni  qual  volta  cominciavano  ad  avvedersi  che  date  feste 
non  cadevano  più  nel  momento  in  cui  avrebbero  dovuto  esser  ce- 
lebrate. Ai  pontefici  era  appunto  affidata  dai  tempi  più  remoti  la 
cura  del  calendario,  sia  per  le  cognizioni  astronomiche  che  essi 
dovevano  avere ,  sia  per  la  imxjortanza  che  aveva  il  calendario 
rispetto  al  culto.  E  sappiamo  di  fatto  che  il  pontefice  minore  os- 
servava l'apparire  della  prima  falce  della  luna  nuova  e,  osserva- 
tala, annunziava  al  re  dei  sacrifizi,  e  quindi  in  origine  al  capo 
dello  Stato,  il  principio  del  mese,  che  prendeva  aijpunto  per  ciò 
il  nome  di  calende,  e  avvertiva  il  popolo  quale  sarebbe  stato  il 
giorno  del  primo  quarto  ossia  le  none,  invitando  la  luna  a  pre- 
sentarsi in  quel  giorno  (1).  Certo  è  che,  com'è  naturale,  l'interca- 
lazione è  molto  antica,  tanto  che  neppur  si  avevano  documenti 
della  sua  origine,  onde  essa  veniva  attribuita  ad  arbitrio  a  Romolo, 
a  Numa  ed  a  Servio  Tullio  (2\  Della    sua    antichità  è   confermi» 


(1)  Macrob.  sat.  I  15,  8  seg.:  priscis  ergo  temporibus  anteqiiam  fasti  a  Cn. 
Flavio  scriba  invitis  patribìis  in  omnium  notitìam  proderentur  pontifici  minori 
haec  provincia  delegabatur  ut  novae  lumie  primum  observaret  aspectum  visamque 
regi  sacrificulo  nuntiaret.  itaque  sacrifìcio  a  rege  et  minore  pontifìce  celebrato, 
idem  pontifex,  calata  id  est  vocata  in  Capitolium  plebe...  quot  numero  dies  a  ka- 
lendis  ad  nonas  snperessent  pronuntiabat  et  quintanas  quidem  dicto  quinquies 
verbo  koXù),  septimanas  repetito  septies  praedicabat.  Varrò  de  l.  l.  VI  27. 

(2)  Macroh.  .fat.  I  13,  20  seg.:  quando  aufem  primum  intercalatum  sit  varie 
refertur.  et  Macer  quidem  Licinius  eius  rei  originem  liomulo  adsignaf,  Antias 
libro  secando  Numam  Pompilium  sacrorum  causa  id  invenisse  contendit.  lunius 
(Graccano)  Servium  Tullium  regem  primo  intercalasse  commemorai. ..Tuditantis  refert 
libro  tertio  magistratuum  decemviros  qui  decem  tabulis  duas  addiderunt  de  inter- 
calando populum  rogasse.  Cassius  eosdem  scribit  auctores.  Fidvius  autem  id  egisse 
M'.  Acilium  consulem  dicit...  inito  mox  bello  Aetolico.  sed  hoc  arguii  Varrò  scribendo 
uniiquissimam  legem  fuisse  incisam  in  columna  aerea  a  L.  Binario  et  Furio  consu- 
libus  cui  menlio  (così  i  codd.  :  si  "e  congetturato  mensis)  intercalaris  adscribitur. 


CAI.ENDAIUO  519 


ima  legge  ricordata  da  Varrone,  che  era  stata  incisa  in  una  co- 
lonna di  bronzo  sotto  il  consolato  di  L.  Pinario  e  di  Furio  (472), 
dov'era  menzionato  il  mese  intercalare.  Questa  legge,  della  cui  au- 
tenticità si  è  dubitato  da  qualche  moderno,  ma  senza  ragione  al- 
cuna, non  prova  peraltro  che  fin  d'allora  nell'intercalare  si  seguisse 
una  norma  costante.  Pare  invece  indubitato  che  norme  concer- 
nenti la  intercalazione  fossero  già  nelle  dodici  tavole,  e  più  preci- 
samente nelle  due  ultime  di  esse.  Dopo  il  decemvirato  gli  antichi 
non  sapevano  citare  altra  legge  sull'intercalazione  che  quella  del 
console  M'.  Acilio  Glabrione  (191),  il  vincitore  di  Antioco.  Alcuni 
moderni  però  hanno  creduto  di  inserire  nelle  lacune  della  tradi- 
zione una  legge  sul  calendario  dell'edile  Cn.  Flavio.  Questa  ipotesi 
non  può  accettarsi  tenuto  conto  del  silenzio  delle  fonti  che  pur  hanno 
rintracciato  quanti  documenti  s'avevano  sulla  intercalazione  a  co- 
minciare dalla  legge  di  Fm^io  e  di  Pinario,  e  più  ancora  della  sem- 
Ijlice  considerazione  che  un  edile  curale  non  poteva  far  proposte 
di  leggi,  mancandogli  il  dn-itto  di  trattare  col  popolo;  che  se  pur 
si  volesse  supporre  che  prima  della  edilità  egli  avesse  presentato 
la  sua  xDroposta  da  tribuno  della  plebe  per  farla  approvare  come  ple- 
biscito, sarebbe  da  opporre  essere  impossibile  che  la  plebe  si  occu- 
passe di  propria  autorità  di  cose  attinenti  al  diritto  sacro  come  il 
calendario,  quando  ancora  non  aveva  osato  introdurre  un .  plebeo 
nel  collegio  dei  pontefici.  Fondamento  di  questa  errata  ipotesi  mo- 
derna è  che  uno  scrittore  antico  collegava  il  termine  dell'arcaica 
ceremonia  della  proclamazione  delle  calende  e  delle  none  con  la 
divulgazione  dei  fasti  fatta  da  Cn.  Flavio.  Ora  s'intende  benissimo 
come  con  tal  divulgazione  (della  cui  importanza  fu  detto  altrove) 
venisse  congetturalmente  collegata  la  fine  di  quella  ceremonia  di 
cui  al  tempo  dei  più  antichi  annalisti  non  si  conservava  che  la 
memoria.  Ma  è  singolare  che  autoschediasmi  annalistici  di  questa 
fatta  possano  esser  presi  come  punto  di  partenza  di  complesse 
teorie  cronologiche;  poiché  nessuno  vorrà  sostenere  che  nelle  re- 
gistrazioni dei  pontefici  fosse  notato  quando  s'omise  del  tutto  quella 
ceremonia,  che  a  poco  a  poco  doveva  essersi  trasformata  in  una 
pura  formalità  priva  d'importanza.  Tutto  ciò  mostra  non  solo  che 
non  può  parlarsi  in  alcun  modo  d'un  calendario  flaviano,  ma  altresì 
che  alla  infondata  congettura  moderna  sopra  una  riforma  del  ca- 
lendario sullo  scorcio  del  IV  secolo  va  i)referita  la  tradizione  antica 
che  non  sa  di  riforme  del  calendario  tra  i  decemviri  ed  Acilio. 

Per  giudicare  in  che  (pieste  riforme  consistessero,  conviene 
prendere  le  mosse  dalle  condizioni  del  calendario  romano  anterior- 
mente a  Cesare.  L'anno  romano  comune  aveva  allora  355  giorni. 


520  CAPO   X.XIV.    -    COLTURA    K    RELTOIONE 

Dopo  le  Termiualia,  che  cadevano  il  23  febbraio,  s'intercalava  un 
anno  sì  ed  uno  no  un  mese  di  22  o  di  23  giorni,  il  cosi  detto  mer- 
cedonio.  Base  del  calendario  era  una  tetraeteride  composta  di  due 
anni  comuni  alternati  con  due  intercalari,  uno  col  mercedonio  di  22 
ed  uno  col  mercedonio  di  23  giorni  (1).  Senonchè  i  difetti  di  questo 
ciclo  non  erano  rimasti  nascosti  ai  Romani,  i  quali  vi  provvede- 
vano con  alcune  norme  clie  certo  debbono  essere  state  fissate 
dalla  legge  Acilia.  Convien  quindi  ritenere  che  il  ciclo  della  te- 
traeteride, cosi  imperfetto  com'esso  era  prima  delle  correzioni  aci- 
liane,  spetti  alla  legislazione  decem virale  (2). 

La  tetraeteride  romana  implicava  un'assoluta  rinuncia  a  quella 
corrispondenza  tra  il  mese  e  la  lunazione  che  i  Greci  tentarono 
invece  a  lungo  di  conservare.  E  appunto  perchè  essa  importava 
l'abbandono  del  mese  lunare  si  è  esitato  da  alcuni  moderni  a  rife- 
rirla ad  età  si  remota.  Ma  convien  riflettere  che  ai  Grreci  era  indi- 
spensabile conservare  il  mese  lunare  per  potersi  in  qualche  modo 
intendere  tra  loro  pel  computo  del  tempo  in  mezzo  ai  calendari 
disparati  delle  varie  città,  mentre  i  Romani  avevano  facile  modo 
d'intendersi  coi  vicini  per  mezzo  del  computo  delle  nundine  (sopra 
p.  473).  E  poi  conciliare  il  mese  lunare  con  l'anno  solare  non  è 
facile,  e  il  ciclo  di  diciannove  anni  escogitato  all'uopo  da  Metone, 
che  rappresenta  il  miglior  calendario  lunisolare  e  il  cui  computo 
l^artiva  dal  433/2  (3),  era  certo  ignoto  ai  legislatori  romani,  i  quali, 
trovandosi  innanzi  ad  un  problema  che  non  valevano  a  risolvere 
e  volendo  d'altra  parte  por  termine  ad  ogni  arbitrio  nell'interca- 
lazione, troncarono  il  nodo  invece  di  scioglierlo.  Par  singolare  che 
mentre  rinunciavano  al  tutto  al  mese  lunare,  introducessero  nel- 
l'anno divisioni  incomode  ed  ineguali,  quando  sarebbe  stato  facile 
liberarsi  dai  mesi  intercalari  dividendo  l'anno  in  mesi  di  trenta 
e  di  trentun  giorni.  Ma  com'essi  non  esitarono  a  una  riforma  ardita 


(1)  Cf,n60rin.  de  die  naf.  20,  6  :  denique  ciim  intercalariiim  mcnsem  vigiliti  duum 
vel  viginti  trium  dieriim  nlternis  annis  addi  placitisset  ut  civilis  annus  ad  natii- 
ralem  exaequarettir,  in  mense  potissimumfehrnario  Inter  terniinalia  et  regifugium 
intercalatum  est  idque  diu  factum  prius  quani  sentiretur  annos  ciriles  aliquanto 
naturalihus  esse  maiores.  Macrob.  sat.  I  13,  12. 

(2)  Non  par  possibile  riportare  questo  ciclo  fino  a  Servio  Tullio  con  Hart- 
mann p.  26  e  HoLZAPFEL  p.  283.  È  già  molto  se  si  attribuisce  ai  decemviri 
r  abbandono  reciso  del  mese  lunare  quale  è  presupposto  dalla  tetraeteride 
romana.  E  forse  si  esiterebbe  se  la  eclissi  di  Ennio  (1  p.  20  n.  1)  non  dimo- 
strasse che  già  intorno  al  400  il  mese  non  era  più  in  rapporto  con  la  lunazione. 

(3)  DioD.  XII  36. 


CALENDARIO  521 


dove  si  trattava  di  por  termine  ad  arbitri  pericolosi,  cosi  non 
vollero  romperla  con  la  tradizione  per  pm'o  amore  di  simmetria 
rendendo  più  difficile  a  mantenersi  la  riforma  introdotta.  Cosi, 
perchè  per  ragioni  superstiziose  i  Romani  preferivano  il  numero 
dispari  al  pari,  i  mesi  avevano  parte  29  (1),  parte  31  giorni  (2), 
fuori  di  uno,  il  febbraio,  che  ne  aveva  un  numero  pari  (28),  senza 
di  che  Tanno  non  avrebbe  potuto  avere  i  355  giorni  richiesti.  Sif- 
fatte concessioni  alla  tradizione  e  soprattutto  il  conservarsi  del 
mese  intercalare  quando  non  ve  n'era  più  bisogno  confermano  che 
alla  riforma  decemvirale  dev'essere  preceduto  un  lungo  periodo  in 
cui  per  mezzo  di  intercalazioni  fatte  empiricamente  i  pontefici 
avevano  cercato  F accordo  tra  l'anno  solare  ed  il  mese  lunare. 

Ma  una  più  grave  imperfezione  poteva  apporsi  a  tale  tetra- 
eteride,  e  questo  pur  ne  dimostra  l'anticliitcì.  :  che  cioè  l'anno  veniva 
ad  avere  per  essa  in  media  366  giorni  e  V4,  ossia  quattro  giorni  di 
più  del  dovere  ogni  quadriennio  ;  in  modo  che  se  non  si  avvertiva 
r  inconveniente  e  non  vi  si  provvedeva,  dox^o  due  secoli  dal  decemvi- 
rato, circa  .la  metà  del  sec.  Ili  av,  C,  il  principio  dell'anno  romano 
si  sarebbe  sxDostato  di  sei  mesi  e  venti  giorni;  onde  se  intorno  al  450 
av.  C.  il  primo  marzo  romano  corrispondeva  al  primo  marzo  giu- 
liano (né  certo  può  esserne  stato  molto  lontano  in  virtù  delle  feste 
rurali  che  erano  appunto  fissate  nel  calendario  decemvirale),  intorno 
al  250  a  Roma  sarebbe  cominciato  il  marzo  quando  secondo  il  ca- 
lendario giuliano  si  sarebbe  dovuto  avviare  al  termine  il  settembre. 
In  realtà  questo  non  era,  come  si  trae  dallo  studio  del  calendario 
nell'età  della  prima  guerra  punica  (3).  Quindi  è  chiaro  che  l'incon- 
veniente si  avverti,  e  non  si  mancò  di  correggerlo  empiricamente. 
S'intende  che  a  questo  modo  l'arbitrio  dei  pontefici,  che  i  decèmviri 
avevano  voluto  torre  di  mezzo,  riprendeva  1'  antico  dominio.  In- 
fatti la  tetraeteride  dovette  essere  alterata  tosto  dopo  introdotta, 
e  i  pontefici  che  si  arrogavano  il  diritto  di  omettere  a  tempo  de- 
l)ito  uno  dei  mesi  intercalari  previsti  dal  ciclo  non  possono  aver 
mancato  di  usarne  arbitrariamente,  sia  talora  in  perfetta  buona 
fede  per  motivi  religiosi  o  superstiziosi,  sia  anche  per  ragioni  po- 
litiche, volendo  accorciare  Tanno  di  carica  di  magistrati  mal  visti: 
che  se  pure,  come  certo  non  fu,  i  pontefici  si  fossero  lasciati  gui- 


(1)  Cioè  gennaio,  aprile,  giugno,  sestile,  settembre,  novembre,  decembre,  in 
modo  che  le  none  cadevano  in  essi  il  ^)  e  le  idi  il  13. 

(2)  Cioè  marzo,  maggio,  quintile  ed  ottobre,  che  avevano  le  none  il  7  e  le 
idi  il  15. 

(3)  V.  sopra  p.  390  n.  2. 


522  CAPO   XXIV.    -    COLTURA    E    RELICflONE 

dare  dal  solo  desiderio  di  correggere  la  imperfezione  della  tetra - 
eteride  deceinvii'ale,  regolandosi  empiricamente,  essi  non  avrebbero 
potuto  evitare  qualche  spostamento  nel  calendario.  A  siffatti  spo- 
stamenti si  aveva  peraltro  un  correttivo  permanente  nelle  feste 
rurali  fisse,  correttivo  il  quale  doveva  dal  V  al  III  secolo  essere 
ancor  più  efficace  di  quel  che  non  fosse  più  tardi  quando  la  santità 
di  quelle  feste  era  assai  meno  sentita  dall'anima  popolare.  Queste 
considerazioni  dimostrano  che  ogni  tentativo  per  ricostruire  l'an- 
damento del  calendario  romano  fino  alla  legge  Acilia  non  è  che 
vano  giuoco  d' ingegno,  e  che  è  un  grave  errore  di  critica  in  os- 
sequio ad  un  sistema  cronologico  qualsiasi  fare  violenza  ai  dati 
delle  fonti,  mentre  il  calendario  non  era  regolato  secondo  un 
procedimento  sistematico,  e  p)rima,  come  del  resto  anche  dopo  la 
legge  Acilia,  a  periodi  di  grave  disordine  dovevano  seguire  periodi 
in  cui  omettendo  o  accumulando  le  intercalazioni  si  ristabiliva 
approssimativamente  la  voluta  corrisiDondenza  tra  i  mesi  e  le  sta- 
gioni (1). 

Questo  disordine  doveva  suscitare  desiderio  di  riforme  quando 
più  si  praticò  coi  Grreci  e  meglio  se  ne  conobbe  la  scienza  astro- 
nomica. E  abbiamo  infatti  notizia  che  prima  di  Cesare  ogni  venti- 
quattro anni  fosse  regola  d'intercalare  un  merce.donio  di  meno  e 
degli  undici  mesi  intercalari  rimanenti  farne  sette  di  22  e  quattro 
soltanto  di  23  giorni,  riducendo  cosi  l'anno  ad  una  media  di  365 
giorni  e  ^j^.  Questa  norma  dev'essere  stata  introdotta  con  la  legge 
di  Acilio.  Ma  neppure  cosi  si  potè  segnare  un  limite  all'arbitrio  dei 
pontefici.  Infatti  anzitutto  non  c'era  ragione  j)er  omettere  più  l'uno 
che  l'altro  dei  mercedoni  e  per  distribuire  in  un  modo  o  nell'altro 
i  mercedoni  di  22  o  di  23  giorni,  e  non  potevano  mancare  ragioni 
religiose,  vere  o  pretese,  che  inducessero  i  pontefici  a  variarne  la 
distribuzione;  sicché  non  è  meraviglia  che  declinando  la  religione 


(1)  Nel  modo  che  è  indicato  nel  testo  è  da  conciliare  il  passo  di  Macrok. 
sat.  I  13,  13:  hoc  quoque  erì'ore  iamcognito  (quello  di  cui  a  p.  520  n.  1)  haec 
species  emendationis  inducta  est.  tertio  quoque  octennio  ita  intercalandos  dispen- 
sahant  dies  ut  non  nonaginta  sed  sexagintu  sex  intercalarent  compensatis  viginti 
et  quattuor  diebus  prò  illis  qui  per  totidem  annos  supra  Graecorum  numerum 
creverant,  con  Censorin.  de  die  nat.  20,  6  seo[.  :  quod  delictum  ut  corrigeretur, 
pontificibus  datum  negotium  eorumque  arbitrio  intercalandi  ratio  permissa,  sed 
horum  jìlerique  ob  odiiim  vel  gratiam  quo  quis  magistratus  citius  abiret  diutiusve 
fungeretur  aut  publici  redemtor  ex  anni  magnitudine  in  lucro  damnove  esset  plus 
minusve  ex  libidine  intercalando  rem  sibi  ad  corrigendum  mandata  ultro  quod 
depravarunt. 


CALENDARIO.    DIVINITÀ   GKECHE:    ERCOLE  523 

e  imperversando  le  discordie  civili,  il  calendario  fosse  trattato  in 
modo  più  arbitrario  di  primf  (1).  In  sostanza,  nonostante  le  riforme 
dei  decemvii'i  e  di  Acilio,  il  calendario  romano  continuò  ad  essere 
soggetto  airempirismo  ed  all'arbitrio:  dai  quali  non  lo  liberò  che, 
assai  più  tardi,  Griulio  Cesare. 

Al  contatto  coi  Greci  si  trasformò  come  la  coltura,  cosi  anche  la 
religione  romana;  il  mondo  degli  dèi  cambiò  d'aspetto,  e  s'arricchì 
di  nuovi  riti  il  culto.  Ma  l'efficacia  della  religione  greca  fu  risen- 
tita in  questa  età  nel  Lazio  ad  intervalli.  Alcuni  culti  e  miti  vi 
penetrarono  con  la  scrittura  e  con  altri  germi  di  civiltà  in  età  re- 
mota, quando  erano  contigue,  a  quel  che  pare,  le  sedi  dei  Grreci 
d'Italia  e  quelle  delle  stirpi  italiche  affini  alla  latina;  parecchi 
quando  la  lotta  comune  contro  gli  Etruschi  ravvicinò  i  Latini  ai 
Greci  della  Opicia;  infine  altri  ancora  quando,  ijenetrate  con  le 
guerre  sannitiche  le  armi  romane  nella  Campania  e  nell'Italia  me- 
ridionale, cominciò  anche  nel  campo  religioso  quella  rapida  assi- 
milazione d'elementi  greci  che  continuò  con  vigore  crescente  nel 
periodo  successivo. 

I  culti  greci  più  anticamente  adottati  nel  Lazio  furono  quelli  di 
Vesta  e  d'Ercole.  Ercole  aveva  la  sua  ara,  l'ara  massima,  alle  falde 
del  Palatino  entro  il  pomerio  della  Roma  anticliissima,  in  cui  sino 
al  II  secolo  non  penetrò  alcun'  altra  divinità  straniera.  E'  questa 
posizione  singolare  che  egli  tiene  fra  gli  dèi  stranieri  ha  fatto  cre- 
dere ad  alcuni  che  fosse  invece  un  muue  indigeno,  immedesimato 
poi  per  la  somigUanza  del  nome  col  greco  Eracle  (2)  ;  ma  il  nome 
osco  del  dio,  Hereklos,  che  sta  di  mezzo  tra  il  greco  ed  il  latino, 
mostra  che  questo  deriva  indubitatamente  da  quello.  La  ipotesi  poi 
da  altri  messa  innanzi  che  Ercole  fosse  semphcemente  il  nome 
greco  dato  a  un  nume  indigeno,  il  Dio  Eidio  o  il  Genio  (3),  sembra 
anch'essa  priva  di  fondamento.  La  ragione  del  precoce  diffondersi 


(1)  Cfr.  SuET.  Caes.  40.  Cass.  Dio  XL  62. 

(2)  Così  anche  il  Mommsen,  il  quale  dopo  aver  tentato  di  spiegare  Hercules 
da  hercere  {herciscere),  ha  poi  ritirato  egli  stesso  la  sua  ipotesi,  Unterit.  Dia- 
lekte  p.  262.  Rom.  Geschichte  I  "  p.  177. 

(3)  V.  R.  Peter  nel  '  Mythol.  Lexikon'  del  Roscuek  1  2259  segg.,  con  le  as- 
sennate obbiezioni  del  Wissowa  Religion  nnd  Kultiis  der  RiJmer  p.  225  segg. 
È  possibile  del  resto  che,  come  ritiene  il  Wissowa,  i  Romani  abbiano  ricevuto 
il  culto  d'Ercole  da  altri  Italici  che  l'avessero  adottato  prima  di  loro  e  non 
dai  Greci,  ma  non  è  dimostrato  in  alcun  modo.  E  ad  ogni  modo  una  distin- 
zione tra  divinità  greche  importate  direttamente  e  ricevute  per  via  indiretta 
non  può  farsi,  prima  d'Esculapio,  che  in  modo  del  tutto  arbitrario. 


5'2J:  CAPO   XXIY.    -    COLTURA   E,  RELIGIONE 

del  culto  d'Eracle  in  ogni  angolo  d'Italia  (1)  è  da  cercarsi  piut- 
tosto nel  penetrare  tra  gl'indigeni  dei  miti  greci  clie  narravano 
delle  sue  peregrinazioni  nelF  Occidente  e  nel  carattere  stesso  di 
questo  eroe  come  se  lo  figui'ava  il  j^opolo  greco,  tenero  e  prode, 
feroce  e  bonario,  quindi  eminentemente  atto  a  guadagnarsi  le  sim- 
patie di  popoli  rozzi  e  guerrieri  ;  onde  il  suo  culto  si  diffuse,  so- 
vrapponendosi a  quello  di  (pialclie  divinità  indigena,  anche  presso  i 
Germani  durante  l'età  imperiale.  Quanto  X30Ì  al  singolare  indirizzo 
che  prese  tra  gl'Italici  il  culto  d'Ercole,  per  cui  alla  sua  protezione 
veniva  riferito  ogni  insperato  guadagno,  forse  è  da  sjDiegare  per 
mezzo  di  concetti  fenici  trasmessi  a  Roma  dagli  Etruschi;  perchè 
Greci  e  Fenici  assimilarono  ad  Eracle  il  dio  fenicio  Melqart  (2), 
che  è  impossibile  non  fosse  presto  conosciuto  dai  commercianti 
etruschi  (3).  Del  resto  la  posizione  cospicua  dell'ara  massima  e  la 
popolarità  del  culto  di  Ercole,  testificata  altresì  dal  comune  giura- 
mento per  quel  dio  imeliercle),  dimostrano  che  il  culto  dell'ara 
massima  di  cui  furono  ministri  fino  al  termine  del  sec.  IV  i  Potizì 
ed  i  Pinarì  non  era  un  culto  gentilizio,  ma  un  culto  pubblico  anche 
prima  che,  i^er  una  riforma  attribuita  dalla  tradizione  ad  Ap.  Claudio 
Ceco,  ne  assumesse  direttamente  la  cura  lo  Stato  a  mezzo  del 
pretore  (4), 

Remotissima  è  pure  la  introduzione  del  culto  di  Vesta.  Perocché 
non  v'ha  dubbio  che  Vesta  è  la  greca  Hestia,  la  dea  che  prendeva 
nome  dal  focolare  (5).  Soltanto  presso  i  Greci  Hestia  ha  una  j^artc 
considerevole  nel  culto  privato,  mentre  presso  i  Romani  la  impor- 
tanza che  Vesta  ha  per  la  vita  dello  Stato  soverchia  di  gran  lunga 
il  suo  culto  domestico.  Questo  culto  d'Hestia  sembra  del  resto  che 
sia  in  Grecia  posteriore  all'età  omerica,  e  da  ciò  scende  che  i  La- 
tini debbono  averlo  ricevuto  dai  coloni  greci.  Ma  la  religione  di 
Vesta  di  cui  per  gli  altri  popoli  italici,    prescindendo   dni    Tiiitini. 


(1)  DioNYS.  I  40,  6:  airaviuit;  fiv  eupoi  tk;  'IraXia^  x^l'pov  èv9a  iia'l  tutxóvci  ti- 
(aibiuevo^  ó  9€Ó^  :  asserzione  che  ha  la  conferma  dei  monumenti  e  delle  epigrafi. 

(2)  Philo  ajD.  Euser,  j^rar^.  ev.  I  10,  22:  MeXKà0poq  ó  «ai  HpaxXfjq.  Cfr.  IGS. 
et  I.  600.    " 

(3)  Cfr.  I  p.  456  n.  3. 

(4)  Liv.  IX  29.  Machob.  snt.  Ili  6,  13.  Altri  testi  presso  S(.'h\veglek  Rom. 
Geschichte  1  p.  354  n.  6. 

(5)  Così  Kretschmer  Einleitung  in  die  Geschidifc  der  griech.  Spracìie  p.  162. 
Invece  fanno  di  Vesta  una  divinità  delie  origini  greco-italiche  Pkeuner  Hestia- 
Vesta  (Tubingen  1864).  Jordan  Der  Tempel  der  Vesta  (Berlin  1886).  Wissowa 
Religion  der  Romer  p.   142. 


VESTA.    1     LIBPU    SllìlLLlXl  o2o 

non  abbiamo  traccie  siciu'e,  deve  probabilmente  la  sua  importanza 
in  Roma  al  suo  innestarsi  sopra  un  culto  indigeno,  quello  di  Caca, 
che  pare  fosse  venerata  nell'antichissima  città  palatina  (1);  e  l'esser 
fuori  dei  limiti  della  Roma  Quadrata  il  pubblico  focolare  posto 
sotto  la  protezione  di  Ves^ta  e  la  custodia  delle  Vestali  conferma 
la  posteriorità  di  Vesta  a  fronte  di  Caca.  Tuttavia  che  il  culto 
di  Vesta  fosse  assai  antico  è  dimostrato  non  tanto  dall'  arcaicità 
di  molti  riti  ed  usi  che  vi  si  riferiscono,  che  in  parte  possono  ri- 
copiare i  riti  usati  un  tempo  per  Caca,  quanto  dalla  relazione  in 
cui  erano  le  vestali  col  re  dei  sacrifizi,  il  successore  dell'antico  re 
di  Roma  (2). 

Il  secondo  periodo  della  importazione  di  culti  gTeci  s'inizia,  a 
quel  che  pare,  con  la  introduzione  dei  libri  sibillini.  Narra  la  leg- 
genda che  una  donna  si  presentò  a  un  re  Tarquinio  (ora  il  fatto 
viene  attribuito  al  Prisco,  ora  al  Superbo)  (3),  e  gli  offerse  per 
un  dato  prezzo  alcuni  libri  pieni  di  oracoli  greci.  Avendo  il  re  ri- 
fiutato di  pagare  la  somma  ricliiesta,  la  donna  ne  bruciò  alcuni  e 
gli  offerse  per  lo  stesso  prezzo  i  rimanenti;  ed  avendo  il  re  rifiu- 
tato ancora,  ne  bruciò  altri  e  offerse  novamente  al  prezzo  stesso 
quanto  restava;  onde  il  re,  vinto  da  tanta  pertinacia,  ne  fece 
acquisto  pagandoli  quel  che  la  donna  voleva,  e  li  affidò  alla  custodia 
di  due  funzionari  sacri.  Il  conservarsi  in  età  storica  i  libri  sibillini 
nei  sotterranei  del  tempio  capitolino  s^aiega  j)ercliè  la  leggenda  li 
abbia  messi  in  relazione  coi  re  cui  s'attribuivano  le  origini  di  quel 
tempio.  Ma  la  concordia  della  tradizione  nell'ascrivere  agli  oracoli 
sibillini  origine  cumana,  concordia  avvalorata  anche  da  quel  poco 
che  per  induzione  ci  è  dato  asserire  sul  loro  contenuto,  fa  ritener 
probabile  che  l'adozione  di  essi  coincida  cogli  anni  in  cui  la  lotta 
comune  contro  gli  Etruschi  rinvigorì  l'influenza  cumana  nel  Lazio, 
circa  il  500  av.  Cr.  Certo  è  ad  ogni  modo  che  essi  sono  anteriori 
alla  caduta  di  Cuma  in  mano  degli  Oschi  intorno  al  420  av.  Cr. 
(p.  188j. 

CtU  oracoli  sibillini  presuppongono  il  culto  di  Apollo,  poiché  le 
sibille  non  si  consideravano  che  come  interpreti  di  quel  nume.  E 
non  v'ha  dubbio  che  il  culto  di  Apollo  si  diffuse  nell'Italia  media 
in  età  abbastanza  remota;  non  tanto  peraltro  da  competere  in  aii- 


(1)  Cfr.  I  p.  298. 

(2)  Serv.  Aen.  X  228  :  virgines  vestales  certa  die  ibant  ad   riyem   sacrorum  et 
dicebunt  :  '  vigilasne  rex  ?  vigila  '. 

(3)  I  p.  374  n.  2. 


526  CAPO  xKiv.  -  cor/ruiiA  e  helkìioxk 

ticliità  con  quelli  cVErcole  e  di  Vesta,  jjoicliè  non  era  ignoto  ai 
Romani  che  nei  loro  rituali  più  vetusti  mancava  o  forse  ricorreva 
assai  di  rado  il  nome  di  Apollo  (1),  pm-  essendo  questo  dio  invo- 
cato coi  titoli  di  medico  e  di  Peana  nelle  preghiere  delle  Vestali  (2,i. 
Il  primo  tempio  d'Apollo  in  Roma  fu  votato  nel  433  e  dedicato 
nel  431  o,  secondo  una  testimonianza  contraddittoria,  fu  consacrato 
nel  353(3).  Ma.  deirantichità  del  culto  d'Apollo  fa  prova  anche  il 
dono  votivo  inviato  a  Delfi  con  la  preda  di  Veì  (sopra  p.  146  segg.)  ; 
e  perciò  non  la  data  del  353,  malsicura  com'  è,  deve  indm'ci  a  ri- 
tenere posteriore  alla  metà  del  sec.  IV  l'iiitroduzione  dei  libri  si- 
billini; ma  l'introdursi  di  quei  libri,  anteriore  certo  alla  distruzione 
di  Cuma  e  probabilmente  anche  alla  invasione  volsca  nel  Lazio, 
deve  farci  ritenere  che  già  ben  prima  del  353  esistesse  in  Roma 
un'  ara  o  un  recinto  sacro  ad  Apollo,  Apollo  del  resto  non  penetrò 
in  Roma  come  il  dio  della  cetra  che  guida  il  coro  delle  Muse  o 
come  il  tipo  immortale  di  virile  bellezza  creato  dai  Greci,  ma  come 
dio  dei  vaticini  e  come  medico  per  soddisfare  due  esigenze  pratiche 
che  sentiva  vivamente  il  Romano,  di  conservare  cioè  la  salute  e  d'as- 
sicurarsi coi  mezzi  opportuni  la  protezione  divina  nelle  sue  imprese. 
Grli  oracoli  sibillini  di  Roma  non  eran  certo  apografi  d'oracoli 
che  la  città  di  Cum.a  conservasse  a  cura  de' suoi  magistrati;  se  i 
Cumani  avessero  posseduti  oracoli  simili,  li  avrebbero  tenuti  gelosa- 
mente nascosti  e  non  ne  avrebbero  fatto  cojDia  agli  stranieri.  Erano 
invece  raccolte  d'origine  privata,  forse  composte  a  somiglianza  di 
raccolte  ufficiali,  d'oracoli  più  o  meno  autentici,  redatti  in  cattivi 
ed  oscuri  esametri  greci.  Nulla  j)m'troppo  ce  n'è  pervenuto,  perchè 
quei  libri  bruciarono  nell'83  av.  C,  essendo  andato  in  fiamme  il 
tempio  di  Giove  Capitolino  (4),  e  si  dovette  mettere  insieme  una 
nuova  raccolta  di  vaticini  per  mezzo  d'una  commissione  che  molto 
viaggiò  per  rintracciarne  (5)  ;  onde  ciò  che  sappiamo  sugli  oracoli 
conservati  dopo  l'83  non  ha  importanza  per  la  questione  della 
forma  che  aveva  primitivamente  la  raccolta  profetica.  Ci  fui'ono 
trasmessi,  è  vero,  due  oracoli  che  sarebbero  stati  desunti  da  queHa 
antica  collezione  per  espiare  un  prodigio  avvenuto  nel  125  a.  C.  (6). 


(1)  Arnob.  II  73  (cfr.  I  p.  258  n.  1). 

(2)  Macrob.  sat.  I  17,  15. 

(3)  Liv.  IV  25,  3.  29,  7.  VII  20,  9. 

(4)  DioNYs.  IV  62.  Cass.  Dio  fr.  102,  2.  Cfr.  Skrv.  Aen.  VI  36.  221. 

(5)  DioNYs.  I.  e.  Tac.  ann.  VI  12.  Lact.  inst.  l  6,  11.  14;  f?(?  ira  dei  22,  6. 

(6)  Ap.  Phlegon  mirai).  10,  con  la  eccellente  illustrazione  del  Diels  Sibylli- 
nische  BUitter   (Berlin  1890). 


Al'OI.I.O.    CASTOIJK    K    POLl.rCK 


Ma  se  non  c'è  dubbio  che  allora  essi  furono  pubblicati  come  at- 
tinti ai  libri  sibillini,  è  pure  indubitato  che  son  recenti  e  che  nulla 
hanno  a  fare  con  la  raccolta  che  esisteva  nel  V  e  nel  IV  secolo. 
Gli  è  che,  essendo  tenuti  segreti  i  vaticini  della  Sibilla,  si  poteva- 
facilmente,  quando  se  ne  presentasse  il  caso,  con  una  pia  frode 
inserirvene  dei  nuovi.  Quei  frammenti  ci  danno  quindi  soltanto 
una  qualche  idea  della  oscurità  e  del  misero  contenuto  degli  au- 
tentici oracoli  sibillini,  da  cui  debbono  essere  stati  imitati.  Ma  le 
traccie  della  efficacia  di  quegli  oracoli  nello  sviluppo  della  reli- 
gione romana  appaiono  ad  ogni  modo  evidenti  in  quanto,  redatti 
in  greco,  parlavano  di  numi  greci,  suggerendo  sacrifizi  a  questo  o 
a  quello  tra  essi:  e  favorivano  cosi  e  affrettavano  la  diffusione 
del  culto  delle  divinità  elleniche. 

Aijpunto  intorno  al  500  sembra  che  di  dèi  greci  se  ne  introdu- 
cessero in  Roma  parecchi.  Circa  quel  tempo  si  diffuse  nel  Lazio 
il  culto  dei  due  Dioscuri,  Castore  e  Polideuce,  che  i  Romani  chia- 
marono Polluce ,  ossia ,  come  si  disse  a  Roma,  dei  due  Castori. 
Secondo  la  leggenda  il  loro  tempio  fu  votato  dal  dittatore  A.  Po  - 
stumio  nel  499  durante  la  battaglia  del  lago  Regillod);  e  prova 
ad  ogni  modo  il  conto  in  cui  i  Dioscuri  eran  tenuti  Tesser  dedi- 
cato il  tempio  entro  il  pomerio,  sul  Foro,  presso  il  lago  di  Giu- 
turna,  che  fu  i^erciò  collegata  dalla  leggenda  con  la  loro  epifania 
in  occasione  di  quella,  battaglia.  L'importanza  e  Fantichità  del 
culto  dei  Dioscuri  si  spiega  facilmente  in  uno  Stato  guerriero  e 
aristocratico  come  il  Romano:  essi  erano  del  resto  in  Roma  so- 
prattutto patroni  dei  cavalieri,  mentre  gli  altri  elementi  della 
loro  venerazione  jDresso  i  Greci  non  ebbero  popolarità  in  generale 
tra  i  Latini  che  i)iù  tardi  per  mezzo  della  letteratura. 

La  tradizione  riferisce  che  nel  secondo  decennio  della  repub- 
blica, mentre  infieriva  una  carestia,  si  ricorse  ai  libri  sibillini,  e 
(piesti  ordinarono  di  placare  Demeter,  Dioniso  e  Cora;  onde  nel  496 
il  dittatore  A.  Postumio  iniziò  presso  il  Circo  Massimo  la  costru- 
zione d'un  tempio  a  quelle  divinità,  che  fu  compiuto  nel  493  da 
Sp.  Cassio  (2).  Il  culto  di  quella  triade  in  Roma  fu  riguardato  corno 
jìroveniente  dalla  Sicilia  e  in  particolare  da  Enna,  l'ombellico  del- 


(1)  Liv.  II  20,  12.  Il  tempio  sarebbe  stato  poi  consacrato  nel  484.  Liv. 
II  42,  5.  Cfr.  DioNYS.  VI  13,  4.  Questo  è  precisamente  il  Upòv  AioaKOupuuv  èv 
rfi  àYopqk  di  cui  avrebbe  fatto  menzione  un'ambasceria  di  Demetrio  Poliorcete 
(sopra  p.  427);  e  in  errore  cade  a  tal  proposito  il  Jokdan  Topof/t-aphic  der 
Stadi  Rom  I  2  p.  370   n.  77. 

(2)  DioNYS.  VI  17.  94. 


528  CAPO   XXIV.    -    COLTUKA    E    RELIGIONE 

risola,  dov"  era  un  tempio  famoso  di  Demeter  e  Persefone  [1).  Ma. 
è  im.possibile  che  in  età  cosi  antica  si  stabilissero  relazioni  tra 
l'Italia  media  ed  una  città  indigena  del  centro  della  Sicilia  ;  e  come 
sapj)iamo  che  le  sacerdotesse  di  Cerere  in  Roma  erano  iDrese  spe- 
cialmente da  Napoli  e  da  Velia  (2),  va  ritenuto  che  dalle  città 
greche  del  versante  tirreno  sia  stato  trasmesso  ai  Latini  il  culto 
delle  divinità  di  quella  triade,  le  quali  del  resto  non  conservarono 
il  loro  nome  greco  come  AjdoUo,  Castore,  Ercole  e  Vesta  ma, -equi- 
parate a  tre  antiche  divinità  indigene,  Cerere,  Libero  e  Libera,  po- 
terono in  certa  guisa  impadronirsi  della  venerazione  che  queste 
già  riscuotevano  (3). 

Come  Cerere,  Libero  e  Libera,  altri  numi,  ma  tanto  secondari 
nell'antica  religione  romana  che  si  hanno  appena  testimonianze 
del  loro  culto,  si  trasformarono  allora  e  crebbero  d'importanza  as- 
similandosi a  divinità  greche  :  così  Venere  quando  vi  si  riconobbe 
la  greca  Afrodite,  Mercurio  quando  sotto,  quel  nome  si  prese  ad 
onorare  il  greco  Hermes  e  Nettuno  quando  si  assimilò  a  Posidone. 
In  parte  siffatte  assimilazioni  erano  cosi  piene  che  il  rito  greco 
sopraffaceva  e  aboliva  nel  culto  di  questi  dèi  il  rito  latino  e  che 
essi  erano  onorati  all'uso  greco  per  mezzo  di  lettisternì. 

Di  pari  jjasso  col  crescere  d' importanza  d'alcuni  dèi  andav.i 
frattanto  il  decadere  di  altri,  tanto  più  agevole  in ,  quanto,  come 
vedemmo,  manca  ad  ogni  religione  senza  dèi  personali  un  fonda- 
mento di  stabilità  (I  p.  88).  A  questa  decadenza  si  cercò  in  parte 
di  porre  rimedio.  E  forse  i  tempi  eretti  tra  la  venuta  di  Pirro  in 
Italia  e  la  metà  del  sec.  HI  a  Summano,  Conso,  Tellure,  Pale  <■ 
Giano  (sopra  p.  515)  son  dovuti  ad  un  tentativo  di  reazione  na- 
zionale contro  l'invadenza  dei  numi  stranieri.  Ma  non  valse  questo 
tentativo  ad  arrestare  la  trasformazione  :  che  anzi  proprio  nel  HI 
secolo  gl'influssi  greci  presero  di  nuovo  a  moltiplicarsi  nella  reli- 
gione latina.  Cosi  appunto  in  principio  di  quel  secolo  fu  introdotto 
da  Epidauro  il  culto  di  Asclepio  (4j  ;  e  una  sacra  leggenda  santificò 
tosto  le  origini  del  tempio  che  venne  eretto  al  dio  nell'isola  Tibe- 
rina narrando  come  il  dio  stesso  sotto  forma  di  serpente  fosse  sa- 
lito ad  Epidauro  nolhi   nave  romana  mandatavi  coiì  la  sacra  am- 


(1)  Cic.   Verr.  acL  sec.  IV  49,  108. 

(2)  Cic  prò  Balbo  24,  55. 

(3)  Cfr.  J  p.  276.  278. 

(4)  In  occasione  d'una  epidemia  scoppiata  nel  293  e  dopo  aver  consultato 
libri  sibillini  :  Liv.  X  47. 


CKRERE.    ESCULAPIO.    DITK  529 

basceria  e  da  sé  avesse  scelto  la  sua  sede  dalla  nave  discendendo 
nell'isola,  a  cui  più  tardi  fu  data,  appunto  in  memoria  dell'avveni- 
mento, forma  di  nave  (1).  Alla  metà  del  secolo  stesso  poi,  se  pur  non 
fu  introdotto,  i^rese  a  ogni  modo  nuovo  sviluppo  il  culto  di  Dite 
e  di  Proserpina,  ossia  di  Plutone  e  di  Persefone,  con  la  celebrazione 
dei  primi  ludi  tarentini,  destinati  ad  essere  ripetuti  a  distanza  di 
un  secolo  (2).  Per  altro,  se  è  certo  che  i  precedenti  ludi  secolari 
del  348  e  del  449  sono  invenzioni  annalisticlie  (3),  assai  difficile  è 
die  sia  cosi  recente  il  culto  delle  maggiori  divinità  greche  del 
mondo  sotterraneo,  e  il  nome  stesso  di  Proserpina  e  quel  che  nar- 
rava Varrone  sul  culto  di  Dite  presso  gli  Aborigeni  (4)  confermano 
che  i  due  culti  sono  assai  più  antichi;  e  la  sacra  leggenda  su  quel 
Valesio  da  Ereto,  che  avrebbe  sacrificato  per  primo  sull'ara  di  Dite 
nel  Tarento,  come  era  chiamato  il  luogo  ove  l'ara  si  trovava  nel 
campo  di  Marte  (5),  diffìcilmente  può  ritenersi  come  una  j)m'a  e 
semplice  invenzione  di  Valerio  Anziate. 

Insieme  con  le  divinità  greche  il  pantheon  romano  veniva  acco- 
gliendo quelle  dei  popoli  indigeni  d'Italia  che  Roma  sottometteva. 
Certo  è  impresa  vana  in  generale  cercar  di  sceverare,  come  pur  s'è 
tentato,  quel  che  nella  religione  romana  è  veramente  indigeno  da 
quel  che  è  attinto  a  Tivoli  e  a  Tuscolo:  perchè  in  luoghi  vicini 
abitati  dalla  stessa  stirpe  nel  medesimo  grado  d'incivilimento  non 
poteva  mancare  che  si  diffondessero  gli  stessi  culti.  MegUo  può 
distinguersi  quel  che  i  Romani  debbono  agii  Etruschi:  cosi  da  Veì 
par  che  prendessero  il  culto  di  Giunone  Regina  (6j,  che  non 
doveva  differire  del  resto  in  modo  sostanziale  dai  culti  già  praticati 
di  quella  dea;  e  cosi  nel  264  dopo  la  presa  di  Volsinì  fu  introdotto 
ufficialmente  il  culto  di  Vortumno  (7),  dio  che  già,  com'è  da  cré- 
dere .  doveva  avere  in  Roma  i  suoi  adoratori  (8) ,   e  anche  prima 


(1)  OviD.  metani.  XV  622  segg.  Val.  Max.  I  8,  2.  Aucx.  de  vir.  ili.  22.  Besnier 
Vile  Tiberine  dans  l'antiquité  lib.    III. 

(2)  Nel  249:  Liv.  epit.  49.  Censorin.  de  die  ned.  17,  8.  Acg.  de  eie.  Dei  III  18. 
ScHOL.  Cruq.  ad  Hor.  carm.  saec.  1.  Zosim.  114,  1. 

(3)  Cfr.  I  p.  16  n.  2. 

(4)  Macrob.  sai.  1  7,  -30.  11.  48.  Arnoh.  II   68. 

(b)  Val.  Max.  II  4,  5.  Zosim.  11  1.  Cfr.  De-Marchi  II  culto  privato  II  pa- 
gina 30  segg.  Sul  luogo  v.  Lanciami  '  Mon.  antichi'  1  (1889)  p.  540  segg. 

(6)  Liv.  V  21,  3.  23,  7.  31,  3.  Diony.s.  XllI  3. 

(7)  Prof.  V  2,  3  seg.,  cfr.  Fest.  p.  209. 

(8)  Cfr.  Varrò  de  l.  l.  V  74,  che  attribuisce  le  origini  del  culto  a  Tazio,  e 
la  antica  statua  del  dio  nel  Vico  Tusco,  su  cui  v.  Varrò  de  l.  l.  V  46.  Cic.  Verr. 
ad.  sec.  I  59,  154.  Liv.  XLIV  6,  10. 

G.  De  Sanctis,  Storia  dei  Ronumi,  II.  34 


530  CAPO  XXIV.   -   COLTURA   E    rp:lig]oxe 

dai  Capenati  era  stato  trasmesso  probabilmente  ai  Romani  il  culto 
di  Feronia  (1).  Non  deve  far  meraviglia  a  tale  proposito  che  non 
si  ammettessero  tanti  nuovi  numi  italici  quanti  se  ne  accolsero 
di  greci  nell'olimpo  romano:  perchè  i  numi  indigeni  in  molte  re- 
gioni d'Italia  in  buona  parte  erano  gli  stessi  dèi  romani ,  in  parte 
s'erano  con  più  o  meno  d'arbitrio  identificati  a  questa  o  a  quella 
divinità  latina;  in  parte  poi  il  loro  culto  avea  carattere  stretta- 
mente locale,  e  il  comandante  o  il  gregario  che  aveva  appreso 
nelle  sue  spedizioni  a  tenere  in  qualche  conto  Vesuna  che  era  ve- 
nerata nel  Reatino  (2),  Angizia  dea  dei  Marsi  (3),  Marica  onorata  in 
quel  di  Minturne  (4),  aveva  facilmente  occasione  di  testimoniar  di 
persona  a  queste  divinità  la  sua  devozione  ne'  loro  vetusti  santuai'ì. 
Non  è  dubbio  del  resto,  che  non  solo  trasmettendo  ai  Romani 
qualche  loro  nume  gli  altri  popoli  d'Italia  influii'ono  sulla  religione 
romana,  si  anche  più,  per  mezzo  della  identificazione  tra  divinità 
romane  e  altre  etrusche  o  campane,  facendovi  quasi  inavvertita- 
mente penetrare  concetti  o  leggende  che  le  erano  originariamente 
estranei;  ma  qui  pm-e  l'opera  degli  Etruschi  o  dei  Campani  fu  più 
che  altro  opera  di  mediazione:  perchè  i  loro  concetti  religiosi 
avevano  già  risentito  più  di  quelli  del  Lazio  l'influenza  greca  ;  ed 
è  presumibile  che  l'identificazione  ad  es.  di  Volcano  con  l'etrusco 
Sethlans,  che  può  forse  datar  dal  VI  o  dal  V  secolo,  non  abbia  fatto 
che  prepararlo  alla  identificazione  j)iena  con  Efesto,  che  già  do- 
veva aver  foggiato  Sethlans  a  sua  immagine. 

In  sostanza  la  trasformazione  religiosa  per  cui,  oltre  all'intro- 
dm'si  molti  dèi  greci,  in  altri  casi,  pur  rimanendo  latini  i  nomi, 
divennero  greci  gli  dèi,  era  in  questo  periodo  bene  avviata:  e  la 
ragione  della  facilità  con  cui  avvenne  deve  cercarsi  in  ciò  che  a 
questo  modo  non  fu  tolta  agli  dèi  una  personalità  che  già  avessero, 
ma  fu  data  apiDunto  quella  piena  personalità  che  non  avevano, 
sicché  allora  soltanto,  e  non  per  virtù  propria,  la  religione  romana 
raggiunse  quello  stadio  di  sviluppo  cui  prima  non  era  potuta  per- 
venire, lo  stadio  in  cui  agli  dèi  connessi  con  determinati  ordini  di 
fenomeni  sovrastano  e  in  buona  parte   si    sostituiscono  dèi  dotati 


(1)  WissowA  Rei.  der  Romer  p.  231  segg.  Il  terminus  ante  quein  per  l'intro- 
duzione del  suo  culto  in  Roma  e  il  217  (Liv.  XXII  1,  18).  Ma  il  testo  di  Varrò 
de  l.  l.  V  74  sembra  provarne,  se  non  l'origine  sabina,  la  remota  antichità. 

(2)  Plin.  n.  h.  Ili  109.  CIL.  IX  4751  segg. 

(3)  Vkr(;.  Aen.  VII  759.  CTL.  IX  3885. 

(4)  Liv.  XXVIl  37,  2.  Strab.  V  p.  233.  Plut.  Mar.  39. 


DIVINITÀ   ETKL'SC'HE    ED    ITALICHE.    NUOVI   DÈI    CERTI  531 

d'una  vera  personalità  e  ritenuti  atti  ad  esercitare  a  favore  del 
devoto  un'azione  larga  e  molteplice.  Ben  altra  resistenza  alla  pe- 
netrazione della  mitologia  greca  opposero  miti  e  concetti  religiosi 
d'altri  popoli  antichi:  basti  citare  l'Egitto,  dove  pm^e  i  Greci  eb- 
bero dominio  ;  ma  non  solo  popoli  in  possesso  di  vetusta  civiltà,  sì 
anche  barbari,  come  i  Traci  e  gli  Sciti,  si  mostrarono  più  dei  Ro- 
mani atti  non  che  a  resistere  alla  penetrazione  religiosa  ellenica, 
ad  influire  altresì  sulla  religione  stessa  dei  Grreci:  mentre  scarsa, 
per  non  dire  nulla,  fu  la  efficacia  che  ebbero  anche  più  tardi  sui 
Greci  gli  elementi  primitivi  della  religione  romana. 

Non  è  a  dire  però  che  in  questa  età  rimanesse  del  tutto  inattiva 
la  spontanea  ideazione  religiosa.  Dèi  certi  continuarono  a  crearsi, 
sebbene,  come  pare,  in  minor  numero.  Se  pur  non  è  sicm'O  che 
Aio  Locuzio  abbia  avuto  un  altare  perchè  una  voce  divina  aveva 
predetto  l'avanzata  dei  Galli  (1),  certo  è  che  fin  nella  seconda 
punica,  quando  Annibale  presso  la  porta  Capena  voltò  il  tergo 
alle  mura  di  Roma,  vi  si  eresse  un  sacrario  al  dio  Rediculo  (2).  Ma 
in  generale  la  ideazione  religiosa  di  questa  età  si  esplicò  di  pre- 
ferenza considerando  sotto  vari  aspetti  la  personalità  ormai  ricca 
ed  ampia  degli  dèi  maggiori  e  specificando  questi  asx^etti  per 
mezzo  di  attributi,  che  talora  erano  nomi  di  antichi  dèi  cèrti  dal 
ristretto  campo  d'azione,  sui  quali  le  divinità  maggiori  esercita- 
vano una  specie  d'attrazione  e  d'assimilazione.  Dal  culto  diverso 
che  in  diversi  sacrari  si  prestava  ad  una  divinità  con  vari  epiteti, 
per  esempio  a  Giunone  come  consigliera  (Moneta),  come  guerriera 
(Quirite),  come  soccorritrice  nel  parto  (Lucina),  scendeva  poi  per 
una  specie  di  reazione  della  forma  meno  progredita  d' ideazione 
religiosa  che  la  divinità  unica  venisse  quasi  spezzata  in  tante  di- 
vinità quanti  erano  gli  epiteti,  e  che  per  l'anima  popolare  Giunone 
Moneta  apparisse  in  certo  modo  come  una  dea  diversa  da  Giu- 
none Lucina;  reagiva  però  a  questa  tendenza  la  religione  ufficiale 
serbando  rigorosamente  l'unità  di  quelle  persone  divine  (;3),  o  vi 
reagiva  parimente  il  più  elevato  modo  di  concepire  delle  classi 
colte. 

Ma  di  divinità  scialbe  come  Rediculo  non  ])uò  appagarsi  l'idea- 
zione religiosa  in  età  progredita;  e  grandi  divinità  personali  come 
Apollo  possono  accogliersi    d'un    tratto,    (juando  c'è  una  religione 


(1)  Cic.  de  divin.  I  45,  101.  II  32,  69.  Vakro  ap.  Gell.  n.  A.  XVI  17,2.  Lit. 
V  36,  6.  50,  5.  52,  11.  Plut.  Cam.  U.  30.  de  fort.  Roin.  5.  Arnob.  I  28. 

(2)  PuN.  n.  h.  X  122.  Fest.  p.  282  M.  Varko  saf.  Menipp.  fr.  213. 
(3j  Cfr.  WissowA  Rei.  der  Romer  p.  47. 


532  CAPO   XXIY.    -    COLTURA   E    RELICilONE 

superiore  clie  le  trasmetta,  ma  assai  lentamente  si  creano  e  in  modo 
inconsapevole.  Onde  quella  perenne  irrequietezza  ignara  d'appa- 
gamento, die  è  la  caratteristica  delle  religioni  realmente  vissute 
dai  loro  devoti,  e  tale  era,  nonostante  la  povertà  del  suo  conte- 
nuto, la  religione  romana  nel  IV  o  IH  secolo,  condusse  a  deificare 
sempre  in  numero  crescente  i  concetti  astratti.  Dèi  siffatti  non 
erano  ignoti  all'età  più  antica;  ma  il  tempio  della  Concordia,  le 
cui  origini  son  dalla  tradizione  attribuite  al  dittatore  Camillo 
(sopra  p.  215),  quello  della  Salute  (302),  quello  della  Vittoria  (29-1), 
quelli  die  si  dedicarono  a  divinità  simili  dui^ante  la  prima  guerra 
punica  o  poco  dopo,  mostrano  quanto  fosse  ora  vivace  in  questo 
campo,  che  quasi  solo  le  rimaneva  libero,  la  ideazione  religiosa  (1). 
Non  solo  però  gli  dèi  greci  penetravano  nell'olimpo  romano,  sì 
anche  si  trasformava  di  pari  passo  il  culto  in  parte  per  gl'influssi 
greci,  in  parte  per  effetto  necessario  del  i3rogTedii'e  della  civiltà.  La 
processione  dei  Luj)erci  che,  cinti  d'un  sol  perizoma  di  pelle,  cor- 
revano attorno  al  Palatino  armati  di  strisele  di  cuoio  con  cui  per- 
cuotevano qualsiasi  donna  in  cui  s'imbattessero  nella  fiducia  che 
quelle  battiture  la  rendessero  feconda,  le  danze  armate  dei  salii, 
le  corse  dei  muli  nella  festa  di  Coiiso  parevano  ormai,  benché  non 
si  tralasciassero,  rozza  e  misera  cosa,  e  non  bastavano  più  né  al- 
l'uno né  all'altro  dei  fini  cui  soddisfacevano  in  origine  ad  esube- 
ranza: di  dare  adeguata  manifestazione  al  sentimento  religioso  <• 
di  divertire  il  popolo  che  riposava  nei  giorni  di  festa.  Tra  le  ce- 
remonie  che  ora  s'introdussero  vanno  citati  anzitutto  i  lettisternì, 
in  cui  a  varie  divinità  maschili  e  femminili  rappresentate  da  fan- 
tocci si  offriva  un  banchetto  su  tavole  disposte  innanzi  ai  letti  nei 
quali  i  fantocci  erano  adagiati  (2).  Nuovo  sviluppo  presero  anche, 
adottando  forme  nuove,  le  supplicazioni  in  cui  il  popolo  coronato 
e  con  rami  d'alloro  in  mano  andava  dall'uno  all'altro  tempio  li- 
bando vino  e  bruciando  incenso  (3),  e  le  matrone  si  trascinavano 
intorno  alle  are  in  ginocchio  coi  capelli  disciolti  levando  le  mani 
agli  dèi  (4).  Al  tempo  stesso  si  moltiplicavano  e  si  perfezionavano 


(1)  WissowA  p.  271  segg.  Cfr.  Usener  Gotternamen  p.  364  segg. 

(2)  Marquardt  Roin.  Staatsverw.  Ili '^  p.  44  segg.  11  primo  lettistcnnu  i-  ri- 
cordato pel  399,  Liv.  V  13.  Dionys.  XII  9. 

(3)  P.  e.  Liv.  X  23,  1  :  puhlice  vinum  ac  tus  pvaehitum,  siipplicatKm  iere  fre- 
qtientes  viri  feminaeque.  XL  37,  3:  maiores  dtiodecim  annis  oinnes  coronati  et 
laiiream  in  manti  tenentes  supplicaverunf. 

(4)  Liv.  XXVI  9,  7  :  undique  matronac  in  piiblicn»!  effusae  circa  deum  delubra 
discurrunt  crinibus  passis  aras  verrentes  nixae  genibus  supinas  mantts  ad  caelum 
ac  deos  tendentes. 


ASTKAZIONI.    8 Ul'PLlC AZIONI.    LUDI  533 

i  divertimenti  dati  al  popolo  in  occasione  di  feste;  ma  in  questo 
i  divertimenti  nuovi  differiscono  dagli  antichi,  che  si  distaccano 
ormai  dal  culto;  e  mentre  il  luperco  e  il  salio  ha  ancora  coscienza 
di  compiere  col  suo  rito  bizzarro  un  atto  di  religione,  ora  i  ludi, 
pur  servendo  a  solennizzare  le  feste  degli  dèi,  non  possono  dh'si  e 
non  appaiono  alla  coscienza  dei  devoti  atti  di  culto  se  non  in  via 
mediata  e  indiretta. 

In  questa  età  non  vi  sono  altri  ludi  stabili  che  i  ludi  Magni  o 
Romani,  anch'essi  i3rima  celebrati  straordinariamente  in  onore  di 
Giove  in  ringraziamento  di  ottenute  vittorie,  poi  divenuti  annui, 
forse  dal  366  (1).  Nei  giorni  seguenti  alle  idi  di  settembre,  tolto  il 
giorno  postriduano  che  è  giorno  infausto  (ater),  avevano  luogo 
corse  di  quadrighe  e  corse  a  cavallo;  e  il  premio  era  una  corona, 
che  nel  293  fu  sostituita  da  un  ramo  di  palma  (2).  Prima  delle 
corse  si  faceva  una  solenne  processione  (pompa),  che  dal  tempio 
capitolino  scendeva  al  Cù-co  Massimo.  Precedeva,  ordinata  militar- 
mente, la  gioventù  romana  loarte  a  cavallo  e  parte  a  piedi.  Segui- 
vano gli  auiighi  coi  cavalli  e  coi  cocchi,  poi  i  lottatori,  poi  i  dan- 
zatori armati  distribuiti  nelle  tre  classi  degli  adulti,  dei  giovani  e 
dei  fanciulli,  accompagnati  da  flautisti  e  (certo  non  da  età  troppo 
remota)  da  suonatori  di  lira.  Venivano  poi  i  danzatori  faceti,  gli 
uni  vestiti  di  pelli  di  pecora,  gli  altri  di  pelli  di  capra,  seguiti  da 
un  buon  numero  di  flautisti  e  di  fìdicini  e  dai  portatori  d'incenso 
e  di  vasi  sacri.  Cliiudevano  la  processione  le  immagini  degli  dèi 
recate  da  ijortatòri  su  lettighe  (3).  Terminata  la  pompa,  i  magi- 
strati che  l'avevano  guidata  vestiti  delle  insegne  trionfali  proce- 
devano ai  sacrifizi  di  rito  ;  dopo  di  che  s' iniziavano  sotto  la  loro 
direzione  i  giuochi  del  circo.  In  origine  gli  spettatori  si  sedevano 
sull'erba  per  le  pendici  dei  due  colli  Aventino  e  Palatino^  e  in 
basso  nella  valle,  ov'era  un'ara  sotterranea  di  Conso  che  solo  in 
giorni  determinati  si  disseppelliva,  correvano  i  cavalli  e  le  qua- 
drighe: poi  a  iDoco  a  poco  il  luogo  venne  ricoprendosi   di  costru- 


ii) Sulla  origine  di  questi  ludi  v.  Mommsen  Rodi.  Forschungen  II  45  segg.  La 
tradizione  li  ascriveva  a  Tarquinio  Prisco,  Liv.  I  35,  9:  sollemnes  deinde  annui 
mansere  ludi  Romani  magnique  riarie  appellati.  Cic.  de  rep.  II  20,  36.  Eutrop. 
l  6.  Son  detti  per  la  prima  volta  ludi  Romani  da  Liv.  Vili  40,  2  all'a.  322. 
Nel  366  secondo  Liv.  VI  42,  12  il  numero  dei  giorni  destinati  ai  ludi  fu  por- 
tato a  quattro. 

(2)  Liv.  X  47,  8:  paltnaeqite  titm  pritnuin  translato  e  Graecia  more  victoribus 
datae. 

(3)  Questa  descrizione  è  desunta  da  FAnio  Pittork  ap.  Dionys.  VII  72. 


534  CAPO   XXIV.    -    COLTURA   E    RELIGIONE 

zioni  che  lo  resero  degno  di  esser  chiamato  ^'  Circo  Massimo  „  (1), 
di  cui  1'  origine  prima  è  riferita  dalla  tradizione  ai  Tarqiiini.  Ma 
sia  questa  tradizione  sia  gli  accenni  che  più  d'una  volta  abbiamo 
nelle  fonti  intorno  a  ulteriori  costruzioni  o  a  restauri,  non  sono 
sufficienti  a  darci  un'idea  chiara  di  quel  che  fosse  il  Circo  Massimo 
prima  de*  restami  di  Cesare,  e  molto  meno  cu'ca  il  300  av.  Cr, 
Altri  ludi  circensi  in  altri  circhi  del  resto  allora  non  v'erano,  e 
(quindi  è  più  tardo  anche  il  nome  stesso  di  Circo  Massimo  dato  al 
circo  destinato  ai  ludi  romani.  Ai  giuochi  circensi  s'accompagnavano 
nella  stessa  occasione,  almeno  dalla  metà  del  sec.  IV,  ludi  scenici  (2), 
dapprima  di  scarsa  importanza,  e  della  durata  d"un  sol  giorno,  poi, 
da  quando  nel  corso  del  HI  sec.  cominciarono  a  rappresentarsi 
produzioni  drammatiche  all'uso  greco,  sempre  di  maggior  durata, 
per  modo  che  già  nel  214  si  prolungavano  per  non  meno  di  (luattro 
giorni  (8). 

Nonostante  lo  sviluppo  che  vennero  prendendo  i  ludi  Romani, 
non  può  dirsi  davvero  che  innanzi  alla  prima  guerra  punica  il  po- 
polo di  Roma  abusasse  di  feste  e  di  divertimenti.  Anche  i  combat- 
timenti di  gladiatori,  se  pur  v'erano,  per  la  scarsezza  degli  schiavi 
non  potevano  avere  la  solennità  e  l'importanza  ch'ebbero  di  poi, 
né,  come  fecero  più  tardi,  contribuire  all' abbassaimento  morale  del 
popolo  romano.  La  j)rima  menzione  che  di  essi  abbiamo  spetta 
del  resto  al  264.  Ma  probabilmente  gii  spettacoli  gladiatori  che 
come  ludi  funebri  in  onore  del  padre  diedero  (piell'anno  M.  e 
D.  Bruto  (4)  non  furono  i  primi  che  avessero  luogo  in  Roma,  bensì 
soltanto  i  primi  di  cui  si  conservasse  ricordo  scritto. 

Il  modificarsi  del  concetto  della  divinità  mediante  lintrodu- 
zione  degli  dèi  personali  preparava  anche  un'altra  trasformazione 
che  si  effettuò  appieno  solo  nell'età  seguente,  il  diffondersi  d\ma 
vera  e  propria  divinazione.  Il  popolo  cominciava  a  non  acconten- 
tarsi più  dei  segni  che  cercavano  gli  augmi,  sopratutto  per  mezzo 
della  osservazione  degli  uccelli,  del  favore  o  dello  sfavore  degli 
dèi,  in  parte  per  la  ingenuità  che  in  mezzo  alla  singolare  minuzia 
delle  sue  pratiche  contraddistingueva  Tauspicazione  romana,  in 
parte  per  la  insufficienza  di  essa  dinanzi  alla  coscienza  religiosa 


(1)  RiciiTER  Bom.  Topographie'^  p.  174  segg.  Gilbert  Gesch.  nini  Top.  der  Stadi 
Rom  III  313  segg.  Jordan-Huelsen  Top.  der  Stadt  Rovi  I  3  (Berlin  1907)  pa- 
gina 120  segg. 

(2)  Liv.  VII  2  (ad  a.  364).  Cfr.  sopra  p.  504  ni. 

(3)  Liv.  XXIV43. 

(4)  Liv.  epit.  16.  Val.  Max.  II  4,  17. 


LIDI.    DIVINAZIONE^  535 


progi'edita  che  credeva  ormai  gii  dèi  dotati  della  facoltà  di  cono- 
scere il  futuro  e  quindi  disposti  a  trasmetterne  la  cognizione  ai 
devoti.  Già  la  fede  nei  libri  sibillini  rispecchiava  la  tendenza  nuova; 
poiché  essa  implicava  la  credenza  che  gii  dèi  avessero  preveduto 
i  fatti  per  cui  quei  libri  si  consultavano  e  li  avessero  rivelati,  in- 
sieme coi  sacrilizì  che  sarebbero  stati  opportuni  quando  quei  fatti 
si  fossero  avverati,  alla  profetessa  ispirata.  E  tuttavia  i  duoviri 
e  poi  i  decemviri  sacrificatori  isacris  facimidis)  cui  era  affidata 
la  custodia  di  quei  libri  e  che  dovevano  consultarli  quando  ne 
avessero  ordine  dal  senato,  non  ne  traevano  presagi  determinati 
ì)el  futuro:  bensì  si  contentavano  di  trovarvi  accenni  intorno  a 
([uegli  avvenimenti  e  in  particolare  a  quei  prodigi  per  cui  la  co- 
scienza popolare  turbata  aveva  imposto  di  consultare  la  scienza 
profetica  della  Sibilla,  e  intorno  alla  maniera  di  placare  gli  dèi 
che  manifestavano  a  quel  modo  la  loro  irritazione  (1).  Affatto 
eccezionalmente  ebbero  ricorso  i  Romani  in  questa  età,  se  pur  vi 
ricorsero,  alla  vera  divinazione,  e  in  ogni  caso  sempre  per  mezzo 
di  ministri  stranieri.  Cosi  non  ijuò  dirsi  certo,  benché  non  sia  im- 
possibile, che  fin  dall'età  delle  guerre  sannitiche  abbiano  consul- 
tato Apollo  Delfico  (sopra  ^.  426)  ;  benché  sia  certo  a  ogni  modo 
che  dal  principio  del  sec.  IV  essi  fecero  pubblico  omaggio  colà  al 
dio  degli  oracoli  (sopra  p.  148).  Ed  è  pur  possibile  che  si  siano 
chieste  fin  dal  IV  secolo  rivelazioni  agii  aruspici  etruschi,  benché 
le  notizie  che  abbiamo  in  tal  proposito  non  diano  troppo  affida- 
mento di  storicità  (2),  e  l'usuale  ricorso  all'aruspicina  etrusca  non 
dati  che  dalla  seconda  guerra  punica.  E  ad  ogni  modo  catteristico 
come  dimostrazione  delle  tendenze  che  s'  affermano  intorno  al 
chiudersi  di  questa  età  a  favore  della  divinazione  e  come  esempio 
della  resistenza  che  ad  esse  opjDoneva  il  conservativismo  romano 
il  caso  di  C.  Lutazio  Catulo  (242)  :  al  quale  il  senato  impedì  di 
consultare  l'oracolo  della  Fortuna  Primigenia  di  Preneste  (3),  che 
dava,  per  mezzo  delle  sorti,  indicazioni  determinate  sul  futuro. 
Non  é  dubbio  peraltro  che  insieme  col  conservativismo  religioso 
contribuisse  al  diniego  del  senato  il  timore  che  siffatte  divina- 
zioni esercitate  con  l'aiuto  di  stranieri  e  spesso  in  città  straniero 
riuscissero  pericolose  allo  Stato  romano. 

Progrediva  pertanto  lentamente  la  religione  i-omana,  a  dir  vero 
più  per  dirozzamento  della  ideazione  che  per  ek^vazionc  thila  co- 


li) Cfr.  WissowA  p.  465  segg. 

(2)  Liv.  I  55.  V  15.  17.  Vili  6.  9. 

(3)  Val.  Mxx.epit.  I  3,  2. 


536  CAPO   XXIV.    -   COLTURA   E   RELIGIONE 

scienza  religiosa;  e  appunto  perciò  essa  si  trovò  poi  così  inetta  a 
resistere  alla  critica  demolitrice  della  filosofia  greca,  come  in  questa 
età  non  era  riuscita  a  reagire  contro  la  j)enetrazione  di  miti  e  di 
concetti  ellenici.  Quanto  s'affinasse  frattanto  il  sentimento  mo- 
rale nel  periodo  compreso  tra  il  decemvirato  e  la  prima  j)unica  è 
diffìcile  determinare  per  mancanza  di  fonti.  La  compagine  della 
famiglia  rimaneva  ancora  ben  salda,  pm'  mentre  il  dù'itto  fami- 
liare si  andava  spogliando  della  sua  arcaica  rigidità  (1).  In  ordine 
poi  alle  relazioni  civili  rispecchia  un  progresso  non  solo  giuridico 
ma  anche  etico  il  riconoscimento  della  solenne  promessa  (sponsio), 
alla  quale  intorno  al  300  jDer  mezzo  d'un'azione  si  diede  efficacia 
legale,  se  pm*  non  era  accompagnata  da  una  ceremonia  simile  a 
quella  in  uso  nella  mancipazione.  E  fanno  anche  testimonianza 
dell'avvivarsi  del  sentimento  umanitario  la  legge  che  moderava  il 
rigore  contro  i  debitori  insolvibili  (sopra  p.  492)  e  quella  che  tu- 
telava il  cittadino  più  efficacemente  che  prima  non  si  facesse  da 
condanne  capitali  arbitrarie  (sopra  p.  231).  E  pur  da  attribuire 
j)rob abilmente  al  chiudersi  di  questa  età.  il  trasformarsi  in  una  in- 
nocua iDrocessione  dell'  orribile  sacrifìcio  degli  Argei  (I  p.  287), 
tuttoché  dopo  ciò  non  si  cessasse  ancora  d'  immolare  a  quando  a 
quando  vittime  umane. 

I  vinti  si  trattarono  in  generale  durante  le  guerre  sannitiche 
con  assai  minor  crudeltà  di  quella  che  non  si  usasse  poi  verso  Grreci, 
Fenici  e  Spagnuoli  nell'  età  seguente.  Esempì  di  ferocia,  a  dir 
vero ,  non  mancano ,  come  la  distruzione  del  piccolo  popolo  degli 
Aui'unci  (sopra  p.  322)  ;  ma  l'implacabile  severità  dei  Romani  verso 
di  essi  non  era  priva  di  qualche  attenuante,  e  più  ancora  ne  aveva 
la  distruzione  dei  Senoni  (sopra  p.  377).  E  poi  degno  di  nota  che, 
dopo  la  caduta  di  Vai,  nonostante  le  molte  guerre  e  le  molte  ri- 
bellioni, nessuna  città  etrusca,  campana  o  greca  d'una  certa  impor- 
tanza fu  trattata  con  tutto  il  rigore  dell'usuale  diritto  di  guerra. 
Fanno  eccezione  Regio  (p.  422)  e  Volsinì  (p.  425);  ma  a  Regio  i 
Romani  restituirono  la  città  agli  antichi  abitanti,  e  avevano  ben 
ragione  del  resto  di  trattare  come  delinquenti  i  Campani  che  se  ne 
erano  impadroniti;  a  Volsinì  misero  la  loro  spada  al  servizio  d'uno 
dei  partiti  locali,  e  non  distrussero  a  ogni  modo  politicamente  quella 
città  etrusca,  per  quanto  la  trasportassero  dal  monte  alla  pianura. 

Peraltro  la  ragione  di  questa  relativa  mitezza  dei  vincitori 
stava   sopratutto   nell'  aver   saputo   riconoscere  quale  era   il   loro 


(1)  Cfr.  sopra  p.  65  segg. 


irò  R  A  LE  537 

interesse  ben  inteso  (cfr.  sopra  p.  281).  Per  di  più,  oltre  ad  essere 
legati  ai  popoli  italici  per  affinità  di  coltura  e  di  religione  e  per  re- 
lazioni di  commercio,  i  Romani  trovavano  in  essi  avversari  degni 
di  sé;  e  il  rispetto  pel  nemico  che  sa  combattere  è  maestro  pm' 
esso  di  sentimenti  umani;  per  quanto  siffatti  sentimenti,  clie  non 
sgorgavano  da  un  elevamento  interiore,  dovessero  riuscire  assai 
meno  efficaci  non  appena  i  Romani  si  trovarono  a  fronte  di  ne- 
mici clie  non  sapevano  farsi  ris2)ettare  con  una  difesa  vuoile  o  che, 
pur  essendo  valorosi,  per  l'inferiorità  degli  ordinamenti  militari 
lasciavano  guadagnare  airavversario  troppo  facili  vittorie. 

Anche  in  questa  età  era  certamente  dm'a  la  sorte  del  prigio- 
niero di  guerra  (1).  Se  in  virtù  di  speciale  convenzione  non  era 
rimandato  doxDO  aver  sofferto  la  umiliazione  del  giogo  e  se,  quando 
fosse  tollerato  il  riscatto,  non  veniva  riscattato  da'  suoi,  era  ven- 
duto schiavo  o  serbato  all'  onta  d'essere  trascinato  in  catene  nel 
trionfo  del  vincitore  e  talora  anche  messo  a  morte  mentre  la 
pomiDa  trionfale  ascendeva  il  colle  capitolino.  E  tuttavia  a  questa 
età  ferrea  era  ancora  estranea  una  delle  macchie  j)iù  orribili  della 
civiltà  romana.  Certo  era  illimitato  il  dmtto  del  padrone  sullo 
scliiavo.  Ma  il  dis^^rezzo  i^ei  vinti  imbelli  e  le  immense  razzie  nei 
territori  che  si  stendevano  indifesi  dinanzi  all'avidità  dei  conqui- 
statori romani  non  avevano  popolato  le  campagne  di  schiavi  che 
lavoravano  di  giorno  con  la  catena  al  piede  per  essere  chiusi  di 
notte  negli  ergastoli. 

In  somma  agli  incrementi  esterni  dello  Stato,  al  perfezionarsi 
de'  suoi  ordinamenti  e  al  cresciuto  benessere  economico  s'era  ac- 
compagnato presso  i  Romani  un  lento  progresso  della  coltm-a, 
della  religione  e  della  morale.  La  graduale  evoluzione  che  aveva 
trasformato  a  questo  modo  la  coscienza  dei  barbari  eneolitici ,  la 
loro  civiltà  esterna  e  le  loro  associazioni  rudimentali  s'  era  com- 
piuta, tra  lotte  d'ogni  maniera,  senza  ch'essi  ne  fossero  consapevoli. 
E  però  tanto  più  vi  aijpare  manifesta  la  efficacia  di  quella  forza 
che  sospinge  costantemente  l'umanità  da  una  forma  di  vita  ad 
un'altra  in  cui  più  penetra  e  risplende  l'idea  del  bene,  senza  che 
l'una  forma  sia  pienamente  determinata  dalla  ijrecedente,  non  ])o- 
tendo  il  più  jDerfetto  avere  nel  meno  perfetto  un'adeguata  spiega- 
gazione;  di  quella  forza  che  lo  scienziato  cristiano  designa  col 
nome  di  Provvidenza. 


(1)  KoESER  De  cnptirif;  Rom.  (Gissae   1903,  diss.V 


IiNDICE  ALFABETICO 


Abella,  relazioni  con  Nola  li  268  ;  al- 
leanza con  Roma  II  325. 
Abolani,   nella  lega   albana   378  n.  5 

nr.  5. 
Aborigeni,    significato    del    nome    174 

segg.  ;  leggende  172  segg. 
Abruzzo,  175. 

Acarnani,  relazioni  con  Roma  202. 
Acca  Larenzia,  divinità  216.  281.  307 

seg. 
Accensi,  centuria  II  197. 
Acciensi ,  nella   lega   albana  378  n.  5 

nr.  4. 
Acculeia,  curia  240  n.  7. 
Acerre  (.Traspadana),  436. 
Acerre    (Campania),  II  268;    riceve  la 

cittadinanza  II  286;  nella  prefettura 

campana  II  444. 
Achei,  d'Italia  319  segg.;  loro   civiltà 

337  seg. 
0.  Acilio,  annalista  32. 
M'.  Acilio  Glabrione  (cos.  191)  II  519. 
Acqua  Cutilia,  Ferentina  etc,  v.  Cuti- 

lia,  Ferentina  etc. 
Acre,    colonia    siracusana,    fondazione 

316  n.  1. 
Acrotato,  in  Sicilia  II  346.  368. 
Acttt.s;  misura  li  477. 
Adozione,  243.  II  75. 
Adrano,  colonia  di  Dionisio  il  Vecchio 

Il  188. 
Adria,  sue  origini   italiche    102;  città 


veneta  155  seg.;  commercio  326;  do- 
minio etrusco  (?)  437;  dominio  greco 
li  190;  importanza  II  495. 

Adriatico,  mare  54.  325.  II  190. 

Adrogatio,  243. 

Aefula,  V.  Efula. 

Aes,  equestre  II  206  —  grave  II  485 
segg.  —  hordiarium  II  206  —  rude  II 
479  —  signatum  II  479  segg. 

Aesolani,  nella  lega  albana  li  378  n.  5 
nr.  3. 

Afri,  329. 

Afrodite,  madre  d'Enea  196  seg.;  eri- 
cina  198;  assimilata  a  Venere  277. 
II  528. 

Agatocle,  storico,  su  Enea  198;  sulle 
origini  di  Roma  207. 

Agatocle,  sue  prime  imprese  in  Italia 
II  317;  signore  di  Siracusa  II  368 
segg.;  combattuto  da  Acrotato  II 
346;  libera  Corcira  da  Cleonimo  II 
347;  intervento  in  Italia  II  369  segg.; 
estensione  del  suo  impero  II  343. 

Agatocle,  figlio  del  precedente  II  372 
seg. 

Agide,  stratego  tarentino  II  389. 

Agirlo,  città  di  Sicilia  II  406. 

Agonalia,  festa  266. 

Agonio,  festa  269.  309  n.  2. 

Agricoltura,  presso  gl'Indoeuropei  pri- 
mitivi 74.  94.  101  ;  presso  i  terra- 
maricoli 122  ;  presso  i  Romani  II 
466  segg. 

Agrigento,  fondazione  822.  316  n.  1  ;  ti- 


540 


INDICE    ALFABETICO 


rannide  322;  repubblica  II  177;  coii- 

•  tro  Ducezio  II  178  seg.  ;  distrutta 
dai  Cartaginesi  II  186;  sotto  Finzia 
Il  406;  si  dà  a  Pirro  II  409;  gli  si 
ribella  II  411;  tempi  320.  II  182. 

Agrimensori,  v.  Gromatici. 

Agrio,  re  dei  Tirreni  106  n.  4.  209. 

Agrippa,  re  d'Alba  205. 

Agro  centuriato,  II  71  n.  1  ;  pubblico, 
li  7.  216.  469. 

Agylla,  V.  Cere. 

Aharna,  città  umbra  II  355  n.  2. 

Aio  Locuzio,  dio  II  531. 

Ala,  nella  legione  II  454. 

Alalia,  colonia  focese  335. . 

Alatri,  città  ernica  II  102;  alleanza 
con  Roma  II,  337.  342.  458. 

Alba  Fucente,  colonia  latina  II  340. 
487;  numero  dei  coloni  II  460;  ter- 
ritorio II  343. 

Alba  Longa,  posizione  180  seg.;  serie 
de'  suoi  re  204  seg.;  nella  lega  al- 
bana 878  n.  5  nr.  2;  guerra  con 
Roma  367  segg.;  sua  caduta  381. 

Albano,  lago  II  142. 

Albano,  monte  180.  200.  267. 

Albensi,  nella  lega  albana  378  n.  5 
nr.  1. 

C.  Albinio,  tribuno  della  plebe  II  31 
n.  1. 

L.  Albinio,  tribuno  della  plebe  II  31 
n.  1. 

Albiona,  dea  303. 

Albione,  Il  159  n.  2. 

Alcibiade,  sua  statua  nel  Comizio  II 
184. 

Alcimo,  storico,  sulle  origini  di  Roma 
207. 

Alcmeone,  di  Crotone  337  n.  1. 

Aleso,  eponimo  di  Falerì  107. 

Alessandro  I  d'Epiro,  in  Italia  II  292 
segg.;  in  lega  con  Roma  II  294.  427. 

Alessandro,  figlio  di  Pirro  II  390  n.  2. 
409.  458. 

Alessandro  Magno,  relazioni  con  Roma 
li  426  seg.;  efifetti  della  sua  morte  in 
Italia  II  318. 


Alezio,  città,  monete  II  484. 

Alfabeti,  italici  II  96  segg.;  etrusco 
130  n.  1;  relazione  tra  l'etrusco  e 
l'osco  443;  dell'Italia  settentrionale 
125. 

Algido,  monte,  posizione  181.  II  119 
seg.;  rotta  degli  Equi  II  121  seg.; 
incorporato  nel  territorio  romano  II 
152. 

Alicie,  città,  occupata  da  Pirro  II  409. 

Alico,  fiume  II  262. 

Allia,  fiume,  battaglia  li  167  segg.; 
altra  battaglia  II  249. 

Allife,  occupata  dai  Romani  II  299. 
330;  combattimento  II  335;  nello 
Stato  romano  II  420;  suo  monete  II 
484. 

Allodio  (sic),  re  d'Alba  205  n.  1. 

Ambarvalia,  festa  268.  377. 

Ambito,  II  235  segg. 

Ameriola,  città  latina  372  n.  10. 

Amilcare,  morto  ad  Imera  342. 

Amiterno  (Terni),  in  lega  coi  Sanniti 
II  349;  occupata  dai  Romani  II  360; 
prefettura  II  444. 

Ampelo,  colonia  di  Massalia  333. 

Amulio,  re  d'Alba  191.  205. 

Anagnia,  città  ernica  II  102;  incorpo- 
rata nello  Stato  romano  II  337;  con- 
dizione politica  II  486.  439.  440.  442; 
pretori  II  443;  Pirro  presso  A.  II  397 
seg. 

Anamari,  tribù  gallica  11  162. 

Anassilao,  tiranno  di  Regio  e  di  Mes- 
sana  342;  sua  dinastia  II  177  seg. 

Anelli,  scudi  sacri  263  n.  7. 

Anco  Marcio,  v.  Marcio. 

Ancona,  colonia  greca,  fondazione  173 
n.  10.  II  190.  264;  alleanza  con 
Roma  II  423. 

Anello,  dei  cavalieri  II  209  n.  5. 

Angerona,  dea  278. 

Angizia,  dea  II  530. 

Aniense,  tribù  II  366.  341. 

Anima,  secondo  gl'Indoeuropei  primi- 
tivi 91  segg.;  secondo  i  Romani  309. 

L.  Annio,  pretore  latino  li  273, 


INDICE    ALFABETICO 


541 


Annali  massimi,  16  aegg. 

Anna  Perenna,  dea  268.  271.  281. 

Antemne,  origini  sicule  (?)  173. 

Antenore,  nel  Veneto  157. 

Antioco,  storico,  sulle  tribù  italiche 
107  segg.;  sui  Messapì  164;  sugli 
Elimi  198;  su  Roma  173;  sulla  fon- 
dazione delle  colonie  greche  316  n.  1  ; 
sul  nome  d'Italia  110  n.  1,  111  n.  8. 

Antioco  I,  Sotere  II  180. 

Antipoli  (Gianicolo),  395  n.  6. 

Antipoli,  colonia  di  Massalia  333. 

Autisti,  gente  gabina  389. 

T.  Antonio,  decemviro  II  49  n.  1. 

Anxur,  II  108  n.  5.  123,  v.  Tarracina. 

Sp.  Anzio,  II  136. 

Anzio,  città  volsca  II  106  seg.;  colonia 
romana  nel  sec.  V  (?)  II  118;  dopo 
la  invasione  gallica  II 245  seg.;  nella 
nuova  lega  latina  II  251;  nel  trat- 
tato romano-cartaginese  II  252;  nella 
guerra  latina  II  276.  278;  colonia 
romana  li  282  seg.;  autonomia  co- 
munale II  434;  piraterie  II  427;  ter- 
ritorio II  153  n.  1. 

Apiole,  371. 

Aplu,  V.  Apollo. 

Apollo,  delfico,  consultato  e  onorato 
dai  Romani  II  142.  145  segg.  535; 
culto  in  Roma  II  525  seg.;  tempio 
sul  Palatino  188  ;  culto  in  Etruria 
(Aplu)  147;  archegete,  a  Nasso  315. 

Apollonia,  li  428. 

Appia,  acqvia  228. 

Appia,  via  228. 

Appiano,  storico  47  seg. 

Appio  Erdonio,  v.  Erdonio. 

Apuani,  tribìi  ligure  441. 

Apuli,  loro  alleanza  con  Roma  II  303   j 
seg.;   nella    terza    sannitica    II    353 
n.  3;  loro  forze  li  462;  v.  anche  Ia- 
pigi, Arpi,  Teano. 

Aquilonia  (Lacedonia),  Il  360  n.  1. 

Aquino,  incorporata  nello  Stato  ro- 
mano II  324. 

Ara  massima,  194.  Il  523  seg. 

Arcadi,  nel  Lazio  191. 


Arcagato,  figlio  d'Agatocle  II  373. 

Arcagato,  nepote  d'Agatocle  II 369.  373. 
374. 

Arcagato,  medico  II  516  n.  2. 

Archidamo,  in  Italia  li  264.  292. 

Archiloco,  siculo  173. 

Architettura,  in  Sicilia  e  Magna  Grecia 
323  seg.  II  182;  etrusca  432  seg.;  ro- 
mana Il  513  segg. 

Arconide,  re  siculo  344  n.  2. 

Ardea,  posizione  181;  lotte  con  Lavi- 
nio  203;  suo  re  Lucerò  223;  nella 
lega  albana  378  n.  5  nr.  85;  nella 
lista  di  Dionisio  II  100  n.  2;  in  lotta 
coi  Volsci  II  115;  leggenda  della 
vergine  d'A.  II  48;  colonia  latina  II 
115;  dopo  la  invasione  gallica  II 
245;  dopo  la  guerra  latina  li  280. 
342  ;  nel  trattato  romano-cartaginese 
II  252;  territorio  II  342  n.  1  ;  im- 
portanza II  495;  pitture  II  510. 

Aremulo,  re  d'Alba  288  n.  5. 

Arezzo,  posizione  151  ;  nella  lega  etru- 
sca 435  n.  3;  pace  con  Roma  II  331; 
sedizioni  lì  841  n.  6.  349  seg.;  al- 
leanza II  359;  fedele  a  Roma  II  376. 

Argantonio,  re  di  Tartesso  333. 

Argei  201  seg.  287.  391  seg.  II  536. 

Argentino,  dio  258. 

Argileto  391.  894,  v.  Cassio  Argillo. 

Argo  Ippio,  V.  Arpi. 

Argyrippa,  v.  Arpi. 

Aricia,  posizione  181  ;  origini  siculo  (?) 
173;  nella  lega  albana  378  n.  5  nr. 
38;  nella  nuova  lega  latina  II  92: 
nella  lista  di  Dionisio  II  100  n.  2; 
battaglia  di  A.  450  seg.;  dopo  la  ca- 
lata dei  Galli  II  245;  nella  guerra 
latina  li  276.  280;  municipio  II  281  ; 
m.  federato  (?)  II  482  n.  7;  dittatori 
423.  II  438.  445;  tribù  Grazia  II  446; 
culti  II  439;  tomba  presso  A.  II  514. 

Arii,  v.  Indoeuropei. 

Arimino,  città  umbra  102. 

Aristodemo  di  Cuma,  451  seg.  457.  II  14. 

Armilustrio,  festa  269  n.  2. 

Arna,  v.  Aharna. 


542 


INDICE    ALFABETICO 


Arpi,  origini  166;  lotta  con  Alessandro 
d'Epiro  II  293;  alleanza  con  Roma  II 
303;  potenza  II  304;  popolazione  II 
494;  monete  II  487. 

Arpino,  occupata  dai  Sanniti  II  295 
n.  5.  335;  presa  dai  Romani  II  338; 
municipio  II  437  n.  1;  riceve  il  di- 
ritto di  suffragio  II  366  n.  3;  edili 
II  443;  patria  dei  Mari  233  n.  1. 

Arsia,  selva  II  126;  battaglia  407. 

Artemide,  assimilata  a  Diana  214. 

Artena,  distruzione  II  123  n.  3. 

Arunte,  mercante  di  Chiusi  II  159  seg. 

Arunte,  figlio    di    Porsenna    408.    450   i 
seg.  455;  pretesa  tomba  II  514  n.  2. 

Arunte  Tarquinio,  v.  Tarquinio. 

Arutini,  campi  II  414  n.  1. 

Arvali  276;  loro  carmi  268.  II  502. 

Ascanio,  figlio   d'Enea  191.  202.  205. 

Asclepio,  V.  Esculapio. 

Ascoli  Apulo,  alleata  di  Roma  II  293; 
battaglia  11  400  segg. 

Ascoli  Piceno,  alleata  di  Roma  II  423. 

Asdrubale,  in  Sardegna  334. 

Asili,  popolo  del  Piceno  71.  103. 

Asilo,  in  Roma  217  segg. 

Assemblea  popolare,  presso  gl'Indoeu- 
ropei 83  ;  v.  Comizi. 

Astura,  fiume,  battaglia  II  276. 

Atella,  nella  lega  campana  II  268; 
sottomessa  a  Roma  II  325  n.  2  ;  nella 
prefettura  campana  II  444;  moneta 
II  440  seg.  ;  v.  Atellane. 

Atellane,  II  505. 

Atena,  assimilata  a  Minerva  272. 

Atene,  suo  intervento  nell'Occidente 
II  182  segg.  ;  pretesa  ambasceria  ro- 
mana Il  44. 

A.  Aternio,  (cos.  454)  11.  Il  54. 

Aterno,  fiume  II  360  n.  4. 

Ateste,  città  veneta  155.  II  16.  495. 

L.  Atilio,  (tribuno  militare  445)  li  57. 

M.  Atilio  Regolo,  (cos.  294)  II  359  n.  2. 

M.  Atilio  Regolo,  (cos.  267.  256)  II  200. 

Atina,  occupata  dai  Sanniti  II  295  n.  2; 
dai  Romani  II  325;  nello  Stato  ro- 
mano II  364  n.  1.  420. 


Atto  C'iauso,  V.  Clauso. 

Atto  Navio,  V.  Navio. 

Atria,  colonia  latina  II  364  ;  territorio 
Il  366. 

Atrio  romano,  II  514. 

Aucno  436. 

Aufido  (Ofanto),  II  399. 

Auguri,  301  seg.;  portati  a  nove  II 
223. 

Auguri,  oblativi  e  impetrativi  293  seg.; 
II  534. 

Auleste,  436. 

Q.  Aulio  Cerretano,  (maestro  dei  cava- 
lieri 315)  II  320. 

Aurunca,  II  265;  v.  Suessa  Aurunca. 

Aurunci,  in  lotta  con  Roma  II  105  n.  1  ; 
relazioni  con  Roma  II  265  seg.;  in 
lotta  coi  Sidicini  II  284;  loro  distru- 
zione II  322.  536;  v.  Ausoni. 

Ausoni,  tribù  italica  107. 

Auspici,  295.  237. 

Autorità  dei  padri,  in  origine  352;  di- 
minuita d'importanza  II  221. 

Auza,  in  Libia  331. 

Aveia,  si  accorda  coi  Sanniti  II  349; 
incorporata  allo  Stato  romano  II  360 
n.  5;  prefettura  II  444. 

Aventino,  colle  187;  nelle  leggende 
regie  362  n.  4;  nelle  secessioni  li 
4  segg.;  tardi  abitato  394;  tempio 
di  Diana  274;  culto  di  Minerva  272 
ara  di  Giove  Eliclo  284  ;  v.  Remuria, 
Legge  Icilia. 

Azi,  gente  205. 

Azioni  di  legge,  secondo  le  dodici  ta- 
vole II  77  segg.;  divulgate  da  Cn. 
Flavio,  V.  Flavio. 


B 


Bacco,  V.  Libero. 

Bai  ari,  tribìi  sarda  114. 

Baleari,  occupate  dai  Cartaginesi  334, 

Balzi  Rossi,  caverne  59. 

Banzia,  città  lucana  II  457. 

Bellona,  dea  271;  tempio  II  515. 

Belloveso,  duce  gallico  II  164. 


INDICK    ALFABKTTCO 


54;j 


Benevento,  colonia  latina  II  420;  bat- 
taglia di  B.  II  413  segg.  ;  v.  Male- 
vento. 

Boi,  tribìi  gallica,  provenienza  lì  168 
seg.;  sedi  II  162. 

Boia,  posizione  II  119  n.  3;  nella  lega 
albana  378  n.  5  nr.  7  :  nella  lista  di 
Dionisio  (?)  II  100  n.  2;  presa  da 
Coriolano  II  113;  nel  territorio  ro- 
mano II  152;  ricuperata  dai  Romani 
II  248. 

Bona  Dea,  276. 

Bononia,  II  162.  495,  v.  Felsina. 

Borigoni,  v.  Aborigeni. 

Boviano  (Pietrabbondante),  103. 

Boviano  (Boiano),  capitale  dei  Pentri 
II  103;  presa  dai  Romani  lì  329; 
pretesa  vittoria  presso  B.  Il  353. 

Boville,  386  seg.;  nella  lega  albana 
378  n.  5  nr.  34;  nella  lista  di  Dio- 
nisio (?)  II  100  n.  2;  ara  dei  Giuli 
309. 

Brenno,  duce  gallico  II  166. 

Breonio  (Verona),  ritrovamenti  prei- 
storici 64. 

Brindisi,  nel  mito  di  Diomede  166; 
occupata  dai  Romani  II  428. 

Britannia,  II  159  n.  1. 

Brutulo  Papio,  Sannita  11  306. 

Bruzi,  sedi  103;  leggende  219;  loro 
principi  II  263;  assediano  Crotone  li 
317;  guerra  con  Agatocle  II 369  segg.; 
ricuperano  Ipponio  II  375;  contro 
Roma  II  376;  si  congiungono  con 
Pirro  II  396;  alleanza  con  Roma  II 
421;  territorio  II  343;  forze  II  385 
n.  1  ;  lega  II  461  ;  monete  II  487. 

Bubentani,  nella  lega  albana  378  n.  5 
nr.  6;  nella  lista  di  Dionisio  II  100 
n.  2. 

Bucchero,  429. 

Buccone,  maschera  II  505. 

Butrio,  città  umbra  102. 


Cabensi,  sacerdoti  382  n.  3. 

Cabo,  382  n.  2.  387;  nella  lega  albana 
378  n.  5  nr.  39;  nella  lista  di  Dio- 
nisio II  100  n.  2. 

Caca,  dea  193.  216.  II  515.  525. 

Caco,  191.  193  seg.  308. 

Caiazia,  presa  dai  Romani  II  325;  ri- 
presa dai  Sanniti  II  335  ;  in  lega  con 
Roma  II  420. 

Calabri,  tribù  messapica  165;  sotto- 
messi a  Roma  II  424. 

Caiazia,  nella  lega  campana  II  268; 
sottomessa  a  Roma  II  355  n.  2;  nella 
prefettura  campana  II  268;  moneta 
Il  440  seg. 

Calcide,  colonie  in  Occidente  314  seg. 

Calcidesi,  d'Occidente,  in  lega  con 
Atene  II  183. 

Calendario  romano  II  516  segg.;  di 
Numa  265  segg. 

Cales,  colonia  latina  II  274.  284  ;  ter- 
ritorio li  342  ;  numero  dei  coloni  II 
460;  moneta  II  487. 

Caletrano,  agro  II  398. 

Calila,  storico,  sulle  origini  latine  173; 
su  Romolo  208. 

Callife,  occupata  dai  Romani  II  299 
n.  2. 

Calpeto,  re  d'Alba  205. 

Calpurnì,  gente  205. 

L.  Calpurnio  Pisene,  annalista  34. 

Camarina,  colonia  di  Siracusa  316 
n.  1.  322;  distrutta  dai  Cartaginesi 
II  186;  distrutta  di  nuovo  dai  Ma- 
mertini  II  405. 

Camars,  II  331  n.  2.  355  n.  2. 

Camerino,  alleanza  con  Roma  11  331. 
334.  452. 

Camerio,  città  latina  372  n.  10. 

Camilia,  tribù  II  19. 

Campana,  rilievi  lì  512. 

Campani,  103;  loro  inizi  II  188  seg.; 
loro  lega  II  268.  287  seg.;  pretesa 
dedizione  II  269  seg.;  prefettura 
II  443  seg.;    middix  tiitictts  II  443  ; 


òU 


INDICE    ALFABETICO 


moneta  II  484;  monetazione  romano- 
campana  II  486  segg.  489,  v.  Capua. 

Campania,  dominio  etrusco  442  segg.; 
condizioni  alla  metà  del  IV  sec.  II 
267  seg. 

Campidoglio,  v.  Capitolino. 

Campo  Marzio,  268.  355.  396. 

Camunni,  tribù  euganea  65. 

Cananei,  329. 

Carine,  tumulo  di  Toante  167. 

C.  Canaleio,  tribuno  della  plebe  II  5. 
56. 

Canusio,  nel  mito  di  Diomede  166  ; 
alleata  con  Roma  II  319;  popola- 
zione II  494;  moneta  II  487;  iscri- 
zione messapica  (?)  168. 

Capanne,  v.  Fondi  di  capanna. 

Capena,  porta  di  Roma  361.  II  531. 
-Capena,  sua  nazionalità  136;  civiltà 
esterna  160;  soccorre  i  Veienti  II 
141  seg.  ;  sottomessa  dai  Romani 
li  149;  quando  ordinata  a  comune 
II  432;  municipio  federato,  ibid. 

Capeto,  re  d'Alba  205. 

Capi,  padre  di  Anchise  198. 

Capi,  re  d'Alba  205. 

Capitolino,  colle,  posizione  185.  190; 
pretesa  colonia  greca  194;  occupato 
da  Tazio  221  n.  3;  nelle  leggende 
regie  362  n.  4;  occupato  da  Erdonio 
II  32.  124;  nel  pomerio  391  seg.; 
culto  di  Giove  267;  della  triade  ca- 
pitolina 272  seg.  322. 

Capitolio  antico,  sul  Quirinale  272. 

Capitello  di  Signia,  303  n.  2. 

Caprea,  palude  400. 

Capri,  isola  315  n.  2.  II  188. 

Caprotine,  none  270.  400.  II  242. 

Capua,  nome  italico  109.  198;  fonda- 
zione 445;  dominio  etrusco  436.  443; 
conquistata  dai  Sanniti  II  188  ;  a 
capo  della  lega  campana  11  268;  si 
allea  con  Roma  II  269;  si  unisce 
coi  Latini  ribelli  II  274;  si  accorda 
con  Roma  II  277  ;  municipio  senza  suf- 
fragio II  286  seg.;  ribellione  II  321  ; 
viene   a   patti  lì  323;    fedele   nella 


guerra  di  Pirro  li  397;  nella  pre- 
fettura campana  II  444;  sue  con- 
dizioni politiche  II  436.  439.  440; 
estensione  II  494;  popolazione  ibid.; 
moneta  II  440  seg.  442;  meddices 
II  443. 

Caraceni,  v.  Carecini. 

Carali,  colonia  fenicia  334. 

Carcere,  365  n.  4. 

Cardea,  dea  259. 

Cardine,  II  448. 

Carecini,  tribìi  sannitica  103  n.  3;  sot- 
tomessi a  Roma  II  421. 

Carilao,  napoletano  li  300. 

Carine,  391. 

Carmenta,  dea  277. 

Carmentale,  festa  di  Roma  277. 

Carmentalia,  festa  277. 

Carmi  trionfali,  II  503. 

Carna,  dea  278. 

Carnaria,  festa  278. 

Caronda,  legislatore  340. 

Caronte,  presso  gli  Etruschi   147  seg. 

Carseoli,  colonia  latina  II  341  ;  terri- 
torio II  343;  numero  dei  coloni  II 
460. 

Cartagine,  fondazione  381  seg.;  po- 
tenza nel  sec.  VI  333  ;  primo  inter- 
vento in  Sicilia  334;  conquista  della 
Sardegna  334;  lotta  coi  Focesi  334 
seg.;  rotta  d'Imera  342;  spedizioni 
in  Sicilia  nel  409  e  nel  406,  li  185 
seg.;  nuove  guerre  con  Dionisio  II 
187.  261  seg.;  provincia  cartaginese 
in  Sicilia  II  187;  relazioni  con  gli 
Etruschi  456  ;  trattati  con  Roma 
II  248.  251  segg.  253  n.  3;  assedio 
di  Siracusa  II  406  ;  alleanza  con 
Roma  contro  Pirro  II  404  segg.  ; 
tentato  intervento  a  Taranto  II  419. 

Carvento,  posizione  II  119  n.  3;  nella 
lega  albana  (?)  378  n.  5  nr.  8;  nella 
lista  di  Dionisio  II  100  n.  2;  presa 
da  Coriolano  II  113;  nello  Stato  ro- 
mano lì  152. 

Sp.  Carvilio,  (console  293)  II  360  n.  5, 
(legato  292)  II  362  n.  2. 


INDICE    ALFABETICO 


545 


Sp.  Carvilio  Ruga,  suo  divorzio  II  66 
n.  5. 

Casa  romana,  II  513  seg. 

Casci  (Latini),  171. 

Casilino,  nella  lega  campana  II  268; 
nella  prefettura  campana  II  444. 

Casino,  occupata  dai  Sanniti  II  295 
n.  3  ;  incorporata  nello  Stato  romano 
II  324.  420. 

Casmene,  colonia  siracusana  316  n.  1. 

Cassandro,  in  lotta  con  Agatocle  II  370. 

Cassio  Argillo,  II  12. 

Cassio  Bruto,  II  12. 

L.  Cassio  Emina,  annalista  34. 

Cassio  Signifero,  II  12. 

Sp.  Cassio  Viscellino,  II  212  n.  2;  trat- 
tato coi  Latini  29.  II  96  segg.  ;  trat- 
tato con  gli  Ernici  II  103;  tempio  di 
Cerere  II  37.  527;  legge  agraria  II 
9;  sua  morte  II  10  seg. 

Castori,  II  527;  culto  a  Tuscolo  366 
n.  2.  426. 

Castrimenio,  nella  lega  albana  (?)  378 
n.  5  nr.  17. 

Castro  d'inuo,  181. 

Castro  Novo  d'Etruria,  colonia  romana 
lì  368.  447. 

Castro  Novo  del  Piceno,  colonia  ro- 
mana II  368.  423.  447. 

Catania,  colonia  calcidese  315  ;  data 
della  fondazione  316  n.  1  ;  legisla- 
zione di  Caronda  340;  rifugio  degli 
Ateniesi  II  185;  colonia  di  Dionisio 
II  187  seg. 

Catillo,  fonda  Tivoli  201. 

Caudini,  sedi  104  ;  nella  lega  sannitica 
II  266  seg.;  dissoluzione  della  loro 
lega  II  420.  461. 

Gaudio,  battaglia  di,  li  309  segg.;  pace 
di  C.  II  112  segg.;  alleanza  con 
Roma  II  420. 

Caulonia,  colonia  di  Crotone  321.  Il 
263;  presa  dai  Campani  di  Regio  II 
421. 

Cavalieri,  nell'età  regia  356;  nell'or- 
dinamento serviano  II  205  segg.  ; 
trasformazione  II  208  seg. 

G.  De  Sanctis,  Storia  dei  Romani,  II. 


Cecilia,  V.  Gaia  Cecilia. 

L.  Cecilie  Metello,  (cos.  284)  II  376. 

Q.  Cecilio  Metello,  sua  laudazione  II 
506. 

Ceeulo,  fondatore  di  Preneste  274.  281. 

Celeri,  v.  Cavalieri. 

Celia,  città  apula,  moneta  II  487. 

Celio,  monte,  nelle  leggende  regie  362 
n.  4;  stanziamento  d'Albani  386  ; 
Curie  Nuove  240. 

Celti,  migrazioni  e  civiltà  della  Tene 
II  168  segg.;  passaggio  delle  Alpi 
II  162  seg.;  v.  Calli. 

Celtiberi,  II  159. 

Celtici,  II  159. 

Cenomani,  provenienza  II  163  ;  sedi 
II  161. 

Censori,  loro  origine  e  poteri  II  58 
segg.;  patrizi  e  plebei  II  218;  lectio 
senatus  II  227.  233;  stendono  liste 
di  municipi  II  442;  ingerenza  nelle 
finanze  municipali  II  440.  445;  a 
Cere  II  442;  a  Banzia  II  457. 

Centuria,  misui'a  II  71  n.  1. 

Centurie,  equestri  primitive  247  ;  dei 
fanti,  tratte  dalle  curie  242.  356  ;  nel- 
l'ordinamento serviano  II  193  segg.; 
della  fanteria  II  204  seg.;  della  ca- 
valleria lì  205  seg.  ;  v.  Comizi  cen- 
turiati. 

Ceramica,  neolitica  di  Liguria  61  ;  di 
Breonio  64;  di  Pantelleria  67  ;  dei 
fondi  di  capanna  69;  presicula  di 
Stentinello  72;  eneolitica  di  Sicilia 
97  segg.;  delle  palafitte  118;  delle 
terremare  133;  villanoviana  153  seg.; 
sicuhi  progredita  325;  etrusca  149. 
429  seg.  ;  greca  325. 

Cere,  posizione  157;  nella  lega  etru- 
sca 485  n.  3  ;  in  relazione  coi  Fe- 
nici 330;  in  lotta  coi  Galli  lì  173; 
con  Dionisio  II  190;  relazioni  più 
antiche  con  Roma  II  150;  municipio 
II  255  segg.  433;  privata  di  metà 
del  territorio  II  424;  dittatura  423. 
338;  censura  II  442;  sarcofaghi  430  • 
pitture   II   510;   estensione   II  494; 

86 


546 


INDICE    ALFABETICO 


popolazione  II  495;  tesoro  in  Delfi 
326;  V.  Mezenzio. 

Cerere,  dea  italica  276.  279  ;  sacrifizi 
258;  vittime  umane  288;  tempio  II 
29.  37.  510.  527  segg.;  archivio  della 
plebe  nel  suo  tempio  II  37  seg.  219. 

Cerialia,  festa  276. 

Cermalo,  monte  186.  187. 

Certosa  (fibula  della),  438. 

Cesennia,  II  338  n.  4. 

Chiusi,  V.  Clusio. 

Cillirì,  a  Siracusa  341. 

Cilnì,  patrizi  aretini  II  341  n.  6.  350. 

Cimetra,  II  352. 

Ciminì,  monti  II  330. 

L.  Cincio  Alimento,  annalista  32. 

Cinea.  tessalo  II  389.  403.  407. 

Cinna,  II  321  n.  1. 

Circe,  209.  336. 

Circei,  II  108  n.  5  ;  colonia  dei  Tar- 
quini  (sic)  II  252;  nella  lista  di  Dio- 
nisio li  101  ;  presa  da  Coriolano  II 
113;  occupata  dai  Romani  II  123; 
colonia  latina  II  245  seg.;  nel  trat- 
tato con  Cartagine  II  252;  dopo  la 
guerra  latina  II  280.  342;  territorio 
II  153  n.  1. 

Circeo,  monte  336. 

Circo  Massimo,  II  533;  lapis  albus  II 10. 

Cirene,  333. 

Cisauna,  nel  Sannio  II  352. 

Cispio,  monte  185. 

Ciste,  II  511. 

Classi,  dette  serviane  II  192  segg.; 
loro  censi  II  198  segg. 

Classici,  II  192. 

Clastidio,  città  II  162. 

Claudi,  gente,  origine  sabina  221;  loro 
clienti  228  n.  2;  Marcelli,  plebei  232. 

Claudia,  tribù  II  19  seg.  124. 

Ap.  Claudio,  decemviro  II  43  segg.; 
suoi  intendimenti  II  49  segg. 

Ap.  Claudio,  (dittatore  362)  II  254. 

Ap.  Claudio  Ceco,  censura  II  226  segg.; 
fonda  Foro  d'Appio  II  451  ;  riforme 
nel  culto  d'Ercole  II  524;  questione 
coi  tibicini  II  509;  primo  consolato 


(307)  II  335;  secondo  consolato  (296) 
II  354;  orazione  contro  Pirro  II  404. 
606  seg.  ;  carme  II  507. 

Ap.  Claudio  Fulcro,  (cos.  79)  31. 

Atto  Clauso,  221. 

Clavus,  II  208  n.  3. 

Cieli,  gente  albana  385. 

Clelia,  leggenda  438  seg. 

Tulio  Clelio,  II  136. 

Clelio,  v.  Cluilio,  Gracco. 

Cleonimo,  spartano,  in  Italia  II  345  seg.; 
a  Corcira  li  370;  nell'Adriatico  II 
347. 

Clientela,  226  segg. 

Clitemestra,  consorte  di  Archiloco  173. 

P.  Clodio,  232. 

Cluilie,  fosse  377. 

Cluilio,  duce  Albano  367, 

Cluilio,  duce  equo  II  115.  118. 

Clusio,  posizione  151;  nella  lega  etru- 
sca  435  n.  3:  sotto  Porsenna  II  446; 
assediata  dai  Galli  II  166  seg.;  al- 
leanza con  Roma  II  359;  tomba,  di 
Porsenna  432;  canopi  430. 

Clustumerio,  origini  sicule  (?)  173; 
città  latina  372  n.  10. 

Clustumina,  tribù  221  n.  1.  II  20.  124. 

Cluvie,  città  103  n.  3. 

Gnidi,  in  Occidente  334. 

Coenzione,  237. 

Coercizione,  415. 

Collazia,  città  latina  373  n.  10. 

Collegialità,  416  seg. 

Collina,  porta  di  Roma  II  127.  132. 
249. 

Colonie,  greche  in  Italia  e  Sicilia  314 
segg.;  fenicie  328  segg.  ;  latine  II  457 
seg.  460  seg.  ;  di  cittadini  romani  II 
446  segg. 

Cominio,    negli    Equiculi  II  360  n.  5. 

Cominio  Gerito,  nel  Sannio  II  360 
n.  5;  occupata  dai  Romani  II   363. 

Postumo  Cominio,  (cos.  493)  II  96. 
110  seg. 

Comizi,  curiati,  loro  origine  244  seg.; 
nell'età  regia  354  segg.;  nella  re- 
]3ubblica  427  —  centuriati,  nell'età 


INDICE   ALFABETICO 


547 


regia  355.  357;  assistono  al  testa- 
mento (?)  244;  nei  primordi  della 
repubblica  428;  nell'ordinamento 
serviano  II  210  segg.;  loro  autorità 
II  232  seg.  —  tributi,  II  22. 

Comizio,  186.  275;  sepolcro  di  Romolo 
208. 

Commercio,  dei  Romani  II  472  seg. 

Compulteria,  in  lega  con  Roma  lì  420; 
moneta  II  488. 

Concili  tributi,  II  22  segg.  34. 

Conciliaboli,  II  450. 

Concordia,  tempio  II  215.  532. 

Confarreazione,  237. 

Congiura,  II  131. 

Coni,  tribù  107  n.  3.  108.  327. 

Connubio,  tra  patrizi  e  plebei  236  seg. 
II  56. 

Consenzia,  capitale  dei  Bruzì  II  461  ; 
presa  da  Alessandro  d'Epiro  II  293, 

Conso,  dio  275.  308;  festa  II  534;  ara 
303.  II  533;  tempio  II  510.  515.  528. 

Consoli,  origine  403  segg.  ;  poteri  413 
seg.  ;  collegialità  416;  giurisdizione 
II  82;  relazione  coi  questori  419  seg.; 
patrizi  e  plebei  li  212.  214. 

Consualia,  festa  275.  290.  II  465. 

Coorte,  II  454. 

Cora,  città  latina  172  n.  2;  nella  lega 
albana  (?)  378  n.  5;  nella  nuova  lega 
latina  II  92;  nella  lista  di  Dionisio  (?) 
II  100  n.  2;  resiste  ai  Volsci  II  105. 
114;  dopo  la  calata  dei  Galli  II 
245;  città  federata  II  280.  342.  458; 
monete  II  487. 

Corace,  di  Siracusa  II  182. 

Corbione,  posizione  lì  119  n.  3;  nella 
lega  albana  (?)  378  n.  5  nr.  45; 
presa  da  Coriolano  II  113. 

Corcira,  intervento  a  Siracusa  341  ; 
sotto  Cleonimo  II  346;  sotto  Aga- 
tocle  lì  347.  370;  sotto  Pirro  11  370. 
385. 

Corcira  Nera,  colonia  greca  326  n.  3. 

Corinzi,  loro  colonie  in  Occidente  321; 
intervento  a  Siracusa  341  ;  nuovo 
intervento  II  264. 


Corioli,  nella  lega  albana  378  n.  5 
nr.  9;  presa  dai  Romani  TI  110;  oc- 
cupata da  Coriolano  II  113. 

Come,  II  93  n.  2;  nella  lista  di  Dio- 
nisio (?)  II  100  n.  2. 

Cornelia,  tribìi  II  19. 

P.  Cornelio  Arvina,  (cos.  306)  II  336. 

A.  Cornelio  Cosso,  (cos.  428)  29;  uccide 
Tolunnio  II  137. 

A.  Cornelio  Cosso,  (dittatore  385)11 192. 

A.  Cornelio  Cosso,  (cos.  343)  II  269. 

P.  Cornelio  Dolabella,  (cos.  283)  II  376 
n.  3.  377  seg. 

L.  Cornelio  Lentulo,  (dittatore  320)  II 
816. 

L.  Cornelio  Lentulo,  (cos.  275)  II  413 
segg. 

P.  Cornelio  Maluginense,  (maestro  dei 
cavalieri  396)  II  141  seg. 

P.  Cornelio  Rufino,  (cos.  290)  II  363  ; 
(cos.  273)  II  411;  espulso  dal  senato 
II  492. 

L.  Cornelio  Scipione  Barbato,  (cos.  298) 
II  351  n.  1.  354  n.  2;  (propretore 
295)  II  355  seg.;  sarcofago  lì  514; 
iscrizione  lì  351  n.  1. 

Cornicini,  centuria  lì  197. 

Corniculani,  monti  171. 

Corniculo,  origini  sicule  (?)  173;  città 
latina  372  n.  10. 

Corsi,  lingua  74  n.  4;  relazioni  coi 
Sardi  115. 

Corsica,  stazioni  preistoriche  74;  pre- 
dominio etrusco  335.  436.  435;  de- 
vastata dai  Siracusani  II  179;  rela- 
zioni con  Dionisio  il  vecchio  II  190. 

Cortona,  posizione  152;  città  pelasgi- 
ca  (?)  132;  nella  lega  etrusca  435 
n.  3  ;  alleanza  con  Roma  II  331  seg. 

Ti.  Coruncanio,  (cos.  280)  II  390  n.  2 . 
392  segg.  398. 

Corupedio,  battaglia,  data  II  390  n.  2. 

Cosa,  nei  Volcienti.  colonia  latina  11 
391. 

Cossira  (Pantelleria),  antichità  pre- 
istoriche 67. 

Craniti,  monti  II  412. 


548 


INDICE    ALFABETICO 


Grati,  fiume  II  294. 

Cremazione  (dei  cadaveri),  presso  gli 
Arii93;  i  palafitticoli  118;  i  Villa- 
noviani 143;  in  Etruria  143  seg.;  a 
Timmari  139;  presso  i  Latini  161. 

Cremerà,  battaglia  II  126  segg. 

Cretesi,  in  Sicilia  e  in  Italia  165  ;  a 
Gela  322. 

Crimiso,  battaglia  II  264. 

Crono,  assimilato  a  Saturno  275. 

Cronologia,  romana  13  segg.;  v.  Calen- 
dario. 

Crotone,  in  territorio  iapigio  (?)  169; 
colonia  achea  320;  data  della  fon- 
dazione 316  n.  1;  sue  colonie  321; 
contro  Siri,  Sibari  e  Locri  338  ;  de- 
mocrazia II  178;  combattuta  da  Dio- 
nisio II  190;  presa  da  D.  II  262  ; 
assediata  dai  Bruzì  II  317;  rivolgi- 
mento costituzionale  II  318;  occu- 
pata da  Agatocle  II  371  ;  alleata  dei 
Romani  II  412;  presa  dai  Campani 
di  Regio  II  421. 

Crustumerio,   v.  Clustumerio. 

Cuma,  necropoli  indigena  163;  colonia 
greca  316;  data  della  fondazione 
318  n.  1.  319;  sotto  Aristodemo  450 
seg.  Il  14;  battaglia  di  C.  457  seg.  ;  in 
mano  dei  Sanniti  II  188;  municipio 
II  302;  nella  prefettura  campana 
II  444;  meddices  II  443;  alfabeto  II 
497;  moneta  II  482  seg.;  libri  sibil- 
lini II  525. 

Cunina,  dea  259. 

Cupra,  città  picena  436. 

Cupra,  dea  436. 

Curi,  in  Sabina  212  n.  4.  221  seg. 

Curia  Ostilia,  240.  364, 

Curiazì,  duello  con  gli  Grazi  368; 
gente  albana  385. 

P.  Curiazio,  decemviro  II  43. 

Curie,  origine  239  segg.;  nella  milizia 
242;  nel  culto  242;  nel  diritto  fa- 
miliare 243;  Curie  vecchie  e  nuove 
240;  V.  Comizi  curiati. 

M'.  Curio  Dentato,  (cos.  290)  II  363  seg.; 


(cos.  284)  II  376  seg.;  (cos.  275)  II 
411.  413  segg.  ;  sua  povertà  II  493. 

Curione,  capo  della  curia  242  n.  1. 

Curzio,  lago,  sul  Foro  222. 

Cusuetani,  nella  lega  albana  378  n.  5 
nr.  8. 

Cutilia,  lago  104. 

Cutilie,  Acque  (Rieti)  126. 


D 


Damaste,  storico,  su  Enea  198;  sulle 
origini  di  Roma  207. 

Damofilo,  pittore  II  510. 

Danza,  presso  i  Latini  II  509. 

Daunì,  origine  illirica  167  n.  7;  tribù 
iapigia  164;  territorio  li  343;  v.  Arpi. 

Daunio,  164. 

Dea  Dia,  276. 

Debiti,  II  2  segg.  490  segg. 

Decemviri  legihiis  scribendis,  II 42  segg.  t 
loro  leggi  II  62  segg.;  loro  calen- 
dario II  519.  521  —  sacris  faciiindis, 
II  222.  535  —  stUtibus  iudicandis,  II 
39  segg.  220. 

Decio  lubellio,  campano  II  395. 

P.  Decio  Mure,  (trib.  militare  343)  II 
269;  (cos.  340)  II  275  segg. 

P.  Decio  Mure,  (cos.  308)  ;  II  333  ;  (cen- 
sore 304)  II  230  ;  (cos.  297)  II  353  ; 
(cos.  295)  II  355  segg.  ;  sua  devotio  II 
357  n.  2. 

P.  Decio  Mure,  (cos.  279)  II  399  segg. 
(cos.  265  ?)  II  425  n.  1. 

Decumano,  II  448. 

Dèi,  certi  257  ;  consenti  147.  307  ;  in- 
certi 257  ;  inferi  308  ;  involuti  147  ; 
novensidi  307  ;  precipui  257  ;  natu- 
ristici 261  ;  istantanei  e  pei'manenti 
260  ;  malefici  283  ;  feticci  263  seg.  ; 
culto  delle  pietre  262  ;  culto  degli  al- 
beri 263  ;  culto  degli  animali  262, 
V.  anche  Totemismo;  famiglie  divine 
269. 

Delfi,  oracolo  consultato  dai  Romani 
II  426  ;   dono  votivo  romano  II  146 


INDICE   ALFABETICO 


549 


segg.  ;  tesoro  di  Cere  226  ;  di  Spina 
437;  presa  dai  Galli  II  402. 

Demarato,  padre  di  Tarquinio  Prisco 
430. 

Demarchi,  di  Napoli  II  300  n.  1. 

Demeter,  assimilata  a  Cerere  276.  II 528. 

Demetrio  Poliorcete,  relazioni  con  Aga- 
tocle  II  372  ;  ambasceria  ai  Romani 
[I  427. 

Denaro,  II  489. 

Detestatio  sacrorum,  243. 

Diana,  dea  273  seg.;  suo  tempio  sul- 
l'Aventino 31  n.  2. 218. 274. 303. 365  ; 
simulacro  II  512  ;  sacra  leggenda 
375  ;  sacrario  nemorense  29.  II  93. 
218  ;  attinenze  con  Virbio  308  ;  sa- 
crario tuscolano  II  93. 

Dicearchia,  colonia  di  Samì  336  ;  in  po- 
tere dei  Sanniti  II  188  ;  v.  Puteoli. 

Dinomenidi,  in  Siracusa  341  segg. 

Diocle  di  Pepareto,  su  Romolo  215. 

Diocle,  legislatore  340. 

Diodoro  Siculo,  storico  43  segg. 

Diomede,  in  Italia  166  seg.  ;  fonda 
Lanuvio  201. 

Diomedee,  isole  127. 

Dione,  siracusano  II  263. 

Dionisio  di  Calcide,  storico,  sulle  ori- 
gini di  Roma  207. 

Dionisio  di  Alicarnasso,  storico,  41 
seg.;  sulle  origini  etrusche  129;  sua 
lista  di  città  latine  II  100  n.  2. 

Dionisio  I  di  Siracusa,  II  186  segg.  ; 
in  lega  coi  Lucani  189;  suoi  ultimi 
anni  II  261  seg. 

Dionisio  II  di  Siracusa,  II  262  segg. 

Diopo,  430. 

Dioscuri,  II  527;  attinenze  coi  Penati 
278  ;  epifania  al  Regillo  II  94  seg. 

Dite,  assimilato  a  Manto  146;  a  Plu- 
tone II  529. 

Dittatori,  origine  e  poteri  420  segg.; 
superiorità  sui  tribuni  della  plebe  II 
.33;  dittatori  latini  422  ;  in  Alba  367; 
a  Tuscolo  II  433  n.  8  ;  ad  Aricia, 
Lanuvio,  Nomento  e  Cere  II  438; 
patrizi  e  plebei  II  218. 


Divalla,  festa  278. 

Divinazione,  295.  II  534  seg. 

Dodici  tavole,  30.  II  62  segg. 

Dolati  (Umbri),  170. 

Dolmen,  in  Corsica  74  n.  2;  in  Terra 

d'Otranto  n.  3  ;  fuori  d'Italia  96. 
L.  Domizio  Aenobarbo,  II  95. 
Cn.  Domizio  Calvino,  (cos.  283)  II   376 

n.  3.  378. 
Domos  de  gianas,  in  Sardegna  112  seg. 
Dorico,  di  Sparta,  in  Sicilia  339. 
Dossenno,  maschera  II  505. 
Dote,  II  67. 

Dramma,  moneta,  II  481. 
Drammatica,  poesia,  in  Roma  II 504  seg. 
Ducezio,  re  siculo  II  178  seg. 
Cesene  Duillio,  decemviro  II  49  n.  1. 
M.  Duillio,  tribuno  della  plebe  li    26 

n.  4.  35. 
Duoviri,  nelle  colonie  II  449. 
Duoviri  sacris  faciimdis,  II  222.  535. 
Duronia,  città  II  360  n.  2. 


E 


T.  Ebuzio,  (cos.  449)  II  94  n.  2. 

Ecateo,  logografo,  sui  Pelasgi  132. 

Ecetra,  città  volsca  II  106  seg.  245. 

Edili,  della  plebe  II  36  segg.  II  219; 
curuli  II  219  ;  a  Tuscolo  II  433  ;  a 
Fundi,  Formie  ed  Arpino  II  443:  a 
Banzia  II  457. 

Efesto,  assimilato  a  Volcano  274.  530. 

Eforo,  storico,  sui  Sicani  99;  sulle  co- 
lonie greche  316  n.  1. 

Efula,  nella  lega  albana  (?)  378  n.  5 
nr.  3;  presa  dai  Romani  II  122  n.  2. 

Egeria,  dea  361. 

Egerio  Levio,  dittatore  latino  lì  91. 

Egnazio,  v.  Gelilo. 

Elba,  isola,  miniere  150  seg.;  occupata 
dai  Siracusani  11  179;  da  Dionisio 
li  190. 

Elea,  colonia  focese  335.  II  189;  scuola 
filosofica  323.  II  180  seg.;  v.   Velia. 

Elei,  sul  Campidoglio  194. 

Eleno,  figlio  di  Pirro  li  390.  415.  418. 


550 


INDICE    ALFABETICO 


Elimi,  popolo  di    Sicilia    66  ;    pretese 

origini  troiane  198  ;  lega  con  Atene 

II 183  ;  lega  con  Cartagine  II 184  seg. 
C.  Elio,  tribuno  della  plebe  li  375  n.  1. 
Sesto  Elio  Peto,  giureconsulto  II  41. 
Ellanico,  storico,  su  Enea    198;    sulle 

origini  di  Roma    207  ;    sui    Pelasgi 

132;  sui  Siculi  100. 
Elleporo,  battaglia  13.  II  190, 
Eloro,  battaglia  341. 
Elpenore,  tomba  II  252  n.  3. 
Emancipazione,  II  68. 
Emilì,  origini  troiane  201. 
Emilia,  tribù  II  19.  446. 
L.  Emilio   Barbula,  (cos.  281)  II  383. 

389  seg.  ;    trionfa    come    proconsole 

II  208  n.  1.  390  n.  1. 
Q.  Emilio  Barbula,  (cos.  311)  lì  329  n.  2. 
L.  Emilio  Mamercino,  (cos.  341)  II  269; 

(cos.  329)  II  273. 
Mam.  Emilio  Mamercino,  (dittatore  437. 

426)  II  137;  (434)  II  58. 
Ti.    Emilio    Mamercino,   (cos.  339)    II 

275  segg. 
L.  Emilio  Mamerco,  (cos.  478)  II  126. 
Q.    Emilio    Papo,   (cos.    282)    II    378; 

(cos.  278)  II  411. 
M.  Emilio  PauUo  (cos.  302)  II  347. 
Empedocle,  di  Agrigento  li  181  seg. 
Enaria  (Ischia),  198  n.  5. 
Enea,  in  Italia    194    segg.;  nel   Lazio 

191.  209;  lotta  con  Turno  203;  fonda 

le  Ferie  Latine  378. 
Enea  II,  re  d'Alba  205. 
Eneti.  in  Italia  (?)  156. 
Enna,  città  sicula,  occupata   dai   Car- 
taginesi li  405;  si  dà  a  Pirro  II  409; 

culto  di  Cerere  II  527  seg. 
Ennio,  di  Rudie  II  456;  sopra  un'eclissi 

del  400  circa  19  seg. 
Enotri,  tribù  italica  107  seg.  169.  327. 
Enotro,  167. 
Entella,  città  elima  66. 
Eolie,  isole  314  n.  3. 
Epicarmo,  poeta  II  179  seg. 
Epito,  re  d'Alba  205. 
Epopea,  romana  22  segg.  II  502   seg. 


Equi,  tribù,  II  115  seg.;  lotte  con  Roma 
Il  45.  116  seg.  248  segg.;  lega  coi 
Volsci  II  114;  alleanza  con  Roma 
(?)  II  289  n.  3;  ribellione  II  333; 
sottomissione   II    340. 

Equiculi,  II  341. 

Equimelio,  II  16. 

Equirria,  festa  269  n.  2. 

Equiti,  V.  Cavalieri. 

Eqiius  publicHs,  II  206. 

Era  Lacinia,  tempio  II  182. 

Eracle,  v.  Ercole. 

Eraclea,  d'Italia,  nella  lega  italiota  II 
190;  occupata  da  Alessandro  d'Epiro 
II  293;  battaglia  II  398;  alleanza 
con  Roma  II  411  seg.  452. 

Eraclea  Mìnoa,  in  potere  dei  Cartagi- 
nesi li  262  seg.;  occultata  da  Pirro 
II  409. 

Erari,  Il  227  n.  1.  434. 

Erario,  nel  tempio  di  Saturno  II  219. 

Ercolano,  fondata  da  Ercole  (?)  193  ; 
dominio  etrusco  443  ;  nella  lega  nu- 
cerina  II  268. 

Ercole,  miti  sulle  sue  peregrinazioni 
192  seg.;  culto  nel  Lazio  190.  II 
523  seg.;  in  Etruria  (Hercle)  147; 
attinenze  con  Giunone,  Marte  e  Mi- 
nerva 279  ;  con  Acca  Larenzia  281  ; 
ara  303;  statua  II  512. 

Ap.  Erdonio  II  32.  124. 

Erenni,  patroni  dei  Mari  233  n.  1. 

Erennio,  sannita  II  316. 

Ereto,  confine  latino-sabino  172.  383. 
II  124.  529. 

Erice,  città  elima  66. 

Erice,  monte  66. 

Ermocrate,  di  Siracusa  li  187. 

Ermodoro,  d'Efeso  II  44  seg. 

Ernici,  tribù  italica  li  102  segg.;  al- 
leanza con  Roma  II  9.  103;  occu- 
pano Ferentino  II  123  n.  5.  152;  dopo 
la  guerra  gallica  II  258  segg.;  non 
partecipano  alla  guerra  latina  II  277  ; 
ribellione  II  388  ;  sottomissione  II 
337  seg. 


INDICE   ALFABETICO 


551 


Erodoto,  sui  Pelasgi  132;  sulle  origini 
etrusche  128  ;  sui  Messapì  164. 

Ersilia,  sabina  222. 

Escolano,  dio  258. 

Esculapio,  II  528  seg.;  tempio  II  511. 

Esernia,  nel  Sannio  II  356  n.  1  ;  colonia 
latina,  suo  territorio  II  420  ;  moneta 
II  468. 

Esiodo,  su  Latino  209. 

Esquilino,  colle  185.  187;  nelle  leggende 
regie  362  n.  4  ;  sepolcreto  183. 

Etalia,  V.  Elba. 

Etoli,  in  Italia  167. 

Etruschi,  provenienza  124  segg.  ;  in 
Toscana  145  segg.;  lotta  coi  Focesi 
395. 445;  in  Corsica  456;  amicizia  con 
Cartagine  456  ;  lotte  coi  re  di  Roma 
872  ;  nel  Lazio  445.  452  segg.;  in 
Campania  442  segg.  II  267  ;  non 
soccorrono  i  Veienti  II  141  seg.  ; 
assalgono  Sutrio  e  Nepi  II  254  ; 
nuove  guerre  con  Roma  II  255.  328 
seg.  350  seg.  376  seg.  ;  pace  II 
398;  soccorrono  gli  Ateniesi  II  184! 
Agatocle  II  369  ;  progressi  econo- 
mici 148  seg.;  tombe  a  camera  149  ; 
ceramica  430  seg.;  pittura  431;  archi- 
tettura 432  seg.;  ordinamenti  civili 
152  seg.  434;  lega  religiosa  435.  II 
143  seg.;  sacrario  federale  146  ;  città 
150  segg.  II  494  seg.;  forze  II  462. 
463  seg.;  religione  146  seg.;  sua  effi- 
cacia sulla  religione  romana  II  529 
seg.;  alfabeto  II  498;  nundine  II  473; 
moneta  II  473  seg.;  piraterie  II  179. 

Euchire,  430. 

Euganei,  65. 

Eugrammo,  430. 

Evandro,  leggende  190  seg.  192.    194. 


Fabì,  numero  dei  loro  clienti  228  n.  2; 
al  Cremerà  II  126  aegg.  ;  nella  leg- 
genda dell'invasione  gallica  II  165 
n.  1. 

Fabia,  tribù  II  19. 


Q.  Fabio  (RuUiano?),  II  511. 

C.  Fabio  Ambusto,  (cos.  358)  II  255. 

M.  Fabio  Ambusto,  II  213. 

Fabio  Dorsuone,  II  131.  171. 

Q.  Fabio  Massimo  Gurgite,  (cos.  292) 
II  362  seg.;  (cos.  276)  II  411  seg.; 
(cos.  265)  II  425. 

Q.  Fabio  Massimo  Rulliano,  (maestro 
dei  cavalieri  325)  II  305;  (dittatore 
315)  II  320;  (cos.  310)  II  330  segg.; 
(cos.  308)  II  335;  (proconsole  307 j  II 
335;  (censore  304)  II  94  n.  2.  304; 
(console  297)  II  353;  (console  295)  II 
355  segg.  ;  (legato  292)  II  362  segg. 

Q.  Fabio  Massimo  Verrucoso  (Cuncta- 
tor),  II  200. 

C.  Fabio  Pittore,  suoi    dipinti  II   511. 

Q.  Fabio  Pittore,  annalista  36;  sue 
fonti  21  segg.  ;  sulle  origini  latine 
173;  su  Romolo  214  segg. 

Cesone  Fabio  Vibulano,  (cos.  479)  II 
126. 

M.  Fabio  Vibulano,  (cos.  480)  II  126. 

Q.  Fabio  Vibulano,  II  127.  150. 

Fabrateria,  alleanza  con  Roma  II  289 
n.  3.  296  n.  3. 

Fabri,  centurie  II  197. 

C.  Fabricio  Luscino,  (cos.  282)  II  379; 
sue  trattative  con  Pirro  II  404;  (cos. 
278)  II  411;  (censore  27.5)  II  492. 

Fabulino,  dio  259. 

Fagutale,  monte  185. 

Falacro,  dio  278. 

Falaride,  tiranno  di  Agrigento  341. 

Falerì,  posizione  160;  origini  sicule 
173;  Pelasgi  176;  sue  lotte  con  Roma 
II  128  seg.;  soccorre  i  Veienti  II  141 
seg.;  sottomessa  da  Camillo  II  150; 
guerra  con  Roma  II  255  seg.  ;  alleata 
romana  II  349;  ribellione  II  362;  ci- 
viltà esterna  160;  culto  di  Minerva 
278;  di  Giunone  270;  della  triade 
capitolina  273  n.  3;  alfabeto  II  498. 

Falerna,  tribù  II  285.  288. 

Falerno,  agro  II  268.  285. 

Famiglia,  indoeuropea  80;  etrusca  148; 
romana  II  65  segg.  536. 


552 


INDICE    ALFABETICO 


C.  Fannie,  (cos.  122)  II  10. 

M.  Fannie,  II  511. 

Faracida,  navarco  spartano  II  187. 

Faro  di  Messina,  330. 

Farre,  II  466. 

Fasti,  consolari  2   segg.;  trionfali    15. 

Fauna,  dea  276. 

Fauno,  dio  276  ;  attinenze  con  Evandro 
192;  con  Numa  281;  fonda  le  Ferie 
Latine  378. 

Faustolo,  215. 

Febre,  dea  288.  II  466. 

Fede,  dea  199. 

Federati,  italici  II  451  segg. 

Felsina,  leggenda  sulle  origini  436; 
nell'età  villanoviana  154  seg.;  sua 
importanza  II  93;  sepolcreto  della 
Certosa  488;  cade  in  mano  dei  Boi 
II  162;  V.  Bononia. 

Fenectani,  campi  II  275  seg.  278. 

Fenice,  329. 

Fenici,  in  Occidente  327  segg.;  v.  Car- 
tagine. 

Fenicussa,  isola  829. 

Fensernia,  monete  II  484. 

Ferecide,  sugli  Iapigi  167. 

Ferentina  (Acqua),  assemblee  federali 
dei  Latini  423.  II  91;  riunione  dei 
Volsci  II  110. 

Ferentino,  tolta  ai  Volsci  II  128;  al- 
leata II  337.  342.  852.  458. 

Ferie,  pubbliche  265;  Latine  377  segg. 
II  102;  degli  stolidi  246  n.  1. 

Feritro,  II  360. 

Fescennia,  nel  territorio  falisco  II  504  ; 
origini  sicule  173;  pelasgiche  II  423. 

Fescennini,  versi  II  504. 

Feziali,  302.  367. 

Ficana,  città  latina  370. 

Fico  ruminale,  213. 

Ficoroni,  cista  II  511. 

Ficulea,  città  latina  372  n.  10;  origini 
sicule  173;  nella  lega  albana  (?)  378 
n.  5  nr.  44. 

Fidene,  posizione  182;  latina  o  sabina 
183  n.  1.  221  n.  1;  nella  lega  albana 
378  n.  5  nr,  10;  alleata  con  Veì  II 


124  seg.;  lotta  con  Roma  384.  II  136 
seg.;  distrutta  II  137. 

Fidicini,  II  509. 

Fiesole,  152. 

Filisto,  storico,  sui  Siculi  174;  sui  Si- 
cani  99. 

Filolao,  pitagorico  337  n.  1.  II  181. 

Finzia,  di  Agrigento  II  406. 

Finziade  (Licata),  II  406. 

Firmo,  colonia  latina  II  423. 

Fistelia,  monete  II  188  n.  7.  484. 

Flamini,  271;  nome  90;  maggiori  e 
minori  297;  virbiali  II  439. 

Cn.  Flavio,  edile  II  228;  edicola  della 
Concordia 4  n.  2.  8  n.  5.  II  215;  sulle 
azioni  e  sui  fasti  II  68  seg.  212  n.  2. 
230  seg.  507.  519. 

M.  Flavio,  II  244  n.  3. 

Flora,  dea  277. 

Flumentana,  porta  190. 

Focesi,  commerci  e  colonie  in  Occi- 
dente 332  seg.  335;  nell'Adriatico 
326;  in  lotta  con  gli  Etruschi  455. 

Fondi  di  capanna,  preistorici  69  segg. 

Fondi,  V.  Fundi. 

Fonte,  dio  261. 

Fonti,  dee  261. 

Fontinalia,  festa  261. 

Forche  Caudine,  v.  Gaudio. 

Forculo,  dio  259. 

Fordicidia,  festa  242  ii.  4. 

Foreti,  popolo  latino  378  n.  5  nr.  11. 

Forcuto,  Il  319. 

Fori,  II  451. 

Foriense,  curia  240  n.  3.  241. 

Formie,  nella  lega  latina  II  265;  mu- 
nicipio senza  suffragio  II  284  ;  riceve 
il  suffragio  II  366  n.  3;  tribù  Emi- 
lia II  446;  edili  II  443. 

Fornacalia,  festa  243  n.  2.  245. 

Foro  Boario  (Roma),  194. 

Foro  d'Appio,  II  451. 

Foro  Romano,  posizione  186  ;  prosciu- 
gamento 372;  nel  pomerio  389  ;  iscri- 
zione arcaica  5  n.  3.  401  n.  3  ;  lago 
Curzio  222;  sepolcreto  183. 


indicp:  alfabetico 


553 


Fortino,  nella  lista  di  Dionisio  II  100 
n.  2. 

Fortuna,  culto  in  Roma  277;  a  Pre- 
neste  183;  attinenze  con  re  Servio 
362;  statua  358;  Muliebre  277.11 110; 
Primigenia  279.  II  535. 

Fregelle,  distrutta  dai  Sanniti  II  296 
n.  1;  colonia  latina  II  289  n.  3.  296 
n.  4;  occupata  dai  Sanniti  II  314; 
ricuperata  dai  Romani  II  324;  rico- 
stituita a  colonia  II  327;  al  tempo 
di  Pirro  II  397;  migrazione  di  Pe- 
ligni  II  453.  456;  distrutta  da  Opi- 
mio  II  458;  tei-ritorio  II  342;  popo- 
lazione II  495. 

Frentani,  territorio  103.  II  343;  sotto 
il  dominio  sannitico  II  266;  alleanza 
con  Roma  II  307  ;  lotte  con  Roma 
II  817.  337;  lega  II  461. 

Fresilia,  II  341  n.  6. 

Fresinone,  II  337;  municipio  II  338. 

Frumentazioni,  II  14. 

Frumento,  II  466. 

Fruti  (Venere),  200. 

Fucino,  lago  II  104. 

Fufiuns.  divinità  etrusea  146. 

C.  Fulcinio,  II  136. 

Fulginio,  prefettura  II  358  seg. 

Cn.  Fulvio  Centumalo,  (eos.  298)  II 
351  n.  1.353.  354  n.  2;  (propretore 
295)  II  356  n.  2. 

L.  Fulvio  Curvo,  (cos.  322)  II  244  n.  3. 

M.  Fulvio  Curvo,  (cos.  305)  II  339. 

M.  Fulvio  Fiacco,  tribuno  della  plebe 
II  422;  (cos.  264)  II  475;  trionfo  II 
510. 

Fundi,  nella  lega  latina  II  265;  mu- 
nicipio II  284  ;  riceve  il  diritto  di 
suffragio  II  366  n.  3;  tribù  Emilia 
II  446  ;  edili  II  443. 

L.  Furio  Camillo,  (cos.  349)  II  260  seg. 

L.  Furio  Camillo,  (cos.  338)  II  276. 

M.  Furio  Camillo,  prende  Veì  II  141 
segg.;  sottomette  Falerì  II  150;  salva 
Roma  II  172  segg.;  vince  a  Mecio 
II  246;  vince  gli  Equi  II  248;  nella 
sedizione  manliana  II  195;  nelle  di- 


scordie tra  patrizi  e  plebei  II  214 
seg.;  ultima  dittatura  II  258  seg. 

P.  Furio  Medullino,  (cos.  472)  II   519. 

C.  Furio  Pacilo,  (censore  435)  II  58. 

C.  Furnio,  tribuno  della  plebe  II  56 
n.  2. 

Furrina,  dea  218.  303.  308. 

Furrinalia,  festa  278. 


G 


Gabì,  posizione  183;  origini  sicule  173 
nella  lega  albana    878  n.  5  nr.  33 
nella  lista  di  Dionisio  II  100    n.  2 
trattato  con  Roma    29.  373.  389.  II 
431;  fuori  della  lega  politica  latina 
II  92.  151. 

Gaia  Cecilia,  dea  307  seg.  361. 

Galeria,  tribìi  II  19. 

Galli,  nome  II  160  n.  1;  assediano 
Chiusi  II  164;  contro  Roma  II  165; 
vittoria  dell'Alila  II  167  segg.;  presa 
di  Roma  171  segg.;  incendio  di  Roma 
5;  nuove  invasioni  II  258  segg.  350; 
a  Sentino  II  354  segg.  ;  v.  Celti,  Se- 
noni  e  Boi. 

Gamori.  a  Siracusa  341. 

Gaulo,  V.  Gozzo. 

Gauro,  monte  II  269.  272. 

Geganì,  gente  albana  385. 

M.  Geganio,  (cos.  443)  II  115;  (censore 
435)  II  115. 

Gela,  colonia  greca  322;  data  della 
fondazione  316  n.  1;  sedizioni  II  6; 
tirannide  341  ;  sotto  Gelone  342; 
distrutta  dai  Cartaginesi  II  186;  di- 
strutta dai  Mamertini  II  405;  v.  Fin- 
ziade. 

Gelilo  Egnazio,  duce  sannitico  II  354 
segg. 

Cn.  Gellio,  annalista  37. 

Gelone,  tiranno  di  Siracusa    341    seg. 

Gemino  Mecio,  tuscolano  II  275. 

Geni,  260  segg. 

Genova,  442.  II  495. 

Genti,  229  segg.;  maggiori  e  minori 
234.  248  seg.;  plebee  234;  culti  302. 


554 


INDICE    ALFABETICO 


Genuci,  patrizi  e  plebei  II  212  n,  2. 

Cn.  Genucio,  (trib.  mil.  399)  II  254. 

T.  Genucio,  decemviro  II  43. 

L.  Genucio  Aventinense,  (cos.  362)  II 
253. 

Gianicolo,  occupato  dai  Romani  395 
seg.;  dagli  Etruschi  446.  II  127  seg.  ; 
secessioni  II  5  seg.  231. 

Giano,  264  seg.  ;  nel  feriale  266;  tempio 
II  528;  chiusura  del  tempio  17  seg.; 
bifronte  II  513;  Curiazio  368  n.  2. 
391;  Gemino  264.  391;  Giunonio  368 
n.  2;  Quirino  213.  271. 

Gilippo,  in  Sicilia  II  187. 

Giove,  presso  gl'Indoeuropei  87  seg.  ; 
presso  i  Romani  266  seg.  ;  assimi- 
lato a  Tinia  146  ;  padre  di  Minerva 
e  della  Fortuna  279;  ludi  II  533; 
santuario  albano  200.  377;  santuario 
capitolino  II  515;  antichità  303  n.  2; 
incendio  II  526;  statua  II  60.  512; 
G.  Elicio  284;  Fagutale  263  n.  6; 
Feretrio  29.  263  n.  6.  II  139;  Impe- 
ratore 31;  Lapide  261;  Ottimo  Mas- 
simo 267;  Statore  222.  II  515;  Vin- 
citore II  515. 

Giuli,  gente  albana  385  ;  origini  tro- 
iane 201  ;  falsificazioni  in  loro  onore 
8  n.  3;  ara  a  Boville  309. 

C.  Giulio,  decemviro  II  43. 

Giuni,  plebei  409.  II  212  n.  2. 

C.  Giunio  Bubulco  Bruto ,  (dittatore 
802)  II  347  ;  dedica  il  tempio  della 
Salute  II  511. 

C.  Giunio  Bruto  Bubulco,  (cos.  277)  II 
411  seg. 

D.  Giunio  Bruto,  II  634, 

D.  Giunio  Bruto  Sceva,  (cos.  292)  II 
362. 

L.  Giunio  Bruto,  (cos.  509)  396.  407 
seg. 

L.  Giunto  Bruto,  tribuno  della  plebe 
409  n.  1.  II  31  n.  1. 

M.  Giunio  Bruto,  II  534. 

Giunone,  270;  madre  di  Ercole  279;  as- 
similata ad  Uni  146;  culto  a  Falerì 
106  seg.;  a  Vei   II  142;   Caprotina 


II  242;  Lucina  II  531;  Moneta  II  196. 

475.  531;   Quirite   242    n.  2.  II  531; 

Sororia  264.  368  n.  2.  391;  Sospita 

270;  Regina  li  529. 
Giuturna,  dea  261;  lago  di  G.  II  95. 
Gladiatori,  II  534. 
Glauco,  di  Regio  II  180. 
Gnathia,  città  168. 
Golasecca  (Milano),  necropoli  159. 
Gorgaso,  pittore  II  510. 
Gorgia,  di  Leontini  II  182. 
Gozzo,  antichità  preistoriche  116;  co- 
lonia fenicia  332. 
Gracco  Clelio,  duce  equo  II  116. 
Granio  Liciniano,  storico  46. 
Greci,  nome  319  n.  3;    attinenze   con 

gl'Italici  101;  in  Sicilia  ed  in  Italia 

312  segg. 
Gromatici,  II  515. 

H 

Hammurabi,  suo  codice  II  88  seg. 
Herculaneum,  nel  Sannio  (?)  II  361  n.  2. 
Heirkte,  occupata  da  Pirro  li  409. 
Heredium,  II  70  seg. 
Hermes,  assimilato  a  Mercurio  278.  II 

528. 
Hestia,  II  524,  v.  Vesta. 
Hortenses,  nella  lega  albana  378  n.  5 

nr.  12. 
Hostis,  84. 
Hyria,  monete  II  484;  v.  Nola. 


lacco,  assimilato  a  Libero  278. 

lanuale,  porta  391. 

lapige,  164. 

Iapigi,  origini  e  suddivisioni  163  segg. 
167  seg.;  in  quel  di  Crotone  169;  in 
lotta  coi  Greci  II  178;  relazioni  con 
Alessandro  d'Epiro  II  293  ;  lega  con 
Taranto  II  295;  loro  forze  II  385 
n.  1;  V.  Apuli,  Arpi. 

lapigia,  163  seg.;  colonie  greche  II  262. 

lapodi,  popolo  illirico  168. 

Ibico,  poeta  322. 

Ibleo,  fiume,  battaglia  II  406. 


INDICE    ALFABETICO 


555 


Iceta,  signore  di  Siracusa  II  374.  406. 

L.  Icilio,  (tribuno  della  plebe  456)  II 45. 

Sp.  Icilio,  (tribuno  della  plebe  471)  II  26 
n.  4.  35. 

lerone,  signore  di  Siracusa  457. 

leronimo,  di  Cardia,  storico  26. 

Iguvio,  trattato  con  Roma  II  349. 

Dia,  203.  216  seg. 

Iliensi,  tribìi  sarda  114. 

Illirì,  nel  Veneto  157  seg.;  nella  la- 
pigia  167  seg. 

Imbrinio,  battaglia  II  305. 

Imera,  colonia  greca,  fondazione  316 
n.  1;  sotto  Terillo  e  Terone  342;  bat- 
taglia 342;  distruzione  II  186. 

Imera  settentrionale,  fiume  II  262. 

Imperio,  civile  e  militare  350.  353.  404. 

Indigeti,  dèi  307  n.  3. 

Indigitamenti,  257  seg. 

Indoeuropei,  caratteri  77;  patria  78; 
pastorizia  79;  agricoltura  80;  civiltà 
80  segg.  ;  religione  84  segg.;  disper- 
sione 94  segg. 

Industria,  in  Roma  II  471. 

Ingiuria,  secondo  le  dodici  tavole  II  80 
n.  8. 

Insubri,  sedi  II  161. 

Interamna  Lirina.  colonia  latina  II  325 
n.  1.  327  n.  3;  minacciata  dai  San- 
niti II  359;  territorio  II  343  n.  2; 
numero  dei  coloni  lì  328.  460. 

Interamnio  dei  Pretuttii,  II  349. 

Intercessione,  416  seg. 

Interesse,  II  490  segg. 

Interré,  353.  II  219. 

Ippaso,  di  Metapontio  337  n.  1. 

Ippi,  di  Regio  II  180. 

Ippocrate,  tiranno  di  Gela  341. 

Ippolito,  assimilato  a  Virbio  191.  308. 

Ipponio,  colonia  locrese  320;  ricosti- 
tuita dai  Cartaginesi  II  262  ;  presa 
dai  Bruzì  II  263;  conquistata  da 
Agatocle  II  371;  ricuperata  dai  Bruzì 
II  375. 

Irnthi,  monete  444.  II  484. 

Irpini,  tribù  sannitica  104;  nella  fede- 
razione sannitica    II    266    seg.;    al- 


leanza con  Roma  II  420;  loro  lega  II 

461. 
Ischia,  occupata  dai   Siracusani  e  dai 

Napoletani  II  188  seg.;  v.  Pitecusse. 
Italia,  storia  del  nome  110  segg. 
Itali,  tribìi  109  segg. 
Italioti,    loro   federazione  li  189    seg. 

II  261  segg.  II  294. 
Indices,  denominazione  dei  consoli  403 

n.  2.  414. 
ludices  decemviri,  II  39  seg. 
lugero,  II  477. 

K 

Kabala,  battaglia  II  262. 
Kronion,  battaglia  II  262. 


Labici,  posizione  II  119  n.  3;  nella 
lega  albana  378  n.  5  nr.  32  ;  nella 
lista  di  Dionisio  II  100  n.  2  ;  occu- 
pata dagli  Equi  II  92  ;  presa  dai  Ro- 
mani II  152;  quando  ordinata  a  co- 
mune II  431. 

Lacinie,  promontorio  II  347. 

Lanassa,  figlia  di  Agatocle  II  320  seg. 
409. 

Lanuvio,  posizione  81  ;  fondata  da  Dio- 
mede 201  ;  nella  lega  albana  378 
n.  5  nr.  37;  nella  lista  di  Dionisio 
II  100  n.  2;  nella  nuova  lega  latina 
II  92;  presa  da  Coriolano  II  113; 
dopo  la  calata  dei  Galli  II  245; 
nella  guerra  latina  II  276;  riceve 
la  cittadinanza  II  280  seg.  ;  ditta- 
tura 423.  II  438.  445  ;  tribù  Mecia 
II  446;  culto  di  Giunone  270.  II  281 
n.   1  ;  pitture  II  510. 

Lao,  colonia  di  Sibari  321;  presa  dai 
Lucani  II  189;  battaglia  II  189  seg. 

T.  Larcio,  (dittatore  501  o  498)  426 
II  129. 

Lare,  padre  di  Servio  Tullio  362. 

Larenta,  dea  308. 

Larentalia,  festa  216. 


556 


IXDICE    ALFABETICO 


Lari,  306  seg.  308. 

Larve,  306.  310. 

Latini,  provenienza  200  seg.;  sedi  106. 
170  seg.;  lega  albana  378;  lega  ijoli- 
tica  II  90  seg.  ;  battaglia  del  Regillo 
II  94  segg.  ;  trattato  cassiano  II  96 
segg.  ;  diritti  in  Roma  388;  dissolu- 
zione della  lega  II  239  segg.;  nuova 
lega  II  250  segg.  ;  sua  estensione  II 
257  n.  6;  guerra  con  Roma  II  278 
segg.  ;  dissoluzione  de6nitiva  II  280 
seg.  ;  sotto  il  primato  romano  II  458 
segg.;  ordinamenti  militari  179; 
forze  II  462;  alfabeto  II  498  seg.; 
feziali  302.  Y.  Prisci  e  Casci. 

Latiniensi,  nella  lega  albana  378  n.  5 
nr.  13. 

Latino,  in  Esiodo  106  n.  4.  209;  re  172. 

Latino  II,  re  d'Alba  205. 

Laudazioni,  31.  II  506.         v 

Laurento,  posizione  181  ;  sede  di  re 
Latino  191;  nelle  leggende  delle 
origini  latine  200  seg.;  nella  lega 
albana  378  n.  5  nr.  36;  nella  lista 
di  Dionisio  II  100  n.  2;  nella  lega 
politica  latina  II  92;  nel  piùmo  trat- 
tato con  Cartagine  II  252;  riceve  la 
cittadinanza  II  281  n.  1  ;  sacerdoti 
II  439. 

Lautule,   battaglia  II  320.  323  seg. 

Laverna,  dea  303. 

Lavinia,  figlia  di  Latino  191. 

Lavinio,  posizione  181;  fondata  da 
Enea  191;  reliquie  troiane  202; 
lotte  con  Ardea  203;  nella  lega  al- 
bana (?)  378  n.  5  nr.  46;  nella  lista 
di  Dionisio  II  101;  rifugio  di  Colla- 
tino 409;  presa  da  Coriolano  II  113; 
dopo  la  calata  dei  Galli  II  245  ; 
nella  guerra  latina  II  276;  riceve  la 
cittadinanza  II  280  seg. 

Laziare,  v.  Ferie  Latine. 

Lazio,  nome  171  n.  1  ;  topografia  177; 
prima  età  del  ferro  161  seg.;  vil- 
laggi latini  178. 

Legati  legionis,  II  308  n.   1. 

Leggi,  Acilia  (191)11  519;  dell'ara  di 


Diana  303;  Aternia  Tarpeia  (454) 
12.  II  54;  Canuleia  (445)  II  24. 
56  seg.;  Duillia  Menenia  (357j  II 
490  seg.  ;  Emilia  sulla  censura  (433) 
II  58  seg.;  Furia  Pinaria  (472)  29.  II 
519;  Genucie  (342)  II  218.  225.  491; 
Giulia  Papiria  (430)  II  55;  Icilia 
sulla  potestà  tribunicia  (492)  II  23 
n.  8;  Icilia  sull'Aventino  (456)  II  24. 
370;  Licinie  Sestie  (367)11  24.  215 
segg.  222.  490;  Menia  II  232;  Me- 
nenia Bestia  (452)  II  54;  Ogulnia 
(300)  S96.  II  223.  231;  Ortensia  II 
221.  231  seg.;  Ovinia  II  233  seg.; 
Petelia  (358)  II  235  seg.  450;  Porcia 
sulla  provocazione  419;  Publilia  di 
Volerone  (471)  II  20  n.  4;  Publilie 
(339)  II  20.  221.  225;  regie  299  seg.; 
sacrata  militare  (342)  II  224;  sa- 
crate II  28  segg.  85  seg.;  Terentilia 
(462)  II  42;  Valeria  (300)  II  231; 
Valerle  (509)  411  seg.;  Valerle  Ora- 
zie  (449)  II  28.  37  n.  1.  52. 

Legione  II  193  n.  3.  203. 

Lemonia,  tribù  II  19. 

Lemuri,  310. 

Lemuria,  festa  309. 

Leontini,  colonia  calcidese  315;  data 
della  fondazione  316  n.  1;  tirannide 
341;  distrutta  dai  Siracusani  II  163; 
colonia  militare  di  Dionisio  II 181  seg. 

Lepini,  monti  171. 

Leponzì,  tribìi,  sedi  II  161  seg. 

Lessini,  monti  65. 

C.  Letorio,  II  492  n.  2. 

Lettisternì,  II  532. 

Levi,  tribù,  sedi  II  161. 

Egerio  Levio,  dittatore  latino  422. 

Libbra,  II  477. 

Libera,  dea  italica  278  seg.;  assimi- 
lata a  Cora  II  527  seg. 

Liberalia,  festa  278. 

Libero,  dio  italico  278  seg.  ;  assimilato 
a  Fufluns  146;  a  Dioniso  II  527  seg. 

Liberti,  226.  228.  II  227. 

Libertini,  II  227. 

Libi,  in  Sardegna,  114. 


INDICE    ALFABETICO 


557 


Libici,  provenienza  II  163;  sedi  II  161. 

Libri  lintei,  30.  II  16. 

Liburni,  in  Italia  169. 

Licaone,  arcade  164. 

C.  Licinio,  (trib.  della  plebe  494)  II  31 
n.   1. 

P.  Licinio,  (trib.  della  plebe  494)  II  31 
n.  1. 

P.  Licinio  Calvo,  (trib.  militare  400) 
II  57. 

C.  Licinio  Macro,  annalista  37. 

C.  Licinio  Stolone,  (trib.  della  plebe 
377-367)  II  213. 

Liguri,  caratteri  e  sedi  61  segg.  ;  at- 
tinenze con  gli  Elimi  66.  73  seg.,  coi 
Corsi  74  seg.;  nel  Lazio  174;  confine 
con  gli  Etruschi  440  seg.;  Apuani  441. 

Liguria,  abitazioni  preistoriche  58  segg.; 
nell'età  del  bronzo  119  seg. 

Lilibeo ,  origini  II  188;  assalita  da 
Pirro  II  409  segg. 

Lima,  dea  259. 

Limentino,  dio  259. 

Limitazione,  126.  179  n.  3.  453  seg.  II 
448  seg. 

Lingoni,  provenienza  II  163;  sedi  II 
162. 

Lino,  presso  i  terramaricoli  122  ;  presso 
i  Romani  II  468. 

Lipari,  isole,  colonia  greca  334;  lotte 
con  gli  Etruschi  455;  relazioni  con 
Roma  II  147  seg. 

Lira,  II  309. 

Liri,  fiume  II  295. 

Litazione,  245. 

Literno,  colonia  romana  II  442. 

Li  tra,  II  482  seg. 

T.  Livio,  37  segg. 

Loca  relieta,  II  449;  suhseciva,  ibid. 

Locri  Epizefirì,  colonia  locrese  320; 
data  della  fondazione  316  n.  1;  lotta 
con  Crotone  338  ;  condizioni  politiche 
li  178;  presidiata  dai  Romani  II  379; 
si  dà  a  Pirro  II  395;  assalita  da 
Magone  II  407;  ricuperata  dai  Ro- 
mani II  412;  ricuperata  da  Pirro  II 
413;  alleanza  con  Roma  II  421. 


Longani,  nella  lega  albana  378  n.  5 
nr.  14. 

Longula,  nella  lega  albana  (?)  378  n.  5 
nr.  14;  presa  dai  Romani  II  110; 
conquistata  da  Coriolano  II  113. 

Lua,  dea  283. 

Lucani,  sedi  103;  inizi  II  189;  atti- 
nenze coi  Bruzì  219;  guerra  con  gli 
Italioti  II  189  ;  contro  Dionisio  II, 
II  263;  contro  Taranto  II  292;  pren- 
dono Eraclea  ibid.;  contro  Alessandro 
d'Epiro  II  293  seg.;  contro  Taranto 
II  344;  alleanza  con  Roma  II  303  seg. 
344;  nella  terza  sannitica  II  351. 
353;  contro  Turi  II  375:  ribelli  a 
Roma  II  376;  si  congiungono  con 
Piri'o  II  396;  nuova  alleanza  con 
Roma  II  421;  loro  lega  II  461;  ter- 
ritorio II  343;  forze  II  385  n.  1. 
462;  moneta  II  487  ;  nel  paese  dei 
Volsci  (?)  II  296  n.  3. 

Luceri,  tribù  223.  247;  pretesa  infe- 
riorità 253. 

Lucerla,  attinenze  con  Diomede  166  ; 
in  relazione  con  Roma  II  307;  oc- 
cupata dai  Sanniti  II  314;  ricupe- 
rata dai  Romani  II  322;  colonia  la- 
tina II  327  seg.;  numero  dei  coloni 
II  460;  minacciata  dai  Sanniti  II 
359;  battaglia  (294)  222.  II  360;  ter- 
ritorio II  343. 

Lucerò,  re  d'Ardea  223. 

Lucore,  dio  219  n.  4. 

Lucrezia,  leggenda  396  segg.;  attinenza 
con  Vergini  a  II  48. 

Sp.  Lucrezio,  (cos.  509)  396.  412. 

Lucumone,  soccorre  Romolo  223.  247 
n.  3;  eponimo  dei  Luceri  247. 

Lucumone,  di  Chiusi  II  159. 

Ludi,  gladiatori  II  534;  Romani  290. 
II  533  seg. 

Luna,  dea  261;  assimilata  a  Tiv  146. 

Luna,  porto  441. 

Lupa,  nella  leggenda  di  Romolo  208; 
capitolina  II  513. 

Lupci-cale,  187. 

Lupercalia,  festa  287  n.  6. 


558 


INDICE    ALFABP]TICO 


Luperci,  188.  302.  II  532. 

Luperco,  dio  262.  II  465. 

Lustrazioni,  293. 

Lustro,  II  59. 

C.  Lutazio  Catulo,  (cos.  242)  II  535. 


M 


Macco,  maschera  II  505. 

Macello,  206.  II  12. 

Macrina,  colonia  etrusca  443. 

Mactorio,  II  6. 

Madre  Matuta,  dea  277;  tempio  di 
Satrico  II  247. 

Madri,  dee  278. 

Magia,  presso  gl'Indoeuropei  89;  in 
Roma  284  seg. 

Magister  eqiiitum,  425. 

Magister populi,  denominazione  del  dit- 
tatore 425. 

Magistri  fanorum,  a  Capua  II  440. 

Magone,  in  Sardegna  334. 

Magone,  contro  Dionisio  II  187. 

Magone,  nella  guerra  di  Pirro  II  404 
seg.  407  seg. 

Maia,  dea  276. 

Malco,  in  Sardegna  334. 

Malevento,  battaglie  II  353.  413;  v.  Be- 
nevento. 

Malta,  antichità  preistoriche  116;  co- 
lonia fenicia  332. 

Mamertini,  a  Messina  II  374  seg.  405;  si 
accordano  con  Cartagine  II  407  ;  al- 
leanza con  Roma  (264)  II  454. 

Marnili,  di  Tuscolo  201,  v.  Ottavio  M. 

Mamilia,  torre  394. 

Mamuralia,  festa  268. 

Mamurio  Veturio,  268. 

Manati,  nella  lega  albana  378  n.  5 
nr.  15. 

Mancipazione,  Il  72. 

Manduria,  battaglia  II  292  n.  1. 

Mani,  310. 

Mania,  dea  308. 

Manipoli,  II  314. 

Manila,  gente,  suo  decreto  230. 

A.  Manlio,  decemviro  II  43. 


C.  Manlio,  (nella  secessione  del  342) 
II  6. 

Cn.  Manlio,  (cos.  480)  II  126. 

M.  Manlio  Capitolino,  230  ;  salva  Roma 
II  172;  tutela  i  debitori  II  490;  se- 
dizione II  195. 

P.  Manlio  Capitolino,  (ditt.  368)  II  214. 

T.  Manlio  Torquato,  combatte  col 
Gallo  II  58  seg. 

T.  Manlio  Torquato,  (cos.  340)  II  273 
segg. 

T.  Manlio  Torquato,  (cos.  299)  II  350 
n.  2. 

Manto,  divinità  etrusca  146. 

Mantova,  fondazione  128;  etrusca  II 
161;  importanza  II  495;  tribù  251 
n.  1. 

Manumissione,  testamentaria  II  68. 

Marcio,  battaglia  II  68. 

Anco  Marcio,  nome  360;  tipo  tradi- 
zionale 369;  conquiste  370;  fonda 
Ostia  370  seg.;  occupa  la  Selva  Me- 
sia  II  126;  prende  Fidene  II  129. 

Cn.  Marcio  Coriolano,  leggenda  II  109 
segg.;  processo  II  32;  carmi  su  di  lui 
22. 

C.  Marcio  Rutilo,  (ditt.  356)  370  II  218. 
255  ;  (censore  351)  II  218. 

C.  Marcio  Rutilo,  (cos.  310)  II  330.  332. 

Q.  Marcio  Tremulo,  (cosi  306)  II  336 
seg. 

Mari,  clienti  degli  Erenni  233  n.  1. 

Marica,  dea  II  530. 

Maris,  V.  Marte. 

Marrucini,  sedi  e  dialetto  105  ;  al- 
leanza con  Roma  II  305;  insurre- 
zione II  325.  333;  federati  II  341; 
loro  lega  II  461  ;    territorio  II  343. 

Marsi,  sedi  e  dialetto  105  ;  nella  guerra 
latina  II  275  seg.  ;  alleanza  con  Roma 
II  305;  ribellione  II  333.  341;  fede- 
rati II  341;  loro  lega  II  461;  terri- 
torio II  343;  forze  II  462;  culto  di 
Angizia  II  530. 

Marte,  dio  268  seg.  ;  onorato  dai  Sali 
298;  padre  di  Romolo  212;  attinenze 
con  Ercole  e  Minerva  279;  con  Anna 


INDICE    ALFABP^TICO 


559 


Perenna  281;  ara  303;  aste  264;  in 

Etruria  (Maris)  147. 
Marzabotto ,    città    etrusca   438   seg.  ; 

culto  della  triade  capitolina  273. 
Marzio,  V.  Campo  M. 
Maschere,  nelle  Atellane  II  605. 
Massalia,  colonia  focese  333;  lotta  con 

Cartagine  334;    relazioni  con  Roma 

II  148. 
Mastarna,  leggenda  865.  375.  447. 
Materano,  camerette  sepolcrali  162. 
Matralia,  festa  277. 
Matriarcato,  80  seg. 
Matrimonio,  presso  gli  Indoeuro^iei  81; 

presso  i  Romani  292;  secondo  le  do- 
dici tavole  II  66  seg. 
Matronalia,  festa  277. 
Mecia,  tribù  II  288.  446. 
L.  Mecilio,   tribuno   della  plebe  II  26 

n.  4. 
Mecio,  battaglia  II  246. 
Meddices,  a  Capua,  Cuma  e  Velletri  II 

443. 
Meddix  tuticHS,  nella  lega  campana  II 

268  n.  2.  288.  443  ;  nel  Sannio  II  267. 
Medio! anio,  II  161. 
Meditrinalia,  festa  267. 
Medma,  colonia  locrese  320. 
MeduUia,  città  latina  370;  patria  dei 

Furì(?)  II  175. 
Megacle,  soldato  di  Pirro  II  393  n.  3. 
Megara  Iblea,  colonia  megarese  321  ; 

data  316  n.  1;  fonda  Selinunte  322; 

necropoli  arcaiche  318. 
Sp.  Melio,  II  14  segg. 
Melite,  V.  Malta. 
Melpi,  fiume  II  295. 
Melpo,    città    etrusca  436;    presa  dai 

Galli  II  160. 
Melqart,  dio  456  n.  3;   assimilato  ad 

Eracle  II  524. 
Monaca,  colonia  di  Massalia  333. 
Mene,  città  sicula  II  178. 
Menedemo,  tiranno  di  Crotone  II  371. 
Menenia,  tribù  II  19. 
Agrippa  Menenio,  suo  apologo  II  4  seg. 
T.  Menenio,  (cos.  477)  II  127. 


Menhir,  v.  Pietre  fitte. 

Menia,  colonna  II  278  seg. 

C.  Menio,  (cos.  338)  II  276;  (censore 
318)  II  285;  (dittatore  316)  II  236 
seg.  323. 

Menone,  di  Segesta  II  374. 

Menrva,  v.  Minerva. 

Mercedonio,   mese   intercalare  II  520. 

Mercurio,  dio  italico  278  ;  assimilato 
a  Turms  146;  ad  Hermes  II  528; 
figlio  di  Maia  276. 

Mesia,  selva  II  126. 

Messana,  tirannide  II  177;  presa  dai 
Cartaginesi  II  187;  colonia  militare 
di  Dionisio  II  188;  in  mano  dei 
Mamertini  II  374;  v.  Zancle,  Ma- 
mertini. 

Messapì,  tribù  iapigia  164;  nome  165; 
affinità  coi  Veneti  169;  contro  Ta- 
ranto II  292  ;  alleati  di  Pirro  li  385; 
sottomessi  a  Roma  II  424  ;  loro  forze 
Il  385  n.  1;  alfabeto  II  497;  iscri- 
zioni 168.  V.  Calabri,  Sallentini. 

Messapo,  165. 

Metalli,  nelle  palafitte  e  nelle  terre- 
mare  123;  presso  gl'Indoeuropei  80. 
95;  presso  i  Siculi  138;  presso  i 
Villanoviani  142  seg.;  v.  moneta. 

Metapontio,  colonia  achea  320;  data 
della  fondazione  316  n.  1;  contro 
Siri  338;  nella  lega  italiota  II  190; 
alleata  ad  Alessandro  d'Epiro  II  294; 
occupata  da  Cleonimo  II  346;  al- 
leata a  Pirro  II  385;  alleanza  con 
Roma  II  421  n.  4. 

Metili,  gente  albana  (?)  385  n.  2. 

Metone,  suo  ciclo  II  520. 

Mettio  Curzio,  leggenda  222. 

Mettio  Fuffezio,  dittatore  albano  367. 

Mevania,  città  II  334. 

Mezenzio,  re  di  Cere  203.  446. 

Micene  (civiltà  di),  suoi  influssi  in  Si- 
cilia 312  ;  in  Italia,  137  seg.  325. 

Mileto,  relazioni  con  Sibari    322.  338. 

Milionia,  II  341  n.  6.  360. 

Milizia  romana,  nell'età  regia  356  segg.; 
nel  sec.  V  192  seg.  ;  nell'ordinamento 


560 


INDICE    ALFABETICO 


centuriato  II  203  seg.;  nelle  guerre 
sannitiche  II  207  segg.  314  seg. 

Milone,  ufficiale  epirota  II  389.  415. 
418  seg. 

Minerva,  dea  272  seg.;  figlia  di  Giove 
279  ;  attinenze  con  Ercole  e  Marte 
279;  in  Etruria  (Menrva)  147. 

Minosse,  in  Sicilia  165. 

Minturne,  città  aurunca  II  265  ;  vi  si 
rifugiano  i  Latini  II  275  seg.;  co- 
lonia cittadina  296.  366.  447;  culto 
di  Marica  II  530. 

Minucì,  patrizi  e  plebei  II  212  n.  2. 

C.  Minueio,  centurione  II  393  n.  3. 

L.  Minueio,  sue  largizioni  II  14  segg. 

L.  Minueio,  (cos.  458)  II  116  sog. 

Ti.  Minueio,  (cos.  305)  II  338  seg. 

Miseno,  197. 

Misure,  presso  i  Romani  II  474  segg. 

Mitologia  romana,  279  segg. 

Molfetta  (Bari),  stazionipreistoriche  73; 
civiltà  enea  162;  strato  miceneo  163. 

Monarchia,  v.  Re. 

Moneco,  colonia  di  Massalia  333. 

Moneta,  II  478  segg. 

Monte  Sacro,  secessione  II  4. 

Monti,  in  Roma  185  seg. 

Morganzio,  città  sicula  108.  II  352. 

Morgete,  eponimo  dei  Morgeti  108  n.  7. 

Morgeti,  tribù  italica  108  seg.  327. 

Morti,  culto  presso  gl'Indoeuropei  92; 
in  Roma,  306  seg. 

Mozia,  colonia  fenicia  332;  distrutta 
II  188. 

P.  Muoio,  tribuno  della  plebe  II  10. 

C.  Muoio  Scevola,  leggenda  449  segg. 

P.  Mucio  Scevola,  pontefice  massimo  17. 

Mugilla,  città  latina  II  113  n.  2. 

Ahmdus,  188,  309. 

Miinia,  nell'età  regia,  357. 

Municipi,  II  434  segg.;  diritti  civili  II 
439  ;  coscrizione  II  441  ;  censo  II 
442  ;  culti  li  439  ;  finanze  II  440  ; 
m.  con  pienezza  di  diritti  II  445  seg. 

Munienses,  nella  lega  albana  378  n.  5 
nr.  17. 

Musica,  presso  i  Latini  II  508. 


N 


Napoli,  colonia  cumana  316  ;  data  della 
fondazione  336  n.  1  ;  riceve  coloni 
ateniesi  II  183  ;  occupa  Ischia  II  188; 
relazioni  coi  Sanniti  II  189  ;  guerra 
con  Roma  II  297  segg.;  alleanza  con 
Roma  II  301.  402;  fedele  nella 
guerra  di  Pirro  II  397  ;  piano  della 
città  324  ;  territorio  II  343  ;  moneta 
II  482.  484.  487  seg.;  demarchi  II  300. 

Narnia,  colonia  latina  II  348;  territorio 
II  343. 

Nasso,  colonia  calcidese  315  ;  data  della 
fondazione  316  n.  1  ;  sotto  Gelone 
342  ;  distrutta  II  187. 

Navigazione,  presso  i  Romani   II  473. 

Atto  Navio,  augure  213.  249  n.  1.  273. 

Nenie,  Il  503. 

Nepi,  conquistata  dai  Romani  II  149; 
colonia  latina  II  254  ;  dopo  la  guerra 
latina  II  280.  342;  territorio  II  153 
n.   1. 

Neptunalia,  festa  278. 

Nequino,  presa  dai  Romani  II  348;  v. 
Nai-nia. 

Neriene,  dea  271. 

Nerulo,  terra  lucana  II  319. 

Nethuns,  v.  Nettuno. 

Nettuno,  dio  italico  278;  assimilato  a 
Posidone  II  528  ;  in  Etruria  (Nethuns) 
147  ;  padre  di  Aleso  107. 

Nexìim,  II  2  n.  2.  490  ;  sua  limitazione 
II  492. 

Nicandro,  poeta,  sugli  Iapigi  164.  167. 

Nicea  (Nizza),  colonia  di  Massalia  333. 

Nicea,  colonia  etrusca  in  Corsica  456. 

Nicone,  II  418. 

Ninfio,  demarco  napoletano  II  300. 

Nipsio,  II  300  n.  1. 

Nola,  città,  nome  italico  109  ;  dominio 
etrusco  443;  soccorre  Napoli  II  297 
segg.;  alleanza  con  Roma  li  325  ; 
costituzione  democratica  II  457  ;  ter- 
ritorio II  268;  moneta  II  487;  v. 
Hyria. 

Nome,  romano  231  segg. 


INDICE    ALFABETICO 


561 


Nomento,  posizione  183  ;  sabina  (?)  221 
n.  1  ;  nella  lega  albana  (?)  378  n.  5 
nr.  41;  presa  da  Tarquinio  Prisco  372; 
nella  lista  di  Dionisio  II  100  n.  2; 
nella  le^a  latina  II  124.  151  n.  2. 
251  ;  battaglia  II  137  ;  riceve  la 
cittadinanza  II  280  seg.;  territorio  II 
152  n.  1  ;  dittatura  423.  II  438.  445. 

None  Caprotine,  II  242. 

Nora,  colonia  fenicia  334. 

Norba,  colonia  latina  II  93.  106.  114; 
nella  lista  di  Dionisio  II  101  ;  dopo 
la  invasione  gallica  II  245;  dopo  la 
guerra  latina  II  280.  342  ;  territorio 
II  152  n.  2. 

Norzia,  divinità  etrusca,  146  seg. 

Novaria,  II  161. 

Novilara,  necropoli  71  n.  3.  159. 

Novio  Plauzio,  II  511. 

Nuceria  Alfaterna,  sua  lega  II  268. 
461  ;  alleanza  con  Roma  II  335  ;  ter- 
ritorio II  269;  monete  II  487. 

Nuraa  Pompilio,  v.  Pompilio. 

Numana,  origini  173  n.  10. 

Numico,  fiume  261.  359. 

Numiniensi,  nella  lega  albana  378  n. 
5  nr.  18. 

L.  Numisio,  pretore  latino  II  273. 

Numitore,  re  d'Alba  205. 

L.  Numitorio,  tribuno  della  plebe  II 
26  n.  4.  35. 

Nundine,  II  473. 

Nuraghi,  67.  113  segg. 

Nursia,  alleanza  coi  Sanniti  II  349  ; 
prefettura  II  365  n.  1.  444. 


Oblaco,  II  393  n.  3. 

Occupatio,  di  agro  pubblico  II  7  seg. 

Ocricolo,  alleata   con   Roma   II   334  ; 

territorio  II  343. 
Octoviri,  magistrati  municipali  II  443. 
Octulani,  nella  lega  albana    378    n.  5 

nr.  20. 
Cn.  Ogulnio,  (trib.  della  plebe  300)  II 


229;  (edile  curule  296)11  208;  statua 
della  lupa  II  513. 

Q.  Ogulnio,  (trib.  della  plebe  300)  II 
229  ;  (edile  curule  296)  li  208  ;  statua 
della  lupa  II  513. 

Olbia,  colonia  di  Massalia  333. 

Olbia,  in  Sardegna  334. 

Oleno  Galeno,  376. 

Olliculani,  nella  lega  albana  378  n.  5 
nr.  19. 

Olo,  194.  376. 

Opalia,  festa  296. 

Opì,  dea  296. 

Opici,  tribù  italica  107  ;  nel  Sannio 
(?)  103  ;  nome  109. 

Opiconsivia,  festa  276. 

L.  Opimio,  distrugge  Fregelle  II  458; 
tempio  della  Concordia  II  215. 

Opis,  re  degli  Iapigi  164. 

Oppio,  monte  185. 

Sp.  Oppio,  decemviro  II  45  seg. 

Orazia,  tribìi  II  19.  446 

Orazia,  leggenda  368;  Orazì  gente  al- 
bana (?)  385  ;  duello  coi  Curiali  368; 
analogie  greche  della  leggenda  27 
segg.;  v.  Pila. 

M.  Orazio  Barbato,  (cos.  449)  II  51. 

Orazio  Coclite,  448. 

M.  Orazio  Pulvillo,  (cos.  509)  410;  (cos. 
507)  8  n.  3. 

Orco,  308. 

Q.  Ortensio,  (dittatore  287)  II  221. 
231  seg. 

Ortigia,  isola  321. 

Ortona,  posizione  II  119  n.  3;  nella 
lega  albana  378  n.  5  nr.  12  ;  do- 
minio romano  II  152. 

Orvieto,  151  n.  3;  v.  Volsinì. 

Oschi,  loro  sedi  103  segg.;  alfabeto 
II  498. 

Ostia,  origine  383  seg.;  fondata  da 
Anco  Marcio  370  seg.;  quando  or- 
dinata a  Comune  II  431.  434;  pre- 
tori 384  n.  1.  405  n.  2;  culto  di 
Volcano  275. 

Ostili,  plebei  359. 

Ostilia,  V.  Curia. 


G.  De  Sanctis,  Storia  dei  Romani.^  II. 


86 


562 


INDICE    ALFABETICO 


Tulio  Ostilio,  nome  359;  indizi  di 
storicità  364;  prende  Medullia  370; 
Fidene  II  129;  istituisce  la  questura 
417. 

A.  Ostilio  Mancino,    (cos.  137)  II  312. 

Ottavio  Mamilio,  II  94  seg. 

Ottobre,  cavallo  268.  284. 

Orvinio  (Sabina),  culto  di  Minerva,  272. 

Ovinio,  tribuno  della  plebe  II  233. 


M.  Pacuvio,  poeta  II  456. 

Padova,  v.  Patavio. 

Padri,  detto  dei  senatori  233. 

Pagi,  in  Roma  186  seg. 

Palafitte,  dell'Europa  centrale  117  seg.; 
orientali  e  occidentali  nell'Italia  su- 
periore 119. 

Palatino,  Roma  Quadrata  187;  sue  mura, 
ibid.;  sue  cime  185  ;  capanna  di  Ro- 
molo 208  seg.;  nelle  leggende  regie 
362  n.  4  ;  V.  Fico  ruminale. 

Palatua,  v.  Pale. 

Palazio,  monte  185.  187. 

Pale,  dea  277.  II  465;  tempio  II  515.  528. 

Palemone,  assimilato  a  Portuno    191. 

Palepoli,  II  301  segg. 

Palestrina,  v.  Preneste. 

Palice,  fondata  da  Ducezio  II  178. 

Palici,  dèi  II  178. 

Palilie,  V.  Parilie. 

Fallante,  191. 

Pallantio,  città  arcade  191. 

Pallore,  dio  283. 

Palma,  premio  nei  ludi  circensi  II  533. 

Palumbinum,  II  361  n.  2. 

Pandana,  porta  22.  II  173  n.  3. 

Pandateria,  isola  315  n.  2. 

Pandosia,  colonia  di  Crotone  321  ;  data 
della  fondazione  316  n.  1  ;  battaglia 
II  294. 

Pandosia,  presso  Eraclea  II  393. 

Pane,  assimilato  a  Fauno  276. 

Panezio,  tiranno  di  Leontini  341. 

Panorrao,  colonia  fenicia  332  ;  occu- 
pata da  Pirro  II  409. 

Pantalica,  palazzo  preistorico  136. 


Pantelleria,   v.  Cossira. 

Papiri,  gente  minore  234. 

Papiria,  tribù  II  19.  21.  244  n.  3.  446. 

C.  Papirio,  pontefice  300. 

L.  Papirio  Crasso,  (censore  318)  II  285. 

L.  Papirio  Cursore,  (pretore  332)  II 
286;  (cos.  326)  II  492  n.  2;  (dittatore 
324)  II  305  ;  (cos.  320)  12.  II  315  ; 
(cos.  315)  II  320  ;  (dittatore  309) 
II  332. 

L.  Papirio  Cursore,  (cos.  295)  II  360 
n.  5.  361  ;  suo  trionfo  II  510. 

C.  Papirio  Masone,  (cos.  231)  II  99  n.  4. 

L.  Papirio  Mugillano,  (censore  443) 
II  58. 

Pappo,  maschera  II  505. 

Parilie,  festa  211.  II  465. 

Parmenide,  di  Elea  323.  II  180. 

Parricidio,  II  79. 

Pastorizia,  presso  gì'  Indoeuropei  79 
seg.;  presso  i  Romani  II  468. 

Patavio,  città  veneta  157  ;  sua  impor- 
tanza II  495  ;  vittoria  su  Cleonimo 
II  347. 

Patrizi,  origine  234  segg.;  nome  233  ; 
serrata  del  patriziato  234  segg.  Cfr. 
Plebei. 

Patrono,  suoi  diritti  e  doveri  226  segg. 

Favore,  dio  283. 

Pedarii,  nel  senato  II  62  n.  1.  234  n.  2. 

Pediculi,  167  ;  v.  Peucezì. 

Pedo,  posizione  183  ;  nella  lega  albana 
378  n.  5  nr.  21  ;  nella  lista  di  Dio- 
nisio II  100  n.  2  ;  px'esa  da  Coriolano 
II  113  ;  nella  lega  latina  II  151  n.  3  ; 
nella  nuova  lega  latina  II  251;  bat- 
taglia di  P.  II  258;  nella  guerra  la- 
tina II  276.  278;  municipio  II  280 
seg.;  territorio  II  152  n.  1. 

Pelasgi,  nel  Lazio  176;  in  Etriiria  130 
seg.;  nel  resto  d'Italia  132  seg. 

Peligni,  loro  sedi  e  dialetto  105  ;  ori- 
gini 170;  nella  guerra  latina  II  225 
seg.;  alleanza  con  Roma  II  305;  ri- 
bellione II  333  ;  nuova  alleanza  II 
341  ;  loro  lega  II  461  ;  territorio  II 
343  ;  a  Fregelle  II  453. 


INDICE   ALFABETICO 


563 


Peltuino,  alleanza  coi  Sanniti  II  349  ; 
prefettura  II  360  n.  5.  444. 

Penati,  dèi  278. 

Pentatlo,  di  Cnido  834. 

Pentri,  tribù  sannitica  103;  nella  con- 
federazione sannitica  II  266  seg.  ; 
sconfitti  II  363  n.  1  ;  alleanza  con 
Roma  II  420;  loro  lega  II  461. 

Persefone,  assimilata  a  Libera  II  278; 
V.  Proserpina. 

Pertosa  (Salerno),  grotta  135. 

Perugia,  posizione  152  ;  leggenda  sulle 
origini  436  ;  nella  lega  etrusca  435 
n.  3  ;  battaglia  II  331  ;  pace  con 
Roma  II  331  seg.;  alleanza  II  359. 

Pesto,  colonia  latina  II  420;  v.  Posi- 
donia. 

Petelino,  bosco  II  195. 

C.  Petelio,  (cos.  360)  II  258. 

C.  Petelio,  (cos.  326)  II  492  n.  2. 

M.  Petelio,  (cos.  314)  II  322  n.  3. 

Peucezì ,  tribù  iapigia  164  ;  origine 
illirica  167  n.  8;  in  lega  con  Ales- 
sandro d'Epii'o  II  293  seg.;  con  Aga- 
tocle  II  371  seg.;  federazione  con 
Roma  II  424. 

Peucezio,  164.  167. 

Philotis,  V.  Tutela. 

Pianosa,  grotte  sepolcrali  68.  96. 

Piceno,  sopravvivenze  neolitiche  71. 
159. 

Picenti,  tribìi  italica  72  ;  in  lega  con 
Roma  II  349  ;  guerra  contro  Roma 
II  422  seg.;  incorporati  nello  Stato 
Romano  II  423.  461;  tribù  Velina 
II  466  ;  territorio  II  366  ;  nell'agro 
Picentino  423  n.  5. 

Picentino,  agro  II  420  seg.  423. 

Pico,  dio  262  ;  relazione  con  Numa  281. 

Piede,  romano  II  475  seg.;  italico  II 476. 

Pietre  fitte,  in  Corsica  e  nella  Terra 
d'Otranto  74;  in  Daunia  (?)  167. 

Pila  Horatia,  368  n.  2. 

Pile  mene,  re  degli  Eneti  156. 

Pinarì,  gente,  culto  d'Ercole  II  524. 

Panaria,  curia  240  n.  7. 

L.  Pinario,  (cos.  472)  II  519. 


Pirgi,  porto  di  Cere  336. 

Pirro,  re  d'Epiro  II  384  seg.;  relazioni 
con  Agatocle  II  370  ;  suoi  alleati  in 
Italia  II  385  seg.;  guerra  contro  i 
Romani  II  390  segg.;  cronologia  II 
340  n.  2;  in  Sicilia  II  407  segg.; 
torna  in  Italia  II  412  segg.;  abban- 
dona l'Italia  II  415;  muore  II  416; 
giudizio  su  di  lui  II  416  segg. 

Pisa,  pretesa  colonia  elea  336  ;  origini 
e  importanza  444  seg. 

Pisati,  sul  Campidoglio  194. 

Pisauro,  origine  del  nome  II  173. 

Pitagora  di  Samo,  filosofo,  in  Occidente 
323  ;  pretesa  relazione  con  Numa 
377  ;  statua  nel  Comizio  II  184. 

Pitagora  di  Samo,  scultore,  in  Occi- 
dente 324. 

Pitagorici,  perseguitati  II  178;  evolu- 
zione delle  loro  dottrine  II  181  seg. 

Pitecusse,  isole  occupate  dai  Calcidesi 
315  ;  V.  Ischia. 

Pittura,  presso  gli  Etruschi  431  ;  presso 
i  Latini  II  509  segg. 

Pixunte,  colonia  di  Siri  321;  distrutta 
328  ;  ricostituita  da  Anassilao  821 
n.  2.  385  n.  3;  presa  dai  Lucani  II 
189. 

C.  Plauzio,  (cos.  358)  II  254. 

C.  Plauzio,  (cos.  329)  II  273. 

M,  Plauzio,  pittore  II  510. 

C.  Plauzio  Ipseo,  (cos.  841)  II  278  n.  2. 

P.  Plauzio  Ipseo,  (edile  curule  58)  II 
273  n.  2. 

L.  Plauzio  Venoce,  (censore  312)  II  226. 

Plebei,  origine  224  seg.;  nelle  curie 
245  seg.;  loro  secessioni  II  4  seg.; 
si  ordinano  a  Stato  nello  Stato  II  21 
segg.;  ottengono  il  connubio  coi  pa- 
trizi II  56  seg.;  ammessi  al  consolato 
II  212  segg.;  alhi  pretura,  dittatura 
e  censura  II  218;  al  senato  II  61  seg.; 
ai  sacerdozi  II  222  seg. 

Plebisciti,  loro  natura  II  2."  :  bno  va- 
lidità II  220  segg. 

Piestinia,  II  341  n.  6. 

Plistica,  presa  dai  Sanniti  II  320. 


564 


INDICE   ALFABETICO 


Plutarco,  47. 

Plutone,  V.  Dite. 

Poletaurini,  nella  lega  albana,  3.78 
n.  5  nr.  22. 

Poliandria,  presso  gl'Indoeuropei  82 
n.  1. 

Poligamia,  presso    gl'Indoeuropei  81. 

Politorio,  nella  lega  albana  (?)  378 
n.  5  nr.  22  ;  conquistata  da  Anco 
Marcio  870. 

Pollia,  tribù  II  19;  avversione  ai  Tu- 
scolani  II  244  n.  3. 

Pollition,  II  325  n.  3. 

Polluce,  II  527;  v.  Castori. 

Polusca,  nella  lega  albana  (?)  378  n.  5 
nr.  22;  presa  dai  Romani  II  110;  oc- 
cupata da  Coriolano  II  113. 

Pomerio,  sua  natura  179  seg.  ;  della 
Pi,oma  Quadrata  181  segg.;  amplia- 
menti 389  segg. 

Pomezia,  città  latina  172  n.  2;  nella 
lega  albana  (?)  378  n.  5;  conquistata 
da  Tarquinio  il  Superbo  371;  sua 
caduta  II  104  seg. 

Pomona,  dea  277. 

Pompei,  fondata  da  Ercole  193;  do- 
minio etrusco  443.  445;  nella  lega 
nucerina  II  268  ;  antica  colonna  444. 

Numa  Pompilio,  nome  359;  nelle  leg- 
gende di  Pico  e  Fauno  281  ;  atti- 
nenze con  Egeria  361  ;  relazioni  con 
Pitagora  377;  leggi  II  467.  470  seg.; 
indigitamenti  257  ;  istituzioni  sacre 
367;  riforma  del  calendario  367  n. 
6.  II  517.  518;  corporazioni    II  471. 

Pomptina,  tribù  II  248. 

Pontefice  massimo,  giurisdizione  II  86. 

Pontefici,  298  segg.  ;  portati  a  nove  II 
223;  loro  documenti  17  segg.  II  499; 
ingerenza  nel  calendario  II  518.  521 
seg.;  P.  minori  II  518. 

Ponzia,  isola,  colonia  latina  II  327; 
estensione  II  343. 

C.  Ponzio,  vincitore  di  Gaudio  II  312. 
316;  fatto  prigioniero  II  363. 

Ponzio  Cominio,  II  172. 

M.  Popillio  Lenate,  (cos.  350)  II  260. 


Poplifugia,  loro  significato  400  n.  3. 
II  242. 

Poplilia,  tribù  II  248. 

Populonia,  posizione  150;  nella  lega 
etrusca  435  n.  3. 

Porsenna,  leggenda  448  segg.  II    126. 

Portunalia,  festa  271. 

Portuno,  dio  271  seg.;  assimilato  a 
Palemone  191. 

Posidone,  assimilato  a  Nettuno  II  528; 
P.  Ippio,  assimilato  a  Conso  276. 

Posidonia,  colonia  di  Sibari  321  ;  piano 
della  città  324;  presa  dai  Lucani  II 
189;  battaglia  II  293  seg.;  tempi 
323.  II  182;  v.  Pesto. 

Possessio,  II  7  seg. 

A.  Postumio  Albo,  (ditt.  499  o  496) 
428;  vince  al  Regillo  II  94  n.  2.  95; 
vota  il  tempio  di  Cerere  II  37.  527. 

Sp.  Postumio    Albo,  decemviro  II  43. 

A.  Postumio  Albino,  annalista  32. 

Sp.  Postumio  Albino,  (cos.  334)  II  286; 
(censore  332)  II  286;  (cos.  321)  II  307 
segg. 

Postumio  Livio,  dittatore  fideuate  II 
242. 

L.  Postumio  Megello,  (cos.  305)  II  338 
seg.;  (cos.  294)  II  359  n.  2;  (cos.  291) 
II  363. 

A.  Postumio  Tuberto,  (ditt.  432  o  31) 
II  121. 

Potina,  dea  259. 

Potizì,  II  524. 

Prefetti,  II  443  segg.  ;  per  Capua  e  per 
Cuma  II  239.  288.  444;  pr.  dei  soci 
II  454. 

Prefiche,  II  503. 

Preneste,  posizione  183;  fondata  da 
Ceculo  274;  nella  lega  albana  (?) 
378  n.  5  nr.  43;  nella  lista  di  Dio- 
nisio II  100  n.  2;  relazioni  con  gli 
Equi  II  120  seg.;  fuori  della  lega  la- 
tina li  92.  151  ;  dopo  la  invasione 
gallica  II  247.  249  ;  entra  nella  lega 
latina  II  250  ;  nella  guerra  latina  II 
276;  federata  II  280.  342.  458; 
tomba  Bernardini  330;  altre  tombe 


INDICE   ALFABETICO 


565 


433.  II  514;  suo  territorio  387;  culto 
della  Fortuna  Primigenia  279;  sorti 
preuestine  II  535. 

Pretori,  antica  denominazione  dei  con- 
soli 404;  pretori  urbani  404  seg.  II 
217;  patrizi  e  plebei  II  218;  giurisdi- 
zione II  82;  ad  Ostia  384  n.  1.  405 
n.  2;  a  Cuma  ed  Anagnia  II  443. 

Pretuttii,  in  lega  coi  Sanniti  II  349; 
sottomessi  dai  Romani  II  364  seg. 
461. 

Primavera  sacra,  287  seg. 

Prisci  Latini,  171. 

Priverno,  origine  II  107;  prima  men- 
zione II  245;  guerra  con  Roma  II 
244  n.  3;  accede  alla  lega  latina  II 
254;  sottomissione  II  272  seg.  282; 
diritto  di  suffragio  II  366;  tribù 
Ufentina  II  446. 

Proca,  re  d'Alba  205. 

Proconsolato,  origine  II  297  segg. 

Proletari,  II  197. 

Proprietà  fondiaria,  presso  gl'Indoeu- 
ropei 83;  secondo  le  dodici  tavole 
II  69  seg. 

Proserpina,  dea  II  529. 

Provocazione,  al  popolo  349.  411.  II  52. 
331. 

Volerone  Publilio,  tribuno  della  plebe 
II  20. 

Q.  Publilio  Filone,  (cos.  e  ditt.  839)  II 
20.  59.  221.  275  seg.;  (pretore  337) 
II  218;  (censore  332)  II  286;  (cos. 
327)  II  297;  (procos.  326)  II  297. 
301;  (cos.  320)  12.  II  315;  (cos.  815) 
II  317.  320. 

Pudicizia,  dea,  statua  358. 

Punico,  porto  di  Cere  330. 

Pupinia,  tribù  II  19. 

Purificazioni,  291  scgg. 

Puteoli,  occupata  dai  Sanniti  II  188; 
nella  lega  campana  II  268;  nella  pre- 
fettura campana  II 444  ;  v.  Dicearchia. 


Q 


Quadrcmtul,  misura  II  478. 

Querquetulana,  porta  378  n.  5  nr.  23. 

Querquetulani,  nella  lega  albana  378 
n.  5  nr.  23;  nella  lista  di  Dionisio 
II  100  n.  2. 

Questori,  origine  e  poteri  417  segg.; 
patrizi  e  plebei  II  61  ;  classici  II  453. 

Quinqìiatrus,  festa  272. 

Quinqueviri  mensarii,  II  491. 

Quintili,  gente  albana  385. 

Quinzì,  prati  II  118  n.  3. 

Cesone  Quinzio,  sua  condanna  II  23. 
32.  51. 

T.  Quinzio  Capitolino,  (prò  cos.  464)  II 
118. 

L.  Quinzio  Cincinnato,  (cos.  460)  II 118; 
(ditt.  458)  426.  II  116  segg.;  (ditt. 
439)  II  15;  suo  campicello  II  118 
n.  3.  200. 

L.  Quinzio  Cincinnato,  (tnb.  militare 
377)  II  244  n.  1. 

T.  Quinzio  Cincinnato,  (ditt.  380)  II 
249;  sua  iscrizione  31.  II  249    n.  6. 

T.  Quinzio  Penno,  (dittatore  361)  II 
288. 

Quirina,  tribù  II  446. 

Quirinale,  187;  detto  Colle  894;  occu- 
pato da  Tazio  221  n.  8;  nelle  leg- 
gende regie  362  n.  4;  Capitolio  an- 
tico 272;  sepolcri  183. 

Quirinalia,  festa  271. 

Quirino,  dio  271;  assimilato  a  Romolo 
212  seg.;  tempio  II  515;  epiteto  di 
Giano  213. 

Quiriti,  212. 


K 


Raranensi,  tribù  223.  247. 
Rapta,  curia  240  n.  3. 
Rasenna,  124.   131. 
Rasoio,  nelle  torremare  119  n.  1. 
Ravenna,  città  umbra  102.  II  162.  495. 
Re,  presso  gl'Indoeuropei  83;  in  Alba 
367  n.  7  ;  in  Etruria  152  seg.  II  144  ; 


566 


INDICE    ALFABETICO 


presso  i  Siculi  344  n.  2;  presso  gli 
Iapigi  164;  nelle  colonie  greche 
339;  in  Roma,  loro  poteri  344  seg.; 
giurisdizione  II  81  ;  re  tradizionali 
358  segg.;  caduta  della  monarchia 
396;  re  dei  sacrifizi  297.  345  seg.  II 
518;  sua  dimora  299  n.  1. 

Rea,  assimilata  a  Opi  276. 

Rea  Silvia,  215.  217.  308.  317. 

Reate,  Aborigeni  175;  Pelasgi  176; 
alleanza  coi  Sanniti  II  349  ;  sotto- 
messa II  365  ;  prefettura  II  444. 

Rediculo,  dio  II  531. 

Regia,  344;  residenza  del  pontefice 
massimo  299;  aste  di  Marte  264. 

Regifugio,  suo  significato  400. 

Regillo,  battaglia  II  94  seg.  ;  elementi 
greci  nella  leggenda  28. 

Regio,  colonia  calcidese  315  ;  tirannide 
342.  II  177;  lotte  con  gli  Iapigi  II 
178;  distrutta  da  Dionisio  I,  II 190; 
ricostituita  da  Dionisio  II,  II  262;  pre- 
sidiata dai  Romani  II  379;  occupata 
dal  presidio  campano  II  395  seg.;  i 
Campani  di  R.  assalgono  Pirro  II 
412;  occupano  Caulonia  e  Crotone 
Il  421  ;  presa  dai  Romani  e  restituita 
ai  Greci  II  422.  536;  scuola  di  scul- 
tori 324;  moneta  II  482. 

Religione,  degli  Indoeuropei  84  segg.  ; 
degli  Etruschi  146  segg.;  dei  Romani 
256  segg.;  II  523  segg. 

Reti,  tribù  etrusca  125;  alfabeto  II 
498. 

Remo,  leggenda  206  segg. 

Remuria,  sull'Aventino  208. 

Remurino,  agro  208. 

Ricuperatori,  tribunale  II  83. 

Rimini,  V.  Arimino. 

Rituali  (libri),  degli  Etruschi  179  n.  3. 

Rivoli  (Verona),  avanzi  preistorici  64. 

Robigalia,  festa  283. 

Robigo,  dio  284.  803. 

Rodi,  in  Occidente  322.  334  ;  trattato 
con  Roma  II  247. 

Roma,  eponima  della  città  199;  genea- 
logia 209. 


Roma,  posizione  185;  significato  del 
nome  190;  date  della  fondazione  209 
segg.;  pomerio  primitivo  187  seg.; 
incrementi  successivi  389  seg.;  mura 
serviane  392  seg.;  estensione  152. 
II 494;  ponti  394  seg.;  incendio  5.  II 
176  segg.;  edifizi  sacri  e  profani  II 
514;  sepolcreti  primitivi  183  seg. 

Roma  Quadrata,  187  seg. 

Romana,  porta  190. 

Romilia,  tribìi  II  19.  125. 

T.  Romilio,  (cos.  455)11  46;  (decemviro) 
II  43. 

Romo,  209;  v.  Romolo. 

Romolo,  re  d'Alba  205. 

Romolo,  leggenda  206  segg.  ;  prende 
Medullia  370;  Fidene  II  129;  istitu- 
zioni civili  366  seg.;  questura  417; 
curie  239  seg.;  tribii  dei  Ramnensi 
247;  calendario  II  517;  intercalazione 
II  518  ;  iscrizione  nel  Vulcanale  29  ; 
carmi  su  di  lui  22;  culto  358. 

Romulea,  II  352. 

Rorarii,  li  204  n.  1. 

Rostri,  Il  278  seg. 

Rubi,  moneta  II  487. 

Rufre,  occupata  dai  Romani  II  299. 

Rumina,  dea  213.  259. 

Ruselle ,  posizione  150  ;  nella  lega 
etrusca  435  n.  3;  presa  dai  Romani 
II  359;  alleanza  con  Roma  ibid. 

Rutuli,  tribìi203;  dominio  etrusco  445; 
v.  Ardea. 


Sabini,  tribù  italica,  dialetto  105  n.  2; 
sedi  104;  confini  coi  Latini  170,  v. 
Ereto;  non  costituenti  federazione 
II  348;  nella  leggenda  delle  origini 
romane  220  segg.;  relazioni  con  Roma 
nel  sec.  V  li  45  123  seg.,  v.  Ap.  Er- 
donio;  in  lega  coi  Sanniti  II  348;  a 
Sentine  (?)  II  354;  sottomessi  da 
M'.  Curio  II  364  seg.;  ricevono  il  di- 
ritto di  suflragio  II  464;  tribù  Qui- 
rina  II  446. 


INDICE    ALFABETICO 


567 


Sacerdoti,  presso  gl'Indoeuropei  90;  in 
Etruria  148;  in  Roma  296  segg. 

Sacertà,  II  85  seg. 

Sacra,  via  394. 

Sacrani,  175  n.  4. 

Sacrate,  v.  Leggi. 

Sacrifizi,  286  segg. 

Sagra,  fiume,  battaglia  338.  II  95. 

Sagro,  fiume  II  295. 

Sakalasa,  139. 

Salacia,  dea  278. 

Salaria,  via  182. 

Salassi,  sedi  II  161. 

Salii,  298  ;  loro  carmi  240.  II  501  ;  loro 
danze  II  509. 

Sallentini,  tribù  iapigia  165;  origine 
illirica  167  n.  9;  alleanza  con  Roma 
II  454;  dissoluzione  della  loro  lega 
II  461;  loro  forze  li  462. 

Salluvì,  II  163. 

Saipinati,  guerra  con  Roma  II  151. 

Salute,  tempio  II  515.  532. 

Samì,  a  Dicearchia  336. 

Sanco,  tempio  29.  361.  365.  373. 

Sanniti,  loro  sedi  103;  scendono  nella 
Campania  II  188  seg.;  loro  lega  II 
266;  primo  trattato  con  Roma  II 
269;  prima  sannitica  II  269  segg.; 
nella  Daunia  II  293  ;  contro  Ales- 
sandro d'Epiro  II  293  segg.;  lega  con 
Napoli  II  297  ;  seconda  sannitica  II 
297  segg.  ;  pace  con  Roma  II  340  ; 
territorio  conservato  II  343;  nuove 
alleanze  II  348  seg.;  terza  sannitica 
II  351  segg.;  pace  II  364;  nuova 
guerra  II  376;  si  uniscono  a  Pirro 
II  396;  durante  la  guerra  di  Pirro 
II  412;  dissoluzione  della  lega  II 
420;  parziale  insurrezione  II  421; 
forze  II  385  n.  1.  462. 

Sardegna,  nell'età  litica  75  n.  1;  nu- 
raghi 67;  grotte  sepolcrali  68.  96; 
stazioni  e  tombe  eneolitiche  112 
segg.;  conquista  cartaginese  334. 

Sardi,  origine  114  segg. 

Sardina,  139. 


Sarsina,  guerra  con  Roma  II  422  seg.; 
alleata  II  423. 

Sassula,  nel  Lazio  387  n.  3. 

Saticula,  battaglia  II  269.  272;  asse- 
diata dai  Romani  II  320;  colonia 
latina  II  327. 

Satrico,  II  108  n.  4;  nella  lista  di  Dio- 
nisio II  100  n.  2;  unione  con  Anzio 
II  108;  occupata  da  Coriolano  II 113; 
sottomessa  dai  Romani  II  123  n.  4; 
dopo  la  invasione  gallica  II  246;  di- 
strutta II  247;  culto  di  Madre  Ma- 
tuta  277. 

Satrico  (presso  Arpino),  occupata  dai 
Sanniti  II  295  n.  6;  Comune  romano 
II  296  n.  2;  defezione  e  punizione 
II  317. 

Satura,  II  504  seg. 

Saturnali,  festa  275. 

Saturnia,  colonia  romana  II  398. 

Saturnio,  verso  II  500  seg. 

Saturno,  dio  275;  sul  Capitolino  194; 
relazione  coi  defunti  308;  con  Lua 
283. 

Savone,  fiume  II  285. 

Scale  di  Caco,  194. 

Scamandro,  fiume  198. 

Scapzia,  nella  lista  di  Dionisio  II  100 
n.  2. 

Scapzia,  tribìa  II  288. 

Scellerato,  vico  22. 

Scheggia,  passo  152. 

Schiaviti!,  presso  gl'Indoeuropei  82;  in 
Etruria    153;  in    Roma  II    68.    537. 

Scidro,  colonia  di  Sibari  321  ;  presa 
dai  Lucani  II  189. 

Scilletio,  colonia  di  Crotone  321. 

Scoltura,  nelle  colonie  greche  324;  in 
Etruria  430  seg.;  a  Roma  II  511 
segg. 

Secessioni  della  plebe,  II  4  segg.;  se- 
conda secessione  II  46.  48;  (del  342) 
II  224  segg.  269;  (del  287)  II  231.  492. 

Segesta,  città  clima  66;  pretese  ori- 
gini troiane  198.  202;  in  lotta  con 
Selinunte  II  183;  occupata  da  Pirro 
II  409;  tempio  II  182. 


568 


INDICE    ALFABETICO 


Seleuco  Nicatore,  II  383;  v.  Corupedio. 

Selinunte ,  colonia  di  Megara  Iblea 
321  ;  data  della  fondazione  316  n.  1  ; 
alleanza  coi  Cartaginesi  342;  in  lotta 
con  gli  Elimi  II  183;  distrutta  dai 
Cartaginesi  II  186;  occupata  da  Pirro 
II  409;  suo  piano  324;  tempi  323. 
II  182. 

Sempronì,  patrizi  e  plebei  II  212  n.  2. 

Sempronio  Asellione,  storico  33. 

L.  Sempronio  Atratino,  (censore  443) 
II  58. 

C.  Sempronio  Gracco,  II  10. 

Ti.  Sempronio  Gracco,  a  Numanzia  II 
312  seg. 

Sena  Gallica,  colonia  romana  II  358. 
366.  447. 

Senagora,  storico,  sulle  origini  di  Roma 
207. 

Senato,  nell'età  regia  350  segg.  ;  nei 
primordi  della  repubblica  427;  dal 
IV  sec.  II  233  segg.;  lectio  II  61.  227 
seg.  233. 

Senatusconsulti,  352. 

Senofane,  in  Occidente  323. 

Senoni,  sede  II  162;  pace  con  Roma 
II  358;  ribellione  II  375  seg.;  distru- 
zione n  377.  536. 

Sentino,  battaglia  II  357  seg.;  incor- 
porata allo  Stato  romano  II  358. 

Sepino,  città  del  Sanni o  II  361  n.  3. 

Sergia,  tribù  II  19. 

L.  Sergio,  (cos.  437)  II  136. 

M'.  Sergio,  (trib.  militare  402)  II  14. 

Servili,  gente  albana  385. 

P.  Servilio,  (cos.  495)  II  4. 

Q.  Servilio,  (dittatore  435)  II  137. 

C.  Servilio  Ahala,  (cos.  478)  II  16. 

C.  Servilio  Ahala,  {mag.  eq.  439)  II  15. 

Sesi,  di  Pantelleria  67. 

Sesterzio,  moneta  II  489. 

P.  Sestio,  decemviro  II  43. 

L.  Sestio,  (trib.  della  plebe  377-367  e 
cos.  366)  II  214. 

Sette  Pagi,  II  125. 

Sethlans,  divinità  etrusca  146.  II  530. 

Settimonzio,  festa  175  n.  4.  185. 


Sezia,  colonia  latina  II  152;  nella  lista 
di  Dionisio  II  101;  fedele  II  245; 
dopo  la  guerra  latina  II  280.  342; 
territorio  II  153  n.  1. 

Sibari,  colonia  achea  320  ;  data  della 
fondazione  316  n.  1  ;  sue  colonie 
321  ;  relazioni  con  Mileto  322  ;  po- 
tenza 321;  contro  Siri  338;  distrutta 
338;  monete  II  482. 

Sibari,  sul  Traente  335  n.  3.  II  482. 

Sibillini,  libri  373  seg.  201.  II  525 
segg.  535. 

Sicani,  loro  stirpe  98  segg. 

Sicani,  nella  lega  albana  378  n.  5  nr. 
24. 

L.  Siccio  Dentato,  II  45  seg. 

Sicelico,  a  Tivoli  174. 

Sicilia,  sopravvivenze  paleolitiche  65 
seg.;  grotte  sepolcrali  68.  96;  civiltà 
eneolitica  97  segg.;  presso  Omero 
314  n.  2. 

C.  Sicinio,  (trib.  della  plebe  294)  II  31 
n.  1. 

0.  Sicinio,  (trib.  della  plebe  271)  II 
26  n.  4. 

L.  Sicinio,  (trib.  della  plebe  294)  II 
31  n.  1. 

Siculi,  stirpe  98;  nome  100;  nel  Lazio 
173;  ad  Ortigia  328;  primo  periodo 
siculo  97  segg.;  secondo  periodo 
135  seg.  312  seg.;  sotto  l'influenza 
greca  325;  riscossa  II  178;  lotte  con 
Dionisio  I,  II  188;  alfabeto  II  497. 

Siculo,  v.  Sicelico. 

Sidicini,  territorio  II  268  ;  in  lotta  coi 
Sanniti  II  269;  dopo  la  prima  san- 
nitica  II  273;  dopo  la  guerra  latina 
II  284  seg.  ;  v.  Teano. 

Signia,  colonia  latina  II  93.  106.  114; 
nella  lista  di  Dionisio  II  101  ;  dopo 
la  invasione  gallica  II  245  ;  dopo 
la  guerra  latina  II  280.  342;  terri- 
torio II  152  n.  1.  153  n.  1;  Capitolio 
303  n.  2;    moneta  II  487. 

Sigoveso,  duce  gallico  II  164. 

Sila,  selva  II  421. 

Silaro,  fiume,  battaglia  II  293. 


INDICE   ALFABETICO 


569 


Silvano,  dio  276- 

Silvi,  re  d'Alba  204  seg. 

Silvio,  II  337. 

Simbruini,  monti  115. 

Simeto,  fiume  315. 

Simoenta,  fiume  198. 

Sinuessa,  colonia  romana  II  866.  447. 

Siponto,  nel  mito  di  Diomede  166; 
presa  da  Alessandro  d'Epiro  II  298. 

Siracusa,  colonia  corinzia  321  ;  data 
della  fondazione  316  n.  1;  sue  co- 
lonie 322;  leggi  340;  guerra  con 
Ippocrate  341;  tirannide  341  segg.; 
diviene  una  grande  città  342;  vit- 
toria di  Cuma  457;  caduta  della  ti- 
rannide II  177;  lotta  contro  Ducezio 
II  178  seg.;  contro  gli  Etruschi  II 
179;  contro  Atene  II  183;  tirannide 
di  Dionisio  II  186  ;  assediata  dai 
Cartaginesi  II  187;  caduta  della  ti- 
rannide Il  263  ;  salvata  da  Timo- 
leonte  II  264;  nuovo  intervento  in 
Italia  II  317;  sotto  Agatocle  II  368 
segg.;  sotto  Iceta  II  374.  405  seg.; 
intervento  di  Pirro  II  407  segg.  ; 
estensione  II  494;  tempi  320.  II  182; 
necropoli  318;  alfabeto  II  497. 

Siri,  colonia  acbea  320;  distruzione 
338;  monete  II  482. 

Siri,  fiume  II  393. 

Sisolensi,  popolo  latino  174;  nella  lega 
albana  378  n.  5  nr.  25. 

Soci  navali,  Il  454. 

Sofrone,  scrittore  di  mimi  II  180. 

Sole,  dio,  presso  gli  Arii  88;  presso  i 
Romani  261.;  assimilato  ad  Usil  146. 

Solone,  attinenze  tra  le  sue  leggi  e  le 
dodici  tavole  II  87  seg. 

Solunto,  colonia  fenicia  332. 

Sora,  occupata  dai  Sanniti  II  295  n.  3; 
presa  dai  Romani  II  322,  cfr.  266  ; 
ripresa  dai  Sanniti  II  335;  ricupe- 
rata dai  Romani  II  338;  colonia  la- 
tina, territorio  II  343;  numero  dei 
coloni  II  460. 

Sorrento,  nella  lega  nucerina  II  268. 

Sorti  prenestine,  183.  II  535. 


Sosistrato,  signore  di  Agrigento  II  406 
segg.  411. 

Specchie,  67. 

Spina,  città,  suo  nome  102;  Pelasgi 
132;  dominio  etrusco  436;  tesoro  in 
Delfi  326. 

Spoleto,  in  lega  coi  Sanniti  II  348; 
incorporata  nello  Stato  Romano  II 
358  seg. 

Sponsio,  II  536. 

Stabie,  nella  lega  nucerina  II  268. 

Stata  Madre,  dea  274. 

Statano,  dio  259. 

Statino,  dio  259. 

Statilino,  dio  259. 

Stato,  presso  gl'Indoeuropei  83  ;  in 
Etruria  152  seg.  ;  nel  Lazio  178  seg.; 
relazioni   col    Comune  II  430   segg. 

Statonia  152  ;  incorporata  nello  Stato 
romano  II  398  ;  prefettura  II  444 
n.  3. 

Stellate,  agro,  in  Campania  II  268.  285. 

Stellate,   agro,   presso  Capena  II  432. 

Stellatina,  tribìi  II  437. 

Steni,  65. 

Stennio  Stallio,  lucano  II  375  n.  1. 

Stentinello  (Siracusa),  stazione  prei- 
storica 72  segg. 

Stesicoro,  poeta  322;  intorno  a  Ercole 
193;  intorno  ad  Enea  197  seg. 

Stipendio,  militare  II  210. 

Stirps,  239. 

Sublicio,  ponte  301.  395.  448. 

Subura,  185.  394. 

Succusano.  pago  186. 

Suciniani,  sacerdoti  378  n.  5  nr.  24, 

Suessa  Aurunca,  nome  italico  109;  bat- 
taglia II  276;  colonia  latina  II  327; 
territorio  II  343;  moneta  II  487  seg. 

Suessa  Pomezia,  v.  Pomezia. 

Suessula,  città  campana  II  268  ;  bat- 
taglia 11  269.  272;  nella  prefettura 
campana  II  444. 

Sulci,  colonia  fenicia  334. 

Ser.  Sulpicio,  decemviro  II  43. 

Ser.  Sulpicio,  (trib.  militare  277)  lì  213. 
244  n.  1. 


570 


INDICE   ALFABETICO 


Ser.  Sulpicio  Camerino,  (cos.  345)  II 
322  n.  3. 

C.  Sulpicio  Longo,  (cos.  314)  II  321  seg. 

P.  Sulpicio  Saverrione,  (cos.  279)  II  399 
segg. 

Summano,  tempio  II  515.  528. 

Supplicazioni,  290  II  532. 

Sutrio,  conquistata  dai  Romani  II  149; 
colonia  latina  II  254;  dopo  la  guerra 
latina  II  280.  342;  assediata  dagli 
Etruschi  II  329  segg.;  territorio  II 
153  n.  1. 


Tahlinum,  II  514. 

Tabuto,  monte,  miniere  preistoriche  97. 

Tadine,  città  umbra  249  n.  3. 

Tagete,  divinità  etrusca  128.  148.  151. 

Taglione,  II  80.  83. 

Tanaquilla,  361  seg. 

Gaia  Taracia,  396  n.  2. 

Taranto,  terramara  (?)  134;  strato  mi- 
ceneo 163;  colonia  laconica  320;  re 
339  n.  2;  democrazia  II  178;  lotta 
contro  gli  Iapigi  ibid.  ;  nella  lega 
italiota  II  190;  chiama  in  Italia  Ar- 
chidamo  II  292;  chiama  Alessandro 
d'Epiro  ibid.;  Io  abbandona  II  294; 
difende  Eraclea  contro  i  Lucani  II 
295;  in  lega  con  Napoli  (?)  II  298 
seg.;  preteso  intervento  nella  se- 
conda sannitica  II  315  seg.;  guerra 
coi  Lucani  e  con  Roma  II  344  seg.; 
chiama  Cleonimo  II  345  ;  lo  abban- 
dona II  346;  trattato  con  Roma  II 
347;  chiama  Agatocle  II  369;  guerra 
contro  Roma  II  380  segg.;  chiama 
Pirro  II  384;  dopo  la  partenza  di 
Pirro  II  478;  accordo  con  Roma  II 
478  seg.;  estensione  e  popolazione 
II  494;  moneta  II  482  seg.  484. 

Tarconte,  128.  151.  436. 

Tarento,  nel  campo  Marzio  II  529. 

Tarpeia,  leggenda  222;  culto  307  seg. 

Tarpeio,  monte  222. 

Sp.  Tarpeio,  (cos.  454)  11.  II  54. 


Tarquinì,  posizione  151  ;  nella  lega 
etrusca  435  n.  3;  nelle  leggende 
etrusche  128;  prima  guerra  con  Roma 
407  seg.;  dopo  la  caduta  di  Veì  II 
150;  nuova  guerra  II  255  segg.;  ri- 
prende la  guerra  durante  la  seconda 
sannitica  II  328;  pace  di  quaranta 
anni  con  Roma  II  333;  estensione 
II  494;  popolazione  II  495;  necropoli 
143;  tomba  del  Guerriero  330. 

Tarquinì,  in  Roma,  nome  360;  leg-» 
gende  371  seg. 

Tarquinia,  vestale  396. 

Arante  Tarquinio,  408. 

Cn.  Tarquinio,  365. 

Sesto  Tarquinio,  prende  Gabì  28;  sua 
libidine  398. 

L.  Tarquinio  Collatino,  (cos.  509)  396. 
409. 

L.  Tarquinio  Prisco,  sposo  di  Tana- 
quilla 361;  conquiste  370.  372.  II 
129;  genti  minori  234;  centurie 
equestri  249  n.  1;  libri  sibillini  II 
525;  Ferie  Latine  378;  ludi  Romani 
290;  calendario  367  n.  6. 

L.  Tarquinio  Superbo,  prende  Pomezia 
371;  trattato  con  Gabì  363;  colonia 
a  Circei  II  252  ;  caduta  396  segg.  ; 
alla  battaglia  del  Regillo  II  94. 

Tarracina,  nella  lista  di  Dionisio  II 
101  ;  nella  lega  latina  II  153.  251  ; 
nel  trattato  romano-cartaginese  II 
252;  colonia  romana  II  282  seg.  447; 
assediata  dai  Sanniti  II  321  ;  vit- 
toria romana  II  322.  324;  territorio 
II  153  n.  1.  V.  Anxur. 

Tarro,  colonia  fenicia  334. 

Tarsis,  nell'Iberia  331. 

Tartesso,  relazioni  coi  Greci  332,  v, 
Tarsis. 

L.  Taruzio,  astrologo,  sulla  fondazione 
di  Roma  311. 

Taurasia,  nel  Sannio  II  352. 

Taurini,  sedi  II  161. 

Tauroento,  colonia  di  Massalia  333. 

Tauromenio,  fondata  dai  Siculi  II  187; 
colonia  militare  di  Dionisio  II  188; 


INDICE   ALFABETICO 


òr 


sotto  Tiudarione  II  406;  accoglienza 
a  Pirro  II  408. 

T.  Tazio,  leggemla  208.  220  segg.  ; 
culti  da  lui  introdotti  274  ;  relazione 
coi  Tiziensi  247;  la  Roma  di  T.  389. 

Teano  Apulo,  città  osca  II  293;  al- 
leata con  Roma  II  319;  moneta  II 
487. 

Teano  Sidicino,  II  268;  ostilità  coi 
Sanniti  II  269.  273;  alleanza  con 
Roma  II  284  seg.;  moneta  II  487; 
popolazione  II  495. 

Telegono,  fonda  Tuscolo  201.  209. 

Telesia,  città  dei  Caudini  II  420. 

Teline,  avo  dei  Dinomenidi  II  6. 

Tellene,  origini  sicule  173;  conqui- 
stata da  Anco  Marcio  370. 

Tellumone,  dio  261. 

Tellure,  dea  261;  sacrifizio  258;  rela- 
zione coi  defunti  808;  tempio  II  11 
n.  4.  515.  528. 

Temesa,  fondata  dagli  Ausoni  107  n.  6. 

Tempio,  304  segg. 

Tene  (civiltà  della),  II  157  seg. 

Tenone,  signore  di  Siracusa  II  406 
segg.;  ucciso  da  Pirro  II  411. 

Teocle,  ecista  di  Nasso  315.  II  183. 

Teognide,  poeta  322. 

Teossena,  moglie  d'Agatocle  II  373. 

C.  Terentilio  Arsa,  trib.  della  plebe 
II  42. 

Teretina,  tribù  II  338.  366. 

Terias,  fiume,  battaglia  II  406. 

Terillo,  tiranno  d'Imera  342. 

Terina,  colonia  di  Crotone  320;  presa 
dai  Bruzì  II  263  ;  presa  da  Ales- 
sandro d'Epiro  II  293. 

Terme,  fondazione  II  186;  nella  pro- 
vincia cartaginese  II  262. 

Terminalia,  264. 

Termino,  dio  264. 

Terone,  tiranno  d'Agrigento  343.  II  177. 

Tprra,  culto  88. 

Terra  d'Otranto,  specchie  67  ;  pietre 
fitte  74.  V.  Messapi,  Calabri  e  Sal- 
lentini. 

Terramare,   forma    120   segg.;  civiltà 


123  segg.;  distribuzione  133  seg.; 
necropoli  118  seg.;  rasoio  119  n.  1. 

Testamento,  sue  forme  244;  secondo 
le  dodici  tavole  II  74  segg. 

Tetraeteride,  romana  II  520  seg.;  sua 
correzione  522. 

Tevere,  culto  261. 

Thezla,  monete  444  n.  2. 

Thuirsa,  139. 

Tiberina,  isola  190.  393;  leggenda 
sulla  origine  396;  culto  d'Esculapio 
II  528  seg. 

Tiberino,  re  d'Alba  205. 

Tibicini,  II  509. 

Ticino  (Pavia),  II  161. 

Tifata,  curia  240  n.  7. 

Tiferno,  battaglia  353. 

Tigillo  sororio,  264.  391. 

Timasiteo,  stratego    di   Lipari  II  147. 

Timeo,  storico,  su  Roma  26  ;  sulle  pe- 
regrinazioni d'Ercole  193;  su  Evan- 
dro (?)  192;  sulle  origini  latine  173. 
202  ;  sulla  fondazione  di  Roma  209 
seg.;  sui  Lucani  99  ;  sulla  fondazione 
delle  colonie  greche  316  n.  1. 

Timmari  (Matera),  necropoli  135. 

Timoleonte,  II  264.  318. 

Tindaride,  colonia  di  Dionisio  II  188. 

Tindarione,  tiranno  di  Tauromenio  II 
406;  accoglie  Pirro  II  408. 

Tinia,  divinità  etrusca  146. 

Tiora  Matiene  (Sabina),  262  n.  6. 

Tirreni,  di  Lemno  e  d'Italia  180  seg. 

Tirreno,  figlio  di  Ati  124. 

Tisia,  di  Siracusa  II  182. 

Tiv,  divinità  etrusca  146. 

Tivoli,  posizione  183;  sabina  (?)  221 
n.  1;  fondata  da  Catillo  201;  ori- 
gini sicule  (?)  173;  nella  lega  albana 
(?)  378  n.  5  nr.  42;  nella  lista  di 
Dionisio  II  100  n.  2;  nella  lega  po- 
litica latina  II  92;  incrementi  ter- 
ritoriali II  124;  si  separa  da  Roma  II 
243;  in  lega  coi  Galli  II  258;  nella 
nuova  lega  latina  II  251  ;  nella 
guerra  latina  II  276.  278;    federata 


572 


INDICE    ALFABETICO 


II  280.  458  ;  territorio  387  ;  culto  di 
Ercole  193. 

Tizi,  sodali  255. 

Tizia,  curia  240  n.  7.  250. 

Tiziensi,  tribù  223.  247. 

Toante,  in  Italia  167. 

Todi,  moneta  II  486. 

Tolemeo,  figlio  di  Pirro  II  390. 

Tolemeo  Filadelf'o,  relazioni  con  Roma 
II  428. 

Tolerio,  nella  lega  albana  378  n.  5 
nr.  26  ;  nella  lista  di  Dionisio  II  100 
n.  2;  presa  da  Coriolano  II  113. 

Tolumnio,  re  dei  Veienti  II.  136  ;  sua 
morte  II  137;  spoglie  opime  29.  II 
139. 

Torrebi,  129. 

Toscana,  grotte  sepolcrali  96;  abitata 
dagli  Umbri  102;  età  del  bronzo  (?) 
134;  prima  età  del  ferro  144;  in- 
vasione etrusca  144  seg. 

Totemismo,  213  n.  5.  262. 

Trausio,  campo  II  173  n.  2. 

Trebio,  presa  da  Coriolano  II  113  n.  2. 

Trebula  Balliniense,  presa  dai  Romani 
II  838. 

Tribù,  origine  352  segg.;  significato 
del  nome  249;  romulee  247  seg.;  nel 
senato  351;  rustiche  II  16  segg.; 
creazione  di  nuove  tribù  (nel  387) 
II  20;  (nel  358)  II  248;  (nel  332)  II 
288;  (nel  318)  ibid.;  (nel  299)  II  366; 
(nel  241)  II  446  ;  tribù  urbane  II 
230;  i  municipi  e  le  tribù  II  446. 
Cfr.  Comizi  e  Concili. 

Tribuni  dei  celeri,  248. 

Tribuni  della  plebe,  origine  e  poteri 
lì  26  segg.  ;  collegialità  lì  34  seg.; 
sospensione  del  tribunato  II  49;  re- 
staurazione Il  51;  i  trib.  nel  senato 
Il  220;    loi'o  trasformazione  II  240. 

Tribuni  militari,  sul  principio  della 
repubblica  427  ;  con  potestà  conso- 
lare II  57  seg.  ;  aumento  del  loro 
numero  li  198;  portati  a  sei  per 
legione  11  194;  in  parte  di  nomina 


popolare  li  239;  divieto  di  degra- 
darli a  centurioni  li  224. 

Tributo,  nome  255  n.  2  ;  nell'età  regia 
357  ;  dopo  istituite  le  tribù  rustiche 
II  18;  nell'ordinamento  centuriato 
II  210;  nei  municipi  II  441. 

Tritano,  battaglia  II  277;  data  II  294  n. 

Trigemina,  porta  191  n.  3.  II  16  n.  5. 

Trionfo,  453. 

Triumviri,  coloniae  dedncendae  254  seg. 
II  447  seg. 

Triumviri  capitali,  419.  II  239. 

Troiani,  in  Italia  e  Sicilia  194  segg.: 
nel  Lazio  191  ;  nel  Veneto  157. 

Troilum,  II  362  n.  2. 

Trossulum,  II  362  n.  2. 

Truento,  città  e  fiume  169. 

Trumplini,  tribù  euganea  65. 

Tiibicines,  centuria  II  197. 

Tubilustrio,  festa  269  n.  2. 

Tuchuicha,  dèmone  etrusco  147. 

Tucidide,  sui  Sicani  99  ;  sugli  Palimi 
198;  sui  Messapì  164;  sulla  fonda- 
zione delle  colonie  greche  316  n.  1. 

Tulliano,  365  n.  4. 

Attio  Tullio,  principe  volsco  II  109  seg. 

M'.  Tullio,  (cos.  500)  p.  361. 

Servio  Tullio,  nome  361  ;  nascita  281. 
362  ;  tipo  leggendario  374  ;  diverso 
da  Mastarna  375;  trattato  coi  Latini 
365  ;  autore  del  consolato  374  ;  del 
tribunato  II  31  ;  delle  tribù  rustiche 
li  19  ;  mura  392;  sistema  di  misure 
II  475  ;  intercalazione  II  518  ;  sua 
statua  358.  II  512. 

Sesto  Tullio,  361. 

Turan,  divinità  etrusca,  146. 

Turi,  colonia  ateniese  836.  II  183  ; 
nella  lega  italiota  II  190;  alleata  ad 
Alessandro  d'Epiro  II  294  ;  lotta  con 
Crotone  II  318;  assalita  dai  Lucani 
e  presidiata  dai  Romani  II  375  ;  oc- 
cupata dai  Tarcntini  II  382  ;  alleanza 
con  Roma  II  421. 

Turms,  divinità  etrusca  146. 

Turno,  re  dei  Rutuli  203. 

Tusco,  vico  393.  454.  II  472.  529  n.  8. 


INDICE   ALFABETICO 


573 


Tuscolo,  posizione  181  ;  fondata  da 
Telegono  209  ;  nella  lega  albana  378 
n.  5  nr.  40  ;  nella  lega  politica  latina 
92  ;  nella  lista  di  Dionisio  II  100 
n.  2;  relazioni  con  gli  Equi  II  120 
n.  1  ;  circondata  da  territorio  romano 
II  153  ;  incorporata  nello  Stato  ro- 
mano II  243  seg.  ;  ribelle  II  274; 
risottomessa  II  280  seg.;  franchigie 
comunali  lì  433  ;  tribù  Papiria  II 
446  ;  dittatura  423  ;  sacerdoti  II  439; 
cavalleria  423  seg.;  culto  dei  Castori 
II  356  n.  2. 

Tutela,  II  242. 

Tuzia,  fiume  378  n.  5  nr.  27. 

Tuzienti,  nella  lega  albana  378  n.  5 
nr.  27. 


u 


Ufentina,  tribù  II  288.  446. 

Ugro-finnici,  attinenze  con  gl'Indoeu- 
ropei 79. 

Ulisse,  padre  di  Latino  209. 

Umbri,  sedi  più  antiche  102  ;  pretesa 
sottomissione  a  Roma  II  334;  lega  coi 
Sanniti  II  348  ;  sottomissione  II  358  ; 
non  riuniti  in  lega  II  348.  461  ; 
territorio  II  366  ;  forze  II  462  ;  alfa- 
beto II  498. 

Uni,  divinità  eti'usca  146. 

Usil,  divinità  etrusca  146. 


Vacatio  rei  militaris,  II  443. 

Vadimone,  lago,  battaglie  II  331  n.  3. 
377. 

Valeria,  nella  leggenda  di  Coriolano 
II  113. 

M'.  Valerio,  (dittatore  501)  426.  II  113. 

Valerio  Anziate,  annalista  37. 

M.  Valerio  Corvo,  combatte  col  guer- 
riero gallo  II  60;  (cos.  346)  II  241 
seg.;  (cos.  343)  II  269. 

M.  Valerio  Corvo,  (ditt.  301)  II  341  n.  6; 
(cos.  299)  II  350  n.  6. 


P.  Valerio  Levino,  (cos.  280)  II  390 
n.  2.  392. 

M.  Valerio  Massimo,  (dittatore  494)  426. 

M.  Valerio  Massimo,  (cos.  31 2)  II 322  n.  3. 

M'.  Valerio  Messalla,  (cos.  263)  II  510. 

M.  Valerio  Omottone,  232  n.  2. 

L.  Valerio  Potito,  (cos.  449)  II  51. 

P.  Valerio  Publicola,  (cos.  509)  398. 
410  segg.  ;  istituisce  la  questura  413. 

P.  Valerio  Publicola,  (cos.  475)  II  127; 
nella  leggenda  di  Coriolano  II  113. 

Valesio,  di  Ereto  II  529. 

Vediove,  dio  308  seg.  219  n.  4. 

Veì,  posizione  151;  nella  lega  etrusca 
435  n.  3  ;  guerre  con  Roma  nell'età 
regia  II  125  seg.;  nel  primo  anno 
della  repubblica  407  seg.;  nella 
prima  metà  del  sec.  V,  II  125  segg.; 
battaglia  del  Cremerà  II  126  segg.; 
pace  di  quarant'anni  II  136;  nuova 
guerra  con  Roma  II  130  segg.;  ul- 
tima gueri-a  II  140  segg.;  estensione 
II  494  ;  culto  di  Giunone  Regina 
II  529. 

Veientana,  ripa  395. 

Velecha,  città,  moneta  444  n.  2. 

Velia,  monte  185  ;  sacrario  dei  Pe- 
nati 278. 

Velia,  colonia  foce.se,  335.  V.  Elea. 

Velia,  nel  Sannio  (?)  II  361  n.  2. 

Veliensi,  nella  lega  albana  378  n.  5 
nr.  29. 

Velina,  tribù  II  446. 

Velizia,  curia  240  n.  3. 

Vellense,  curia  240  n.  3.  241. 

Velletri,  nella  lista  di  Dionisio  II  101; 
fondazione  volsca  II  96  ;  conquistata 
dai  Romani  II  105  ;  ricuperata  dai 
Volsci  II  114;  riacquistata  dai  Ro- 
mani II  123  n.  1  ;  dopo  la  invasione 
gallica  II  244.  245.  247  ;  municipio 
II  282  ;  riceve  il  diritto  di  suffragio 
II  366;  meddices  II  443. 

Venafro,  nello  Stato  romano  II  364. 
420. 

Vendetta,  presso  gl'Indoeuropei  82;  so- 
pravvivenze nelle  dodici  tavole  II  79. 


574 


INDICE  alfabp:tico 


Venere,  dea  italica  277  ;  assimilata  a 
Turan  146  ;  ad  Afrodite  li  528  ;  sa- 
crario presso  Ardea  199  seg.  II  93  ; 
tempio  in  Roma  II  515;  V.  eque- 
stre 449. 

Veneti,  leggende  sulle  origini  156  ; 
nazionalità  illirica  157  seg.  ;  atti- 
nenze coi  Messapì  169  ;  civiltà  155. 
442  ;  resistono  ai  Galli  II  161  ;  con- 
tribuiscono alla  liberazione  di  Roma 
II  173.  176. 

Venetulani^  popolo  latino  170;  nella 
lega  albana  378  n.  5  nr.  30. 

Venilia,  dea  278. 

Venusia,  nel  mito  di  Diomede  166  ; 
colonia  latina  II  363  ;  assediata  da 
Pirro  (?)  II  399;  numero  dei  coloni 
II  461  ;  territorio  II  366  ;  importanza 
II  367  ;  popolazione  II  495  ;  moneta 
II  486. 

Verginia,  leggenda  II  45  segg. 

A.  Verginio,  trib.  della  plebe  II  51. 

L.  Verginio,  padre   di  Verginia  II  45. 

L.  Verginio^  (trib.  militare  402)  II  141. 

Proculo  Verginio,  (cos.  486)  II  9. 

T.  Verginio,  (cos.  479)  II  126. 

Veroli,  città  ernica  II  102  ;  alleata 
con  Roma  II  337.  342.  458. 

Verona,  Reti  ed  Euganei  65  n.  3  ;  Celti 
II  161. 

Verrugine,  al  confine  equo  II  108  n.  3. 
123. 

Versus,  misura  II  477. 

Vertamacori,  provenienza  II  163  ;  sedi 
II  161. 

Vescia,  città  aurunca  II  268  ;  vi  si 
rifugiano  i  Latini  II  275  seg. 

Vescino,  monte  II  277. 

Veseri,  battaglia  II  275. 

Vesta,  origine  greca  II  524  segg.;  an- 
tichità del  suo  culto  367  ;  attinenze 
con  Romolo  (?)  217;  tempio  390- 
II  515. 

Vestali,  sacerdotesse  298;  sotto  la 
giurisdizione  del  pontefice  massimo 
II  86;  privilegi  II  87. 

Veetini,  loro  sedi  e  dialetto  105;  guerra 


con  Roma  II  305  ;  alleanza  con  Roma 
II  341  ;  loro  lega  II  461  ;  territorio 
II  343. 

Vesuna,  dea  II  530. 

Vettio  Messio,  duce  equo  II  121. 

Vetulonia,  posizione  150  ;  nella  lega 
etrusca  435  n.  3  ;  estensione  II  494; 
tomba  del  Duce  330. 

Sp.  Veturio,  decemviro  II  43. 

T.  Veturio  Calvino,  (cos.  334)  II  286; 
(cos.  321)  II  307  segg. 

Aulo  Vibenna,  446. 

Celio  Vibenna,  446.  455. 

Vicellensi,  nella  lega  albana  378  n. 
5  nr.  31. 

Vicesima  lihertatis,  II  210. 

Villanova  (civiltà  di),  141  segg. 

Viminale,  colle  187  ;  nelle  leggende 
regie  362  n.  4. 

Vimitellari,  nella  lega  albana  378 
n.  5  nr.  28. 

Vinalia,  festa  267. 

Virbio,  dio  assimilato  ad  Ippolito  121. 
308. 

Vite,  sua  coltivazione  presso  gli  Arii 
101  ;  in  Italia  II  467. 

Vitellia,  nella  lega  albana  (?)  378  n. 
5  nr.  31  ;  presa  da  Coriolano  II  113; 
occupata  dai  Romani  II  152. 

Vittoria,  tempio  II  515.  532. 

Voi  canal  e,  275  ;  statua  di  Orazio  Co- 
clite 448  ;  iscrizione  di  Romolo    29. 

Volcano,  dio  274  seg.;  assimilato  a 
Sethlans  146;  ad  Efesto  II  530;  culto 
ad  Ostia  384  ;  attinenze  con  Orazio 
Coclite  448  ;  padre  di  re  Servio  362. 

Volci,  posizione  151  ;  nella  lega  etru- 
sca 435  n.  3  ;  pace  con  Roma  151  ; 
nuova  pace  II  398  ;  territorio  II  494; 
popolazione  II  495. 

Volsci,  origini  sicule  173  n.  10;  stirpe 
e  dialetto  II  104;  scendono  nella 
pianura  pontina  ibid.;  ijrime  osti- 
lità coi  Latini  373;  guerre  del  V 
sec.  II  104  segg.;  nella  leggenda  di 
Coriolano  II  109  seg.;  leghe  con  gli 
Equi  II  114;  nella  prima  metà  del 


INDICE    ALFABETICO 


575 


VI  sec.  II  245  seg.  ;  dopo  la  guerra 
latina  II  280  seg.;  a  Ponzia  315  n. 
1;  V.  Ecetra  ed  Anzio. 

Yclsinì ,  posizione  151  ;  nella  lega 
etrusca  435  n.  3  ;  prima  guerra  con 
Roma  II  151  ;  alleanza  con  Roma  II 
359  ;  si  ribella  II  376  ;  rinnova  la 
sua  alleanza  II  398;  nuova  guerra 
II  424  seg.  ;  distruzione  dell'  antica 
Volsinì  e  fondazione  della  nuova  II 
425.  536  ;  ricchezza  di  statue  430  ; 
popolazione  II  495  ;  culto  di  Vor- 
tumno  II  529. 

Volterra,  posizione  150  ;  nella  lega 
etrusca  435  n.  3  ;  estensione  II  494; 
popolazione  II  495  ;  moneta  II  486  ; 
necropoli  143. 

Voltinia,  tribù  II  19. 

Voltumna,  divinità  etrusca  146  seg.; 
santuario  federale  435.  II  333. 

Volturnalia,  festa  261. 

Volturno,  colonia  romana  II  444. 


Volumnì,  origine  etrusca  (?)  454  ;  pa- 
trizi e  plebei  II  212  n.  2. 

L.  Volumnio,  (cos.  307)  II  335  ;  (cos. 
296)  II  354. 

P.  Volumnio,  (cos.  461)  II  212  n.  2. 

Vortumno,  divinità  etrusca  146  ;  in 
Roma  529  ;  tempio  II  510.  515. 

Voto,  290  seg. 

Voturia,  tribù  II  19. 

Vulca,  di  Veì  II  512. 


Xanto,  logografo,  129. 

Z 

Zaleuco,  340. 

Zancle,  colonia  calcidese  318;  v.   Mes- 

sana. 
Zenone,  di  Elea  II  180  seg. 


DG 
209 
S33 
V.2 


Sanctis,  Gaetano  de 
Storia  dei  Romani 


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