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STORIA DEI ROMANI
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GAETANO DE SANCTIS
STORIA DEI ROMANI
LA CONaUISTA DEL PRIMATO IN ITALIA
YOLUME II
MILANO TORINO E O M A
FRATELLI BOCCA ED
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Depositario per la Sicilia: QitAzio Fiorenza - I'alkkiio.
Deposito per Napoli e Provincia: Società Commkkciai.f; Lihrakia - Nai'mm
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V. 2
Proprietà Letteraria
Torino - Vincenzo Boxa, tipografo di S. M. (10263)
som:m^rio
Capo XIII. — La jìlebe e i suoi tribuni ...... Pftff- 1
Effetti del declinare della monarchia, 1 — I debiti e il nexum, 2
— La prima secessione della plebe, 4 — Altre secessioni, 5 — L'agro
pubblico e le leggi agrarie, 7 — Spurio Cassio, 9 — Altre contese
per l'agro pubblico, 13 — Frumentazioni, 13 — Spurio Melio. 14 — Le
tribù rustiche, 17—1 concili tributi, 21 — Leggi sacrate, 28 — Il tri-
bunato della plebe, 2.5 — I tribuni e il patriziato, 31 — Tradiziona-
lismo plebeo, 34 — Gli edili della plebe, 36 — I giudici decemviri, 39.
Cai'o XIV. — Le leggende sui decemviri e il primo codice scritto . , 41
Storicità del decemvirato, 41 — Rogazione Terentilia, 42 — Amba-
sceria in Atene, 44 — Leggenda di Verginia, 45 — Intendimenti dei
decemviri, 49 — Leggi Valerle Grazie, 51 — Leggi sul tribunato della
plebe, 53 — Legge sul connubio, 55 — Il tribunato militare, 56, —
La censura, 58 — I plebei nel senato, 61 — Autenticità delle dodici
tavole, 62 — La famiglia romana, 65 — Il diritto di proprietà, 69 —
La mancipazione, 71 — Successione e testamento, 73 — Formalismo,
76 — Procedura giudiziaria, 77 — Diritto penale, 78 — Sacertà, 85
— Elementi greci nelle dodici tavole, 87 — I decemviri ed Ham-
murabi, 88.
Capo XV. — La triplice alleanza fra Roinaiii, Latini ed Ernici . „ 90
La nuova lega latina, 90 — Battaglia del Regillo, 94 — Trattato
di Cassio, 96 — La lista delle città latine di Dionisio, 100 — Soprav-
vivenza della lega albana, 102 — Gli Ernici, 102 — I Volsci e la di-
struzione di Pomezia, 104 — Resistenza degli alleati, 105 — Volsci
Ecetrani e Volsci Anziati, 106 — Altre terre volsche, 108 — Leggenda
di Coriolano, 109 — Nuove conquiste volsche, 114 — Gli Equi, 115
— Leggenda di Cincinnato, 116 — Gli Equi sull'Algido, 119 — Po-
stumio Tuberto e la battaglia dell'Algido, 121 — Riscossa dei Latini,
122 - I Sabini, 123 — Prime guerre coi Veì, 125 — I Fabì al Cre-
merà, 126 — Base topografica della leggenda; Fidene, 128 — Critica
della leggenda, 130 — Cronologia della guerra etrusca, 135 — A. Cor-
VI SOjnfAHIO
nello Cosso e la distruzione di Fidene, 136 — Assedio e caduta di
Veì, 140 — Critica della tradizione, 143 — Dono ad Apollo Delfico,
146 — Nuove guerre in Etruria, 149 — Romani e Latini sul principio
del sec. IV, 151.
Capo XVI. — Gli Italici in lotta coi Celti e coi Greci . . . Pag. 156
Migrazioni dei Celti, 156 — La civiltà della Tene, 157 — I Celti
in Italia, 159 — Tribìi celtiche della Cisalpina, 161 — Loro prove-
nienza, 162 — I Galli contro Chiusi e contro Roma, 164 — Brenne,
166 — La rotta dell'Allia, 167 — Caduta di Roma, 171 — La leg-
genda della liberazione di Roma, 172 — Manlio e Camillo, 174 —
L'incendio gallico, 176 — Caduta della tirannide in Sicilia, 177 —
Reazione degl'Italici contro i Greci, 178 - Coltura siceliota del sec. V,
179 — Gli Ateniesi nell'Occidente, 182 — Intervento cartaginese, 185
— I primordi di Dionisio il vecchio, 186 — I Greci d'Italia nel sec. V,
188 — I Lucani e la lega italiota, 189 — Dionisio in Italia, 189.
Capo XVII. — L'ordinamento centuriato . . . . - . „ 191
Accrescimento dell'esercito, 191 — Sedizione di M. Manlio, 195 —
Le nuove centurie, 196 — Le cinque classi, 198 — La fanteria, 203
— La cavalleria, 205 — Nuove riforme militari, 206 — I comizi cen-
turiati, 210 — Ammissione dei plebei al consolato, 213 — Rogazioni
Licinie Sestie, 215 — I plebei nelle altre magistrature, 217 — Gli
edili curali e il trasformarsi delle magistrature plebee, 219 — I ple-
bisciti, 220 — La plebe e i sacerdozi, 222 — La secessione del 342,
224 — La dittatura di Publilio Filone, 225 — La censura di Appio
Claudio Ceco, 226 — Le divulgazioni di Cn. Flavio, 230 — L'ultima
secessione, 231 — Il regime senatorio, 232 — I magistrati, 235.
Capo XVIII. — La dissoluzione della lega latina . . . . „ 241
I Latini dopo l'invasione gallica, 241 — La leggenda di Philotis,
242 ~ Tivoli, 243 — Sottomissione di Tuscolo, 243 — Le città latine
del mezzogiorno, 245 — 1 Volsci, 245 — Battaglia di Mecio, 246 —
Distruzione di Satrico, 247 — Gli Equi, 248 - Preneste, 249 — La
nuova lega latina, 250 — Il primo trattato fra Roma e Cartagine, 251
— Gli Ernici, 253 — Guerra con gli Etruschi, 254 — Sottomissione di
Cere, 255 — Invasioni galliche, 258 — Nuove guerre di Dionisio I
coi Cartaginesi, 261 — Sfacelo del suo impero, 262 — I Bruzì, 263
— Timoleonte in Sicilia, 264 — Pirati greci nel Lazio, 264 — La
lega romano latina e gli Aurunci, 265 — I Sanniti, 266 — La Cam-
pania, 267 — Prima guerra sannitica, 269 — Pretesa dedizione di
Capua, 270 — Critica dei fatti di guerra, 272 — Priverno, 272 —
Guerra latina, 273 — Battaglia di Trifano, 277 — Condizioni fatte ai
Latini vinti, 279 — Le città volsche, 282 — Aurunci e Sidicini, 283
— La cittadinanza data ai Campani, 285 — Conclusione, 286.
SOMMAKIO VII
Capo XIX. • — La lotta tra O.schi e Latini jìcr V egemoni a . . Pag. 291
Spedizione di Archidamo, 291 — Alessandro il Molosso in Italia,
292 — Sanniti e Romani sul Liri, 295 — Assedio di Napoli, 297 —
Principio della seconda sannitiea, 299 • — Pace con Napoli, 300 —
Napoli 0 Palopoli, 301 — Pretesa alleanza romana coi Lucani, 303
— Alleanza con gli Apuli, 304 — Primi anni della seconda sanni-
tiea, 305 — 11 disastro di Gaudio, 307 — La pace caudina, 313 —
Riforme militari, 314 — Gli anni seguenti alla pace caudina, 315 —
Sanniti ed Italioti, 317 — Ripresa della guerra, 319 — Battaglia di
Lautule, 320 — Battaglia di Terracina, 321 — Distruzione degli Au-
runci, 322 — Sottomissione di Capua, 323 — Rivincita romana, 324
— Colonie latine, 327 — Guerra in Etruria, 328 — Il passaggio della
selva Ciminia, 330 — Ribellioni nell'Italia centrale, 332 — Pace con
gli Etruschi, 332 — Prime relazioni con gli Umbri, 334 — Ultimi
anni della seconda sannitiea, 335 — Fine della guerra, 338 — Trat-
tato di pace, 340 — Sottomissione delle tribìi ribelli, 340 — Effetti
della seconda sannitiea, 342.
Capo XX. — La conquista d'Italia ....... ^ 344
I Lucani e i Romani contro Taranto, 344 — Cleonimo in Italia,
345 — Progressi della potenza romana nell' Italia centrale, 348 —
I Galli in Etruria, 350 — Principio della terza sannitiea, 351 — Bat-
taglia di Sentino, 355 — Ultimi anni della terza sannitiea, 359 —
Ribellione dei Falisci, 361 — Fine della guerra, 362 — Sottomissione
dei Sabini, 364 — Roma e i suoi alleati, 365 — Agatocle signore di
Siracusa, 368 — Agatocle in Italia, 369 — Fine di Agatocle, 372 —
I Mamertini, 374 — I Remani nella Magna Grecia, 375 — Nuova
guerra coi Senoni, 375 — Progressi romani nella Magna Grecia, 379.
Capo XXI. — La sottomissione degli Italioti ...... 380
Ostilità fra Roma e Taranto, 380 — Pirro, 384 — Gli alleati di
Pirro in Italia, 385 — Sbarco degli Epiroti, 389 — Battaglia di
Eraclea, 392 — Efietti della vittoria di Pirro, 395 — Pirro nell'Italia
centrale, 396 — Pace tra Romani ed Etruschi, 398 — Battaglia di
Ascoli, 399 — Negoziati di pace, 403 — Trattato fra Cartagine e
Roma, 404 — La Sicilia dopo la morte d' Agatocle, 405 — Pirro in
Sicilia, 408 — I Romani contro gli alleati di Pirro, 411 — Ritorno
di Pirro in Italia, 412 — Battaglia di Benevento, 413 — Partenza di
Pirro, 413 — Sua morte, 416 — Pirro e le sue imprese, 416 — Resa
di Taranto, 418 — Fine della guerra coi Sanniti, Lucani e Bruzì, 420
— Punizione dei Campani di Regio, 421 — Guerra coi Picenti, 422
— Guerra coi Calabri, 424 — Guerra con Volsini, 424 — Relazioni tra
Romani e Greci, 426.
vili SO^IMARTO
Capo XXII. — Il Comune e lo Stato neW Italia unita . . . Pag. 430
Lo Stato antichissimo, 430 — I primi Comuni dello Stato romano,
431 — Municipi, 434 — Varie categorie dei municipi, 436 — Statuti
municipali, 437 — Commercio e connubio, 439 — Istituzioni sacre.
439 — Finanze comunali, 440 — Milizia, 441 — Tavole dei Ceriti,
442 — - Magistrati municipali, 448 — Prefetti, 443 — Comuni con di-
ritto di suffragio, 445 — Comuni e tribìi, 446 — Colonie cittadine,
447 — Fori e conciliaboli, 450 — Gli alleati italici, 451 — I Latini,
457 — Le colonie latine, 458 — Leghe, 461 — Formola dei togati,
462 - Nazionalità, 463.
Capo XXIII. — Condizioni sociali ed economiche ..... „ 465
Agi'icoltura e pastorizia, 465 — Espropriazioni e colonie, 469 —
Industria, 471 — Commercio, 472 — Numerazioni, 473 — Misure di
lunghezza, 475 — Misure di superficie, 477 — Pesi, 477 — Misure
di capacità, 478 — Misura del valore, 478 — Aes rude, 479 — Aes
signatum, 479 — Origine della moneta, 481 — La moneta in Occi-
dente, 482 — Aes grave, 485 — Moneta romano-campana, 486 — Ri-
duzioni dell'asse, 488 — Il saggio dell'interesse, 490 — Progresso eco-
nomico, 492 — Centri di popolazione, 493.
Capo XXIV. — Coltura e religione .......,, 496
Origine dell'alfabeto, 496 — Alfabeti italici, 497 — Documenti la-
tini antichissimi, 498 — Poesia primitiva, 500 — Verso saturnio, 500
— Carmi sacri ed epopea popolare, 501 — Nenie e carmi trionfali,
503 — Versi fescennini, 503 — La satura e l'atellana, 504 — Lauda-
zioni, 506 — Appio Claudio Ceco, 606 — La prosa latina, 507 — Mu-
sica, 508 — Danza, 509 — Pittura, 510 — Scoltura, 511 — Architet-
tura, 512 — Inizi della scienza, 515 — Calendario, 516 — Introduzione
di divinità greche, 523 — Ercole, 523 — Vesta, 524 — Apollo e gli
oracoli sibillini, 525 — Castore e Polluce, 527 — Cerere, 527 — Escu-
lapio, 528 — Dite, 529 — Divinità etrusche ed italiche, 529 — Nuovi
dèi certi, 531 — Astrazioni, 532 — Supplicazioni, 532 — Ludi, 533
— Divinazione, 534 — Morale, 536.
Indick alfabetico ............ 539
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CAPO xni.
La plebe e i suoi tribuni.
Il declinare della monarcliia peggiorò la condizione della plebe
romana. Finché i re conservavano qualche autorità debbono aver
tentato di reagire alla prepotenza aristocratica. Nessuna protezione
trovò invece la plebe contro i consoli, patrizi essi stessi ed eletti
in un'assemblea ove i patrizi avevano la prepoìideranza. Patrizi
erano allora magistrati, sacerdoti e giudici; e il non aversi un
corpo scritto di leggi facilitava i soprusi ammantati di legalità.
Ma i nemici crescevano a grado a grado attorno a Roma di nu-
mero e di forze. E però i Romani vennero costretti ad impegnare
in misura sempre maggiore le proprie energie nelle lotte intermi-
nabili con gli Etruschi, gli Equi ed i Volsci. La classe patrizia,
che non si risparmiava, ne rimaneva decimata; né, casta chiusa
com'era (sopra e. VII), aveva onde rifornirsi d' energie vitali. I
vuoti lasciati dal patriziato negli eserciti romani erano colmati
dalla plebe, classe aperta che si rinsanguava ogni giorno con la
manumissione e con l'immigi'azione latina. Sfruttare a projjrio
profitto le forze della plebe era l'intendimento del patriziato.
Ma la plebe, quanto più col sangue e con gli averi contribuiva
alla lotta di Roma per l'esistenza, tanto più acquistava coscienza
di sé e de' suoi diritti.
La tradizione, povera nella sua apiparente ricchezza, rappresenta
la contesa tra la plebe ed il patriziato sotto il triplice aspetto di
Gr. Dk SAN-crrs, Storm dei Romani, II. 1
CAPO Xni - LA PLEBE E I SUOI TRIBUNI
lotta economica, lotta pei diritti civili e lotta pei diritti politici. La
guerra economica si combatte, secondo vien narrato, intorno a tre
punti : riduzione dei debiti, assegnazione di terre, distribuzione di
frumento. Che i debiti fossero una delle cause principali delle dis-
sensioni tra la plebe ed il patriziato, anche se ne tacessero le fonti,
dovremmo argomentare dalle analogie che offre ad esempio la più
antica storia ateniese. Ciò che è detto nelle poesie di Solone sulla
condizione dolorosa della classe popolare ateniese oberata dai de-
biti potrebbe entro certi limiti applicarsi ad una parte della plebe
romana del sec. V, che si trovava in uno stato simile di coltura
e di s\'iluppo economico. Infatti la rarità della valuta metallica
rendeva quasi impossibile al povero il risparmio. Onde negli anni
in cui il raccolto era scarso o lo mieteva il nemico, il piccolo
proprietario non trovava rinfranco se non ricorrendo al più ricco,
che aveva potuto salvare qualche poco del suo molto; ed essendo
ristretto il commercio e la domanda assai maggiore dell'offerta,
il ricco proprietario o l'incettatore di grano potevano, con l'imporre
patti iniqui o anche solo col chiedere un interesse proporzionato
al risico, togliere ai bisognosi ogni speranza di rialzarsi. Questa
dipendenza economica si rispecchiava nella condizione giuridica
del debitore verso il creditore. L'antico diritto civile ad Atene
come a Roma metteva la persona del debitore insolvibile in potere
del creditore (1). Chi s'era riconosciuto debitore inexiis) mediante
solenne contratto (7iexum), al pari di chi, pui' senza trovarsi le-
gato da un contratto, era stato dichiarato debitore dal tribunale
(iudicatus), in caso d'insolvibilità veniva arrestato dal creditore (2).
(1) V. HuscHKE Ueber das Rechi des Nexum und das alfe romische Schuldrecht
(Leipzig 1846), i cui concetti, sia pure con parecchie varianti, predominano
oggi tra i romanisti. Recentemente le questioni sul nexum si son di nuovo
dibattute con ardore dopo la memoria del Mitteis Ueher das Nexum nella
' Zeitschrift der Savigny-Stiftung ' XXII (1901) p. 96 segg. Ma m'accordo nel
restare sostanzialmente fedele, anche dopo la critica del Mitteis, ai concetti
del HuscHKE col Senn ' Nouv. Revue de droit fran9ais et étranger ' XXIX (1905)
p. 49 segg.
(2) Non è dubbio che al nexus si applichi quel che nelle dodici tavole si
dice del iudicatus, Gell. n. A. XX 1, 45. La sola differenza è che l'ultimo ha
trenta giorni di tempo per pagare il debito, mentre l'altro può essere arre-
stato il giorno della scadenza. Il procedimento dell'arresto è per l'uno e per
l'altro lo stesso : solo che per l'uno la manus iniectio è ex indicato, per l'altro
jyrn indicato. Per ambedue è da ritenére che, almeno sorgendo contestazione,
l'arresto dovesse venir convalidato dal pretore : così si conciliano i passi se-
I DEBITI E IL NEXUM
Per sessanta giorni i diritti di quest'ultimo erano ancora limitati.
Aveva facoltà di mettere in catene il suo prigioniero , purché la
catena non pesasse più di quindici libbre, ma era tenuto a som-
ministrargli giornalmente una libbra di spelta perchè non morisse
d'inedia e a condurlo nel Comizio per tre volte in giorno di mer-
cato affinchè qualche parente o amico potesse muoversi a pietà e
liberarlo. Trascorso il termine, se il debitore non era venuto a patti
e non aveva trovato clii volesse salvarlo, era ormai in piena balla
del creditore, che poteva ucciderlo o venderlo scliiavo, non però
in Roma né in paese latino, ma solo al di là del Tevere. Se i cre-
ditori erano i)iù, potevano, a tenore d'una legge a cui s'è cercata
invano una interxjretazione simbolica, dividersi in parti il corpo
del debitore. E la legge sanciva perfì.no con una barbarie senza
nome che le jDarti del cadavere non era necessario fossero pro^Dor-
zionali all'ammontare dei crediti (1). E vero che, sebbene questa
minaccia crudele pendesse sul caj)o del debitore insolvibile, in ge-
nerale i ricchi nel loro stesso interesse dovevano preferire sia di
valersi dell'opera sua a loro servizio, sia di sottoporlo a maltrat-
tamenti per induiTe qualche pietoso a pagarne il riscatto, sia, nel
caso peggiore, di venderlo schiavo. Ad ogni modo, se anche igno-
riamo qual parte abbiano aAiito in questo o quell'episodio delle
discordie tra patrizi e plebei, i patimenti dei debitori son certo
stati tra gli stimoli più efficaci dei plebei alla lotta; e si spiega
come d'una condizione così intollerabile possa -esser durata viva
la memoria nell'anima del poiDolo.
condo cui il creditore s'impadronisce senz'altro del debitore, p. es. Liv. II 23.
DioNYS. IV 9. V 69, con quelli in cui interviene anche qui il pretore, p. es.
Liv. II 27.
(1) Gkll. n. A. XX 1, 49: si plus minusve secuerunt se fraude esto. Cfr. Quintil.
inst. III 6, 84. Tertull. apolog. 4. L'interpretazione letterale è confermata dalla
analogia della consegna nossale del cadavere o di parte di esso di cui ci ha
dato notizia il frammento scoperto ad Autun d'un'interpretazione delle Istitu-
zioni di Gaio (v. C. Ferrini e V. Scialoia in ' Bull, dell' ist. di dir. romano '
XIII 1900 p. 5 segg.): [et non soluni st] totitm corpus det Uberatur, sed etiam si
pai'tem aliquam corporis. denique tr[actatur de] cai>ilUs et unguibus an partes
corporis sint: questa norma pare mirasse in origine a liberare da ogni im-
pegno verso i vari danneggiati chi aveva il reo in manu spartendone tra essi
il corpo; poi se ne usò forse per trasformare la consegna del cadavere in una
finzione legale consegnandone una ciocca di capelli o simili. Cfr. anche ibid.
p. 294 segg.
CAPO Xni - LA I>LEBK E 1 SL'Ol TKIBUNI
Con le sofferenze dei debitori si collega appunto il primo ri-
cordo che si legge nelle nostre fonti di contese intestine in Roma.
La tradizione rappresenta falsamente la caduta della monarcliia
come l'inizio d'un breve periodo di libertà per tutti. Cominciate
solo dopo più d'un decennio, nel J:95, le preiaotenze dei nobili contro
i plebei (1), già l'anno seguente 494 i patimenti della plebe op-
pressa dai debiti sarebbero divenuti talmente insopportabili da
cagionare la famosa ritirata sul monte Sacro (2). Il racconto di
questa secessione è ne' suoi particolari affatto indegno di fede. I
tentativi di Servilio e di Valerio per metter pace, narrati con una
abbondanza di ragguagli quale ha appena riscontro nella storia
interna dell'età graccana, non sono che oziose invenzioni annali-
stiche. Il monte Sacro poi, ove, secondo la tradizione più recente,
s'era ritù'ata la ijlebe, fu collegato con la secessione solo al fine di
poter spiegare il suo nome per mezzo delle leggi sacrate (3); ed
è degno di nota che nelle tradizioni meno tarde, accanto al monte
Sacro vien ricordato l'Aventino (4), mentre il solo Aventino è men-
zionato nella relazione più antica (5). Vera tradizione o almeno
leggenda genuina sembra invece che si abbia solo su due punti : il
ritirarsi della plebe sull'Aventino e la pace ricomposta mediante
l'apologo d' Agrippa Menenio (6). Sarebbe davvero arriscliiato af-
fermare o negare che un Agrippa Menenio abbia tentato di pla-
care recitando la nota f avoletta la plebe tumultuante sull'Aventino.
Ma, checché ne sia, in quell'apologo, che appartiene ad uno strato
antico di tradizione, si rispecchia lo sfruttamento della plebe a pro-
fitto del patriziato e la ragione economica della lotta; e non importa
(1) Liv. II 21 : insignis hic annus est nuntio Tarquinii mortis. eo nuntio erecti
patres, erecta plebes; sed patribus nimis luxuriosa ea fuit laetitia: plebi cui ad eam
diem siirnma ope inservitum erat iniuriae a primoribtis fieri coepere. Dionys. V
63 segg. fa cominciare le discordie, con poca differenza, nel 498 e mette con
esse in rapporto la istituzione della dittatura.
(2) Sulle secessioni in generale v. Lewis Untersuchungen II * p. 59 segg.
E. Meyer ' Hermes ' XXX (1895) p. 18 segg.
(3) Del solo monte Sacro parlano Cic. 'pro Corti, ap. Ascon. p. 75 Baiteb.
Brut. 14, 54. Liv. II 32, 2. Dionys. VI 45. Plut. Coriol. 6. Fest. p. 318. Pompon.
dig. I 2, 2, 20. Cfr. Cass. Dio fr. 16, 9. Io. Antioch. fr. 46. Varrò de l. Z. V 81.
(4) Cic. de re p. II 33, 58. Sallust. hist. I fr. 11 Kritze, cfr. lug. 31, 17.
(5) Piso ap. Liv. II 32, 3.
(6) Dionys. VI 83: Kal |Livri|Liriq dtSioOxai ó Xóyo; koì qpépexai èv k^àafxxc, jaìc,
dpxaiciK; laropiaic.
LA PRIMA SECESSIOXK DELLA PLERK
che gli elementi stessi dell'allegoria ])ossano essere stati attinti a
quel patrimonio comune di novelle clie gii Arii avevano portato seco
dalle loro sedi primitive (1). La plebe (questo è il senso che la fa-
vola prende nella sua applicazione specifica) si lamenta che i patrizi
soltanto ca\dno profìtto dalle fatiche e dalle sofferenze del popolo
nella coltivazione dei campi e nelle guerre col nemico. Or se è
innegabile che i patrizi se ne avvantaggiano, convien pure rico-
noscere che il benessere dei patrizi e le vittorie riportate sotto i
loro auspici ridondano poi a vantaggio dei loro clienti e di tutto
lo Stato, che altrimenti andrebbe in rovina. Codesto apologo non
ha peraltro alcun nesso organico né con le leggi sacrate né con
le origini del tribunato della plebe, che il racconto tradizionale
collega con la secessione. E poiché Menenio non appare nella leg-
genda come magistrato, ma come semplice privato, la secessione
stessa non ha cronologia. Per quale ragione sia stata collocata pro-
prio al 494 sarebbe vano cercare; ma la scelta d'una data compa-
rativamente antica dev'essere stata determinata dal desiderio di
ra\^àcinare alle origini della repubblica i principi delle magistra-
tm-e plebee.
Non è del resto questa la sola secessione ricordata dalle nostre
fonti: che anzi si fa cenno d'altre quattro. La seconda, del 449,
che si collega con la caduta del decemvirato, é messa in relazione
anch'essa sia con l'Aventino, a quanto pare anche qui nella forma
più antica della tradizione (2), sia col monte Sacro (3). La terza, su
cui non abbiamo che un brevissimo accenno (4), sarebbe avvenuta
nel 445 sul Grianicolo sotto la guida di Canuleio, per far accogliere
la legge sul connubio tra patrizi e plebei. Nella quarta, che , se-
condo alcuni annalisti noti a Livio, cade nel 342, mentre lo scrittore
cui egli s'attiene narrava invece sotto quell'anno una sollevazione
(1) Molto simile è la favola esopica 197 Halm. Per analogie indiane v. Weber
Ueber den Zitsammenhang indischer Fabeln mit griechischen (Berlin 185.5) p. 43.
Ribezzo Nuovi studi sulla origine e la propagazione delle favole iìidoelleniche
(Napoli 1901) p. 184 segg. Del resto l'apologo di Agrippa è molto più chiaro
e più umano che non la favola del Mahàbhàrata XIV 652 segg. sul contrasto
tra le membra del corpo e lo spirito vitale (manas).
(2) DioD. XII 24. PoMP. dig. 1, 2, 2, 24. Cfr. Sall. lag. 1. e.
(3) Dell'uno e dell'altro pai'lano Livio e Cic. de re p. II 37, 63. Cfr. prò Cam.
fr. 24.
(4) In Floro I 25, il quale veramente la chiama soltanto seditio, tumnltiis,
ma, come risulta dal contesto, la riguarda come una vera secessione.
CAPO XIir-LA PLKBK E I SUOI TRIBUNI
del presidio romano lasciato in Capua, i ribelli conducendo a forza
con sé un G. Manlio si sarebbero ritii'ati, non è detto in qual di-
rezione, al quarto miglio da Roma (1). La quinta ed ultima seces-
sione infine, pur essa sul Gianicolo e cagionata dai debiti, spetta
all'età storica ed è del 287 circa (e. X\T!I). Non è da credere però
elle tutte le secessioni anteriori e segnatamente la prima ripetano
(luest'ultima anticipandola, poiché vi contraddicono gli elementi
più genuini che appaiono nella leggenda della prima secessione,
l'accenno all'Aventino e l'apologo d' Agrippa Menenio. E dunque
diffìcile negare che prima del 287 una o più volte la plebe, stanca
dell'oppressione economica e politica, si sia raccolta in armi in atti-
tudine minacciosa in qualche punto fuori della città, quale l'Aven-
tino, che, per quanto entro le mm-a cittadine, attribuite a re Servio,
non faceva parte della città nel V secolo, come rimase anche
più tardi fuori del pomerio. Ed è pm- da credere che a questo modo
il xjopolo abbia carpito ai patrizi concessioni ragguardevoli. Ma
quali precisamente tra i moventi della lotta siano stati quelli che
determinarono la secessione o le secessioni, che cosa per l'aijpunto
si sia ottenuto per questa via dai patrizi, se la plebe si sia ritirata
sull'Aventino soltanto una volta o x^iù, quando esattamente ciò
abbia avuto luogo, son quesiti a cui sarebbe pura illusione il
credere che la tradizione, come a noi è pervenuta, possa dar modo
di rispondere. Certo si è iDerò che se tutte le secessioni anteriori
a quella del 287 fossero apocrife, non potrebbero essersi esemplate
che su questa, L' ipotesi moderna che la secessione del 494 sia
ricopiata da un avvenimento di storia siciliana di cui è poco nota-
la natm-a e la cronologia, dall'accordo cioè tra i Greloi e i fuorusciti
di G-ela rifugiatisi a Mactorio, stabilito per mezzo della religione
di Demeter da Teline, avo dei Dinomenidi (2), è non solo priva di
ogni fondamento, ma certamente erronea. E di vero è assmxlo che
un fatto si poco importante della storia siciliana e inoltre sostan-
zialmente diverso dalle secessioni romane desse origine ad una
tradizione così diffusa e cosi antica in Roma; tanto più che non
è neppur assodato se i fuorusciti ricondotti da Teline fossero de-
mocratici anziché oligarcliici.
Cancellati dopo la secessione, come si pretende, tutti i debiti (3),
(1) Liv. VII 42.
(2) Hekod. vii 153. Pais ' Studi storici ' li (1893) p. 159 segg.
(3) DioNYs. VI 83, cfr. VII 22. 30. 49. 52. Cass. Dio fr. 16, 12. Zon. VII 14.
CIL. I ^ p. 189. Cic. de re p. II 34, 59.
l'aCtRO pubblico e le leggi agrarie
di sofferenze della plebe i^er questo motivo non torna a parlare la
nostra tradizione se non dopo la catastrofe gallica. Questo stesso
mostra quanto essa sia artificiale e manclievole: la plebe in un
anno rovinatasi economicamente, Tanno dopo, per ciò clie concerne
i debiti, ha del tutto rimarginato le sue piaghe; e non importa
che perdui'ino le stesse cause di malessere e che i campi siano de-
vastati sino alle porte della città dagli Equi e dai Volsci. In realtà
nonostante la pretesa abolizione dei debiti del 494 e le storiche
leggi proibitive che si sancirono, a partire dalle dodici tavole, contro
rasura, solo assai lentamente per un complesso di cause econo-
miche e politiche (v. e. XVTI e XXIII) nel corso del sec. IV la
plebe, liberandosi a poco a idoco dal peso dei debiti, conquistò
anche per questo rispetto l'indipendenza dal j)atriziato.
Assai più che di turbolenze pei debiti la storia tradizionale più
antica della repubblica ribocca d'agitazioni agrarie (1). Nell'età dei
Grracchi Roma possedeva gran quantità di terreno in ogni regione
d'Italia, pur avendone già moltissimo alienato con venderlo o di-
stribuirlo gratuitamente a coloni. Di questo agro iJubblico una
parte considerevole, in specie se incolta, si lasciava occupare a
chi volesse ; e lo occupava naturalmente chi avendo capitali o be-
stiame poteva metterlo a coltivazione o mandai-vi a pascolare le
greggie: il povero non poteva profittarne perchè non possedeva gli
attrezzi ed i capitali indisx^ensabili per ridurlo a coltura e per
sostentarsi prima che il frutto cominciasse a compensare il lavoro
speso nel dissodamento. Il ijossesso dell'agro x>^bblico cosi occu-
pato era precario. Lo Stato X30teva discacciarne gli occupanti, i
quali, non possedendolo come proprietari secondo il dùitto dei Qui-
riti, non erano nexD]Dure in grado di difendere le loro pretese contro
terzi secondo le strette norme del gim-e civile. Tuttavia per ciò
che concerne lo Stato, i ricchi possessori si sentivano tranquilli.
(1) Sull'agro pubblico e le leggi agrarie è d'importanza fondamentale la
trattazione del Niebuhr II 146 segg. 694 segg. Del molto che si è scritto dopo
di lui può consultarsi utilmente lo Schwegler II 401 segg., il Weber Rom. Agrar-
geschichte, c'ne vede a ragione nella occupatio com'era praticata a Roma il più
sfacciato trionfo del capitalismo agrario (p. 129), ma non trae da ciò le con-
seguenze evidenti, e la breve, ma capitale memoria del Niese ' Hermes ' XXIII
(1898) p. 410 segg., in cui è dimostrato che non possono essere storiche le
rogazioni agrarie del V e del IV sec. — I testi più importanti sono App. b. e.
T 7 seg. Plut. Ti. Grucch. 8. V. anche lex agraria del 111, CIL. I ' p. 75 segg.
MoMMSEN Ges. Schriften I 65 segg.
CAPO Xlir - LA PLEBE E I SUOI TRIBUNI
avendo essi appunto in mano la somma delle cose, e nei rispetti
dei terzi il pretore interveniva a favore del possessore, non tute-
lato abbastanza dal diritto civile, mediante il divieto di tm-bare
clii occupasse un fondo senza lesione dei diritti altrui {inteì'dictmn
uti possidetis) (1) e l'ordine a clii s'impadronisse con la forza di
un fondo posseduto da altri di restituirlo al possessore {interdictmn
linde vi) (2).
Tale era la condizione delle cose nel sec. Il quando la con-
quista d'Italia e la piena vittoria sui ribelli nella guerra annibalica
avevano accresciuto smisuratamente l'agro pubblico romano. Ma
nel sec. V il territorio dello Stato romano non si dilatò che assai
poco; e le precedenti conquiste dell'età regia secondo la tradizione,
che ci mostra se non altro quel che ne pensavano più tardi i Ro-
mani, non avevano x)unto aumentato la mism-a dell'agro pubblico,
perchè il territorio annesso s'era assegnato individualmente o ne
avevano conservato la proprietà gli antichi abitanti ricevendo la
cittadinanza (3). Inoltre la popolazione densa del territorio romano,
che è il ]3resupposto delle vittorie sui bellicosi vicini, in un'età in
cui scarsa è l'industria e poco florido il commercio, indica chela
proprietà fondiaria era assai frazionata e che non dovevano esservi
in generale né pascoli molto estesi né vaste possessioni coltivate
per mezzo di schiavi. In sostanza se l'occupazione dell'agro pub-
blico era argomento di dissidi nel secolo II e si cercava con
leggi agrarie di porre rimedio al male, nel secolo V la questione
agraria doveva essere di natura affatto diversa e procedere come
la questione agraria nell'Attica al tempo di Solone dal bisogno
dei piccoli proiDiietarì oppressi di difendere i fondi su cui stende-
vano le avide mani i creditori. Ad alleviare a grado a grado il
malessere agrario contribuirono col miglioramento generale delle
(1) La formula di esso conservata da Festo p. 233 s. v. possessio, che non
è certamente la più arcaica, suona così: uti nunc possidetis eum fundum quo
de agitur qiiod nec vi nec clam nec precario alter ah altero possidetis, ita possi-
deatis, adversus ea vim fieri z^eto. Lo sviluppo che ha preso nel diritto romano
il concetto della possessio e gli stessi interdetti possessori trovano ottima spie-
gazione nella difesa degli occupanti dell'agro pubblico. In ciò dissento pro-
fondamente da Karlowa Rom. Rechtsgeschichte II p. 313 e da Girard Manuel
de droit Romain ' p. 274 seg.
(2) Dig. XLVII 16.
(3) Cic. de re p. II 14, 26. Dionys. II 35 segg. 50. Ili 49. Niese mem. cit.
p. 417 segg.
SPURIO CASSIO
condizioni le numerose colonie fondate dai Romani prima di
conserva con la lega latina ed ernica e poi per conto proprio nel
corso del V e del IV secolo e le assegnazioni individuali nei ter-
ritori annessi, che cominciarono in larga misui'a dopo distrutta
la città di Vei. Ma anche della questione agraria nelFetà più an-
tica non è dato scrivere la storia: poiché le agitazioni ]3er far di-
stribuire l'agro pubblico occupato dai patrizi, che dal 500 circa
non si quetano fino alle leggi di Licinio Stolone, sono malamente
ricopiate su quelle del sec. II.
Per la prima volta la tradizione parla della legge agraria a
proposito di Sp. Cassio (1), l'autore del trattato d'alleanza coi Latini
del 500 circa av. C. (v. e. XV). Al suo terzo consolato (486) e al-
l'accordo con gii Ernici, che gii viene attribuito, si collega la sua
legge agraria, il cui contenuto è esposto assai diversamente dalle
fonti (2). Uno scrittore dice che, tolti agli Ernici, in forza del trat-
tato, i due terzi del loro territorio, Cassio voleva assegnarne uno ai
Latini ed uno alla X3lebe romana, distribuendo anche la parte del-
l'agro pubblico precedentemente occupata dai privati. Ma è fuori
di dubbio che raccordo per cui i Romani acquistarono la i)re-
ziosa e fedele alleanza dagli Ernici contro gli Equi ed i Volsci
non privò gii Ernici neppiu'e di un i)ollice di terreno. Secondo
un'altra versione poi, dell'agro pubblico Cassio voleva si faces-
sero tre parti, una pei Latini, una per gli Ernici, una da distri-
buirsi tra la plebe romana. Ma questo spossessarsi del territorio
proprio, e territorio tutt'altro che vasto, per sovvenire gli alleati
è nel sec. V a pieno incredibile. S'intende invece, e ne abbiamo
esplicita testimonianza, come sul dare o rifiutare alle città alleate
una parte dell'agro pubblico occupato dai privati si discutesse nel
sec. n, quando cominciarono quei moti che dovevano finire con
la concessione della cittadinanza agli Italici. Da ciò si ricava che
nessuna tradizione fededegna esisteva sulla pretesa legge agraria
di Sp. Cassio e che questa legge fu collegata col trattato con gli
Ernici in modo artificiale ed arbitrario. Sull'età di queste inven-
zioni ci dà luce, oltre il contenuto della legge stessa, il particolare
che Sp. Cassio avrebbe invitato i Latini e gli Ernici ad interve-
nire all'assemblea popolare in cui doveva votarsi la sua legge
agraria e che per im]jedirU) il suo collega Virginio avrebbe con
(1) Su Cassio V. MoMMSKN i2ó'w. Forschunijen II p. 153 segg. Pais I 1, 504 segg.
(2) Lrv. II 41. DioNYs. Vili 69.
10 CAPO XllI - LA PLEBE E I SUOI TRIBUNI
un editto espulso tutti i forestieri da Roma (1). Infatti questo
aneddoto pseudostorico è ricalcato sopra il conflitto tra C. Gracco
e quel console Fannio (122) die intimò ai Latini ed agli alleati
italici di sgombrare la città perchè non sostenessero la rogazione
presentata da Gracco in loro favore (2).
Ma prescindendo anche dalle evidenti falsificazioni dell'età
graccana e sillana^ la notizia stessa d'una legge agraria proposta
da Sp. Cassio ha un valore storico assai dubbio, perchè, tra altro,
non è chiaro come potesse in questa età conservarsi memoria di
proposte non approvate. E del resto , secondo una tradizione,
Sp. Cassio fu messo a morte per aver dimostrato d'aspirare alla
tirannide con questa legge agraria e con la i3roposta di resti-
tuire il denaro a quelli che nel 492 avevano comperato il frumento
venuto in dono dalla Sicilia durante una carestia, quel frumento
stesso che è ricordato nella leggenda di Coriolano (3). Ma di contro
alla leggenda xdìù nota ve n'è un'altra che narra come ad istiga-
zione di Sp. Cassio nove tribuni della plebe avessero cosj)irato af-
finchè ai magistrati in carica (e, dobbiamo supporre, soprattutto
al console Cassio) non fossero dati successori, quando uno dei tri-
buni, il decimo, P. Muoio, bruciò vivi i colleglli e salvò la libertà (4).
Si dava però del fatto dei nove tribuni una seconda versione
stando alla quale i patrizi con le loro mene sarebbero riusciti a
farli bruciar vivi dal popolo, concitando cosi la plebe a cercarne
vendetta (5), ed un'altra ancora secondo cui si trattava di nove
tribuni militari caduti in battaglia contro i Volsci (6). La varietà
dei racconti mostra quanto la fantasia popolare ed erudita si sia
affaticata intorno a quel lastricato di pietra bianca presso il Cù'co
Massimo che si designava anche più tardi col nome di sepoltm-a
dei nove tribuni, senza che in effetto si sapesse nulla dell'origine
(1) DioNYs. Vili 72.
(2) App. b. e. I 23. Plut. C. Gracch. 12. Niki.uhk II 190.
(3) Liv. II 41, 8. DioNYS. Vili 70.
(4) Val. Max. VI 3, 2. Per un equivoco occasionato appunto da questo rac-
conto Valerio Massimo dice altrove (V 8, 2) che Cassio come tribuno della
plebe propose la sua lej^ge agraria. Cfr. Mommsen op. cit. p. 168 n. 31. È del
tutto infondata l' ipotesi del Pais I 1 p. 504 che debba qui vedersi traccia
d'una tradizione affatto diversa da quella rappresentata dai fasti, tradizione
che non si saprebbe per qual via possa essere pervenuta a Valerio.
(5) Cass. Dio fr. 21, 1 (= Zon. VII 17).
(6) Fest. p. 174, dove si parla anche del lapis aìhtts.
SPURIO CASSIO 11
di cotesta designazione. Ma questa singolare variante della leg-
genda di Cassio, indipendente al tutto dalla vulgata, conferma
lo scarso valore della vulgata stessa. Si conservava adunque il
ricordo che Sp. Cassio, glorioso per tre consolati e per la conclu-
sione del trattato coi Latini, era stato messo a morte, e si riteneva
per tradizione o per induzione la sua condanna cagionata dall' aver
egli aspii'ato alla tirannide o dal sospetto che vi avesse aspirato.
Questa tradizione o induzione che si limita a riferire la nostra
fonte più fededegna (1) non è da resx3Ìngersi alla leggera, tanto
più che tentativi i^er usui'pare la tii-annide non potevano mancare
in Roma prima che fosse fatta ragione alle richieste della^ plebe.
Tutto il resto non son che induzioni o invenzioni arbitrarie di-
rette a colmare le lacune della tradizione. Ed anche sul modo
della morte le versioni son cosi disparate da mostrare soltanto
quanto si sbizzarrisse, in difetto di notizie sicui'e, la fantasia degli
annalisti. Secondo una variante, Cassio accusato da uno o due que-
stori dinanzi al popolo di avere aspii'ato al regno è condannato
specialmente sulla testimonianza del padi'e (2); secondo un'altra
invece è condannato a morte dal ]3adre in un giudizio domestico (3).
Le due varianti convengono in un sol particolare, che potrebbe
anche essere attinto ad antica tradizione, nel riferire cioè che alla
condanna di Cassio ebbe parte in un modo o nell'altro il x>adre
suo (4).
(1) DioD. II 37 : òóSat; imQéoQm rr) xupavviòi Kai KaTaYvuuae€Ì(; àvripéBri.
(2) Cic. de re p. II 30. 60 (un questore). Livio e Dionisio parlano di due
questori e tacciono della testimonianza paterna.
(3) Plin. n. h. XXXIV 15. Val. Max. V 8, 2. Livio e Dionisio accennano a
questa versione riprovandola; e la riprova pure il Mommsen per ragioni non
molto diverse da quelle che avrebbe potuto addurre Livio; ma forse è la ver-
sione genuina.
(4) Il i>osto della casa distrutta di Cassio si diceva fosse quello ove più tardi
fu eretto un tempio di Tellure (Cic. de domo 38, 101. Val. Max. VI 8, 1) ov-
vero si mostrava secondo altri nelle vicinanze di quel tempio (Liv. II 41, 12.
DioNYS. VIII 79, 3). L'annalista Pisone fr. 37 ap. Plin. n. h. XXXIV 30 ag-
giunge che apnd uedem Telluris esisteva una statua di Sp. Cassio che fu poi
fatta fondere dai censori. Dionisio e scrittori noti a Livio parlavano invece
di pivi statue dedicate a Cerere col denaro ricavato dai beni confiscati di
Cassio. Origine di tutte queste dicerie è probabilmente una statua dedicata
come dono votivo da qualche Cassio a Cerere nel recinto sacro di Tellure.
Cerere infatti era venerata insieme con Tellure in Carinis (CIL. I ^ p. 336 seg.
RiCHTER Topographie * p. 323 seg.) ; e solo i moderni, non gli antichi mettono
due tempi invece di uno in relazione con la fine di Cassio.
12 CAPO XIII- LA l'I.KBK E I SUOI TRIBUNI
Questo è il poco che sappiamo della fine di Cassio. Purtroppo
la confusione fatta a proposito di lui dagli annalisti è accresciuta
dalle congetture infondate di qualche moderno. Uno scrittore che
non sappiamo neppure se sia mai esistito, citato da un altro di
cui è sospetta la sincerità (1), narra che durante la guerra la-
tina del 340 il giovane Cassio Bruto si propose di aprire le porte
di Roma al nemico, e poi, sorpreso, si rifugiò nel tempio di Mi-
nerva; ma il padre Cassio Signifero, chiuse le x^orte del tempio,
ve lo fece morire di fame. Una critica temperata non potrà dav-
vero far assegnamento su questa storiella per Tanalisi della leg-
genda del console Cassio; poiché è evidente che si tratta di un
aneddoto tardo e senza valore inventato, come tanti altri di si-
mile provenienza, da un novelliere greco, il quale ha fuso la storia
dello spartano Pausania con la leggenda romana di Cassio, com-
binando nel nome del protagonista quelli dei due uccisori di Ce-
sare. Ed anche meno può trarsi profitto per lo studio delle tra-
dizioni su S]3. Cassio dalle favole povere e contraddittorie su
Cassio Ai'gillo (2), l'eponimo delFArgileto. Costui, secondo alcuni,
avrebbe fabbricato o rifatto nell'Argileto una porta, secondo altri
vi sarebbe stato ucciso al tempo della prima guerra punica come
eccitatore di tm^bolenze o vi avrebbe avuto una casa disfatta
dopo la battaglia di Canne, quando, per aver consigliato a far
pace coi Cartaginesi, sarebbe stato trucidato in pieno senato.
Ora è chiaro che la persona d'Argillo è tanto poco storica quanto
quella del ladrone Macello, che avrebbe dato nome al mercato
aperto dai censori Fulvio ed Emilio nel 179 perchè costruito sul
luogo della sua casa confiscata e demolita (3). L'esempio di Ma-
cello ci illumina anche sul valore della cronologia di iVi'gillo. Il
mercato che portava il nome di Macello essendo stato aperto
nel 179, allo stesso anno s'è riferita la condanna del ladrone Macello,
sebbene naturalmente nulla potesse trovarsi a tal proposito negli
scrittori di quella età. E del pari, per quei lavori edilizi che si
erano fatti indubitatamente nel III secolo nell'Argileto, se ne
sai*à ascritto a quel tempo l'eponimo Argillo. Perchè ad Argillo
(1) Clitommo citato nei parali, min. attribuiti falsamente a Plutarco c. 10.
Di questo scrittore non si fa menzione che al e. 21 degli stessi parallela e al
e. 3 del de fluviis pseudoplutarcheo, scritto anch'esso eiusdeni furfuris.
(2) Ap. Serv. Aen. Vili 34.5.
(3) Fkst. epit. 48. 125. Donat. ad Ter. Eunuch. II 2, 25.
SPURIO CASSIO 13
sia stato attribuito il gentilizio di Cassio non sappiamo ; forse può
avervi dato appiglio la tradizione che ricordava come si fosse de-
molita la casa di Sp. Cassio. Ad ogni modo non è Sp. Cassio un'anti-
cipazione di questi pretesi Cassi del IV o del IH secolo di cui
nulla di positivo si sa; ma al contrario questi sono probabilmente,
foggiati a suo esempio. Per giudicare del valore relativo di due
tradizioni non vale il criterio del loro riferirsi a fatti più recenti
e più antichi, ma occorre l'esame dei loro elementi e delle loro
note caratteristiche.
Dopo la pretesa rogazione agraria di Cassio abbondano no-
tizie su contese per l'agro pubblico negli anni seguenti. Ora è
un'accusa dei tribuni contro i consoli lierchè hanno avversato la
legge agraria; ora è la resistenza inflessibile d'un Appio Claudio
alle richieste della plebe ; ora i tribuni s'oppongono alla leva delle
truppe per strappare ai patrizi l'approvazione della legge agraria ;
ora l'invio d'una colonia in paese di conquista vien deliberato per
ammansare i poveri e per distoglierli dalla pretesa di dividersi
l'agro ijubblico cacciandone i j)ossessori (1). Tutti questi racconti assai
aridi ed omogenei fino al tedio, che divengono sempre più scoloriti
dopo il decemvirato ossia quanto più ci accostiamo all'età sto-
rica, non meritano fede né punto nò poco. Di accuse senza effetto,
di proposte non approvate, di dibattiti nel senato e nel Foro pel
sec. V, quando mancava un'istoriografia contemjjoranea e tanto
poco si scriveva, non poteva conservarsi ricordo. Son tutte inven-
zioni dell'età graccana e sillana, su cui, senza neppm-e tentare
un'analisi che nei particolari sarebbe vana, può pronunciarsi una
generica condanna. E degnamente si cliiude questa serie d'in-
venzioni con una ancor più impudente delle altre, la rogazione
agraria Licinia Sestia, la quale, come vedremo (e. XVII), non è
che copia anticipata d'una legge del sec. II a. C. Quanto al plebi-
scito Icilio sull'Aventino, che è probabilmente storico, nonostante
sia malsicura la data che gli è attribuita del 456, esso è bensì una
legge agraria nel senso che dispone d'una xjorzione dell'agro pub-
blico; ma non ha nulla a fare con la questione agraria, avendo
soltanto lo scopo di fornire ai plebei che ne avessero bisogno area
fabbricabile gratuita in un sito sano e, per quanto fuori del po-
merio, vicinissimo all'abitato cittadino.
Secondo la tradizione la carestia contribuì sovento •:[(] ina-
(1) V. i particolari- presso Scuwegler li 477 segg. Ili 162 segg.
I-i CAPO Xin - LA PLKBE E l SUOI TKIBUNI
sprire le discordie tra patrizi e plebei (1); ed era del resto inevi-
tabile, tra le guerre continue e non sempre fortunate coi vicini,
per cui il Volsco o l'Equo raccoglievano spesso ciò che il Latino
aveva seminato col sudore della fronte ; ma anche per tal rispetto
le cose dovettero migliorare quando sul termine del sec. V co-
minciò ad affermarsi nel Lazio la superiorità delle armi romane.
Tra le carestie onde vien fatta parola, una è quella del 492
in cui, a quanto è riferito, si mandò a fare incetta di grano
fra i Volsci, che non vollero dar nulla, a Cuma, dove il grano
comperato dagli ambasciatori romani fu sequestrato dal tiranno
Aristodemo , in Etruria, dove si fecero provviste che servi-
rono ai bisogni più immediati; infine in Sicilia, dove si potè
avere gran quantità di granaglie parte per compera parte per
dono d'un princix3e, che alcuni annalisti chiamavano, con grosso-
lano anacronismo, Dionisio, ossia col nome del tiranno che domi-
nava nell'isola un secolo dopo (2). Negli stessi paesi, secondo la
tradizione, si cercò il grano onde sopperire alla carestia del 433 (3).
E di nuovo nel 411 si inviarono al medesimo scopo ambasciatori in
Etruiia, in Campania e in Sicilia; ed anche ora, mentre da Capua
e da Cuma agli ambasciatori non venne fatto d'ottener nulla, riu-
scii'ono a fornirsi di granaglie in Etriuia e in Sicilia, dove f m'ono
aiutati all'uopo da quei tiranni, che in realtà nel 411 in Sicilia non
potevano trovare (4). Questi racconti, in cui è evidente la influenza
delle frumentazioni dell'età graccana, provano soltanto con quale
impudenza, degna della loro povertà d' inventiva, gli annalisti
tardi, per riempire i vuoti della tradizione, ripetessero a sazietà
gli stessi particolari; e mostrano che non dobbiamo avvisarci di
poter scrivere la storia dell'annona romana nel sec. Y.
Una menzione speciale richiede del resto la carestia del 440-439,
che si connette con la leggenda di Sp. Melio (5). Nei due anni 440
e 439 L. Minucio, di cui un annalista i)oco veridico asserisce di
(1) Per maggiori particolari v. p. es. Cardinali Frumentatio in De Ruggiero
' Dizionario epigrafico di antichità romane ' II p. 225 segg.
(2) Liv. II 34. DioNYs. VII 1-2. 12. Dionisio cita gli annalisti Licinio e Gellio
che parlavano del tiranno suo omonimo.
(3) Liv. IV 25.
(4) Liv. IV 52.
(5) ScHWEGLER III 130 segg. MoMMSEN Rom. Forschungen II 199 f'dgg. Pais I
1, 539 segg.
SPURIO ME LIO 15
aver trovato nei libri liiitei il nome come di prefetto deirannona (1),
nonostante la sua buona volontà, non riuscì a lenire le sofferenze
della plebe affamata. Ne venne invece a capo un ricco plebeo,
Sp. Melio, facendo in Etruria e Campania incetta di grano, che
largì gratuitamente o a prezzi miti. Ma ora Melio, insuperbito dal,
favore popolare, cominciò ad aspii^are alla tirannide. Il senato,
messo sull'avviso da Minucio, provvide in fretta a far nominare
dittatore il veccliio Cincinnato, che scelse a maestro de' cavalieri
C. Servili o Ahala. Tosto Melio, citato al tribunale del dittatore e
riluttante ad ubbidii'e, fu ucciso da Servilio. Questa è la tradizione
più divulgata, che mira evidentemente ad attenuare e giustificare
Tomicidio perpetrato da Servilio (2). Un'altra versione data da an-
tichi annalisti, che sembra appunto la versione originaria, igno-
rando la dittatura di Cincinnato, narrava che Servilio pugnalò, ad
instigazione del senato, Melio, asx3Ìrante alla tirannide (3). Quest'ul-
timo racconto evidentemente non è che un mito etimologico desti-
nato a spiiegare il cognome di Ahala od Axilla, ascella, in uso presso
i Servili, dal pugnale che, secondo un uso greco-romano, Servilio
avi^ebbe portato sotto l'ascella (4) quando s'avventò su Sp. Melio.
Con gli elementi essenziali del racconto cadono anche gli altri,
che del resto peccano essi pure d'inverisimiglianza. Non solo è da
escludere che un plebeo prima di raggiungere qualsiasi magistra-
tiura, e sia pure il tribunato della plebe , aspirasse alla tirannide ;
ma una storiella simile non poteva inventarsi che quando, parificata
la plebe nei duitti al patriziato, s'era dimenticato l'abisso che se-
parava nel V secolo patrizi e plebei. Come si formasse la leggenda
di Melio dice chiaro la tradizione stessa narrando che ucciso Melio
fu distrutta la sua casa, onde il sito ove sorgeva ebbe il nome di
(1) Ap. Liv. IV 1.3, 6. L'annalista è secondo ogni verisimiglianza Licinio
Macro. 'ETtapxoq (Tf]<; àxopàq) e detto Minucio anche in Dionys. XII 1. Secondo
altri sarebbe stato cooptato come undecimo tribuno della plebe (Plin. n. h.
XVIII 15, off. Liv. IV 16, 3), il che è anche meno credibile.
(2) La più antica testimonianza di questa versione è in Cic. Caio 16, 56.
Pel resto v. Liv. IV 13 segg. Dionys. XII 1 segg. Auct. de vir. ili. 17, 5. Zon.
VII 20, e moltissimi accenni in tutta la letteratura latina. — Dico. XII 37
ha soltanto: Z-rrópioe; MaiXi0(; èin6é|U€vo<; Tupavviòi àvripéGr). Ignoriamo se questa
dittatura di Cincinnato fosse registrata nei fasti.
(3) CiNCio Alimento e Calpubnio Pisone ap. Dionys. XII 4. È arbitrario alte-
rare il testo come propone Mommsen Rum. Forschungen II 199 n. 98.
(4) V. specialmente Cass. Dio XLIV 34. Mommsen op. cit. TI 201 n. 105.
16 CAPO Xlir- LA IM.EBE E I SUOI TKIBUNI
Equimelio dalla casa eli Melio adegnata al suolo (1); e però Melio
non è che l'eponimo deirEquimelio. Il suo prenome di Spuiio è
dovuto alla efficacia della tradizione più antica e più fondata
su Sp. Cassio, conforme alla quale fu anche motivato T atterra-
mento della casa con Taver ambito la tirannide. Eliminata del
resto la pretesa dittatura di Cincinnato, la leggenda di Melio ri-
mane anche senza cronologia, iDerchè il nome di Melio non ricorre
nei fasti, mentre nei fasti stessi il cognome di Ahala è già portato
dal console Servilio del 478, parecchio tempo prima dell'anno a
cui la tradizione riferisce la uccisione di Melio. Quanto poi a Mi-
nucio, la sua prefettui^a dell'annona è molto sospetta, come tutto
ciò per cui viene addotta l'autorità dei libri lintei, tanto più che
quella magistratura compare per la prima volta nel 101 a. C. E
però anche la leggenda di Minucio è senza cronologia. La rela-
zione tra le leggende di Melio e di Minucio s'è voluta spiegare
con la vicinanza tra l'Equimelio e il portico Minucio frumentario
che serviva per le distribuzioni di grano alla plebe. Questa avrebbe
dato ansa a favoleggiare che all'ambizioso Melio, l'eponimo del-
l'Equimelio, avesse fatto concorrenza con mezzi legittimi un Mi-
nucio (2). In realtà il portico Minucio venne eretto dopo il 110 da
M. Minucio vincitore dei Traci (3), e le distribuzioni di grano onde
ebbe il nome di portico frumentario non vi cominciarono che al
tempo dell'imperatore Claudio ; mentre di Minucio in relazione con
Melio già parlavano annalisti anteriori al 110 (4). Quindi una critica
prudente dovi'à limitarsi a riconoscere che si conservava verisi-
milmente ricordo d'un Minucio benefattore del popolo in tempo
di carestia e che la leggenda collegando Minucio e Melio volle
associare e contrapporre l'onesto filantropo al benefattore interes-
sato della plebe (5).
(1) Varrò de l. l. V 157 : Aequimelium quod aequata Maeli dontus publìco (sic)
qiiod regntim occupare voluit is. Cic. de domo 38, 101. Dionts. Xn4, 6. Forse da
un'altra ortografia di Aequimelium che usava una e in luogo del dittongo è
derivata la notizia data da Livio e Dionisio che Melio fosse cavaliere, eques.
(2) Pais 1 1, p. 543; ma vedi le giuste osservazioni del Cardinali mem. cit.
p. 227.
(8) Vell. II 8, 3.
(4) Come Cincio Alimento citato sopra a p. 15 n. 3.
(5) Fuori della porta Trigemina sorgeva una colonna sormontata da una
statua che si riteneva rappresentasse Minucio : Plin. n. h. XVIII 15. XXXIV 21.
DioNYS. XII 4, 6. V. il denaro di C. Minucio Augurino (Babelon Monnaies de la
MINUCIO. LE TRIBÙ RUSTICHE 17
Nel tutto insieme ciò che la tradizione ci riferisce sulle contese
pel miglioramento economico della plebe è poco degno di fede.
Una qualche notizia s'era trasmessa delle sofferenze dei plebei per
effetto dei debiti e forse anche del malessere agrario e di gravi
carestie ; ma deirandamento della lotta e di quel che ne determinò
l'esito era smarrito ogni ricordo. Pochi fatti di cui il significato
non sempre è chiaro, come la condanna di Cassio, la secessione
della plebe sull'Aventino, forse le larghezze di Minucio (se pur
queste son qualcosa più d'una semplice induzione dall'esistenza di
una statua a lui attribuita), sono stati coperti da un tal viluppo
di congetture, di falsificazioni e di leggende di carattere secondario
e i^osteriore da renderli quasi irriconoscibili. Disgraziatamente
come è alterato il quadro delle contese economico-sociali tra plebe
e patriziato, cosi è alterato quello delle lotte pei diritti politici e
per l'eguaglianza civile. Ma in questi due camx)i ci danno qualche
luce maggiore i risultamenti ottenuti. E da essi convien prendere
le mosse.
Per resistere efficacemente al mal governo aristocratico, i cax)i
della plebe riuscirono a darle ordini suoi propri e a formarne come
uno Stato entro lo Stato (1). Agevolò l'opera loro la istituzione
delle nuove tribù territoriali (2). Le vecchie tribù dei Ramnensi,
Tiziensi e Luceri, di cui s'era andata disgregando la compagine
locale, non erano i)iù distretti di leva acconci se si voleva con l;i
rép- Romaine II 229) e quello di suo figlio Tiberio (II 230), dove è rappresen-
tata la colonna con la statua, che appare armata di lancia. In Livio IV 16
si legge: L. Minucius bove aurato (un bue con le corna dorate, dono che ha
analogia p. es. in Liv. VII 37) extra portam Trigeminam est donatus, dove già
NiEBUHR vide che dopo aurato dev'essere caduto et statua. Cfr. De Rossi ' Ann.
deirinst. ' 1885 p. 226. Qualche critico (Pais I 1, 545 segg.) pel fatto solo che
fuori della porta Trigemina era anche un sacrario d'Ercole pretende che Mi-
nucio, l'autore della denuncia dunvuoiq) a carico di Melio, non sia altro che
Ercole rivelatore (inrivuTric;). Ma questa ipotesi non può citarsi che a titolo di
curiosità.
(1) Questa frase che esprime esattamente la posizione della plebe in Roma
nel sec. V è stata coniata, credo, dal Lange I ^ 593 segg. Meno esatto è con
Liv. II 44, cfr. IV 45, parlare di duas civitates ex una factas, specialmente
quando vi si voglia sottintendere la esclusione della plebe dal populus (cfr.
I p. 224 n. 2).
(2) MoMMSEN Die rom. Tribus in administrat. Beziehung (Altona 1844). Ku-
BiTsciiEK De Romanarum tribuum origine ac propagatione (' Abhandl. des archàol.-
epigr. Seminares zu Wien ' III 1882).
G. De Sasctis, Storia dei Romani, II. 2
18 CAPO XIII - LA PLEBE E I SUOI TKTBUNI
somma delle forze assicurare la vittoria. Non era più il tempo in
cui da pochi guerrieri patrizi, prodi e bene armati, dipendeva l'esito
delle battaglie, mentre la folla indisciplinata e male armata dei
clienti, buona solo a saccheggiare e a trar d'arco, era pronta a
fugghe quando quelli avevano la peggio. Già durante l'età regia
gli ordinamenti militari si eran venuti trasformando, e più che
il valore individuale contava il tener fermo delle schiere di sol-
dati forniti d'armatura pesante. Per questo e perchè non dimi-
nuisse la forza dell'esercito col ridursi dei patrizi, era indispensa-
bile chiamar regolarmente alle armi la plebe rullale, creando nuovi
distretti territoriali di leva (1). Con la leva diveniva più facile me-
diante i nuovi distretti anche la riscossione del tributo essendo
agevole stendere distretto per distretto le liste dei proprietari.
n territorio dello Stato romano, come in generale d'ogni Stato
italico, era distribuito in tanti pagi, che potevano in parte essere
anteriori persino alle origini di Roma, i cui abitanti si trovavano
stretti insieme da vincoli economici e religiosi. E possibile che per
designare i pagi si adoperasse già anticamente la parola tribù che
anche più tardi era viva nell'uso in questo significato (2). Ad ogni
modo, quando si riformarono gli ordinamenti militari, di codesti
pagi si servi lo Stato come distretti di leva, e allora presero, se
non lo portavano prima, il nome degli antichi distretti di leva, le
tribù. S'intende che nel dare alla distribuzione del territorio in pagi
una importanza e un ufficio che prima non aveva, convenne fis-
sarla in modo definitivo, determinando con la dovuta esattezza
i confini, riunendo, se n'era il caso, due o più pagi minori, divi-
dendo in due il territorio d'uno maggiore, a fine di correggerne,
almeno in X3arte, le irregolarità. Iscritto ciascuno in quella tribù
dove era proprietario di stabili secondo il diritto dei Quiriti,
venne cosi divisa la cittadinanza nelle diciassette tribù che poi in
opposizione alle m-bane furono chiamate rustiche (3). I loro nomi
(1) Come procedesse la leva per tribù nel sec. li si vede da Polyb. VI
19 seg., con le osservazioni di J. J. Muellek ' Philologus ' XXXIV (1878)
p. 104 segg.
(2) P. es. Cato fr. 44 Peter ap. Plin. u. h. Ili 116: Boi quorum tribus CXII
fuisse auctor est Cato. Sul significato del vocabolo tribìi v. I p. 249 n. 2 e 3.
(3) Sulla recenziorità delle tribìi urbane e la loro natura, v. oltre e. XVII.
L'opinione del Niiìbuhr I 464 segg. che le tribìi in origine comprendessero sol-
tanto i plebei e non vi avessero adito i patrizi prima del decemvirato manca
di qualsiasi prova, contrasta col fatto che la divisione del tei-ritorio e dei
LE TRIBÙ RUSTICHE 19
avevano tutti, eccetto uno, quello della tribù Clustumina, carattere
gentilizio e provenivano in parte da genti che esistevano tuttora
in età storica, cioè le genti Emilia, Claudia, Cornelia, Fabia, Grazia,
Menenia, Papiria, Romilia, Sergia, Voturia, e in parte da genti
estinte, la Camilla, la Galeria, la Lemonia, la Follia, la Fupinia e.
la Voltinia. Queste denominazioni però non furono prese diretta-
mente dalle genti, ma, come è jDrobabile, dai pagi, i quali alla loro
volta avevano tolto nome dalla gente clie vi era più cospicua (1). Né
dai nomi si deve arguire clie la divisione in tribù sia stata imma-
ginata nell'interesse delle genti nobili. Essa deve in massima aver
adottato i nomi esistenti, i quali per buona parte derivavano da
genti allora estinte : al modo stesso die distene nella divisione in
demi dell'Attica non esitò ad assumere qua e là denominazioni
gentilizie quando erano suggerite dalF uso locale. Ed è naturale
elle ancor idìù di distene largheggiassero neiradottare denomina-
zioni siffatte i consoli o i commissari patrizi incaricati di questa
divisione del territorio dal governo aristocratico di Roma.
Nulla sapevano gli antichi sulla origine delle tribù rustiche: e
appunto per ciò Fattribuivano al legislatore leggendario, Servio
Tullio. Lo scarso valore della tradizione costituzionale si palesa
anche qui, poiché vi erano alcuni che ascrivevano a Servio non
le sole tribù rustiche iiiù antiche, ma tutte e trentuna (2), com-
prese persino quelle che furono istituite in piena età storica, sulla
fine della prima guerra jjuiiica; ed altri riducendo, ma in modo
insufficiente, quel numero, parlavano di ventisei tribù rustiche ser-
viane (3). Lasciando da parte queste pseudotradizioni di nessun
cittadini in tribù è stata sempre curata dallo Stato e non dalla plebe e final-
mente è inconciliabile senza sottigliezze coi nomi gentilizi che portano le tribù
più antiche. La ipotesi del Mommsen Staaisrecht III 168 seg. che la istituzione
delle tribù rustiche coincida con la origine della proprietà privata nel terri-
torio romano non ha altro fondamento che quello della pretesa proprietà col-
lettiva gentilizia, su cui v. al e. seg.
(1) Cfr. Fest. epit. p. 11-5: Lemonia trihus a payo Lemonio apjyellata est qui est
a 2)orta Capena via Latina.
(2) Vennon. ap. DiONYS. IV 1-5.
(3) DiONYs. IV 1.5: bieìXc bè Kal xriv xiupav cJTtaaav, ubq \xiv <X>à^\òc, qpr|oiv, eìq
|ioipa(; ?E Te Kai etKoaiv he, koì aiiTàc, KoXeì qpuXd;. Non è il caso di mettere in
dubbio quindi che Fabio abbia voluto parlare realmente di tribù. Varrò ap.
Non. p. 4-3: et extra urbein in rejiones XXVI agros viritim liberis adtrihuit
8Ì è limitato a parlare di regioni anziché di tribù per conciliare la notizia
di Fabio con quel che a lui, erudito com'era, non poteva essere ignoto, che
cioè le tribù rustiche più antiche non furono più di 17.
20 CAPO Xin - LA PLEBE E I SUOI TKIBUNI
momento, è fuori di dubbio che le diciassette più antiche tribù
nistiche sono anteriori al 387, quando se ne istituirono quattro
nuove nel territorio veiente (1), ed è assai probabile che siano di
non poco anteriori. Tuttavia certe notizie tradizionali che confer-
merebbero questa opinione non possono esser tenute in gran conto.
Così la tradizione parla delFaumento del numero delle tribù già
nel 495 (2), probabilmente assegnando a quell'anno la istituzione
della tribù Claudia (3) o della Clustumina o d'ambedue. E non è
impossibile che queste due tribù sieno più recenti delle altre, e par
certo almeno che più recente è l'annessione dei territori in cui ven-
nero fondate. Ma se al 495 si è riferita l'origine della tribù Clu-
stumina, questa è una induzione basata sul ritenersi a\^^ennta
nella regione clustumina la secessione del 494; e se a quell'anno
s'è riferita l'origine della Claudia, ciò si collega con la leggenda che
narra intorno a quel tempo Timmigrazione della gente Claudia
co' suoi clienti nel territorio romano; ed abbiamo visto (I p. 221) lo
scarso valore di questa leggenda ed il suo difetto di cronologia.
Son da aver parimente sospette le notizie più antiche sui concili
tributi della plebe. La prima menzione di essi è al 471, quando, a
quel che si narra, su proi^osta del tribuno A^olerone Pubblio, venne
stabilito che i magistrati della plebe fossero eletti in assemblee
ordinate per tribù (4) ; ma Volerone Pubblio è probabilmente una
copia anticipata del dittatore Pubblio Filone che si studiò appunto
con la sua legge del 339 d'allargare i diritti dei concili tributi.
Vedremo più oltre (e. XV) quanto poco assegnamento si possa
fare sul racconto del processo di Coriolano dinanzi alle tribù. Né
(1) Liv. VI 6, 8.
(2) Liv. II 21, 7 : Romae trihus una et viginti factae. Probabilmente la fonte
di Livio non voleva dire che furono allora istituite le tribù, ma solo che fu-
rono portate a ventuno.
(3) Liv. II 16, 5 riferisce peraltro la origine di questa tribvi al 504; ma può
benissimo qualche annalista averne collegato la istituzione col primo conso-
lato d'un Claudio, che cade appunto nel 495. Cfr. Mommsen Edm. Forschuvgen
I p. 188 n. 18. Questa interpretazione è confortata anche à^Wa, periocha: Claudia
trihus adiecta est, numerus trihuum ampUatus est ut essent viginti una.
(4) Liv. II 56, 2: ut plebei magistratus comitiis tributis fierent. Cfr. 58, 1.
DioNTs. IX 41. X 4. La storicità di questa legge è stata negata per primo
dal Hkrzog GlaubwUrdigkeit der Gesetze bis 387 der Stadt (Tùbingen 1881) p. 16.
V. NiccoLiNi La legge di Publilio Volerone negli ' Ann. della scuola normale
di Pisa ' 1895. Pais I 1 536 segg.
LE TRIBÙ RUSTICHE 21
maggior fede, come dimostreremo (e. XIV), s'ha da prestare alla
legge Valeria Grazia che dicliiarava valevoli per tutto il pox)olo
i plebisciti votati nei concili tributi della ijlebe (1). Tuttavia i nomi
gentilizi delle tribù ne provano la relativa antichità mostrando
che quando furono istituite in parte perdurava e in parte si ri-,
cordava come cosa recente quel primato delle genti patrizie nei
pagi che venne poi a cessare a grado a grado con l'estinguersi di
alcune e con lo spargersi dei possessi d'altre e dei loro clienti per
tutto il territorio dello Stato. Non è prudente però riferir le tribù
ad età troppo remota, sia per gli ordinamenti militari progrediti
che i3resuppongono, sia perchè tra esse la tribù Papiria desumeva
il suo nome da una delle genti minori che non raggiunse il con-
solato prima della metà del sec. V. Ma certo le tribù rustiche, es-
sendo il iDresupposto degli ordinamenti rivoluzionari datisi dalla
plebe, sono anteriori ai triontì. che la i^lebe ottenne in virtù di
questi ordinamenti, quali la determinazione del diritto vigente per
mezzo del codice decemvirale e il temporaneo sostituirsi del tribu-
nato militare al consolato. E iDerò cormene assegnare l'origine delle
tribù alla prima metà del sec. V, e qualora si voglia credere che
le date tradizionali dell'aumento del numero di esse nel 495, della
secessione nel 494 e dell'origine dei concili tributi nel 471, ab-
biano un fondamento di verità, ad una di queste si può ascrivere,
senza dilungarsi di molto dal vero, l'origine delle tribù rustiche.
Senonchè è più j)rudente astenersi dal x^roporre una data precisa
sia per l'incertezza di quelle, sia i^er l'imbarazzo della scelta
tra esse (2).
La partizione del popolo in tribù ebbe effetti gravissimi e im-
preveduti a' suoi autori, che si proponevano non già il fine demo-
cratico cui mirava p. e. ad Atene distene istituendo le tribù ter-
ritoriali, ma soltanto il migliore ordinamento della leva e del tributo.
Fino allora nelle assemblee popolari delle curie e delle centmùe
X)revalevano i patrizi (e. XI). Nò il governo aristocratico aveva
alcun interesse a convocare i cittadini secondo le nuove circoscri- .
zioni territoriali in comizi tributi, permettendo così ai piccoli pro-
l)rietari rurali, che formavano la parte più sana e [)iù vigorosa
(1) Liv. Ili 55. DioNYS. XI 45.
(2) Meno verisimile è la data del 457 proposta da K. J. Neumann Grund-
herrschaft etc. Quanto alla sua ipotesi che la loro istituzione coincida con la
liberazione dei contadini, essa manca di qualsiasi fondamento. Cfr. 1 p. 227 n. 1.
22 CAl'O XLIl - LA IM.KIiK K i .SUOI TKIBIXI
della iDlebe, di far sentire eflicacemente la loro voce. Ma vi prov-
vide per conto proprio la plebe stessa. E da credere che non fos-
sero mancate anche prima tra i plebei di quelle riunioni pul)-
bliche per discutere gl'interessi di classe che ora dicono comizi e
che i Romani chiamavano concili, riservando il nome di comizi
alle riunioni dell'assemblea popolare (1). Ma in queste adunanze, che
si saranno veri similmente convocate per curie (2), riusciva facile
acquistare il predominio sia alla plebe urbana che v'interveniva -pìn
numerosa, sia ai clienti dei patrizi che, d'ordine appunto dei loro
patroni, potevano recarvisi compatti; e così da' suoi concili la plebe
non s'avvantaggiava gran fatto. Quando però si cominciarono a
stendere liste di cittadini per tribù secondo l'ubicazione de' loro
possessi fondiari, i plebei ordinando per tribù i propri concili me-
nomarono ad un tratto l'autorità della plebe urbana che poco o
nulla possedeva, e, disciogliendo le clientele dei patrizi che rima-
sero disseminate fra le tribù, assicurarono il predominio dei pic-
coli ijroprietarì rurali. E tosto, le forze plebee disgregate fin qui
avendo trovato il modo di stringersi assieme e di farsi valere, le
assemblee della jDlebe acquistarono nello Stato un'autorità inattesa.
Erano del resto questi concili tributi della plebe ben distinti dai
comizi tributi di tutto il popolo (3), che, - istituiti più tardi ad
imitazione di quelli, ma con attribuzioni elettorali, legislativo o
(1) Lael. Felix ap. Gell. n. A. XV 27, 4: is qui non universum popuhon sed
paHem aliquam adesse iubet, non comitia, sed concilium edicere debet.
(2) Secondo Dionys. IX 41 (cfr. V[ 89. X 4) e Cic. prò Coni. fr. 28 Orelli
i tribuni della plebe prima d'essere eletti dalle tribù furono eletti dalle
curie. E questa una semplice induzione, ed errata, perchè i tribuni suppon-
gono le tribù serviane; ma parte dal giusto presupposto che non debbono
esser mancate riunioni della plebe prima della sua partizione per tribù e che
in quelle riunioni la plebe non poteva a meno di votare secondo la divisione
dei cittadini in curie. Noi dobbiamo ripetere l'induzione antica; ne v'è per tal
rispetto alcuna difficoltà, superato l'errore della composizione esclusivamente
patrizia delle curie (I p. 245 n.).
(3) Questa distinzione fu messa in sodo con la massima chiarezza dal Mommsen
Rom. Forschungen 1 151 segg. V. anche Berns De comitiorum tributorum et
conciliorum plebis discrimine (Wetzlar 1875 diss.); ne essa rimane infirmata
dalle obbiezioni dell'IuNE ' Rh. Museum ' XXVllI (,1873) p. 353 segg. Quando
siano stati istituiti i comizi tributi è incerto. Può darsi che si siano comin-
ciati a convocare nel 421 per la elezione dei questori; ma è pur possibile che
non sieno anteriori alla censura d'Ap. Claudio, v. e. XVII.
LEGGI SACRATE 23
o-indiziarie di limitata importanza (1), come la elezione dei que-
stori (2), pare venissero creati soltanto per abbreviare e sempli-
iicare la procedm^a nelle cose di minor momento.
Tra i j)rimi pensieri della plebe congregata per tribù fu di assi-
cm'are il regolare andamento delle proprie assemblee, deliberando
di punire di morte clii lo turbava (3). Questa dovette essere una
delle prime leggi sacrate. Non erano tali leggi norme giuridiche
cui desse valore l'autorità dello Stato : soltanto per esse la jilebe,
giurando di salvaguardare anche con la violenza i propri con-
cili e quelli che li dirigevano, costituì di fatto un tribunale ri-
voluzionario entro lo Stato, il quale differiva formalmente dai
tribunali settari od anarchici, non per la maggiore legalità, ma
solo per la maggiore pubblicità ; talché le esecuzioni capitali ordi-
nate in quelle assemblee, più che a condanne giudiziarie, si possono
ragguagliare a linciamenti (4). E che si siano davvero, se non ese-
guite, almeno tentate condanne a morte o all'esilio per mezzo dei
concili tributi, dimostrano non tanto le narrazioni su Coriolano e
su Cesone Quinzio, prive di valore naturalmente per ciò che con-
cerne i iDarticolari delle questioni di diritto, quanto la legge delle
dodici tavole. Infatti questa, vietando che si facessero giudizi ca-
pitali fuori del massimo comizio di tutto il popolo, presuppone
che se ne fossero pronunciati anche in assemblee cui tutto il po-
polo non partecipava, ossia precisamente nei concili tributi della
plebe (5). Senonchè mentre lo Stato riusci ad impedire che l' as-
semblea della plebe assumesse il diritto di vita e di morte sui cit-
tadini, non gli venne fatto di toglierle la facoltà che s'era arrogata
^ di condannare ah ijagamento di multe e magistrati e privati (6).
(1) Essi sono i comitia leviora cui accenna Cic. j}ro Piane. 3, 7, in cui si
creano i minores mcifjistratus, Gell. n. A. XIII 15, 3.
(2) Oic. ad fam. VII 30. Così pure poi quella degli edili curali, Piso ap.
Gell. n. A. VII 9, 2. Cic. prò Flanc. 20, 49. Varrò de re r. IH 17. 1. Liv.
XXV 2, 7.
(3) Secondo Dionys. VII 17 (Livio ne tace) questa deliberazione fu approvata
come plebiscito Icilio nel 492. Ma nel vero par Cicerone prò Sest. 37, 79 dove
mostra che il regolare andamento delle assemblee della plebe era guarentito
dalle leggi sacrate. Cfr. del resto Dionys. VII 16 e Mommsen Staatsrecht II ^
p. 289 n. 1.
(4) Con MoMMSF.N R. G. \* 272.
(5) Su ciò giudica rettamente Herzog RiJm. Staatsverfassung I p. 157. 1176.
(6) I processi dinanzi alle tribìi fino al 367 sono enumerati dallo Schwegler
24 CAPO XIII - LA PLEBE E I SUOI TKIBUNI
E come per mezzo de' suoi giudizi, cosi anclie più direttamente
[)er mezzo delle sue deliberazioni, i plebisciti, la plebe cercò d'in-
tìuire nella vita dello Stato. Queste non avevano, è vero, finché
durò la lotta tra patrizi e plebei, forza di leggi. Ma ad imporne
allo Stato Fosservanza la plebe dirizzò costantemente la sua mira
dopo la istituzione delle assemblee tributo. E lo Stato non poteva
mancare di tener gran conto di deliberati a sostenere i quali era
impegnata tutta la forza materiale e morale della plebe. Anzi la
tradizione parla già pel sec. V e per la prima metà del IV di ple-
bisciti che avrebbero avuto vigore di leggi, quali la rogazione
Icilia del 456, la Canuleia del 445, le Licinie Sestie del 367. Ma
sorgono vari dubbi o sulla storicità di queste rogazioni o più ancora
sul modo come potrebbero avere acquistato forza legale. Della
prima di esse, per esempio, la Icilia per l'assegnazione ai plebei
dei terreni di proprietà dello Stato sull'Aventino, non ^duò aversi
sospetta ragionevolmente la realtà storica, esistendone tuttora al
tempo d'Augusto il testo inciso in bronzo nel sacrario di Diana
sull'Aventino (1). Ma può ritenersi che abbia avuto effetto soltanto
II p. 530 segg. Ili p. 1-58 segg. Ma sono tutti casi apocrifi o dubbi. Però di
processi per multe innanzi al concilio della plebe si hanno esempì sicuri in
età storica, enumerati p. es. dal Lange Rom. Alterthiimer II ^ p. 587 segg.
(1) Liv. Ili 31, 1 al 456 non ne fa che un brevissimo accenno: de Aventino
pnblicando lata léx est; e solo poco oltre accidentalmente specifica di più,
e. 82, 7 : j)ostremo ' concessum ^^«irti«s (sulla composizione del decemvirato)
modo ne lex Icilia de Aventino aliaeque sacratae leges ahrogarentur. Maggiori
particolari dà Dionys. X 32, il quale ricorda che ó vó|uo(; éoTÌv èv arriXri xc^'^'iì
YeYpci|U)aévo(; f^v àvéSeaav èv tuj Aùevxiviu K0,uiaavTe<; eiq tò t^ì, 'ApTéiaiboi; kpóv.
Se ciò che egli dice intorno alla legge derivi tutto dal documento è incerto:
certo è peraltro che, se ne deriva, il testo è stato da lui o dalla sua fonte
in parte frainteso (Schwegler II p. 600 n. 1). Anche Dionisio del resto non
ignora che si tratta di una legge sacrata, pur ritenendo che si approvasse nei
comizi centuriati: iepoqjavxùiv re Ttapóvxujv koì oìuuvoaKÓnujv xal iepoiroiOJv òuotv
Kal TTOiriaoiuévujv ràq vo|a(,uou(; eùx<i<; te Kai àpàq èv Tf) XoxiTibi èKKXriaitji. Ma il
nome d'Icilio doveva essere nel documento; e ciò esclude che si trattasse di
legge votata nell'assemblea delle centurie. È questa una congettura da giu-
dicare alla stessa stregua di quelle (su cui v. p. 29 n. 2) che hanno fatto
antichi e moderni per non riconoscere che le altre leggi sacrate sono fondate
sul vetus iusiurandum i)lebis. La data del plebiscito Icilio è incerta. Icilì tri-
buni della plebe son ricordati dalla tradizione fra il 470 e il 409, e del resto
i fasti tribunizi della plebe son per quella età di poco o nessun valore. I nomi
dei consoli poi è difficile fossero riportati in un plebiscito. Quindi dobbiamo
LECIOI SACRATE 25
pel ^iurainento della plebe di difendere concorde chiunque avesse
occupato terreno pubblico sulF Aventino a norma del plescibito;
per modo che dal punto di vista dello Stato si tratterebbe non
d'una alienazione legale d'agro pubblico, ma d'una usurpazione
tacitamente tollerata.
Ad ogni modo era per l'avvenire di Roma assai pericoloso che
fosse riuscita a costituirsi un'assemblea la quale, senza esser rico-
nosciuta dallo Stato, si arrogava potestà giudiziaria e legislativa.
La unità di governo che s'era conservata al cadere della monarchia
veniva cosi a mancare tra le discordie civili; e senza che migliori
ordinamenti avessero tolto al patrizio la possibilità di far soprusi
al plebeo, l'assemblea rivoluzionaria della plebe aveva dato a
questa il modo di vendicarsene per mezzo di soprusi contro il i3a-
triziato. Cosi per non aver voluto render giustizia a tempo alle
richieste della plebe riconoscendole queir autorità nello Stato che
di fatto le spettava xjer T opera valida prestata alla comune difesa
e per la consapevolezza che ormai aveva della sua forza, i patrizi
si trovavano ora esposti alle violenze rivoluzionarie della i3lebe, e
per rimanere oppressori dovevano rassegnarsi |ad essere qualche
volta anche ox3pressi. Da tutto ciò la vigoria della resistenza che
Eoma opponeva ai nemici esterni poteva esser menomata d'assai,
di guisa che, cercando di sopraffarsi a vicenda, i contendenti ri-
schiavano d'esser sopraffatti da chi non avrebbe avuto pietà ne
degli uni né degli altri. E più grave jDersino fu la lotta che, spal-
leggiati da queste assemblee, iniziarono contro la somma' magi-
stratura patrizia, scalzandone l'autorità, i tribuni della plebe.
Il formarsi delle tribù rustiche spiega, oltre l'origine e la na-
tm-a dei concili tributi, anche questa singolarissima istituzione del
tribunato (1). Nella storia del V sec. si ricorda spesso l'intervento
contentarci di ritenere che varisi inil mente è del secolo V, avendo dovuto di
qualche tempo precedere la costruzione delle mura serviane. — Pel plebiscito
Canuleio v. oltre e. XIV ; per le rogazioni Licinie-Sestie e. XVII. Assai diverso
è in diritto il caso delle rogazioni concernenti cose interne della plebe, p. e. la
rogazione Publilia di Volerone (sopra p. 20 n. 4) e la Trebonia (p. 34 n. 1),
checche debba del resto pensarsi della loro autenticità. — La questione della
validità dei plebisciti è trattata largamente, ma in modo non del tutto sod-
disfacente da SoLTAu Die Gultigkeit dcr Plebiscite nei ' Berliner Studien ' II
(1885) p. 1 segg.
(1) La letteratura sul tribunato della plebe è copiosissima. Gli scritti piii
antichi, in buona pai-te ormai inutili, sono enumerati dal Lange Rom. Alter-
26 CAPO XIII - LA PLEBK E I SUOI TRIBUNI
dei tribuni della plebe a ijroposito di leva e di tributo: due cose
che sono in relazione stretta con le tribù (1). Par dunque clie quando
per tribù si cominciò a levare le truppe ed a riscuotere i tributi, i
capi dei pagi, die allora si chiamarono tribuni, i quali da tempo
forse facevano da arbitri o da giudici nelle piccole questioni tra
i plebei del loro distretto (2), prendessero ad intervenire a tutela
dei diritti della plebe. Il loro intervento divenne man mano più
invadente e allo stesso tempo più continuo, finché si trasfor-
marono in veri e propri funzionari della plebe eletti annualmente
nelle sue assemblee tribute (3). Solo cosi si spiegano le singolari
facoltà che jDossedevano i tribuni e che certo non possono avere
acquistate ad un tratto (4). La potestà tribunizia non è creazione
thilmer 1^ -p. 822. I più recenti sono citati a .suo luogo nelle note. Può vedersi
inoltre F. Stella Maranca II tribunato della plebe dalla lex Hortensia alla lex
Cornelia (Lanciano 1901), accurato ma poco originale e dominato da precon-
cetti antiquati.
(1) Così Liv. IV 11. 30. 53. 60.
(2) Cfr. Ltd. de mag. I 38 : bOo iiXfjGof; npoexeipiffaTo òr|udpxouc; oiore aÒTOtt;
òiaiTòv TOTe; òriiuÓT«i^. V. anche Zonar. VII 15 e Dionys. VI 90, secondo cui era
ufficio dejrli edili òiko^ Se; èTTiTpéviJiJUvTai èKeìvoi (ci bi^uapxoi) Kpiveiv.
(3) Non, in origine, magistrati dello Stato. Di ciò hanno notizia (per tradi-
zione 0 per induzione) anche le nostre fonti : Liv. II 56 : (tribuntim) privatum
esse clamitans (Ap. Claudius) sine imperio, sine magistratu. Zon. VII 15: tò
■fàp TUJv àpxóvTUJv óvoiua oùk ^axov eù9ù<; (oi òr)|uapxoi). Cfr. Plut. q. R. 81. Nep-
pure potevano originariamente dirsi a rigore magistrati della plebe perchè
non avevano autorità positiva di fare o di imporre checchessia, v. Herzog
Rijin. Staatsverfassung I p. 1146.
(4) Che il tribunato della plebe, checche pretenda la tradizione, non possa
aver avuto origine a un ti'atto dalla secessione avevano già intuito Niebuhr
I 464 segg. e Schwegler II 256 segg. Del resto la tradizione non era unanime
nel riferire il tribunato al 494, cfr. Dxod. XI 68 (ad a. 471): èv xr) 'P\ii\x\\
TTpiijTUJt; KOTeOTaOrioav bruuapxoi xérrape^, Tdioq ZiKÌviO(; xaì AeuKioc; N6|U6Tiupio<;,
Tipòe; bè toutok; MàpKOc; AouiXXioi; kuì Zirópioc; 'AKfXiot; (corr. "kiXiot;). 11 confronto
con la lista data da Pisone ap. Liv. Il 58 per lo stesso anno (che ne comprende
cinque, aggiuntovi un L. Mecilio) e con l'altra dei dieci tribuni del 449 (Liv.
Ili 54) mostra che le ultime sono ampliamento di quella, e se si tien conto
delle oscillazioni e contraddizioni sui tribuni eletti nel 494 (v. p. 31 n. 1 e
p. 34 n. 2) si deve concludere col Niese De annalibus Romanis observationes
(I), Marburg 1886, p. 7 segg. che la tradizione sui tribuni del 471 è assai
migliore e piii antica. Da questo e dalla frase stessa di Diodoro risulta che
egli (o la sua fonte) ha voluto riferire al 471 le origini del tribunato. Dal
che non segue del resto la storicità dei tribuni del 471, su cui v. sotto p. 35.
IL TEIBUNATO DELLA PLEBE 27
cosciente del genio politico romano (1), ma s'è invece svolta spon-
taneamente in forza delle circostanze tra cui si combatteva la lotta
delia i3lebe col patriziato. Il nòcciolo di quella potestà è nel di-
ritto di ausilio, ossia nella facoltà di venire al soccorso dei plebei
oppressi (2) ; ma questo ausilio si esplica negativamente, cioè nel
diritto d'intercessione per cui i tribuni possono col loro intervento
sospendere i decreti dei magistrati, opporsi alla votazione di ])ro-
poste di legge nei comizi di tutto il popolo e perfino impedire al
senato di deliberare (3). Tali diritti dei tribuni, che si svolsero
lentamente dalla difesa degli interessi plebei nella occasione di
chiamata sotto le armi o d'imposizione di tributi, erano guarentiti
dall'amplissima loro potestà coercitiva (4). E anche la tradizione
conserva chiaro ricordo che solo passo passo acquistarono i tribuni
tutti quei diritti (5) col procedere, inviolabili essi stessi, contro
chiunque offendeva la plebe , ne turbava le assemblee , non ot-
temx^erava ai loro divieti, ledeva le loro prerogative, alla imme-
diata repressione, carcerando, multando (6) e persino mettendo a
(1) Come la riteneva p. e. Machiavelli Discorsi I e. 3-4.
(2) Su questo punto giudicano rettamente anche gli antichi, Liv. II 33 : ut
plebi sui mayistratus essent sacrosancti quibus auxllii latio adversus consules
tsset. DioNYs. VI 87 : apxovrac; .,.-. oiTiveq fiXXou |uèv oùòevòc; ^acvrai KÙpioi, TOtq
ò'àòiKOU|uévoiq f) KaxiaxuoinévoK; tuùv òr||LiOTUJv poriGriooDOi Kai où irepióvjJOVTai TiJJv
biKaiojv àiToaTepoùiLigvov oùGéva.
(3) Della natura della intercessione tribunizia e de' suoi successivi amplia-
menti giudica assai più rettamente il Herzog I p. 1146 segg. 1155 segg. di
quel che il Mommsen che la costruisce a priori in base al suo concetto, del
resto probabilmente in parte errato (v. I p. 416 seg.), della intercessione in
generale. Tuttavia il Herzog ha torto nel ritenere che questi successivi incre-
menti siano avvenuti per mezzo di leggi piuttosto che d'uso o d'abuso. — Il
termine di veto adoperato rispetto all'intercessione tribunizia non prova che
essa equivalga ad un vero e proprio diritto di divieto. Cfr. pel senso lato di
questa parola Cic. prò Cluent. 43, 122. Lange Rom. Alterthilmer I -^ p. 838 n. 7.
(4) Gell. n. A. XIII 12, 9: tribuni qui haherent summam coercendi potcstutem.
(5) I progressivi ampliamenti della potestà tribunizia sono descritti accura-
tamente da Cass. Dio (Zon. VII 15); s'intende che per molta parte si tratta di
pure induzioni. Cfr. anche Gkll. n. A. XIII 12. Dei moderni può vedersi
ScHWEGLEK II 260 segg.
(6) Sui processi per multe innanzi alle tril)ìi, presieduti dai tribuni della
plebe, V. sopra p. 23 n. 6. I tribuni avranno in generale concesso l'appello
quando le loro multe superavano (come del resto doveva esser sempre o quasi)
i limiti estremi ammessi per le multe applicate di propria autorità dagli altri
28 CAl'O XIII - LA PLKBK K J SIOI TRIBUNI
morte, senza concedere, almeno nei casi x^iù gravi, nepi3ure l'appello
al popolo (1). Senoncliè il fondamento della intercessione tribunizia
e della coercizione die ne assicura l'efficacia non è una legge dello
Stato. La potestà tribunizia, come riconoscevano gli stessi antichi,
non è legittima, ma è sacrosanta: come l'autorità dei concili della
plebe, cosi quella dei tribuni è d'origine rivoluzionaria e fondata
sulle leggi sacrate giurate dalla plebe, per cui essa s'impegnava a
sostenere ad ogni costo, anche con la violenza, le prerogative de'
suoi tribuni (2). Il contenuto d"una di queste leggi sacrate ci vien
tramandato da Livio tra le leggi Valerie-Orazie del 449 (3), con
evidente controsenso, perchè se la potestà tribunizia era guarentita
magistrati. Ma è errore ritenere col Lange II ^ 620 seg. sul fondamento delle
parole dette in materia da Dionys. (X 50 : 'iva Tal; àpxatq èEf) TxAoaic, roùq
ÒKoaiuoOvTac; i) irapavoiuoOvTac; eie; xiiv éaurOùv eEouoiav ZiriiaioOv) che la legge
Aternia Tarpeia del 454 abbia riconosciuto e regolato la facoltà dei tribuni
d'imporre multe che s'esplicava specialmente a danno dei magistrati e che
differisce sostanzialmente dalla facoltà di multare propria degli altri magi-
strati, cfr. Heezog I p. 1150.
(1) Questo è dimostrato dal caso indubitatamente storico di C. Atinio Labeone
che nel 131 voleva precipitar senz'altro dalla rupe Tarpea il censore Q. Me-
tello Macedonico: Plin. n. h. VII 142. Liv. epit. 59. — Il caso di provocatio
contro le minacele tribunizie nelle cause capitali è il solo in cui i tribuni
della plebe in età storica in qualità di pubblici accusatori si trovassero in rap-
porto non con la plebe sola, ma con l'assemblea di tutto il popolo (Liv. XXV
3, 9. XLIII 16, 11. Gell. n. A. VII 9, 9. Cic. de har. resp. 4, 7). Come procedes-
sero per tal rispetto le cose prima che i tribuni fossero considerati come
magistrati dello Stato non è facile dire. Prima del decemvirato sembra che i
concili tributi della plebe si arrogassero il diritto di giudicare anche nelle
cause capitali (v. sopra p. 23 n. 5).
(2) I giuristi dell'età augustea riconoscevano trihunos vetere iure nirando
j)lehis cum primum enm potestatem creavit sacrosanctos esse (Liv. Ili 51, 10) e
asserivano che, prima essendo solo religione inviolati, divennero anche lege in-
violati per le leggi Valerie-Orazie del 449. Cfr. Fest. jj. 318: sacrosanctum
dicitur quod iure turando interposito est institutum si quis id violaret ut morte
poenas penderei : cuiiis generis siint tribuni plehis aedilesque eitisdem ordinis. V.
anche Dionys. VI 89. VII 22. Plut. Ti. Gracch. 15. App. b. e. II 108. IV 17. Tra
i moderni il Mommsen Staatsrecht II '^ 286 seg. mette in chiaro meglio d'ogni
altro il concetto della sacrosancta potestas e la sua netta distinzione dalla
potestas legitima.
(3) Liv. Ili 55, 7: ut qui trihunis plehis aedilibus iudicibns decemriris nocuisset
eius caj)ut lori sacrum esset familia ad aedem Cereris Liberi Liheraeque veniret.
I giuristi dell'età augustea (v. Liv. 1. e.) cercavano per mezzo di sottigliezze
IL TRIBUNATO DELLA PLEBE 29
da una legge dello Stato al pari di q^iella delle altre magistra-
ture, sarebbe stata legittima e non soltanto sacrosanta, e perchè
lo Stato non avrebbe provveduto solamente a tutelare con tanta
severità le sole magistrature plebee, ma avrebbe almeno equipa-
rato ad esse le altre. Quella legge sacrata dunque stabiliva che
chi ledesse i tribuni della plebe, gli edili o i giudici decemviri,
fosse sacro a Giove ossia fosse posto fuori della legge, e i suoi beni
fossero venduti presso il tempio di Cerere, Libero e Libera.
Un'altra deliberazione della plebe sanciva che non era da consi-
derare come omicida chi uccidesse una persona posta per quel
motivo fuori della legge (1).
Alcuni antichi e alcuni moderni invece che nel giuramento
della plebe hanno cercato il fondamento della potestà tribunizia
in una vera e propria alleanza ifoedus) stretta fra la plebe da
una parte e i rimanenti Romani dall'altra, alleanza che si sarebbe
conclusa secondo le norme in uso nei trattati fra Stato e Stato per
mezzo di feziali (2). Questo trattato non è che una congettura an-
tica i^er spiegare la posizione singolare della plebe e de' suoi tri-
buni nello Stato: congettura errata in fatto, perchè un trattato
dovendo essere votato dall'assemblea popolare, le concessioni da
esso sancite non possono essere soltanto sacrosante, sì debbono con-
siderarsi anche come legittime, quale era p. e. il diritto ricono-
sciuto per trattato ai Latini domiciliati in Roma di votare nei co-
mizi romani; e assurda in diritto, perchè i patrizi non avendo
propria assemblea né costituendo Stato nello Stato non potevano
concludere trattato alcuno, e molto meno poteva concluderne il
popolo romano, che sempre comprese e patrizi e plebei, con una
parte di sé stesso. Ma inoltre accettando la tradizione che fu so-
di conciliare l'esistenza d'una legge dello Stato di questo genere col fatto che
la potestà dei tribuni non è legittima. Non abbiamo bisogno di ricorrere alle
loro sottigliezze non avendo i loro scrupoli a dubitare della storicità delle
leggi Valerie-Oi-azie.
(1) Fest. p. 318 àaìVAlex tribunicia prima: si qui eum qui eo plehiscitu sacer
sit occiderit pan-icida ne fiit. Cfr. Cic. prò Tuli. 5, 47 : legem antiquam de le-
gibus sacratis quae iiiheat sanguine occidi eum qui tribunum pi. pulsaverit.
(2) DioNYs., che ne parla largamente, VI 89 e altrove e Liv., che ne accenna
solo incidentalmente, IV 6, 7. A buon diritto il Mommsen Staatsrecht II ^ p. 287
n. 2 esclude recisamente il preteso foedus ; e non mi paiono concludenti le ob-
biezioni del Lange Roni. Alterthilmer I ^ 590 segg. e De sacrosanctae potestntis
trihuniciae natura eiusque origine commenfatio (Lipsiae 1883).
30 CAPO XIII -- LA PLEIÌK K I SUOI TRIBUNI
speso il tribunato quando si crearono i decemviri, converrebbe am-
mettere che si fosse allora concluso un nuovo trattato d'alleanza
e che un terzo se ne fosse stretto nel 449: ipotesi del pari inutili
e infondate. Anche meno accettabile è la teoria secondo cui la
potestà sacrosanta dei tribuni proviene semplicemente da una legge
dello Stato (1) : a questo modo, pel iDreconcetto infondato che negli
ordinamenti di Roma del sec. V nulla potesse essere di rivolu-
zionario o d'illegittimo, si chiude ogni via di spiegare la forma-
zione e il poco valore delle tradizioni sulle origini del tribunato
e d'intendere storicamente la evoluzione costituzionale romana e
il i)rocesso della emancipazione xjlebea.
Il tribunato pertanto ha nelle condizioni della plebe romana
del sec. V la sua p)iena spiegazione; ed è arbitraria ed oziosa l'ipo-
tesi che sia stato ricopiato sulle istituzioni di qualche città greca
e in particolare di Siracusa (2); tanto più che le analogie citate
sono assai imperfette. Li vero i prostati del popolo a Siracusa,
del pari che ad Atene, non sono come i tribuni della j)lebe fun-
zionari annui ed elettivi, ma capi del partito democratico, la cui
posizione, che non ha nulla di ufficiale, dipende unicamente dal-
l'aura popolare. Né per comparare gli ordinamenti della plebe
romana con quelli del demo di Siracusa può trarsi argomento
dalla speciale importanza che ha per la plebe il culto di Cerere,
Libero e Libera; poiché qualunque sia la ragione di ciò, non può
affatto dimostrarsi che abbia in Grecia nulla di specificamente
democratico il culto di Demeter, Persefone e lacco su cui quello
é ricopiato (v. I p. 278) (3).
Data l'origine indigena e il lento formarsi della potestà tribu-
nizia, si spiega anche il x^oco o niun valore della tradizione sulle
origini del tribunato (4). Come é noto, si dice che esso venne isti-
tuito in conseguenza della prima secessione, e vedemmo (p. 45)
quanto questa notizia sia sospetta. Non meno sospetti sono i nomi
(1) Herzog ' Jahrbb. f. Phil. ' CXIII (1876) p. 139 segg. Roni. Staatsverfasstmg
1 p. 146.
(2) Pais ' Studi Storici ' II (1893) p. 180 segg.
(3) Non provano certo nulla in questo senso passi come Plut. Timol. 8 e
DioD. XIX 5, 4.
(4) Le notizie che si hanno sui tribuni della plebe dell'età repubblicana sono
raccolte dal Niccolini Fasti tribunorum plehis in ' Studi Storici ' IV (1895) e
V (1896); anche a parte con giunte e correzioni (Pisa 1898).
DISCORDIE CIVILI 31
dei tribuni eletti nel 494 (1), tra cui un Sicinio che ricorre fra i
tribuni del 471 e del 449 e cke è in stretta relazione con l'eroe
popolare Siccio, l'Achille plebeo, dopo tante prodezze fatto perire
a tradimento dai deceniviii, ed un Griunio Bruto, evidente redu-
plicazione del leggendario fondatore della repubblica trasformato
in liberatore della plebe. E può darsi che i principi del tribunato
siano stati avvicinati di tempo alle origini della repubblica per
accrescerne la veneranda antichità. V'ha persino una tradizione
che sembra considerare le leggi sacrate del 494 come il rinnova-
mento di norme vigenti prima della caduta della monarchia, pro-
babilmente al tempo del buon re Servio Tullio (2). Prescindendo
pertanto dalla tradizione, possiamo dire che il tribunato della,
plebe cominciò da oscmi e modesti principi dopo istituite le tribù
rustiche e quindi non prima del sec. V; e che già verso la metà
di quel secolo doveva aver acquistato buona parte di quelle fa-
coltà d"intercessione e di coercizione che possedeva in età storica;
poiché ^sse sono state conquistate lottando contro i supremi magi-
strati patrizi, non contro i tribuni militari con autorità consolare,
che potevano essere patrizi e plebei.
I patrizi non possono essersi piegati pacificamente a ricono-
scerci diritti tribunizi che minavano nelle sue basi lo Stato ari-
stocratico. E senza spargimento di sangue cittadino non si son
certo acconciati i consoli, essi creati per non ubbidire a nessuno,
ai divieti dei tribuni; ne chi poteva contare sull'appoggio di clienti
si è lasciato senza resistenza tradurre in carcere dai primi tribuni
che tanto hanno osato. Ma il bisogno sempre maggiore che i ma-
gistrati patrizi avevano della plebe nelle guerre spiega il costante
incremento dei poteri tribunizi, perchè le concessioni fatte una
volta a fine d'indurre i plebei a iDrestare il giuramento militare
rappresentavano pei tribuni diritti acquisiti onde movevano, come
da posizioni vinte, alla conquista di altri diritti. Gli' annalisti si
sono compiaciuti nel dipingere in vario modo contese fra tribuni e
(1) In AscoN. p. 75 Baiter i primi tribuni sono L. Sicinio e L. Albinio, in
Liv. II 58 C. Licinio e C. Albinio, in Dionys. VI 89 L. Giunio Bruto e*C. Si-
cinio, che fin qui avevano guidato la plebe (cfr. Plut. Cortei. 7), C. e P. Li-
cinio, C. Viscellio. In tutti questi Licinì può sospettarsi la mano di Licinio
Macro.
(2) Cic. 2>f'o Corn. fr. 23 Okelli ap. A.scon. 1. e. : tanta igitur in illis virtus
fuit ut anno XVI post reges exactos secederent, leges sacratas ipsi sibi restitue-
rent, duos tribunos ci'earent.
32 CAPO Xlll - LA PLKBE K I SCOI TRIBUNI
consoli o fra tribuni e dittatori nel corso del sec. V e del IV ; m;i
la fantasia, la tendenza a ricopiar lotte assai più tarde, la specula-
zione giimdica hanno avuto assai maggior parte che non la vera
0 propria tradizione nei loro racconti, dei quali un'analisi minuta
non condurrebbe a conclusioni sicui^e. Ma possiamo ben figurarci
le dramatiche lotte tra le vecchie autorità legittime e la nuova ri-
voluzionaria e le momentanee tregue, quando il fumo dei campi
devastati annunciava il nemico. E la violenza di queste contese
si esprime efficacemente nella leggenda di Coriolano, certamente
antica e cantata dall'epopea popolare. In essa Coriolano, il tipo
del patrizio tanto prode quanto superbo, volge le spalle irato alla
patria che non lo protegge contro la plebaglia da lui sprezzata per
tornarvi con le armi in mano, aiutato dai nemici del nome latino.
Anche degna di nota è la leggenda, attinta, a quel che pare, a
tradizioni della gente Quinzia, alterate e rimaneggiate, s'intende,
con la consueta libertà dagli annalisti, di Cesene Quinzio. Essa
narra che Cesone, figlio del valoroso Cincinnato, accusato dai tri-
buni e gravato dalla testimonianza d'un tal Volscio, dovette ab-
bandonare la patria, non senza che i suoi gentili prendessero poi
a tempo opportuno vendetta di Volscio facendolo condannare per
falsa testimonianza (1). E pur caratteristica è l'altra leggenda della
occupazione del Campidoglio fatta per sorpresa, nella speranza
che gli oppressi insorgessero contro l'ordine esistente, dal sabino
ApxDio Erdonio ; al quale se non venne fatto di raggiungere l'in-
tento, le discordie intestine permisero almeno di rimanere per
qualche tempo indisturbato sul colle sacro, prima che si cercasse
di riconquistarlo (2). Questo racconto non fu certo inventato dagli
annalisti quando Roma, invece di correr pericolo di sorprese tra i
suoi sette colli, dominava il mondo conosciuto, e quindi deve con-
siderarsi come attinto, nelle linee principali, all'epopea popolare.
Ma come è assai difficile che là fantasia popolare inventasse una
occupazione nemica del Cami3Ìdoglio, né è verisimile che debba
trattarsi d'una ripetizione della conquista di quel colle compiuta
(1) Liv. Ili 11-13. DioNTs. X 5-8. Una versione singolare del fatto presso
l'AucT. de vir ili. 17. — Sulla condanna di Volscio Liv. Ili 24, 3, cfr. Dio-
NYS. X 8.
(2) Liv. Ili 15-18. DioNYS. X 14. Che il racconto di Erdonio ' venne in ori-
gine concepito sotto l'efficacia di fatti non anteriori al sec. IV ' afferma, ma
non pi'ova in alcun modo il Pais I 1, 531.
DISCORDIE CIVILI 33
da Tazio, convieii ritenere che quelle linee essenziali non siano
disformi dal vero. Da ciò si vede quali pericoli corresse Roma da
quando, ordinatasi la plebe a Stato entro lo Stato, la lotta civile
divenne il contenuto permanente e usuale della vita cittadina.
La potestà dei consoli in città declinò precipitosamente dal mo-
mento elle ogni loro decreto, ogni loro atto potè essere impugnato
od impedito dai tribuni (1). Tuttavia la continuità d'indirizzo data
dal senato, a cui i consoli dovevano tanto più stringersi quanto più
da soli si sentivano deboli, e la intangibilità dell'imperio militare
assicurata e dalla forza della tradizione e dalle evidenti esigenze
delle continue lotte coi vicini salvò lo Stato romano dalla disgre-
gazione del potere centrale e dall'anarchia. Ma soltanto dopo l'am-
missione dei plebei al consolato la nuova nobiltà patrizio-plebea
trovò il modo d'ammansare e quasi d'addomesticare il tribunato.
Prima d'allora avevano i patrizi nelle lotte con i tribuni l'estremo
rimedio della dittatm-a, dinanzi al cui supremo potere veniva meno
0 doveva venir meno anche l'intercessione tribunizia (2). Ma il
rimedio era pericoloso in sé, e la sua efficacia del resto nasceva
dalla sua rarità. Se troppo allo scoperto e troppo frequentemente
si fosse usato della dittatm-a per combattere la j)lebe, si rischiava
di indurre i tribuni a fare delle prerogative dittatorie lo stesso
conto che avevano fatto delle prerogative consolari o di precipitai^e
la città nelle guerre civili (3).
(1) Per cui DioD. XII 25, 2 potè dire che i tribuni possedevano [lefiaraq
èEouaia^ tOjv kotò xiriv iróXiv àpxóvxujv. Se da ciò il Mommsen Staatsrecht I '
p. 26 n. 1 vuol ricavare che il tribunato aveva in stretto senso giuridico una
maior potestas di fronte al console, mostra soltanto che le rigide formole giu-
ridiche non sempre si attagliano alla realtà, la quale non è poggiata su di
esse, ma ad esse anteriore. Di ciò giudica rettamente Lange 1 ^ p. 689. 833.
E del resto la teoria del Mommsen male si concilia con Cicerone, che se enuncia
il diritto del console tit ei reliqui magistratus omnes pareant con la limitazione
excepto tribuno {de leg. Ili 7, 16), esclude al tempo stesso che nello Stato esista
alcuna potestà ordinaria superiore a quella del console, ibid. Ili 8, 8 : regio
imperio duo sunto... nemini parento.
(2) Ciò è detto dalle fonti e in astratto e in concreto, sia pure a proposito
di casi apocrifi. Zon. VII 13,cfr. e. 15. Liv. Ili 29. VIII 35. 81. Il primo esempio
sicuro di dittatore che ceda alla intercessione tribunizia è del 209 : Liv.
XXVII 6. Ma i dittatori della seconda punica non erano piìi creati optimo
iure. Cfr. I p. 420 n. 2 e Mommsen Staatsr. I ^ 165 seg.
(3) Un tentativo di sottoporre la dittatura alla intercessione (impedendo la
nomina di dittatori optimo iure) deve vedersi secondo la tradizione nel plebi-
Gr. De Sanctis, Storia dei Romani, II. 3
34 CAPO XUI - LA PLEBE E I SUOI TRIBUNI
Ritardò del resto la vittoria dei plebei lo spirito di rigido tradi-
zionalismo proprio di tutti i Romani, onde gli stessi plebei non
si seppero liberare. Una prova singolare n"è la cura posta dai
plebei nel ricalcare le loro assemblee e le loro magistrature sulle
assemblee e le magistratui^e dello Stato. Caratteristica specialis-
sima delle assemblee del popolo romano è che i cittadini non vo-
tano ciascuno di per sé e non si confrontano senz'altro i loro
voti; ma ciascuno vota nel gruppo cui è iscritto e si paragonano
i voti di questi gruppi. Anche l'assemblea tributa della plebe si
attenne per tal rispetto all' esempio dei comizi cm-iati e centu-
riati. E del resto ciò fu certo vantaggioso; poiché conferi a rendere
l'assemblea tributa interprete vera della volontà del poiDolo impe-
dendo che i rappresentanti d'un distretto intervenuti accidental-
mente in poco numero fossero sopraffatti dal voto dei rappresentanti
dun altro distretto intervenuti per caso o intenzionalmente in nu-
mero maggiore. Ma l'imitazione delle altre assemblee danneggiò
e diminuì il libero esplicarsi della sovranità popolare nel difetto
d'iniziativa dei privati, onde è assai limitata la libertà di parola,
e solo il magistrato può far proposte di leggi. Anche jìiii dannosa
agli interessi della plebe fu l'applicazione del princiino della col-
legialità ai tribuni della plebe. E ciò tanto più in quanto i tribuni
erano in età storica non meno di dieci, e anzi la tradizione è con-
corde neir affermare che il collegio era così composto fin dalla
metà del sec. V (1). Li origine, secondo i più, sarebbero stati due (2),
che poi dal 471 si sarebbero portati a quattro o cinque (3), prima
scito Duillio del 449, Liv. Ili 55, 14 : ut qui magistratum sitie provocatione
creasset tergo ac capite puniretur. Ma il plebiscito è probabilmente apocrifo
(tra altro la sanzione che si aspetterebbe è la consecraiio capitis et honorum)^
e se pure è storico, è in ogni caso rimasto verisimilmente inefficace. Anche
minor conto è da fare della analoga rogazione Valeria-Orazia, v. cap. seg.
(1) Dal 457 pel plebiscito Terentilio (Liv. Ili 30. Dionys. X 30. Zon. Vili 17,
cfr. Cass. Dio fr. 21) confermato poi dal Trebonio del 448 (Liv. Ili 65), ut
qui plebem Romanam tribunos plehis rogaret, is usque eo rogaret dum decetn tri-
bunos plebei faceret. Una forma della leggenda dei nove tribuni bruciati (sopra
p. 10) suppone che fossero dieci già al tempo del console Cassio : ma natu-
ralmente non è notizia su cui possa farsi assegnamento.
(2) Cic. prò Cam. fr. 23 Orelli ap. Ascon. p. 75. de re p. II 84, 59. Piso ap.
Liv. II 58. Attic. ap. Ascon. 1. e. Altri parlavano di cinque (Dionys. VI 89.
AscoN. 1. e); ma Tuditano (ap. Ascon. 1. e.) e Liv. II 33 ne fanno eleggere
prima due e poi altri tre (cfr. anche Zon. VII 15), conciliando le due versioni.
(3) Piso 1. e. Cfr. il passo citato di Diod. sopra p. 26 n. 4.
TRADIZIONALISMO PLEBEO 35
di salire nel 457 a dieci. Ma queste notizie paiono di dubbio va-
lore. Certo è che la lista dei tribuni del -471 s'è costituita coi nomi
di quattro eroi popolari celebrati dalla tradizione, vSicinio, Numitorio,
Duillio ed Icilio, di cui forse non è da negare l'esistenza, ma sembra
artificiale il collegamento. Ciò posto pnò ben darsi che i due tribuni
originari siano stati suggeriti dai due consoli, i quattro o cinque
successivi dalle quattro tribù urbane (1) o dalle cinque classi ser-
viane (2). Sarebbero, almeno le ultime, induzioni errate, perchè le
tribù ui'bane e le classi ascritte a re Servio sono, come vedremo,
di xJarecchio iDOsteriori alle origini del tribunato ; e del resto, fos-
sero anche anteriori, queste non ebbero certo nulla a fare coi tri-
buni e coi concili tributi, quelle non comj)rendevano che i plebei
privi di proprietà fondiaria, ossia i più dipendenti dalle famiglie
nobili e i meno atti ad iniziare la lotta per l'affrancamento della
plebe. Ad ogni modo quelle norme ch'erano il semplice effetto
della dualità della suprema magistratm^a (I p. 416) fiu"ono applicate
solo per gretto tradizionalismo agli altri collegi di magistrati man
mano che si istituirono e cosi pure ai tribuni della plebe, per
quanto probabilmente non siano stati mai due. Era sufficiente
quindi nel collegio dei quattro, cinque o dieci tribuni che s'oppo-
nesse uno per mandare a vuoto non Fazione negativa del divieto
a cui bastava un solo tribuno contro nove, ma qualsiasi azione
positiva dei colleghi, si trattasse di proposte o di coercizione. Questo
tornava in pratica a danno degli interessi della plebe ; perchè non
era impossibile che un tribuno fosse comi^erato o in qualsiasi modo
guadagnato dai patrizi. Se tuttavia la plebe riportò tanti trionfi,
ciò mostra che l'imperfezione dei mezzi non basta a togliere effi-
(1) È possibile che questa congettura fosse già fatta in antico, come l'ha
proposta tra i moderni E. Meyer (mem. cit. a p. 4 n. 2). Ma il Meyer non
s'avvede che il suo punto di partenza, la notizia di Diodoro sui quattro tribuni
creati nel 471, non riposa su tradizione, ma su congettura. Se anche chi ha
riferito l'origine del tribunato al 471 (p. 26 n. 4) lo ha fatto in relazione
colla pretesa legge Publilia che stabiliva l'elezione dei tribuni nell'assemblea
tributa, la congettura non aumenta per questo di valore.
(2) AscoN. 1. e. : quidam non duo tr. pi. ut Cicero dicit sed quinque tradunt
creatos tum (494) esse singulos ex singuUs classihus. Liv. Ili 30 : tricesimo sexto
anno a primis tribuni plebis (457) decem creati sunt, bini ex singulis classibus ;
itaque cautum est ut postea crearentur. Che ai tribuni si sia attribuito il nu-
mero di cinque perchè tanti erano gli efori è infondata congettura del Pais
' St. Storici ' III (1894) p. 352.
36 CAPO XITI - LA PLEBE E I SUOI TRIBUNI
cacia ai grandi fattori politici ed economici; e dà inoltre a vedere
che la plebe mosse compatta all'assalto dei privilegi patrizi, in
modo elle fu difficile trovare disertori dalla causa comune finché
non si ottenne l'eguaglianza politica tra le due classi. Ma quando
la formazione della nobiltà plebea ebbe spezzato la solidarietà tra
la plebe, il tribunato divenne im^jotente a tutelare gl'interessi della
democrazia.
Accanto ai tribuni troviamo fin dal sec. V altri funzionari plebei
di minore importanza, e prima di tutto gli edili (1). In età storica
gli edili si occupavano del lastricato delle vie di Roma, della net-
tezza ui'bana, delle pompe funebri, della sicurezza del transito
{cura urbis et operum publicorum)^ della polizia del mercato col
carico di vegliare affinchè il popolo non avesse a soffrire la carestia
{cura annonae) e infine della celebrazione dei giuochi sacri {cura
ludorum sollemnium). Questi uffici son però in buona parte re-
centi. Recente è anzitutto la cura dei ludi, come prova la presidenza
dei consoli nei più antichi di essi, i ludi Romani, conservata anche
quando la du'ezione effettiva ne passò agli edili (2). E quanto agli
altri uffici, non si vede come potessero essere attribuiti agli edili
nell'interesse di tutti i cittadini, quando non erano magistrati legit-
timi dello Stato, ma semjjlici funzionari della xDlebe (3). Del resto
tutti questi incarichi non spiegano neppui'e il nome degli edili,
perchè non par ijrobabile che provenga dalla loro facoltà, compresa
nella polizia urbana ad essi affidata, d'impedii'e che si costruisse
(1) W. SoLTAu Die urspriingliche Bedeutung und Competenz der aediles plebis
in ' Historisclie Untersuchungen A. Schaefer gewidmet ' (Bonn 1882).
(2) Liv. XLV 1, 6. Veramente secondo Liv. VI 42, 13 (questo sembra nonostante
le obbiezioni del Soltau il senso del passo) gli aediles plehis avrebbero avuto
fino al 367 la cura dei ludi macrimi; ma pare si tratti di una errata con-
gettura costituzionale. I primi ludi spettanti agli aediles plebis e i soli che
rimanessero ad essi sul chiudersi dell'età repubblicana erano i ludi plebei
creati intorno al 220 (Liv. XXIII 30. XXV 2. XXVII 6 etc).
(3) La prima menzione della cura annonae edilizia è del 299, Liv. X 11, 9,
a proposito dell'edile curule Q. Fabio Massimo. Plin. n. h. XVIII 15 ricorda, è
vero, le frumentazioni di M'. Marcio edile della plebe, che sarebbe stato ante-
riore a Minucio (sopra p. 16); ma questa notizia merita poca fede. Non può
invece respingersi con la sicurezza del Pais I p. 543 n. 1 la notizia eh' egli dà,
ivi XVIII 16, su Seio, edile fra il 439 e il 250, pur non escludendo del tutto
la vaga possibilità che si tratti di un mitico antenato dell'edile M. Seio con-
temporaneo di Cicerone (Cic. de off. II 17, 58. Plin. n. h. XV 2).
CLT EDILI 37
in modo da occupare il suolo delle vie pubbliche o da altre simili.
A rintracciare le competenze originarie degli edili può servire la
legge sacrata che impone di vendere i beni di chi lede i magistrati
plebei accanto al tempio di Cerere, Libero e Libera (vedi sopra
pag. 28 n. 3) e la pretesa deliberazione dei consoli Orazio e Va-
lerio secondo cui i senatusconsulti debbono esser consegnati agli
edili della i^lebe nel tempio di Cerere (1). Queste due norme, le quali
verisimilmente nulla hanno a fare con quei due consoli, mostrano
che nel tempio di Cerere era Farchivio e il tesoro della plebe ro-
mana. S'è messa in dubbio l'esistenza d'un tesoro della plebe perchè
la plebe non essendo persona giuridica era inabile a possedere (2).
Ma destano meraviglia simili maniere d'argomentare: se anche
il concetto della persona giui'idica fosse stato svolto cosi coeren-
temente dai rozzi contadini del V secolo come dai giuristi raffinati
dell'età classica, la plebe dandosi, come fece, ordinamenti rivolu-
zionari non era punto tenuta a simili sottigliezze. Ed è evidente
che i plebei non potevano consegnare al governo patrizio le multe
imposte p. e. ai consoli che n'erano i rappresentanti senza rischiare
di ridmTe le proprie condanne ad una farsa j)riva di qualsiasi se-
rietà ed efficacia. Inoltre solo per mezzo di questo tesoro plebeo
possiamo spiegarci le frumentazioni fatte poi per opera degli edili
e la cura dell'annona che a poco a poco assunsero a complemento
di esse. Ma i plebei inoltre, dal momento che s'erano ordinati per
tribù, dovevano tener liste degli iscritti a ciascuna tribù; né meno
importava ad essi di registrare le deliberazioni prese nei -concili
della plebe. E cosi al loro tesoro s'accompagnava un arcliivio : il
quale poi, man mano che i tribuni s'arrogarono il diritto di vigi-
lare sugli atti del senato, s'arricchì con le copie dei senatuscon-
sulti (3). Tesoro ed archivio erano nel tempio di Cerere presso il
Circo Massimo, che, secondo la tradizione, fu votato dal dittatore
Sp. Postumio nel 496 ed eretto dal console Sp. Cassio nel 493 (4).
Ma queste notizie sulla sua origine sono malsicure, prima perchè
sembrano contraddire ai diritti speciali che la plebe s'arrogava in
(1) Liv. Ili 55 : ut senatusconsulta in aedem Cereris ad aediles plehis defer-
rentur. Cfr. Zon. VII 15 e Pompon, dig. I 2, 2, 25, che quest'uso considerano
addirittura come originario.
(2) SoLTAu p. 29. Assai più rettamente giudica lo Schwegler II 275 n. 3.
(3) SoLTAu p. 32 seg.
(4) DioNYs. VI 17. 94.
38 CAPO XIII- LA PLEBE E I SUOI TRIBCNI
quel tempio, poi perchè F ultima pare collegarsi strettamente col
particolare sospetto della statua di Cerere eretta col provento
della confisca dei beni di Cassio. Onde è più verisimile che il
tempio di Cerere sia stato edificato da qualche plebeo, privato o
tribuno, o dalla plebe stessa quando si diede nel secolo V il suo
nuovo ordinamento. Ad ogni modo, comunque abbia avuto origine
il santuario, deposto in esso il tesoro e l'arcliivio della plebe, i
custodi del temi^io, gli edili, dovevano a poco a poco trasformarsi
in tesorieri e archivisti della plebe. Né vale l'opporre che se gli
edili avessero avuto in origine relazioni speciali con un determi-
nato tempio, non sarebbero stati chiamati edili senz' altro, ma
edili di Cerere, anche altri edifici destinati al culto {aedes sacrae)
esistendo già quando fu costruito il tempio di Cerere, e anzi
tutto il sacrario di Giove Capitolino. Infatti nulla vieta di -ritenere
che in origine il nome di questi magistrati sia stato appunto
quello di edili di Cerere e che poi con l'ampliarsi delle loro com-
petenze la seconda parte del nome sia andata in disuso, al modo
stesso che i questori del i3arricidio fm'ono detti col tempo sempli-
cemente questori. E può darsi che Giulio Cesare, creando due nuovi
edili col nome di edili ceriali, abbia voluto anche reintegrare una
denominazione antica di cui gli sarà in qualche modo pervenuto
un ricordo. Ija ipotesi invece che gli edili si occu23assero in origine
di tutelare la plebe in occasione delle angherie {munia, corvées),
cui era sottoi)osta per lavori di pubblica utilità, come lastricare
vie, costruù'e cloache ed innalzare mura, non sembra dare una spie-
gazione soddisfacente né del loro nome né della speciale relazione
in cui erano col tempio di Cerere. Ed é facile vedere come possano
essersi allargate le competenze dei custodi del tempio di Cerere,
divenuti arcliivisti e tesorieri della plebe. Infatti da una parte in
tal qualità si trovavano in rapporti permanenti coi capi elettivi
della plebe, i tribuni, e si capisce come da questi potessero esser
delegati ad esercitare in loro vece alcuni altri uffici secondari nel-
l'interesse della plebe, come una limitata gim'isdizione (1), da [ìa-
(1) Di qui anzi partono, ma a torto, gli scrittori antichi discorrendo della
origine dell' edilità : Dionys. VI 90 : èb€r)0r|Oav rfic, pouXrìq èiTiTpéi|/ai aqpiaiv
fivbpaq 6K TÙiv br||uoTiKOùv bue koG' ^Koarov éviauTÒv àirobeiKvuvai toùc; ÙTTTipe-
TqoovTai; Totq brmdpxoK; òauiv Sv béuuvrai Kal biKaq he, àv èirixpéiiJUJVTai èKCìvoi
KpivoOvTaq iEpùJv T6 Kal briiaoaiujv tóttuuv koI Tf)q Karà ti'iv àyopàv eÙ6Tr|pia(; tn\-
laeXrjaoiuévouq ove, ÙTTripéraq tOùv briiudpxujv koì ouvdpxovTaq koì biKaoTÒc; èKd-
Xouv. ZoN. VII 15 : kqì dyopavóiLiou; bOo trpoaeiXovTo oiov ùirripéTaq aqjioiv èao)aé-
GIUDICI DECEMVIRI 39
rag'onare forse a quella dei nostri giudici conciliatori, e l'arresto
{preìisio) di quelli clie i tribuni, in forza delle loro facoltà coerci-
tive, facevano condurre in carcere (1). D'altro canto le multe ri-
scosse li mettevano in grado sia di prov^'^edere a frumentazioni, onde
poi assunsero la cura dell'annona, sia di erogare qualche somma per
altre piccole spese ^ di pubblica utilità, come il lastricare qualche
via, il migliorare qualche mercato, il solennizzare qualche sacra
festicciuola ; onde col tempo si attribuirono la cura della città e
dei ludi, con tanto minor difficoltà, in quanto non esisteva una
magistratm-a dello Stato che se ne occupasse particolarmente. Con
queste attribuzioni gli edili assunsero anche quella giurisdizione
amministrativa che ad esse si connetteva, in virtù del costante uso
romano di delegare ad ogni magistrato la giurisdizione concer-
nente l'esercizio delle sue ordinarie attribuzioni. Questo incremento
di x)oteri, usati non più nell'interesse d'una classe, ma nell'interesse
di tutti, spiega i^erchè, come vedremo, più tardi gii edili si tras-
formassero in legittimi magistrati dello Stato.
Oltre gli edili ed i tribuni, la legge sacrata ricorda i giudici
decemviri (2), che con questo nome non ricorrono altrove, ma che
son certo da ragguagliare ai decemviri per giudicare le liti (stli-
tiLiis ìudicandis) (3). Questi fino ad Augusto, senza esser legati al
voU(; irpòq TpóiufiaTa • irdvTa t«P Tà té irapà tlù irXriGei koì tuj òriiuuj Kai TÌr) PouXfj
Ypaq)ó^6va Xaiu^dvovrei; .... èqpuXaaaov ■ tò |uèv oi!iv dpxatov è-rrì toùtuj iJipoOvro koI
ènì TUJ òiKdZleiv. Anche più esplicito è [Theophil.] I 2, 8 : év tlù Kaipuj Tfjc;
òiaoxdaeuji; oiairep irapà to\c, auYKXrjTiKotq fjv ó uiroTOC òiKaioboxùJv Kal t6|uvijuv
Tàc; òiKoq. oÙTUj koì uapà toìc; ìòiiJuTaK; irpoùpXriGri ti<; 6v èòei òéxeaGai xàc, irpoa-
eXeùaeic; tOùv Ò60)uévujv ^Tivòq PoriQeiac; 6^ d-rrò Tf\c, -rrpoaeXeùaeujc; adilis djvo-
^daGrj.Per la critica di queste notizie v. Sqltau p. 9 segg.
(1) L'accusa fatta nel 454 da un edile ad un console (Liv. Ili 21. Dionys.
X 48), non è storica, e chi l'ha inventata ha confuso la facoltà di accusare
al popolo con la prensio edilizia ordinata dai tribuni, su cui v. Liv. XXIX
20, 11. XXXVIll 52, 2.
(2) C'è chi vuole che si separi in quel testo iudices e decemviri. Ma iudices
nella lingua più antica è una denominazione dei consoli ; e qui non può certo
trattarsi di magistrati patrizi ; inoltre non può col solo epiteto decemviri de-
signarsi una magistratura. Gli stessi famosi decemviri, i decemviri per eccel-
lenza, si designavano come decemviri legibus scìHbendis. Supporre poi che il vo-
cabolo decemviri sia una glossa è ipotesi arbitraria.
(3) Così Hdschke Die Verfassung des Koniys Serviiis Tullius (Heidelberg 1838)
592 seg. 606 seg. Secondo Pomponio dig. I 2, 2, 29 i decemviri stlitibus ìudi-
candis sarebbero stati istituiti nella seconda metà del sec. III. Ma Pomponio
40 CAPO XUI - LA PLEBE E I SUOI TRIBUNI
verdetto d'alcun tribunale, giudicavano con piena autorità nelle
cause concernenti la libertà o la servitù. Nella plebe affluivano co-
stantemente i servi manomessi; e spesso i limiti tra clientela e
servitù non erano troppo ben definiti. Tale stato di cose mostra
come fosse indàspens abile per il plebeo avere magistrati suoi
X^roprì clie ne tutelassero la libertà. Ma anche i verdetti di questi
giudici non avevano in origine valore legale : il loro potere era
rivoluzionario. Il plebeo trascinato ingiustamente in servitù si ap-
pellava ad essi ; ed essi, ove riconoscessero il suo buon diritto,
potevano liberarlo, non perchè ne avessero facoltà dalle leggi dello
Stato, ma perchè erano sostenuti dalla forza morale e materiale
della plebe, che aveva gim^ato con le leggi sacrate di tutelarli.
Cosi dunque, profittando della istituzione delle tribù rustiche,
la plebe si era ordinata per la lotta contro i privilegi patrizi a
Stato entro lo Stato. Forte del nuovo ordinamento, essa si apprestò
quindi a conquistare l'eguaglianza civile e politica.
commette non di rado inesattezze cronologiche. Così quando egli aggiunge
che fin dall'origine presiedevano il tribunale centumvirale, mentre sappiamo
da Svetonio che il loro ufficio fu solo da Augusto ridotto alla presidenza di
questo tribunale, che prima era presieduto da questori {Aug. 36).
CAPO xrv.
Le leggende sui decemviri e il primo codice scritto.
La legislazione decemvirale segnava già per gli storici della
metà del secolo II av. C. uno dei punti più luminosi della storia
interna della antica Roma (1). E con gli storici si accordavano i
giuristi, tra cui un accurato commentario delle leggi dei decem^dri
aveva dato fin dalla metà di quel secolo Sesto Elio Peto (2). Quel
medesimo poi che i giuristi e gli storici dicevano e la tradizione
(1) Ciò risulta da Cass. Hemin. fr. 18 ap. Macrob. sat. I 13, 21, dal racconto
di DioDORO XII 23-25, che risale certo ad un annalista anteriore all'età sil-
lana, e soprattutto dal passo lacunoso di Polyb. VI 11, su cui v. E. Meyek
' Rh. Museum ' XXXVII (1882) p. 601 segg. : oxi dirò ■zf\c, EepEou biapciaetwc; 6Ì<;
■xr\\i 'EWdba (lacuna: deve supplirsi òuc o una cifra simile; non una cifra di
centinaia, perchè per avvenimenti del sec. IV o del III il punto di partenza
sarebbe stato la battaglia di Egospotami, la battaglia di Leuttra, il passaggio
di Alessandro in Asia o simili) koì TpidKovra éxeaiv liaTepov àirò toùtujv tujv
KaipOùv dei xiùv kotò \xipoc, irpobieuKpivoiLiévujv rjv (il soggetto è certo tò 'Puj-
.uaiujv TT0\iT6U|Lia) Kol KdWiaTOv Kol TéXeiov èv rote; 'AvviPiaKOìi; Kaipot;. Dunque
Polibio datava dalle dodici tavole la ordinata costituzione romana.
(2) Questi (console nel 198, censore nel 194) viene ricordato da Cicerone e
per la sua perizia come giurista e pei suoi commentari {de orai. I 56, 240),
che son certamente lo stesso scritto noto a Pomi*, dig. I 2, 2, 38 col nome di
tripertita, il quale conteneva una interpretazione delle dodici tavole.
42 CAPO XIV - LE LEGGENDE SUI DECEMVIRI, ECC.
popolare e i documenti. I fasti consolari infatti, sia nelle redazioni
che ci soii pervenute a mezzo degli annalisti sia in quella capito-
lina, registravano due collegi di decemviri, in carica circa la metà
del sec. V, dandone nomi che in buona parte per la stessa oscmità
delle famiglie che li portavano non possono dalla critica reputarsi
interpolati ; e la tradizione conservava ricordo per mezzo del carmi ;
poiDolare di Verginia, se non della legislazione, almeno della stra-
potenza decemvirale.
La concordia di questi dati mostra che in effetto nella metà del
sec. V uno o più collegi di decemvii^i diedero a Roma un codice
di leggi (1). Dire che i decemviri legislatori (X viri legibus scri-
bundis) sono stati inventati sulFesemxDlare dei giudici decem^dri
{X viri stlitìhus iudicandis) è quindi far violenza alle testimo-
nianze con una congettura senza fondamento ; poiché nessuno po-
trebbe mai spiegare come si siano fatti legislatori o tiranni di quei
modesti giudici che la plebe aveva istituito a propria guarentia
per le cause liberali. E chi giungesse ad asserire che i nomi dei
decemviri son, più o meno alterati, quelli dei primi giudici decem-
viri, come questi eran plebei e quelli per tre quarti patrizi dovrebbe
supporre nei fasti quelle copiose falsificazioni di cui nessuno sin
qui ha provato l'esistenza (I p. 11 seg.). Ma esclusa codesta con-
gettui^a, non per questo siamo in chiaro sulla storia e la natura
del decemvirato, sebbene i particolari non facciano difetto nella
tradizione a noi giunta.
Nel 462 (cosi ci ^àen riferito) iniziò quelle agitazioni che con-
ckissero alla compilazione del codice delle dodici tavole, il tribuno
della plebe C. Terentilio Arsa con la proposta di creare una com-
missione di cinque plebei incaricata di scriver leggi dirette a limi-
tare l'arbitrio dei consoli nell'esercizio del loro imperio (2). Ma dopo
otto anni di lotta, chiarita la imx^ossibilità di raggiungere in tutto
il fine cui mirava Terentilio, si convenne, lasciato cader ciò che
in quella proposta più feriva i patrizi, di creare un collegio di le-
gislatori che componessero un codice di leggi utili ed eque per
ogni classe sociale (3). E per fornire a quello gli elementi si no-
minarono frattanto tre commissari col mandato di studiare in Grrecia
(1) Ne ha dubitato per primo Pais 1 1 p. 558 segg. V. oltre a p. 62 n. 3.
(2) Liv. Ili 9, 5: Mi quinqueviri creentur legibus de imperio consulari scribendis
che si trattasse di plebei è detto III 37, 7.
(3) Liv. Ili 31, 7.
ROCxAZlONE TERENTILIA 43
le leggi di Soloiie e le altre legislazioni elleniche. Al loro ritorno,
sospesi con gli altri magistrati i tribuni della plebe, avendo abdi-
cato i consoli in carica, si nominò per scrivere le leggi e per gover-
nare in questo mezzo con pieni poteri lo Stato, un collegio di
decemviri tutti patrizi, del quale fecero parte, coi due consoli
dimissionari, Ap. Claudio e T. Genucio, i tre ambasciatori mandati
in Grecia, Sp. Postumio Albo, Ser. Sulpicio ed A. Manlio, e cinque
altri patrizi, P. Sestio, Sp. Vetmio, C. Giulio, P. Guriazio e T. Ro-
milio (1). Tale è il racconto liviano della preistoria del decemvirato;
della quale tace affatto la nostra fonte migliore, mentre v'è chi la
narra assai diversamente, riferendo come sin dal principio si mirò
ad eleggere una commissione non di cinque, ma di dieci e non di
soli plebei e non col solo scopo di limitare l'imperio consolare, ma
con quello di raccogliere e fissare tutto il diritto pubblico ed il
privato (2). Or l'ultima versione è certamente e più verisimile e
più consona agli altri fatti, ma par chiaro che essa è soltanto un'in-
duzione fondata sul contenuto delle tavole compilate dai decemviri:
induzione del resto assennata, per quanto ben x^oco riscliiari l'oscu-
rità di quei tempi. Altra induzione, fondata sul fatto che ai decem-
viri si diede imperio consolare e sul concetto che s'aveva x30sterior-
mente delle antiche lotte tra x)atrizi e plebei, è l'asserto della fonte
di Livio che si trattasse in origine di limitare rim]3erio consolare
per mezzo d'una commissione di legislatori plebei ; non atto da un
lato a spiegare la integrale collezione delle norme di diritto per
Oliera dei decemviri, assurdo dalFaltro in quanto non x)oteva pen-
sarsi ad una legislazione plebea in uno Stato x)atrizio, al quale nes-
suno si proi3oneva allora di mettere a capo supremi magistrati
esclusivamente plebei (3). Queste discrejDanze mostrano del resto che
nulla si sax)eva del contenuto della rogazione Terentilia; e forse
è da ritenere soltanto come probabile a tal x)rox)Osito, benché sicuro
non possa dirsi, che un Terentilio abbia capitanato il movimento di-
retto ad ottenere un codice scritto di leggi. La i^ersona evanescente
di quel tribuno, l'osciuità del suo nome che non è quello di nessuna
famiglia della i)osteriore nobiltà x)lebea, nella concordia sull'impor-
tanza dell'opera sua tra le fonti che son discordi poi nel delinearla.
(1) III 32-33.
(2) DioNYs. X 3: ov^fpàrpuv vóixovc, Onèp àTràvroiv tuùv te koivuùv koì tujv
ibiuuv.
(3) Forse anche l'errore deriva semplicemente dall'aver frainteso il titolo
che i decemviri hanno nei {a^ii: decemviri consiliari imperio legibus scribundis.
44 CAPO XIY - LE LEGGENDE SUI DECEMVIRI, ECC.
sembra mostrare che Terentilio non è un personaggio immaginario,
per quanto non sia agevole additare per qua! via possa essersi
trasmesso il suo ricordo ai posteri.
Assai meno fededegna è la notizia sull'ambasceria inviata in
Atene: che pare un mito etiologico diretto a spiegare, esagerandoli
di molto, poiché il sostrato di quel codice è costituito dal diritto
consuetudinario indigeno, gli elementi greci delle dodici tavole (1).
Né ha grande importanza l'essersi tramandati i nomi degli amba-
sciatori; è facile invero spiegare come quei nomi si possano essere
ricavati dalla lista stessa dei primi decemviri prendendone quelli
che seguivano immediatamente i due (veri o presunti) consoli di-
missionari. Di contro a questa tradizione sta, dovuta probabilmente
anch'essa al desiderio di risolvere il medesimo problema, occasio-
nata forse da una statua che sorgeva nel Comizio, l'altra che là
contraddice e la elide secondo cui i decemviri fm'ono aiutati nella
compilazione delle dodici tavole dal greco Ermodoro di Efeso,
l'amico perseguitato di Eraclito, che esulava in Italia (2). Ma l'uomo
che provocò l'amara e feroce invettiva del filosofo contro gli Efesi,
il solo insigne in una città, al dir dell'amico, odiatrice di chimique
fosse insigne (3), assai difficilmente trovò alla sua operosità in Roma
quel terreno propizio che non gii fu dato rinvenire in patria, sia
(1) BoEscH De XII tahidariim lege a Graecis petita (Gottingae 1893 diss.) : v.
anche più sotto p. 87. Che l'ambasceria fosse favolosa aveva già riconosciuto
G. B. Vico Principi di scienza nuova (P ed.) lib. II e. VII. L'argomento peraltro
che suole addursi contro di essa, tratto da Polyb. II 12, 7, secondo cui prima
ambasceria romana in Grecia fu quella che vi diede conto della prima guerra
con gì' miri, non ha molto valore ; perchè già per lo innanzi i Romani ne
avevano mandate in Grecia altre, una almeno delle quali, per proteggere gli
Acarnani dagli Etoli, non può in alcun modo revocarsi in dubbio (v. al e. XXI).
— L'ambasceria è ricordata da Liv. TU 31 segg. e Dionys. X 52, 54. La loro
concordia insieme con vari indizi tratti dai loro racconti fa ritenere che doveva
già esser narrata da qualche annalista dell'età sillana, come Valerio Anziate;
più oltre non ci è dato con sicurezza risalire.
(2) Plin.«. h; XXXIV 21 : fuit (statua) et Hermodori Ephesii in comitio
legum qiias decemviri scribebant interpretis. Pompon, dig. I 2, 2, 4. Strab. XIV
642: boKeì b' outo^ ó (ìvr)p vóiuouq Tivàc; 'Pu)|uaioi(; auyTPÓH'Oii. Dato che dav-
vero nel Comizio si trovasse una statua con l'epigrafe ' Epiaóbuipoq non vi sa-
rebbe modo di determinare se era veramente dedicata all'amico di Eraclito
e se a Roma era stata innalzata per la prima volta o trasportatavi da qualche
città greca conquistata, come Locri o Reggio.
(3) Heracl. fr. 121 DiELS ap. Strah. XIV p. 642.
I SECONDI DECEMVIRI 45
perchè un mezzo secolo airincirca corse tra il suo allontanarsi eia
Efeso e il suo preteso riapparire tra i Quiriti (1), sia perchè le for-
mule barbariche e talora crudeli delle dodici tavole non sembrano
davvero dovute a un raffinato pensatore ionico.
x^i primi decemviri, retti, moderati e coscienziosi che composero
dieci tavole di buone leggi, ne succedettero (cosi la tradizione) altri
molto dissimili. Il solo personaggio autorevole del nuovo collegio,
Appio Claudio, che già aveva fatto i^arte dell'antico, gettò ora la
maschera e diede libero sfogo alla sua libidine di potere, secondan-
dolo, xjer ambizione o per debolezza, i colleghi, per quanto fossero
in parte uomini della i)lebe. Sebbene allo spirare di questo secondo
anno avessero apx^restato le due tavole su]3X3lenientari, i decemviri
non deposero la loro autorità. Ormai lo Stato romano era in potere
d'usurx3atori ; ne, soppresso il tribunato della x)lebe e destituiti d'i-
niziativa secondo le leggi e gli ordini vigenti e il senato e il po-
polo, v'era alcuna via legale per contrastare all'usurpazione. Ma
frattanto i Sabini e gii Equi avevano invaso il territorio romano.
E i decemviri si videro costretti a convocare il senato che, parte
per fiacchezza d'animo, parte per carità di. ]3atria, non volendo dare
il segnale delle lotte civili mentre i nemici devastavano il paese,
permise loro di far leve. E cosi, inviato un esercito sotto tre de-
cemviri contro i Sabini, un altro sotto cinque di essi contro gli
Equi, rimanevano in Roma Ap. Claudio e Sp. Oppio. Fra le truppe
levate contro i Sabini un prode soldato plebeo che aveva -ricevuto
ogni sorta di distinzioni militari, L. Siccio Dentato, osava parlare
liberamente contro la tirannide. Onde i decemviri, deliberata la sua
morte, lo fecero uccidere a tradimento. Dopo di che l'odio contro
i tiranni crebbe, ma in un silenzio foriero di tempesta. E fu causa
innocente che la tem^DCsta si scatenasse una fanciulla, Verginia.
Acceso per lei di colpevole amore il decemviro Appio aveva in-
dotto un suo cliente a x^erseguitarla come schiava in giudizio. Il
fidanzato, l'antico tribuno Icilio, e il padi-e, accorso dall'esercito
nelle cui file militava, si opposero invano all'iniqua trama ; che al
suo cliente aggiudicò il decemviro come schiava la fanciulla. Al-
lora Verginio vedendo un solo scampo all'onore della figlia, la
uccise di coltello. Il sangue della vergine innocente fiaccò la tra-
cotanza dei tiranni, e incuorò al popolo la ribellione. L'esercito che
(1) Di fatto Eraclito spetta al 500 circa, come mostra non tanto la crono-
lof?ia tradizionale assegnando la sua <ÌK|uri all'ol. 69 (504-500), quanto i frammenti
in cui non hanno lasciato traccia filosofi posteriori a Pitagora e a Senofane.
46 CAPO XIV - LE LEGGENDE SUI DECEMVIRI, ECC.
combatteva contro gii Equi, sollevato da Verginio al suo ritorno
al campo, con Taltro die ne segui l'esempio occupò militarmente
l'Aventino. Ma i decemviri, pur mancando d'armi e di coraggio,
non si risolvevano ad abdicare. Allora i due eserciti, seguiti da
gran moltitudine di popolo, si ritrassero sul monte Sacro. E ri-
masti nella città deserta, senza sudditi, i tiranni piegarono gli
animi all'inevitabile. Con la loro rinuncia e col ristabilimento delle
magistrature precedenti, compresi i tribuni della plebe, si chiuse la
rivoluzione. E principiarono le vendette plebee : ma il caso e la
moderazione dei capi liberò la plebe dal pericolo di macchiare col
sangue la vittoria ; poiché, arrestati i due principali colpevoli, Appio
Claudio ed 02)pio, questi mori in carcere, quegli prevenne, ucciden-
dosi, il giudizio ; e gii altri decemviri, senza cimentarsi al pericolo
d'accuse e di condanne, presero la via dell'esilio (1).
La bella semplicità apparente di questo racconto si rivela come
una complessità d'elementi mal coordinati all'occhio del critico. La
convocazione del senato per far leva di truppe, se era necessaria
al governo senatorio del HI o del II sec. av. C, non risponde alle
condizioni anteriori in cui molto più amijio erai in diritto e in fatto
l'ambito dei poteri del magistrato; e però si tratta, evidentemente
d'una invenzione annalistica. Quanto a Siccio, si narrava che pochi
anni prima il console Romilio lo aveva esposto a tradimento alla
morte senza riuscire ad altro che a coprirsi d'infamia (2) ; e sembra
chiaro, poiché di tanti particolari non poteva conservarsi memoria
pel sec. V, che si tratti di due redazioni diverse d'una stessa leg-
genda accordate artificialmente sostituendo, com'era inevitabile,
nella prima lo scampo alla morte del guerriero insidiato. Assai
probabilmente i carmi popolari senza cronologia (come senza data
era l'analoga leggenda ebraica di Sansone) celebravano in Siccio
l'eroe plebeo che, dopo essere uscito incolume da tante battaglie
combattute da prode col nemico, periva vittima del tradimento
patrizio; e poi la leggenda maggiore e più famosa della tirannide
decemvirale attrasse e incorporò a sé la leggenda di Siccio, non
senza che della sua primitiva indipendenza rimanesse qualche
traccia.
(1) Nel testo è seguito il racconto di Liv. Ili 33-59.
(2) DioNYS. X 44-49. Del tradimento dei decemviri discorrono Liv. ili ^3.
DioNYs. XI 2-5 segg. Zon. VII 18. — Intorno a Siccio v. ancora Val. Max. Ili
2, 24. Plin. n. /(. VII 101. XVI 14. XXII 9. Gell. n. A. II 11. Fest. p. 190
s. V. ohsidionalis.
LEGGENDA DI VERGINIA 47
Ma la limpida vena della poesia popolare si effonde palese-
mente nella leggenda di Verginia. Qualche critico ha creduto di
trovarne la forma genuina in un cenno conciso d'uno scrittore greco
che tace i nomi della vergine e del decemviro (1) : come se i nomi
non fossero elemento indisi)ensabile non solo al carme epico, ma
anche alla leggenda popolare ; o come se una leggenda cosi ingenua
e pur cosi espressiva dell'antica anima romana potesse essere in-
venzione di tardi e prosaici annalisti. V'hanno si traccio evidenti
nei racconti pervenutici dell'attività degli annalisti; ma questi si
sono aj)pagati di ricostruire variamente ne' suoi particolari, per
mezzo di ciò che sapevano sullo svolgersi delle cause liberali, il
processo di Verginia. Cadrebbe in errore chi di queste, che son
mere fantasie giuridiche, volesse valersi, non dico per delineare sul
serio, come pm- s'è tentato, il vero svolgimento del processo di Ver-
ginia, ma anche solo per ricostituù'e l'antica procedura delle cause
liberali (2). Si disconosce cosi infatti la irrazionalità della leggenda ;
irrazionalità insanabile, poiché alla efficacia della narrazione poe-
tica era indispensabile che il decemviro aggiudicasse senza por
tempo in mezzo la vergine al suo cliente : il che egli non poteva
fare né definitivamente, perché al magistrato spettava la sola pro-
cedm'a preliminare, mentre l'esame della causa era affidato ad un
giudice da lui designato o, nel caso i3articolare, a dieci giudici
plebei, né provvisoriamente, poiché al padre che asseriva la libertà
della figlia doveva questa venire assegnata, in forza appunto d'una
legge delle dodici tavole, nell'attesa del giudizio (3).
Siffatta irrazionalità vieta per fermo di tradmTe in storia la leg-
genda, anche liberata dalle impurità dei rimaneggiamenti ; ma non
vieta di poterne rintracciare la genesi. La via da seguire in tal
ricerca non é quella di disconoscere ciò che v'ha di genuinamente
popolare nella leggenda, e di supporla creata tardi dalla riflessione
per esemplificare le norme di diritto che governano le magistrature
straordinarie o l'opportunità della intercessione tribunizia (4). Con-
fi) DioD. XII 24, 2. Questa opinione erronea, tenuta p. es. dal Niese de an-
nalib. observat. p. VII, è oppuornata assai bene dal Pais I 1 p. 551 n. 2 e dal
Lambert ' Mei. Appleton ' p. 544 segg.
(2) V. p. es. PuNTSCHART Der Prozess um Verginia (1860). Assai più cauto è
Mascuke Der Freiheitsprozess im klassischen Altertum, insbesondere der Prozess
um Verginia (Berlin 1888).
(3) Questo sembra assicurato, nonostante le opposizioni del Maschke p. 30 seg.
(4) La prima ipotesi è difesa dal Mommsen StaatsrecM li ^ 717, la seconda
48 CAPO XIV - l.K I, fc:(i(iKXDK SI"! DKCEilVlRI
viene piuttosto prendere in esame le narrazioni parallele. S"è voluto
da alcuni trovare nella leggenda di Verginia una reduplicazione
di quella della vergine ardeate che, desiderata come sposa da un
nobile e da un plebeo, fu causa involontaria d'mia feroce guerra
civile che provocò l'intervento romano (1). Ma il motivo predomi-
nante della leggenda di Verginia è alieno affatto da quello della
leggenda ardeate : non v'è rivestita di poesia una rivalità d'inna-
morati, ma il sacrifizio d'una donna che si salva con la morte dal
disonore. Onde assai più che non la vergine ardeate, a Verginia
è affine Lucrezia, la matrona stuprata, che per non sopravvivere
al disonore si uccide. Tanto più che anche la morte di Lucrezia
al pari di quella di Verginia segna il principio d'una rivoluzione ;
sicché l'una e l'altra leggenda paiono contener due varianti d'uno
stesso motivo mitico : la caduta della tù-annide per effetto dell'at-
tentato all'onore di una donna. Del carattere particolare della va-
riante su Appio e Verginia si può forse trovare una spiegazione
nell'appartenersi ad altri decemviri, i giudici plebei, la giui'isdizione
delle cause liberali ; onde nulla di più natm-ale che l'oggetto del-
l'ultimo sopruso dei decemviri legislatori si cercasse nell'ambito
delle attribuzioni dei loro omonimi. Ma anche prescindendo dai
particolari, vedemmo come sia alterato nella leggenda il ricordo
della decadenza della monarchia romana (e. XI). Benché assai
meno ci sia dato di vagliare le notizie sulla fine del decemvii'ato,
quella analogia ci deve render cauti nel valutare il sostrato storico
della leggenda di Verginia. Si aggiunga che la secessione della
l)lebe sui monti Aventino e Sacro nel 449, ricorda troppo davvi-
cino quella del 494 (v. sopra ]). 5) per non sembrare una va-
riante d'uno stesso racconto. E i^ar soprattutto inammissibile che,
se rivoluzione contro i decemviii vi fu, l'abbia iniziata la plebe, che
ora per la prima volta aveva visto tre o forse piuttosto cinque
de' suoi elevati alla suprema magistratm-a dello Stato. Inoltre, se
realmente al decemvirato si deve, come non è da dubitare, il primo
codice scritto romano, è fuor d'ogni verisimiglianza che i legisla-
tori stessi, e soprattutto il loro capo Ai^pio Claudio, siano stati
deposti per la loro indegna tirannide, mentre il codice loro non
solo rimaneva in vigore, ma serviva di fondamento alla ulteriore
evoluzione del diritto. E senza dubbio la mao<>iore singolarità della
dal SoLTAu Livius Geschichtswerk p. 111. Sono ipotesi che ricordano i criteri
preferiti dagli Stoici nel commentare i miti narrati da Omero.
(1) Liv. IV 9. Questa è l'ipotesi del Pais I 1, 552 segg.
NATURA DEL DECEMVIRATO 49
pseudostoria romana più antica questa che, mentre sempre e dap-
pertutto i veri o mitici legislatori, Licm-go, Solone, Zaleuco, Mosè,
son dalla tradizione circonfusi da un'am'eola di luce che li rende
santi e venerabili agli occhi dei posteri, il capo dei decemviri,
l'autore principale del veneratissimo codice romano delle dodici ta-
vole, sia rappresentato coi colori più foschi. Questo forse si spiega
in parte in quanto la legislazione decemvirale è, come tutte le le-
gislazioni arcaiche, dm^a e crudele, non perchè fossero crudeli gli
intendimenti dei decemviri, ma perchè cosi portava il sentimento
umanitario poco progredito di quella età : onde le loro leggi solo
per mezzo d'interpretazioni artificiose potevano accordarsi qualche
secolo dopo con la civilà progredita. E si potrebbe citare l'analogia
di Draconte che. sebbene abbia cercato di mitigare l'asprezza del
diritto penale primitivo, s'è acquistato in una età più umana la
nomea d'aver scritto le sue leggi col sangue. Ma forse è dato di
spiegare anche meglio il sorger di quelle leggende studiando diret-
tamente il problema della natura del decemwato.
Di contro alla x^repotenza x)atrizia, ordinatasi nel sec. V la plebe
a Stato entro lo Stato, due furono le concessioni che prima cercò
d'ottenere: leggi eguali x^er tutti, e una jDarte jDer tutti i cittadini
nel governo della rex)ubblica. A soddisfare l'una e l'altra richiesta
s'accinsero i decemviri. All'ammissione dei plebei alla magistratm^a
suprema, che principiò ad avere effetto nel secondo anno del de-
cem\àrato (1), dovevano trovare i patrizi un compenso nell'abolizione
dei tribmii e delle assemblee speciali della plebe, nello spegnersi
insomma di quello Stato plebeo che s'era formato nel seno della
rex3ubblica. Così il x^otere esecutivo, non x^iù menomato dalla inter-
cessione tribunizia, si raccoglieva di nuovo nel collegio dei magi-
strati sux)remi ; mentre la raxjpresentanza della sovranità popolare
tornava piena ed indiscussa all'assemblea patrizio-x3lebea delle cen-
turie, annullato almeno di fatto il concilio plebeo delle tribù ed
esautorata sempre più l'assemblea delle curie.
(1) Secondo Dionys. X 58 i decemviri plebei furono Q. Petelio, Cesene Duillio,
Sp. Oppio. Ma sembra dai cognomi che fossero plebei anche T. Antonio e
M'. Rabuleio. Per Liv. IV 3 i decemviri erano tutti patrizi. I cinque decem-
viri plebei spiegano forse il particolare immaginario secondo cui la primi-
tiva rogazione Terentilia mirava alla creazione di cinque legislatori plebei. E
può darsi che, tenendo presenti i nomi dei secondi decemviri, si sia immagi-
nato quell'emendamento alla proposta primitiva per cui ai cinque plebei si
aggiunsero cinque patrizi.
G. De San'Ctis, Storia dei Romani. TI. 4
50 CAPO XIV - LE LEGGENDE SUI DECEMVIRI, ECC.
Questi, a giudicare dai soli documenti die abbiamo, i frammenti
delle dodici tavole ed i fasti, erano gl'intendimenti di Appio
Claudio (1). Riuscendo, il geniale decemviro rimoveva più d'un se-
colo prima di quel che poi non succedesse quel fomite perpetuo
di discordie clie era lo Stato entro lo Stato costituito dalla plebe,
e riduceva a semplicità la costituzione romana, liberandola da
quella magistratm-a che aveva un ufficio nello Stato solo quando
procedeva in modo rivoluzionario contro le autorità, e permettendo
cosi al Groverno di raccogliere attorno a se tutte le energie del po-
polo per la salute della patria, ora più che mai minacciata dagli
Equi e dai Volsci. Ma il tentativo d'Appio Claudio era prematuro.
I i)atrizì se alla richiesta di leggi eguali per tutti avevano inteso
accondiscendere, anche perchè, divenendo più complesse le relazioni
sociali e la "vdta economica, norme precise, fissate j)er mezzo della
scrittura, erano ormai per tutti indispensabili, non consentivano
punto a dividere coi plebei la suprema autorità dello Stato che
avevano posseduto integra fino allora. E per non aver voluto pie-
garsi a far concessioni, esigendone, quando ancora si poteva, un
adeguato compenso, dovettero poi lasciarsele strappare a forza ad
una ad una, non valendo più ad ottenerne in cambio l'abolizione
dei magistrati e delle assemblee della plebe. Questa loro pertinacia
spiega perchè cadde Appio e fu dispersa al vento l'opera sua non
di legislatore, ma d'uomo politico. Sarebbe superfluo far conget-
ture sui particolari e sulla causa occasionale della caduta d'Appio
e dei colleghi. Che fosse violenta crederemo volentieri; poiché non
è verisimile che pacificamente la plebe si lasciasse privare della
partecipazione ottenuta al governo dello Stato, né che l'ardito no-
vatore a capo del moramente lasciasse senza resistenza annientare
l'opera sua: tanto più che l'esito sfortmiato di tentativi come quello
d'Appio porta con sé quasi necessariamente la rovina del loro
autore.
Come dalla decadenza della monarchia, cosi dalla caduta del
decemvirato trassero sul momento vantaggio i soli patrizi. E del-
l'una e dell'altra spetta quindi ai patrizi la responsabilità. Come
succedute x>er riscossa di popolo si son riguardate ambedue quando
s'è smarrito il ricordo delle condizioni reali del VI e del V secolo,
giudicando dei fatti di quella età alla stregua delle posteriori lotte
coronate di vittoria della plebe contro il patriziato. Ma i fasti dei
(1) La verità fu già intuita dal Mommsen Boni. Forschungen T p. 295 segg.
ORAZIO E VALERIO 51
quattro anni seguenti che registrano solo consoli patrizi fanno su
quel punto più fedele testimonianza. E un indizio del vero dà per-
fino la leggenda : poicliè la gente Verginia è patrizia né, fuori
del padre di Verginia e del leggendario tribuno Verginio accusa-
tore di Cesone Quinzio, abbiamo menzione per quella età di Ver-'
ginì plebei (1). Onde solo alterandosi in proceder di tempo i ricordi,
la fanciulla Verginia, patrizia al ])ari della sua mitica parente, la
matrona Lucrezia, si trasformò nella promessa sposa del plebeo
Icilio. Al tempo stesso Appio, che pure è, secondo la tradizione, il
primo il quale presiedendo i comizi abbia ardito proclamare eletti
al supremo magistrato uomini della plebe, si mutò nei ricordi po-
polari in un tiranno odiatore, dei plebei. Autorità di tiranno mentre
modificava con mano si ardita gli ordini vigenti egli ebbe certa-
mente, come il suo contemporaneo Pericle. Ma se nell' esercitare
quell'autorità o nel difenderla egli abbia trasgredito le leggi da
lui stesso compilate e si sia arrogato potere incompatibile con le
libertà repubblicane, non siamo in grado di determinare ; né molto
importa del resto, perché il tentativo d'Appio, se anche promosso
con intelligenza, onestà, energia, doveva fallire per l'odio di casta
che rendeva i patrizi tanto improvvidi dell'avvenire quanto bal-
danzosi della loro superiorità presente.
La tradizione attribuisce ai due consoli che entrarono in carica
dopo spento il decemvirato, L. Valerio e M. Orazio, d'aver fatto
opera di pacificazione tra patrizi e plebei. E un'opera simile era
certo assai opportuna; perché, ristabilito il governo di casta, era
per la plebe interesse vitale ottenere a qualsiasi costo guarentie
che Tassicm^assero dall'oppressione. E i patrizi, riassunto l'esclusivo
possesso del supremo magistrato, dovettero concedere alla plebe
di darsi nuovamente tribuni ed assemblee e di ricostituire quello
Stato nello Stato che i decemviri avevano saputo a vantaggio
commie abolire. Non può determinarsi se davvero ciò ottenessero
i plebei per mezzo d'una secessione né se questa secessione sia
l'esemplare su cui s'è foggiata quella del 494 o viceversa. Certo è
che, mentre non s'intende qual motivo avesse la plebe d'insorgere
contro i decemviri, si spiegherebbe assai bene una secessione plebea
a danno della restaurazione patrizia, né dovrebbe stupire l'essersi
alterati per questo rispetto nella leggenda i fatti e la loro cronologia.
L'attività mediatrice dei consoli si esplicò, secondo la tradizione
(1) Liv. Ili 11.13.
52 CAPO XR- - I.E LEdOENDE SUI DECEMVIRI, ECC.
in tre proposte ajjprovate dall' assemblea popolare. Una stabiliva
che non s'avesse più a creare nessun magistrato senza appello :
chi lo creasse era posto fuori della legge (1); un'altra consacrava
agli dèi le persone ed i beni di chi ledesse i magistrati plebei, tri-
buni, edili e giudici decemviri (2); una terza dava forza di legge
ai plebisciti (3). Ma tutte e tre queste rogazioni son per molte ra-
gioni da ritenere apocrife. La prima, della quale tanto meno v'era
bisogno in quanto le dodici tavole stabilivano chiaramente che delle
cause capitan non X30teva sentenziarsi se non nei maggiori comizi
del popolo, pare un'anticipazione della legge Valeria del 300 (4).
E per di più il divieto di crear magistrati senza a^jpello avrebbe
reso vano il dibattito, cosi vivace nella tradizione e probabilmente
anche nella vita reale, se il dittatore nominato con pienezza di po-
teri (opfimo iure) avesse facoltà di condannare a morte senza ap-
pello entro il ijomerio (5). E infine è verissimo che la tradizione
riguarda i decemviri come non sottoposti all'appello ; ma è incerto
quanta fede essa meriti : certo è invece che né l'imperio consolare,
onde essi erano forniti secondo i fasti, lo escludeva, né con l'ap-
pello aveva la più lontana relazione il processo di Verginia can-
tato dall'epopea popolare. Apocrifa del pari é la seconda rogazione,
il cui testo non può esser quello di una legge dello Stato, ma di
una delle leggi sacrate cui aveva dato vigore la iDlebe col proprio
gim-amento (sopra p. 23). Anche meno delle altre ha carattere di
antichità la legge sui plebisciti, poiché essa è un'anticipazione
delle leggi Publilia e Ortensia del 339 e del 287 (su cui v. e. XVII).
Se fin dalla metà del sec. V i plebisciti avevano valore per tutto
il poiDolo, la lotta tra jìatrizì e plebei sarebbe sin d'allora finita
con una disiDosizione che sanciva la resa a discrezione del patri-
ziato.
Non meno errata, ma forse d'origine più antica é la versione
che sul patto tra i patrizi e la plebe nel 449 ci dà la migliore delle
nostre fonti (6). Stando al suo racconto fu allora convenuto che
(1) Liv. Ili 55, 5: ne quis ullum magistratum sine provocatione crearet : qui
ereasset eiim ius fasque esset occidi neve ea caedes capitalis noxa haberetur.
(2) V. sopra p. 28 n. 3.
(3) Liv. Ili 55, 3 : legem centuriatis comitiis tulere ut quod tributim plebes
iussisset populum teneret.
(4) V. I p. 411 n. 3 e più oltre e. XVII.
(5) Cfr. sopra p. 33 n. 3 e I p. 420 n. 2.
(6) DioD. XII 25, 2.
ORAZIO E VALERIO 53
s'eleggessero annualmente dieci tribuni della plebe quali custodi
della libertà cittadina, e che dei due consoli uno dovesse essere
plebeo e potessero esser tali ambedue. Quando i tribuni della plebe
fossero portati a dieci non sappiamo e probabilmente non sape-
vano gii antichi (v. sopra pag. 34): dai fasti e dalla tradizione
però sappiamo che solo nel 366 i plebei furono ammessi al conso-
lato (v. e. X^TI). Donde par chiaro che si sien riferite arbitraria-
mente le norme che regolavano nel IH e nel II secolo la compo-
sizione dei due più ragguardevoli collegi di magistrati a quei jDatti
costituzionali che si fermarono dopo la caduta del decemvirato. E
questa è un'anticipazione che forse è tanto errata quanto l'attribu-
zione delle trentacinque tribù al buon re Servio Tullio (sojDra p. 19) :
e l'uno e l'altro errore può spiegarsi soltanto chi tenga presente
lo scarso valore della tradizione costituzionale romana. Ma non
senza ragione la tradizione (emendata poi in base ai fasti e fors'anche
ad altri ricordi dagli annalisti più recenti) ascriveva tanta impor-
tanza alla data del 449; poiché da quell'anno fino al tempo di Ti-
berio Gracco, a guarentia della plebe, rimasero intatte le pre-
rogative dei magistrati plebei , i tribuni , e cosi in quell' anno fu
posta mia j)ietra angolare per l'ulteriore sviluppo della costitu-
zione romana.
Per questo anche altre leggi fondamentali intorno ai tribuni
della plebe si riferivano a quell'anno od all'anno seguente. Come
un articolo del concordato del 449 si dava da alcuni il jjrecetto
che i tribuni dovevano farsi eleggere dalla plebe annualmente dieci
successori sotto ]3ena d'essere arsi vivi e il principio che il divieto
d'un tribuno doveva aver vigore anche quando gli altri vi si op-
ponessero (1). Ma queste, sia che fossero sancite con articoli di
legge, sia che traessero forza soltanto dall'uso, sono, com'è chiaro,
norme che la j^lebe diede a sé stessa ed a' suoi rappresentanti,
non patti giurati tra i patrizi e i plebei. Onde più s'accosta al
vpro una tradizione che discorre d'un plebiscito Duillio del 449 che
(1) DioD. XII 25, 3 : èv òè Taic, ó|uoXoYÌaiq irpoo^KeiTO toic; ópEaai òriiuópxoiq
TÒv èviauTÒv àvriKaGiardivai -rràXiv brmdpxou^ toùc; taouq f\ toOto |uri irpótEavraq
ZuJvTaq KaxaKauGfjvai (questa sanzione si collega for.se con la leggenda dei
fwvem tribuni combufsti, su cui v. sopra p. 10) . èàv òè oi òriiuapxoi \x\\ au|Liq)UJvù)ai
TTpòs; (ìXXriXouq, KÙpioi ftvai tòv óvà luéoov Kci'iuevov ini*) KuuXueoGai. Qui il testo
è corrotto o fors'anche Diodoro non ha ben saputo lui stesso quello che diceva
traducendo la sua fonte. Ma comunque voglia correggersi, deve trattarsi del
noto principio in re pari potiorem cauaam esse prohihentis.
54 CAPO XTV - LE LEGGENDE SUI DECEMVIRI
condannava ad essere flagellato e decapitato chi s'opponesse alla
elezione dei tribuni della plebe (1) e d'un plebiscito Trebonio del
448 die obbligava clii presiedesse all'elezione dei tribuni della plebe
a non j)orre termine ai comizi elettorali se non dopo nominati dieci
tribuni (2). Nei particolari, del resto, merita anche questa tradizione
poca fede; e ci dà motivo a sospettarne la contraddizione con
l'altra per ciò che riguarda la penalità contro i trasgressori in
materia tanto affine, come pure la cooptazione a tribuni della
plebe di quegli oscim personaggi A. Aternio e Sp. Tarpeio che
compaiono nei fasti in qualità di consoli al 454 (v. I p. 11), la quale
avrebbe dato occasione al plebiscito Trebonio.
Con Aternio e con Tarpeio alcune fonti collegano l'altra vit-
toria che la j)lebe ottenne quando, restringendo l'autorità coercitiva
dei magistrati, s'introdusse un limite massimo per le multe che
essi potevano imporre di propria autorità. Senonchè sembra che
tal restrizione non avvenisse con la legge Aternia Tarpeia. la quale
si riferiva probabilmente alla somma da versare prima che s'ini-
ziassero alcune cause legate a una determinata procedura ilegis
actio sacramento) (3). ma con quella Menenia Sestia del 452 che
(1) Liv. Ili 55, 14: M. DuilUus deinde tribunus plebis plehem rogavit pìeho^que
scivit qui plebem sine tribunis relìquisset quique magistratnm sine provocatione
creasset tergo ac ccqnte pimiretur.
(2) Liv. Ili 65, 3: L. Trebonius tribunus plebis rogationem tulit ut qui
pìebem Romanaui tribunos plebis rogaret, is usque eo rogarci, dum decem tribunos
plebi faceret.
(3) Cic. de re p. II 35, 60 : gratamque Ulani legem quarto circiier et quinquage-
simo anno post primos consules de multae sacramento (così nel ms.) Sp. Tarpeius
et A. Aternius consules comitiis centuriatis tuìere. Probabilmente è in errore
tanto DioNYs. X 50 secondo cui quella legge avrebbe esteso a tutti i magi-
strati un diritto proprio fino allora dei soli consoli e avrebbe stabilito la
multa massima di due buoi e trenta pecore, quanto Fest. p. 287 s. v. peculatus
e Gellio secondo cui la legge Menenia avrebbe ragguagliato in metallo il
valore della pecore e del bue. Infatti par chiaro che ogni magistrato nel-
l'ambito delle sue attribuzioni deve aver avuto fino ab origine facoltà di coer-
cizione; è errato il numero di buoi e di pecore dato da Dionisio per la mas-
sima multa; e infine è impossibile che ragguagliasse in metallo il valore del
bestiame una legge anteriore a quella che fissò in bestiame il massimo delle
multe imponibili. Questi errori si devono in parte forse ad una interpreta-
zione sbagliata delle frasi arcaiche della legge, in parte certo al fatto che le
multe delle dodici tavole essendo sempre in metallo e non in bestiame, si
volle attribuire ad una legge ad esse anteriore il ragguaglio metallico del
valore delle pecore e dei buoi.
LEO GÈ SUL CONNUBIO 55
fissò il massimo della m.ulta {multa suprema o ìnaxima) a due
pecore e trenta buoi (1), ossia, secondo la riduzione in specie metal-
liche sancita non molto dopo dalla legge Giulia Papùia del 430 (2).
a 3020 libbre di rame.
Le congettm-e che precedono sugli intendimenti dei decemviii
e sul significato che ebbe la restaurazione del consolato paiono
poco conciliabili con quella legge delle ultime due tavole che con-
teneva il divieto di connubio tra patrizi e plebei (3). Certamente
siffatto divieto non era una innovazione: da che il patriziato s'è
costituito in casta chiusa deve aver rifiutato d'accogliere nel suo
seno i nati d'un patrizio e d'una x^lebea. Ma questa regola interna
di casta, che l'uso come aveva introdotto cosi poteva far dimen-
ticare, acquistava assai maggior gravità divenendo legge fonda-
mentale dello Stato : tanto più che, formulata cosi rigidamente, po-
teva e forse anche doveva nella mente dei suoi autori essere intesa
nel senso che non solo i figli nati dall'unione consensuale tra un
patrizio ed una plebea erano plebei, ma per di più erano liberi
dalla patria potestà e non potevano pretendere alla successione in-
testata. Or ciò era forse in parte una novità, perchè è probabile
che l'equità di giudici coscienziosi in mancanza di norme positive
fissate dalla legge attenuasse, almeno da che i plebei avevano fatto
conoscere d'esser forti, le conseguenze della seiDarazione tra le due
caste.
Né questa legge era isolata: perchè un buon conoscitore delle
dodici tavole, che in genere le ammira come frutto dell'antica sa-
pienza romana, dice che le due ultime erano tavole di leggi con-
trarie all'equità (4). E del resto solo se si tien presente ciò s'intende
il netto distacco che la tradizione fa tra le dieci tavole promulgate
dai primi decemviri e le altre due: perchè indipendentemente dal
contenuto stesso delle tavole nessun ricordo poteva conservarsi
della parte che vi avevano avuto i due collegi dei decemviri. Il di-
fetto d'equità del resto delle due ultime tavole non può riferirsi che
(1) Fest. p. 237 s. V. peciilatus. Cfr. p. 202 s. v. ovihus. epH. p. 144 s. v. ma-
ximam. A. Gell. n. A. XI 1.
(2) Cic. de re p. II 35, 60. Liv. IV 30, 3.
(3) Cic. de re p. II 37, 63 (i secondi decemviri) : quae disiunctis populis tribui
solent conubia, Jiaec ilU ut ne plebei rum patribus essent inhtimanissima lege san-
xerunt. Cfr. I p. 223 n. 3.
(4) Cic. de re p. 1. cit. : duahtis tabulis iniquaruin legum additis.
56 CAPO XIV - LE LEGGENDE SUI DECEMVIRI, ECC.
alle relazioni tra patriziato e plebe, die in quelle dovevano essere
regolate con rigido spirito di casta. Ora non è presumibile che il
decemvii'ato, il quale era pervenuto a dare ai plebei una parte equa
nel governo impedendo ad essi nel tempo stesso di costituirsi in
Stato nello Stato, si ponesse per tal modo in contraddizione coi
propri tini. Ed è persino assurdo clie leggi eque per la plebe com-
ponessero i decemviri patrizi e leggi non eque i decemviri pa-
trizio-plebei. Risolve questa difficoltà la fonte clie ci lia conservato
la tradizione più antica, attribuendo ai consoli Valerio ed Orazio
le due ultime tavole (1). E mentre è da prescindere natm-almente
dai nomi, abbiamo ragione di tenere che la reazione patrizia, spento
il decemvirato e restituiti i consoli, pur concedendo alla plebe quelle
guarentie senza cui essa non si sarebbe acconciata al nuovo or-
dine di cose, abbia compiuto ispirandosi ad un gretto e rigido sen-
timento di casta l'opera legislativa preparata con intendimenti più
larghi e generosi dai decem\ari.
Ma il trionfo della reazione, pur limitato dalle gravi conces-
sioni fatte ai plebei, non potè essere che di breve durata. Dopo
•àver "conquistato coi decemviri plebei la suprema magistratura,
non era più loossibile che la jjlebe ne lasciasse T esclusivo pos-
sesso ai patrizi ; né dopo aver ottenuto un codice scritto che ri-
conosceva in principio l'eguaglianza di tutti davanti alla legge,
era possibile che tollerasse mostruosità come il divieto di connubio.
Già dopo pochi anni la plebe, forte del suo rinnovato ordinamento
e guidata alla riscossa da' suoi tribuni, aveva ottenuto due notevoli
vittorie: l'una positiva, il riconoscimento del diritto di connubio
tra patrizi e plebei; l'altra negativa, ma feconda di risultati assai
gravi : la sospensione delle elezioni consolari. Anche per tal rispetto
la tradizione è manchevolissima. Nel 445 essa fa cominciare l'agi-
tazione plebea i^el connubio e quella per l'ammissione al consolato,
la prima diretta dal tribuno della plebe C. Canuleio, la seconda
dagli altri nove tribuni (2) ; nello stesso anno vien raggiunto l'ef-
(1) DioD. XII .26, 1 : Tri; voinoGeaiaq òià tì\v axàaiv àauvxeXéaxou Y€vo|aévr|q,
ol OiraTOi 0uveTé\eaov aÙTnv tOùv yòp KaXouiuévujv buObeKa itivdKiuv oi )uèv béKO
ouveT€\éaer|(jav, toù(; b' ùiroXeiiroiLiévoui; bùo àvéypaiiJav oi uttotoi. Cfr. Karlowa
Die formen der rom. Ehe p. 62 segg.
(2) Liv. IV 1. Che si trattasse degli altri nove tribuni non è detto esplicita-
mente, ma questo pare fosse sottinteso dalla tradizione primitiva. Più tardi
non volendo privare Canuleio del merito d'aver preso parte anche a questa
agitazione si trovò un C. Furnio che non avrebbe appoggiato la proposta
ROGAZIONF. CANULEIA. IL TRIBUNATO MILTTARK 57
fetto die la rogazione Canuleia è votata ed accettata dai patrizi
e che pel 444 non si fanno i)iù eleggere nei comizi i soliti consoli,
ma tre tribuni militari con potestà consolare clie x30ssono essere
indifferentemente patrizi o plebei. In realtà delle agitazioni dei
ijlebei pel consolato, di cui al solito si discorre pel 445 con lusso
di particolari e di orazioni, non sappiamo nulla, e certo non si
tratta di richieste formulate all'improvviso da un giorno all'altro e
sostenute fieramente pel solo capriccio di nove tribuni gelosi del
collega Canuleio che vedevano guadagnare il favore del popolo con
la sua proposta vittoriosa sui connubi tra patrizi e plebei. Grli an-
nalisti hanno esercitato la loro invero assai povera fantasia intorno
alle discussioni del 445 per la sola ragione che all'anno seguente
444 i fasti consolari registravano tre tribuni militari con potestà
consolare. Ad ogni modo l'agitazione per l'ammissione dei plebei
al consolato, che data almeno dalla restaurazione del consolato
stesso nel 449, favorita dalla parte sempre maggiore che i plebei
avevano nella difesa della città, sostenuta con mezzi (come ora si
direbbe) ostruzionistici destinati ad impedire l'elezione dei consoli,
ebbe per effetto che non a magistrati nuovi, ma agli ufficiali che
da molto tempo si nominavano annualmente nei comizi centuriati
per comandare i tre reggimenti di mille uomini onde si componeva
la legione convenne affidare il potere ; e il senato dovette consentire
che chiedessero per mezzo della legge curiata sull'imperio l'auto-
rità consolare. Questi ufficiali dovevano essere sempre scelti tra i
militari più provetti senza badare a privilegi di casta; e poiché
non si poteva alterare il modo della loro elezione, uomini usciti
dalla plebe si trovarono a capo dello Stato. La tradizione dice che,
sebbene i tribuni militari potessero appartenere all'una ed all'altra
classe, il primo tribuno plebeo fu eletto solo nel 400, 45 anni dopo
che s'era cominciata a conferire ai tribuni la potestà consolare, e
fu P. Licinio Calvo. Ma questo è un errore o forse peggio una
falsificazione dell'annalista Licinio Macro; poiché stando ai fasti,
il primo tribuno plebeo, L. Atilio, fu eletto nel primo anno del
tribunato, il 445 (1); e i plebei furono di poi tra i tribuni militari
in proporzione anche maggiore. Così nel 400 in cui non vi sarebbe
dei colleghi: Dionys. XI 53. È singolare che del plebiscito Canuleio abbiamo
ricordo solo da Liv. IV 1-6 (Flor. I 25. Ampel. 25, 3). Del resto le fonti, com-
preso Dionisio, tacciono, tolto un accenno in Cic. de re p. II 37, 63.
(1) Come osservò già il Nikblhr II 463.
58 CAPO XIV - LE LEGGENDE SUI DECEMVIRI, ECC.
stato fra i tribuni clie il plebeo Licinio (1), in realtà i plebei erano
non meno di tre su sei.
Al sospendersi delle elezioni consolari si collegano probabilmente
le origini della censura. Compire il censo, ossia la " estimazione .,
di quelli che insieme coi diritti cittadini avevano il dovere di ser-
xìie nell'esercito e di pagare le contribuzioni straordinarie (2), era
da tempo ufficio dei consoli e prima di essi dei re: ufficio che di-
venne più gravoso allorché, aumentando la popolazione e l'esten-
sione dello Stato e progredendo gli ordinamenti militari, fu indi-
spensabile redigere i^er iscritto liste di- cittadini classificati secondo
il distretto (tribù) dove avevano i loro possessi fondiari e secondo
che erano o no in età di prestar servizio nella milizia attiva. Non
sembra che questo ufficio si lasciasse mai esercitare dai tribuni
militari; infatti se si fosse per tal modo ammesso il principio
che il censo i)otesse esser compito da patrizi e da plebei, sarebbe
assai difficile spiegare come si fosse poi riservato l'effettuarlo a
censori eletti esclusivamente nella classe patrizia. Perciò non si
allontanavano molto dal vero gli annali riferendo che nel 443
av, C. furono nominati i primi censori, L. Papirio Mugillano e
L. Sempronio Atratino (3). Questi nomi, che un annalista di sin-
cerità assai dubbia registrava anche come quelli dei consoli del-
l'anno precedente, non sono peraltro fuori d'ogni sospetto (4). E
forse la prima coppia di censori che possa ritenersi storica è
quella di C. Furio e M. Geganio, i quali pei primi nel 435 av. C.
avrebbero compiuto il censo nell'edifizio sul campo Marzio che
rimase d'allora in poi destinato a quest'uso (5). Con siffatta data
si accorda anche approssimativamente la notizia che nel 434 una
legge proposta dal dittatore Mamerco Emilio permise ai censori
di rimanere in carica diciotto mesi (6). E vero che secondo la tra-
ci) LlV. V 12, 9. V. SCHWEGLER IH 149.
(2) Che census equivalga ad arhitrium notò già Varrò de l. l. N 81 e ap. Non.
p. 519;'ma non già nel senso di ' Willkur ', come traduce il Mommsen Staatsr.
II ^ p. 330, sì in quello di giudizio estimativo.
(3) Liv. IV 8. DioNYS. XI 63. Zon. VII 19. Cic. ad farti. IX 21, 3.
(4) Cfr. Liv. 1. e: Papirium SemproniKmque ut eo magistratu panini solidum
consulatum explerent (ibid. IV 7, 10) censtii agendo popidus suffragiis praefecif.
Per la critica di questa tradizione v. Mommsen Rom. Chronologie * p. 95 segg.
(5) Liv. IV 22, 7: C. Furhis Pacilus et M. Geganins Macerìnus censores villani
piihlicam in campo Martio probaverunt : ibique primum census populi est actus.
(6) Liv. IV 24, 5: ne plus quam annua ac semestris censura esset. Cfr. Zon.
LA CENSUJtA 59
dizione questa legge avi'ebbe mirato a ridurre la durata della
censura che prima era quinquennale; ma quinquennale non pare sia
mai stata la censura, bensì di regola l'intervallo tra l'uno e l'altro
lustro ossia tra le solenni ceremonie espiatorie clie s'accompagna-
vano alla rassegna con cui si chiudevano le operazioni del censo (1) ;
e del resto se è naturale che quando si liberarono i supremi magi-
strati dal carico del censo si accordasse a quelli che furono istituiti
all'uopo un lasso di tempo superiore ad un anno, parrebbe davvero
singolare che la censura, annua quando spettava ai consoli, dive-
nisse poi quinquennale per essere infine ridotta alla dm^ata d'un
anno e mezzo. Onde è assai verisim.ile che i censori del 443 siano
inventati dallo stesso annalista che inventò i consoli Papirio e
Sempronio del 444 e, la pretesa dui'ata quinquennale della cen-
sura riducendosi a una confusione della durata con l'intervallo
tra i lustri, la legge Emilia sia stata la legge che istituì la cen-
sm^a come magistratura indipendente. E ]3er quanto la tradizione
ci sia pervenuta in tale stato da non esser i3rudente asserir nulla
con troppa risolutezza intorno ai i^articolari, certo l'ipotesi che
essa legge sia stata inventata perchè un console Emilio nel 339
creò dittatore il plebeo Q. Publilio Filone, autore di leggi demo-
cratiche, è assai meno verisimile dell'altra e molto arbitraria (2).
E ad ogni modo, prescindendo dal nome d'Emilio e dalla data
precisa, è certo che la censura ebbe origine qualche decennio
prima della invasione gallica e qualche tempo dopo le dodici ta-
vole decem virali, che non avi^ebbero mancato altrimenti di farne
menzione. Ed un ulteriore argomento per non ritenerla più recente
è neirarcaicità di certi usi che si collegano con essa, come quello
di cominciare la serie degli appalti fatti nell'interesse dello Stato
con l'api^altare il mantenimento delle oche capitoline e la verni-
VII 19: t^pxov bè TÒ ,uèv irpilira koì tò xeXeuTaìo ènl Trevraeriav, èv òè tuj luéotu
Xpóvuj è-rrl TpeTq éSa|ufivou^.
(1) Varrò de l. l. VI 11: lustrum nominatum temiius quinquennale a luendo
quod quinto quoque anno vectigalia et ultra tributa per censores solvebantur.
Censorin. de die nat. 18, 13 : lustrum ita quidem a Ser. Tullio institutum ut
quinto quoque anno censii civium hahito lustrum conderettir, sed non ita a posteris
servatum. Pare che in origine la regola fosse che i lustri dovevano seguirsi
ogni quattro anni (questo è il senso della frase latina quinto quoque anno) ;
ma presto quella norma fu interpretata nel senso che dovessero succedersi
ogni cinque anni. Cfr. Mommsen Staatsrecht li ^ p. 343 segg.
(2) È l'ipotesi del Pais I 2 p. 34.
60 CAPO XIV - LE LECGENDE SUI DECEMVIRI, ECC.
ciatura della statua di Griove (1). D'altva parte a confermare che
la censm-a non è neppur molto più antica della data tradizionale
sta che i censori non solo venivano eletti nei comizi centmiati (2),
ma in questi comizi era votata altresì la legge che ad essi con-
feriva il potere (3): dove si ravvisa una imitazione della legge
curiata che dava ai consoli, già eletti nei comizi centm-iati, l'im-
perio e al tempo stesso una x^rova evidente che le curie erano
allora tanto scadute d'autorità da non volersi più affidare ad esse
neppm^e la formale conferma del censore già nominato.
Del resto, sorta da modesti princij)!, la censura finì con l'acqui-
stare imx3ortanza gravissima nella vita della città (4). Se non da
quando fu istituita, certo poco dopo ai censori, che già s'occupa-
vano di finanza redigendo le liste dei contribuenti, fu affidata la
tutela della proprietà dello Stato, l'affittare i beni ad esso spet-
tanti onde poteva trarsi qualche reddito, l' appalto dei lavori di
pubblica utilità e della riscossione delle gabelle, la manutenzione
e il restauro degli edifizì pubblici e finalmente la facoltà stessa
d'iniziar lavori ad utile dello Stato. Certo sul principio si trattava
di cose che per la più parte non avranno ecceduto di molto l'im-
portanza della verniciatura della statua di Giove; ma più tardi
quando \d fu abbondanza d'edifizi sacri, di mercati, di ponti, di
vie^ d' acquedotti, di fortificazioni da accudii^e e da costruire, mentre
cresceva immensamente la mism-a dell'agro pubblico, è facile im-
maginare qual somma d'interessi fosse affidata ai censori.
E frattanto anche in altro modo s'accrebbe l'autorità di questi
magistrati, cioè per un natui'ale svolgimento dei poteri che avevano
nel redigere le liste dei cittadini. Grià questa redazione divenne
di x)er sé cosa assai delicata e di molta conseguenza quando i
Romani si distribuirono secondo il loro avere in classi (e. XVII)
e quando cominciò ad esservi un numero ragguardevole di citta-
dini senza diritto di suffragio. E di grande momento fu la facoltà
(1) Plin. n. h. X 51: cibaria ansernm censores in primis locant. XXXIII 112:
a censoribus in lìrimis lovem miniandum locari.
(2) Messalla ap. Gell. n. A. XIII 15, 4. Cfr. Liv. XL 45, 8.
(3) Cic. de l. agr. II 11, 26. Cfr. I p. 354 n. 1.
(4) Liv. IV 8, 2 : hic annus censurae initium fuit, rei a parva origine ortae,
quae deinde tanto incremento aucta est ut morum disciplinaeque Romanae penes
eum regimen, in senatu equitumgue centuriis decoris dedecorisque discrimen sub
dicione cius magistratus, iiis publicorutn priratorumque locorum, vectigalia populi
Romani sub nntu atque arbitrio essent.
I PLEBEI NEL SENATO GÌ
che più tardi si diede ai censori di compilare, oltre le liste dei
cittadini, anche l'albo dei senatori ijectìo senatus) il). Ma ancora
13Ìù gravi fui'ono le conseguenze del principio che al censore s[)etta
il riconoscere chi possieda l'onorabilità necessaria per esercitare i
pieni diritti civici. Questo principio, che non poteva non essere
ammesso almeno implicitamente da quando ad un magistrato spe-
ciale fu affidata la redazione delle liste di coloro che erano in
possesso di quei diritti, fu il germe da cui si svolse a jjoco a poco
quel sindacato sulla vita e sui costumi dei cittadini {censura
moru?n) che diede alla censura romana la sua caratteristica più
spiccata. Per essa i censori ebbero facoltà di chieder conto a tutti
d'ogni loro azione pubblica o privata e di colpire del loro biasimo
(nota) chi a loro giudizio non si comportava giusta la legge civile
e morale registrandolo al teni]J0 stesso nelle tavole dei contribuenti
privi della pienezza dei diritti («e/Ymi). Ma nessuno, nel momento
in cui la censura ebbe origine, xjrevedeva l'altezza cui sarebbe
salita; e per questo apjpunto i plebei non avi^anno mostrato troppa
riluttanza a lasciarla al patriziato (2).
La vittoria plebea del 445 diminuì d'assai il primato dei patrizi;
ma perchè esso venisse meno, molti privilegi restavano ancora da
abolire e molti pregiudizi da distruggere. Tuttavia anche le conse-
guenze immediate del fatto fingono d'importanza non lieve. Quando
al posto dei consoli ebbero il supremo potere i tribuni militari, che
potevano essere patrizi o plebei, era impossibile che i questori, i
quali erano subordinati ad essi come si erano ridotti a dipendere
dai consoli, dovessero essere sempre patrizi. E perciò la tradizione
è almeno ai)prossimativamente nel vero quando asserisce che nel
421, aumentato il numero dei questori (cf. I p. 420), si stabili che
potessero essere scelti anche fra i plebei, che i30Ì in effetto comin-
ciarono dal 409 a rivestire la questuila. Ma assai più grave fu un'altra
conseguenza dello stesso fatto. Probabilmente non dal tempo di
Servio o di Bruto, ma da quando ebbero a trovarsi a capo dello
Stato tribuni militari plebei e da quando essi appunto in tal qua-
lità ebbero l'ufficio di redigere l'albo senatorio, uomini usciti dalla
l)lebe cominciarono a penetrare in quella che era stata la cittadella
del patriziato. Il silenzio della tradizione su lotte dei plebei per
(1) Con la legge Ovinia su cui v. I p. 351 n. 6 e più innanzi e. XVII.
(2) Sulla censura in genere, oltre la trattazione fondamentale del Mommsen,
può vedersi Dk Ruggiero ' Dizion. epigrafico ' II p. 157 segg. La lista dei cen-
sori noti è raccolta da C. De Boor Fasti censorii (Berolini 1873).
62 CAPO XIV - LK leogp:nde sui decemviri, ecc.
rammissione al senato mostra che quest'ammissione era imx^licita
in quella alle dignità supreme dello Stato. La ipotesi del resto
che in origine i senatori plebei non avessero il diritto di esporre
la propria opinione, ma solo quello di votare (1) è destituita di
qualsiasi fondamento. Vero è che i senatori patrizi conservarono
sempre due privilegi. Prima di tutto, se rimaneva vacante la ma-
gistratura suprema, finché non si fosse provveduto alla nomina dei
nuovi titolari, i soli senatori patrizi continuavano a considerarsi
come depositari dei pubblici auspici e quindi essi soli sceglievano
nel proprio seno gl'interré. Ma questo era un privilegio fonnale,
senza grande importanza pratica. Più ragguardevole era l'altro
della convalidazione di ogni legge per mezzo delFautorità dei
padii (2). Senonché anche quest'ultimo diritto, in origine d'impor-
tanza capitale, fini poi col ridui'si ad una semplice formalità.
Mentre imprendevano la conquista della eguaglianza politica,
fruivano i plebei della eguaglianza civile guarentita dalle dodici
tavole. Senonché prima di studiare i comuni diritti ci\'ili, convien
cercare se sia fondata la ipotesi moderna che nega autenticità ai fram-
menti pervenutici della legislazione decem\drale (3). Non è a ne-
gare che nella ortografia e nella flessione questi frammenti delle
dodici tavole, ci siano j)ervenuti alquanto rimodernati (4) ; ma ciò
(1) È sostenuta dal Mommsen Staatsrecht III p. 871 seg.
(2) V. I p. 352 n. 3.
(3) Messa innanzi dal Pais Storia di Roma I 1 p. 558 segg., difesa da
E. Lambert nella ' Nouvelle Revue historique de droit franfais et étranger '
XXVI (1902) p. 149 segg. e particolarmente nello scritto su L'hisfoire tradi-
tionelle des XII tables nei ' Mélanges Appleton ' (Lyon 1908} p. 501 segg. e
combattuta tra altri da P. Girard nella ' Nouv. revue hist. de droit ' XXVI
(1902) p. 381 segg. V. anche le mie osservazioni nella ' Riv. di filol. classica '
XXXI (1903) p. 107 segg.
(4) Di ciò giudica rettamente il più accurato editore delle dodici tavole,
R. ScHOLL Legis diiodecim tàbularum reliquiae (Lipsiae 1866), il quale riconosce
che sono state a poco a poco rimodernate a segno ut fere propius absint a Cice-
roniani sermonis colore XII tahulae quarti a Scipionum titulis nedum a carmimim
Saliarium et Arvalium horrida vetustate; e bene pure il Bréal, il quale ha
posto in evidenza le traccie di latino arcaico esistenti nelle dodici tavole,
■ Journal des savants ' 1902 p. 599 segg. : ' si, par impossible, nous pouvions
retrouver l'originai des Xll tables nous aurions devant nous un language
assez différent de nos plus vieux textes latina, car rien de ce qui s'est conserve
ne remonte aussi loin '. A torto ha disconosciuto una verità tanto evidente
il GoiDANicH nei suoi Studi di latino arcaico ' Studi italiani di filologia clas-
sica ' X (1902) p. 266 segg.
GNEO FLAVIO 63
si spiega facilmente per essere state quelle tavole non curiosità
d'antiquari, ma fonte viva del diritto cui da tutti si doveva attin-
gere (1). Ed è pur vero die talvolta ai decemviri si attribuiscono leggi
contraddittorie. Ma ciò vuol dire soltanto clie come gli oratori attici
quando citavano sbadatamente una legge rascrivevano, anche se
recentissima, al legislatore per eccellenza, Solone, cosi s'è fatto ri-
spetto ai decemviri in Roma; e non per questo dobbiamo trascu-
rare le citazioni accurate, che abbiamo ragione di credere letterali,
del testo di esse quale correva per le mani dei giuristi dell'età clas-
sica. Infatti ammessa, come si deve a ogni modo, la realtà storica
dei decemvm legislatori (v. sopra p. 42), sarel)be tanto singolare
che il loro codice fosse stato falsificato in Roma nell'età classica
quanto che in Atene fosse stato falsificato nell'età classica il codice
di Solone. Che se poi senza animo di falsiiicai'e qualche giuris-
perito avesse raccolto e tramandato gli adagi dell'antico diritto e
questi si fossero attribuiti ai decemvm come altri adagi simili si
sono attribuiti ai re (v. I pag. 300), non si saprebbe spiegare in
alcun modo il nome di dodici tavole dato alla raccolta di quegli
adagi e la distribuzione di essi in dodici gruppi corrispondenti alle
tavole, che ne presuppone la pubblicazione su tavole di legno o di
bronzo nel Foro. E non deve fare difficoltà l'alternarsi nelle dodici
tavole di disposizioni di carattere arcaico come la sezione del corpo
del debitore tra i creditori (v. sopra pag. 3) con altre di carattere
lunano e moderno; poiché il contrasto non api^are meno stridente
in altre legislazioni antiche e nuove. Cosi nel codice di Hammu-
rabi accanto a norme saggie e benefiche specialmente in materia
di traffico, permane la barbara costumanza semitica che il figlio
debba in dati casi esser messo a morte pel reato del padre (2). Ciò
dipende dalla natm-a stessa dello sxDirito umano in cui in un mo-
mento qualsiasi soj)ravvivono resti d'antichi stati di coscienza sor-
passati insieme con germi di stati nuovi non ancora raggiunti. S'è
osservato altresì che non potevano esistere dodici tavole di leggi
decemvirali esposte al pubblico, tavole in cui per di più era data
anche la lista dei giorni fasti, se Livio dice che Cn. Flavio .nel 304
divulgò il diritto civile riposto nei penetrali dei pontefici e pub-
l)licò presso il Foro la lista dei giorni fasti in una tavola imbian-
(1) Come tale, s'imparavano a memoria nelle scuole ancora nella fanciul-
lezza di Cicerone, v. Ciò, de legib. II 4, 9.
(2) V. KoHLER und Peiskr Hammurabi's Gesetz I (Leipzig 1904) p. 137 segg.
64 CAPO XIV - LE LEGGENDE SUI DECEMVIRI, ECC.
cata (1). La di\Tilgazione di Flavio consistè nell' aver pubblicato
in un volume accessibile a tutti i cittadini, anche se dimoranti
lontano da Roma, le regole della procedura (2) e nell' aver esposto
a comodità di tutti in caratteri chiari e moderni la Usta dei giorni
in cui potevasi ricorrere al pretore. E fu certo vera e benefica
di^allgazione, e si capisce come la tradizione ne esagerasse più
tardi l'importanza, che pur fu grandissima. Ma essa non im-
porta punto che non fossero visibili nel Foro coi loro arcaici ca-
ratteri evanidi e con la loro ortografia ormai dimenticata le ta-
vole decemvù-ali; ed è poi chiaro che i giorni fasti essendo fissi
(né. Flavio aveva facoltà alcuna di fissarne, ma solo di pubblicarne
la lista), essi non costituivano in verun modo un segreto dei pon-
tefici (3). Questi e simili argomenti contro Tautenticità delle dodici
tavole non hanno dunque nessun valore. Invece, a prescindere dagli
argomenti esterni citati, è gravissimo indizio della loro autenticità
il carattere agrario della civiltà che vi si rispecchia (4), il quale
non è in relazione con le condizioni della Roma po]3olosa e com-
merciante della fine del secolo W, ma con quelle del piccolo popolo
di contadini che intorno alla metà del secolo V contendeva fati-
cosamente il Lazio agli Equi ed ai Volsci. E ciò si parrà anche
più chiaro da una breve analisi dei principi di diritto sanciti dalle
dodici tavole (5).
U) Liv. IX 46: ceterum, id qiiod hatid discrepai, contumacia adversus content-
nentes humilitatem suam nohiles certavit ; civile ius repositum in penetralibus pon-
tificum evulgavit fastosque circa forum in albo proposuit ut quando lege agi posset
sciretur. Cfr. Val. Max. II 5, 2. Plin. n. h. XXXIII 17 segg.
(2) Pompon, dig. I 2, 7 : postea cum Appius Claudius propostiisset et ad formam
redegisset has actiones, Gnaeus Flavins subreptum Ubrum populo tradidit
Me liber qui actiones continet appellatur ius civile Flavianum.
(3) La tradizionale esagerazione dei meriti di Cn. Flavio non sfuggì all'acume
di Attico. Questi faceva notare all'amico Cicerone, il quale senza addarsene
aveva discorso di Flavio in un tratto perduto del de re p., che conveniva o
supporre Flavio anteriore ai decemviri o ammettere ch'egli avesse dato notizia
di cosa già nota. Cicerone {ad Att. VI 1, 8) non disconosce la forza della ob-
biezione; ma visto che non pochi asserivano Cn. Flavium scribam fastos pro-
tulisse actionesque composuisse, cerca cavarsela col ripiego : occultatam putant
quodam tempore istam tabulam (dei fasti) ut dies agendi peterentur a paucis.
Cfr. del resto prò Mur. 11, 25. 12, 26. de orai. I 41, 186.
(4) Così ottimamente Girakd ' Nouv. revue hist. de droit ' voi. XXVI p. 422.
(5) La letteratura sul diritto civile romano è così smisurata che non è il
LA FAMIGLIA ROMANA 65
La salda compagine della famiglia fondata nella autorità quasi
regia del suo capo su la moglie, i figli, i clienti e gli schiavi si
era conservata intatta fino alla metà del sec.V, sebbene il costume
e la religione avessero cercato di porre a quell'autorità dei termini-
E intatta parvero lasciarla in sostanza i decemviri solo determi-,
nando ed ampliando quelle limitazioni nel dare ad esse vigore di
legge ; ma p>repararono con ciò, in parte forse inconsapevolmente,
ordinamenti familiari assai più umani e progrediti a confronto
della primitiva barbarie italica. Così l'unione legittima tra l'uomo
e la donna che ai figli assicurava la successione paterna, sia
che fosse contratta con le forme solenni della confarreazione o
della coenzione (v. I pag. 237), sia che avvenisse per semplice
consenso, non si scompagnava in generale fino allora dalla padro-
nanza (manus) del marito sulla moglie. I decemviri riconobbero
come legalmente valido, senza che implicasse quella padi'onanza,
il matrimonio pm^amente consensuale in cui la convivenza, a impe-
dire la prescrizione, venisse interrotta annualmente per tre notti (1).
Con questa forma di matrimonio, che presto divenne prevalente e
poi unica, permisero alla donna di francarsi di diritto dalla padro-
nanza del marito e di fatto da quella del padre e ne riconobbero
praticamente la libera personalità. Ma salvo questa, che sul prin-
cipio fu un'eccezione, perdurava il dii'itto di vita e di morte del
capo di famiglia sulla moglie come sui figli e gli schiavi, sia per
mancanze commesse nella vita domestica (2), sia, in sostituzione
dello Stato, pei reati di azione pubblica (3), e non la legge, ma solo
il costume prescriveva di raccogliere, per le punizioni più gravi
della moglie o dei figli, un consiglio di famiglia (4). Continuava
persino ad essere facoltà del marito di consegnare la moglie in
potere d'altri, come consegnava il figlio o lo schiavo se erano stati
altrui causa di danni (nocca) ch'egli non volesse in altro modo
caso neppure di darne un cenno sommario. Mi limito in generale a citare gli
scrittori in cui possono trovarsi meglio svolti i concetti da me difesi o, even-
tualmente, quelli da me combattuti.
(1) Gai. I 111: lege duodecim tahularum caiitum est ut si qua nollet eo modo
(usu) in manum mariti convenire, ea quotannis trinoctio abesset atque eo modo
{tisum) cuiusqiie anni interrumperet.
(2) DioNYs. II 25. Flut. Rom. 22. Val. Max. VI 3, 9. Plin. «. h. XIV 89.
(3) In parte quest'uso sopravvive anche in età più recente: Liv. XXXIX 18,
6. epit. 48. V. MoMMSEN Stì'afrecht p. 19 n. 2.
(4) DioNYS. Plin. 11. ce. Liv. ep. 48. Tao. ann. II 50. XIII 32. Suet. Tib. 35.
G. De Sanctis, Storia dei Romani, li. 5
66 CAPO XIV - LE lectCjende sui decemviri, ecc.
risarcire, e conforme all'uso primitivo gli era pm'e dato di cederla
temporaneamente a mi terzo per averne figliuoli (1). Diritto di ri-
pudio v'era fino allora solo per parte del marito, limitato però, a
guarentia della moglie, a casi di constatata indegnità di costei (2)
e accompagnato da ceremonie solenni che dovevano contribuii'e a
renderlo più raro (3). Ma rintrodiu\si del matrimonio senza potestà
modificò profondamente questo stato di cose rendendo libero e age-
vole il divorzio e dando , anclie per ciò clie lo concerne, pari di-
ritti alla moglie ed al marito. Poiché il marito privo di padi'onanza
non ebbe più modo di ricondurre a forza la donna che, assentatasi
per le tre notti legali, gli dichiarava di non voler più tornare nel
domicilio coniugale ; e a lui d'altra X3arte, senza annullare con so-
lenni ceremonie religiose e civili la sua suprema potestà, bastò
richiedere alla moglie in presenza di testimoni le chiavi di casa e
dirle: piglia le cose tue e va, perchè fosse comx3Ìuto legalmente il
divorzio e la donna dovesse tornare alla sua famiglia, cui appunto,
per l'assenza della potestà maritale, aveva continuato ad apparte-
nere (4). Or questa libertà di ripudio, che poi dai matrimoni senza
potestà maritale s'estese a tutti gli altri, conferi a scomx)aginare
la famiglia romana in un modo che i legislatori erano lontani dal
prevedere (5). Ma ciò avvenne assai tardi, quando la licenza del
(1) Se pur l'esempio della moglie di Catone uticense non è troppo calzante
(Plut. Caio Utic.2b. 52. App. b. e. II 99 etc), le analogie messe in luce dalla
etnografia debbono far accogliere i concetti difesi p. es. dallo Schupfer La
famiglia secondo il diritto romano I (Padova 1876) p. 226 segg.
(2) Plin. Dionys. Plut. 11. ce. a n. 1 e Plut. Num. 3.
(3) Nei matrimoni per confarreatio era necessaria una solenne diffarreatio, su
cui V. soprattutto Fest. epit. p. 47. Plut. q. R. 50; in quelli per coemptio una
mancipatio su cui v. Gai. instit. 1 137 « (il caso qui enunciato della moglie che
costringe il marito a manciparla ad altri è naturalmente alieno affatto dal di-
ritto civile primitivo).
(4) Cic. Phil. II 28, 69 : illam suam sitas res sibi habere iussit, ex duodecim
tabulis claves ademit, exegit. Cfr. Gai. d/gr. XXIV 2, 2. 1. Per la formola v. però
Marquardt Privatleben der Romer V p. 70 n. 5.
(5) È noto che secondo la tradizione il primo divorzio sarebbe stato quello
di Sp. Carvilio Ruga del 231 o 227 av. Cr.: Gell. n. A. IV 3. Val. Max. II 1, 4.
Dionys. II 25, 7. Plut. comp. Thes. et Rom. 6. Lyc. et Num. 3. q. R. 14. Questa
notizia è inammissibile perchè inconciliabile coi dati raccolti nelle note pi'ece-
denti. L. Pulci ' Arch. giurid. ' LUI (1894) p. 229 segg. la spiega nel senso che
quello fu il primo caso in cui il magistrato ebbe ad occuparsi di determinare
le relazioni economiche tra gli sposi separati. La congettura è acuta; ma la
LA FAMIGLIA ROMANA G7
costume trovò il suo conto nella liberalità dell'antica legge che
provvedeva ad altri tempi e ad altri costumi; x^er allora l'effetto
della legge fu soltanto quello benefico di riconoscere solennemente
che fondamento della vita familiare non è solo la fedeltà della
sposa e che la donna ha di faccia al marito non solo doveri a com-
piere, ma anche diritti a tutelare, E mutarono anche i rapporti
patrimoniali tra i coniugi. Dell'antico uso di comj^erarsi la sposa
(v. I p. 81) non rimaneva traccia che nel nome del matrimonio
per coenzione e nelle ceremonie che l'accompagnavano; ma tutto
ciò che la moglie recava con sé diveniva, nell'atto del matrimonio
con padronanza, proprietà del marito. E. matrimonio invece senza
"mano „ lasciò la moglie proprietaria de' suoi beni; ma non i)otè
diffondersi senza che al marito, j)rivato d'ogni diritto sugli averi
della moglie, in compenso fosse passato almeno un contributo per
sostenere gli oneri del matrimonio, che prese il nome di dote (do-
nativo) (1). Per modo che non solo la moglie era resa economica-
mente indipendente dal marito ; ma la sua posizione morale nella
casa non poteva che migliorare pel contributo che recava nella
^dta economica della famiglia.
Di minor conto assai fm^ono i limiti che i decemviri posero all'au-
torità del capo di famiglia sui figli, i clienti e gii schiavi ; perchè
il senso giuridico e morale non era ancora x)rogredito abbastanza
per avvisare alla sconvenienza di quella autorità illimitata come
già era rimasto ferito dalla condizione servile della donna di faccia
al marito. E cosi conservò il padre piena facoltà di condannare i
figli a lavorare come schiavi nei camj)i, di venderli in schiavitù,
di esiliarli e di ucciderli (2). Ma fu abolita del tutto la facoltà di
notizia tradizionale (come l'altra p. es. sulla chiusura del tempio di Giano
dopo la priina guerra punica, v. I p. 18 n. 1) proviene dal fatto che quello era
uno dei primi divorzi di cui si conservasse ricordo. Cercando bene però, agli
stessi eruditi antichi non riusciva impossibile trovar notizia di qualche di-
vorzio anteriore, cfr. Val. Max. II 9, 2.
(1) Più tardi si chiamò abusivamente dos anche la res uxoria dei matri-
moni con maniis, v. p. es. Cic. top. 4, 23: ciim nudier viro in nianuni, convenit,
omnia quae mulieris fuerunt viri fìunt dotis nomine. Sulla funzione della dote
dig. XXIII 3, 76: nisi oneribus matrimonii serviat dos nulla est. Cfr. Pktroni La
funzione della dote romana (Napoli 1897) p. 39 segg.
(2) Gai. I 5ó : in potestate nostra sunt liberi nostri quos instis nuptiis pro-
creavimus, quod ius jyroprium civium Romanorum est : fere enim nulli alii sunt
homines qui talem in filios suos habenf potestatem qualem nos habemus. Dionys.
68 CAPO XIV - LE LEGGENDE SUI DECEMVIKI, ECC.
uccidere i neonati, limitando quella d'esporli ai i)arti mostruosi e
alle femmine e imponendo d'allevare tutti i figli maschi e almeno
la xjrimo.Q-enita delle femmine (1). E per porre un limite all'obbro-
brioso commercio del proprio sangue fu stabilito che una triplice
vendita del figlio privasse il padre della patria potestà (2), legge
che ci mostra più chiaro di qualsiasi tradizione le gravi condizioni
dei poveri contadini romani che, indotti dalla miseria a vendere i
figliuoli per provvedere ai bisogni più urgenti, si affrettavano,
appena lo concedesse un buon raccolto o un po' di bottino preso al
nemico, a riscattarli per venderli di nuovo quando li stringeva dac-
capo la fame. L'efficacia di questa legge del resto, anche quando
le condizioni economiche migliorate e il più elevato sentimento
morale abolirono quel turpe commercio, fu assai maggiore di quel
che i decem^al■i non i^ensassero, perchè diede ai giovani intolle-
ranti della illimitata potestà patria il modo di farsene liberare per
mezzo d'una triplice finzione di vendita. [Della tutela dei clienti
si occuparono i decemwi anche meno che di quella dei figli. Per
altro consacrando alla vendetta divina il patrono che fosse venuto
meno a' suoi doveri verso di essi, riconobbero esplicitamente i loro
diritti di faccia a lui, tuttoché non osassero assicm^arne una effet-
tuale sanzione umana (3). Nei rapporti infine tra il padrone e lo
schiavo non intervennero che con estrema timidità, e solo impli-
citamente riconobbero la efficacia legale della manumissione testa-
mentaria (4). Ciò non solo aveva importanza pratica provvedendo
1126,4: ó bè Tuùv 'Piju|uaitjuv vojaoOéTri'; firraaav Ujq eìiretv IbuuKev lìouaiav iraxpì
KoG' uioO Trapà navra tòv toO Pi'ou xpóvov èóv Te etpyeiv, èdv xe laaffriYoOv,
èdv re òéainiov è-rrì tójv kot' àfpòv ?pYUiv Koréxeiv, èdv re óiTTOKTivvùvai irpo-
aipfìTai.
(1) Secondo Dionys. Il 15 questa era una legge di Romolo ; ma die della
cosa si occupassero le dodici tavole risulta da Cic. de legib. ITI 8, 19.
(2) Ulp. fr. X 1. Gai. I 132 : si pater filium ter venum duit, filius a patre
liher esto.
(3) Serv. Aen. VI 609 (I p. 238 n. 1). Così credo clie vada tradotto il frati-
dem facere piuttosto che con ' far torto ' o con ' mancare ' al cliente dell'as-
sistenza dovutagli (in giudizio), come propone Brkal ' N. Revue de droit '
XXVI (1902) p. 147.
(4) Risulta chiaro, p. es. da Ulp. I 9 : j<ì testamento manumissi liberi sint
lex duodecim tabularum facit quae confirmat ea quae testator de suis rebus dispo-
suerit, cfr. dig. L 16, 120, che la legittimità della manumissione testamentaria
si fondava non su alcun testo preciso, ma solo sull'amplissima libertà di testare
sancita dai decemviri.
IL DIRITTO DI PROPRIETÀ 69
al caso in cui il padrone, pur desideroso di liberare lo schiavo, non
intendesse privarsi de' suoi servigi in vita; ma anche maggiore
importanza gimidica perchè per tal modo si riconosceva nel pa-
drone la facoltà di trasformare gli schiavi in cittadini liberi :
mentre le altre due forme di emancipazione, quella dinanzi al
pretore e quella per via d'iscrizione nelle liste cittadine, erano fon-
date sulla finzione legale che la libertà e la cittadinanza preesi-
stessero all'atto con cui venivano riconosciute (1). Ad ogni modo lo
schiavo rimase come prima abbandonato senza difesa alla sconfi-
nata autorità del padrone, sebbene tale autorità trovasse allora mi
limite di fatto nella scarsezza del numero degli scliiavi, che co-
stringeva chi se ne serviva ad averne qualche cura, perchè quell'età
era ignara del grande commercio degli schiavi, né le vittorie ro-
mane erano tali da metterne molti sul mercato. Inoltre la vita
semplice e frugale di tutti facilitava l'affratellamento tra padroni
e servi, in ispecie se, come era certo frequente, si trattava di schiavi
nati in casa; e n'è mia riprova il fatto che, nonostante l'esiguità
del loro numero, le manumissioni dovevano essere fin d'allora non
rare, se già la legge si occupava delle guarentie onde dovevano
essere circondate.
Anche più assoluto ed illimitato del potere del padre sulla fa-
miglia appare nell" antichissimo comune romano il potere che, stando
alle dodici tavole, egli ha, secondo il diritto dei Quhiti, sul suo patri-
monio. Qualunque cosa di sua iiroprietà, mobile od immobile, egli
può liberamente usare, donare o vendere in vita e può come vuole
disjDorne in morte ; né la famiglia o i gentili o lo Stato hanno fa-
coltà d'impedirglielo, salvo il caso di constatata prodigalità o di
follia (2). n carattere cosi assoluto che assume presso i Romani in
età tanto remota il diritto di proprietà dimostra quanto siano vane
le teorie moderne che fanno sorgere in Roma la proprietà fondiaria
privata poco innanzi al decemvu-ato da quella collettiva delle genti
coltivata dai ser\d della gleba, teorie le quali presuiDpongono anche
assai a torto il preesistere delle genti allo Stato (v. I p. 229). Ciò
conferma che la libera plebe della età repubblicana non ebbe
punto origine dall' emanciparsi dei servi della gleba col sorgere
(1) Ulp. I 6-8.
(2) AucT. ad Her. I 13, 23 - Cic. de inv. II 50, 148. Fest. p. 162 s. v. nec:
vi furiosus escit ast ei custos nec escit adgnatum gentiliumque in eo pectmiaque
eius potestas esto. Pel prodigo v. Ulp. dig. XXVII 10, 1.
70 CAPO XIV - lp: leggende sui decemviri, ecc.
della proprietà individuale che li avrebbe resi x^adroni dei fondi
cui prima erano legati. Ma se il concetto di proprietà dominante
in Roma intorno al 450 presuppone in ogni caso più secoli di
proprietà fondiaria privata, non basta ad escludere che presso i
Romani o meglio presso gli Italici primitivi possa aver dominato
in origine il comunismo agrario. E vero che la dottrina che questa
sia stata dappertutto la forma primitiva della proprietà fondiaria (1)
non solo non è dimostrata, ma è contraddetta dal ricorrere talora
anche fra le tribù agricole più selvaggie la proprietà fondiaria in-
dividuale (2). Tuttavia qualche traccia di comunismo agrario non
manca certamente x^resso gii Arii; ma son traccie insufficienti
a dimostrare che tutti gli Arii l'abbiano praticato quando ebbero
sedi stabili; e in particolare prove sicure presso gl'Italici non se
ne hanno (3). La designazione del i^atrimonio privato coi nomi
di famiglia e di xDecunia (ossia domestici e bestiame) è forse so-
pravvivenza d'una età in cui predominava il nomadismo e non
si aveva proprietà fondiaria né individuale né collettiva o forse
anche d'una età in cui la x)rox)rietà fondiaria, pur essendo indivi-
duale, non costituiva oggetto di commercio. E anche la denomina-
zione di herediuni che si dava nelle dodici tavole, secondo una
testimonianza non fuori d'ogni controversia, all' orto (4), non vuol
dire che solo l'orto' era oggetto di ]3rox)rietà privata e solo ]3assava
all'erede; ma probabilmente nasce dal fatto che l'uso di disporre
Kberamente de' propri beni si venne sviluppando a grado a grado
e che l'orto fu la parte di essi onde più a lungo il jjadre di famiglia
(1) Svolta p. es. da E. de Laveleye De la propriété et de ses forines primi-
tives » fParis 1901).
(2) Orienta assai bene sulla questione e fornisce larghe indicazioni biblio-
grafiche Cathrein Moralphilosophie li 247 segg. V. anche Blondel nei ' Mé-
langes Appleton ' p. 41 segg.
(3) Varie prove o indizi di proprietà collettiva gentilizia credette d'avere
raccolto il Mommsen R. G. P 36. 182 seg. Staatsrecht III 22 segg. 793, combat-
tuto validamente dal Poehlmann Geschichte des antiken Kommunismus und So-
zùtlismus II (Mùnchen 1901) p. 449 segg. I concetti del Mommsen son ripresi
dal GuiRAUD La propriété primitive à Rome in ' Revue des études anciennes '
VI (1903) p. 221 segg. Ma in questa memoria egli muove dalla permanente
confusione tra due associazioni affatto distinte per natura, origine e posizione
giuridica nello Stato, quali sono la famiglia e la gente.
(4) PuN. n. h. XIX 50: in XII tabulis leyum nostrarum nusquam nominatiir
villa : semper in significatione ea hortus, in horti vero heredium. Hortus in senso
di villa h anche in Cic. de off. Ili 14, 58.
LA MANCIPAZIONE 71
non potè disporre se non a favore dei propri eredi legittimi. Né
di maggior momento è la leggenda secondo cui Romolo distribuì
ad ogni cittadino come lierediinn un fondo di due iugeri (1). Questa
leggenda sorse dalle assegnazioni di due iugeri a coloni, che pare
ricorrano anche in età più tarda, quando della esistenza della pro-
prietà individuale non può dubitarsi, e forse anche dal termine
di centuria, originato appunto da simili assegnazioni, che deno-
tava una misura di duecento iugeri. E ad ogni modo, per quanto
due iugeri siano certo insufficienti al mantenimento di una fa-
miglia (2), la distribuzione di cosi piccoli campicelli non suppone
nella leggenda delle origini come non suppone nelle storiche asse-
gnazioni posteriori un terreno coltivato ijer conto della collettività ;
ma al più soltanto un comune terreno pascolativo. Il comunismo
agrario quindi non solo non può aver dominato in Roma in età
poco anteriore alle dodici tavole, ma se s'era praticato presso gli
Italici in età remotissima, il che non si può né affermare né ne-
gare, se n'era i30Ì smarrito ogni vestigio (3).
Checché ne sia, oggetto di pienissima proprietà privata erano
nell'età delle dodici tavole la casa, il campo e le forze viventi che
s'adoperavano a coltivarlo; solo che per disporre di questi averi si
richiedevano formalità più solenni che non usassero per alienare
gli altri beni anche se ragguardevoli come le gioie o il bestiame
ovino. La ragione sta in questo che l'alienazione degli stabili e
degli schiavi o degli animali da soma e da tiro che servivano alla
economia rurale pareva mettere in pericolo il fondamento econo-
m.ico della continuità della famiglia. Ora appunto nella continuità
della famiglia che escludeva " la confusion delle persone „ vedeva
l'innato conservati vismo dei popoli agricoli primitivi la condizione
necessaria della stabilità dell'ordine sociale in questa e d'ogni spe-
ranza di bene nell'altra vita. Perciò questa categoria d'alienazioni,
più recenti d'origine e meno frequenti, richiedevano maggiori gua-
rentie e nell'interesse del compratore e in quello della famiglia
(1) Varrò de re r. I 10, 2: bina iugera quod a Roinulo 2}>'iniH)n divisa dice-
hantur viritim qiiae heredem seguerentiir fieredi u in appellar unt : haec postea centum
centuria. Fest. epit. p. 53 : centuriatus ager in ducena iugera defìnitiis quia Ro-
midus centenis civibas ducena iugera tribuit. Plin. n. h. XVI li 7.
(2) Questo è evidentissimo, per quanto sia disconosciuto da taluni, p. es.
da M. VoiGT Ueber die bina iugera der àltesten rom. Agrarverfassuny ' Rh.
Museum ' XXIV (1869) p. 13 segg.
(3) Per una dimostrazione più compiuta v. Pòiilmann 1. e.
72 CAPO XIV - LE LEGGEXDE SUI DECEMVIRI, ECC.
del venditore. Il venditore riceveva il metallo destinato al paga-
mento mism-ato sopra mia bilancia da un pesatore {libripens) in
presenza di cinque testimoni e poi ascoltava in silenzio la solenne
dichiarazione del compratore che, afferrando con la mano Toggetto
comperato o un suo simbolo, so ne x>roclamava proprietario secondo
il dii'itto dei Quiiiti. In questa formalità delF afferrare con mano in
segno di padronanza, che deve essere stata effettiva prima di di-
venne simbolica, non deve cercarsi la prova che simile maniera di
alienazione {mcnicipatio} si praticasse in origine con qviei beni mo-
bili, come le armi o le gioie, che poi ne tmono esclusi (res nec
mancipi). Essa dimostra soltanto che tra i beni poi suscettibili di
esser venduti a questo modo {res mancipi) in origine la mancipa-
zione dovette applicarsi ai soli che si potessero effettivamente affer-
rare per la mano, pel laccio o per le redini, ossia gli scliia^d e gli
animali da soma o da tiro, e solo più tardi divennero alienabili
gli altri beni di questa classe e in particolare gli stabili a cui la
mancipazione non poteva applicarsi che in maniera simbolica. Co-
desta solennità del resto, che prima era la stessa vendita, più tardi
quando la vendita non si effettuò più in pratica con cumuli di
bronzo o di rame, divenne una semplice simulazione di vendita
fatta prima o dopo l'effettuale pagamento, in cui il metallo desti-
nato all'acquisto era sostituito da un pezzo di rame che si poneva
nella bilancia (1).
Con le dodici tavole lo Stato intervenne a tutela della manci-
pazione riconoscendo la piena validità della dichiarazione che fa-
ceva in essa il compratore (2). Ed un effetto singolare ebbe questo
intervento del legislatore : fu cioè cosi più tutelato dallo Stato il
commercio dei beni considerati in origine come meno alienabili di
quello degli altri la cui alienazione, essendo più antica e più usuale
e più guarentita dal costume, non rivestiva forme tanto solenni.
E il venditore che dell'oggetto venduto non suscettibile di manci-
pazione non aveva ricevuto il prezzo o il contraccambio pattuito
non ebbe mezzo di costringere il compratore a risarcirlo ; ma per
impedire che fosse defraudato del suo non si trovò altra via che
quella di considerarlo come proprietario dell'oggetto e quindi di
(1) Ricco di concetti acuti e nuovi, per quanto in gran parte non accetta-
bili, e P. BoNFANTE Res mancipi e nec mancipi (Roma 1888-89).
(2) Fest. p. 173 s. V. nuncupata : cton nexum faciet mancipiumque ufi lingua
nuncujMssit ita ius esto.
IL TESTAMENTO 73
permettergli un'azione pel suo ricupero finché non fosse avvenuto
il pagamento (1). Al tempo stesso la tutela die lo Stato assumeva
della elicili ar azione solenne fatta neir atto della mancipazione in-
dusse a dar forma di mancipazione ad altri atti die con la ven-
dita avevano solo una lontana analogia a fine di metterli per tal
modo sotto la difesa delle leggi. Cosi ad esempio si j)otè per mezzo
della mancipazione dare una persona o uno stabile in pegno ad
un creditore o in consegna ad un amico con la clausola die, sod-
disfatto al debito o venute meno le ragioni per cui aveva avuto
luogo la consegna, dovesse riemanciparsi al primitivo proprietario.
Ma inoltre (ciò die più rileva) per mezzo d' una finzione legale
fondata sulla mancipazione divenne agevole ad ogni cittadino di
disporre per testamento de' suoi beni.
L'eredità nel primitivo diritto romano importa la successione non
solo nel tutt' insieme dei rapporti patrimoniali, ma anche nei do-
veri e diritti religiosi concernenti i culti privati e i sepolcreti fa-
miliari, nelle relazioni d'ospitalità con stranieri e nel patronato sui
clienti ; insomma in tutti i diritti e rapporti aventi carattere con-
tinuativo. Onde può dirsi che per la eredità si attua giuridicamente
la continuazione della famiglia, sia che la sua continuazione fisica
si accom]iagni o no con quel fatto giuridico. Ma l'integrale sosti-
tuirsi dell'erede al defunto non implica che la successione sia da
tenere per una trasmissione di sovranità sulla famiglia considerata
come un gruppo politico (2). Perchè iirima di tutto della pretesa
funzione politica della famiglia manca ogni j)rova. I membri della
famiglia, anche quando più rigida era in Roma la patria potestà,
esercitavano ciascuno di per sé, indipendentemente, i loro doveri
(1) Inst. II 1, 41: venditele vero (resj et traditele non eiUter emptori eidqui-
runtur quetm si is venditori pretium solverit vel eilio modo satisfecerit... qtiod
ca retar eiuidem etiam lege duodecim tabuleirum,
(2) Questo concetto è difeso dal Bonpante L'origine dell'hereditas e dei legati
nel ' Boll, dell'ist. di dir. romano ' IV (1891) p. 97 segg. L'eredità e il suo
reipporto coi legati ibid. VII (1895) p. 151 segg. e dal Fadda Concetti fonda-
mentali del d. ereditario romano I. Il (Napoli 1900. 1902). Io mi attengo piuttosto
ai concetti svolti dal Costa Corso eli storia del dir. romano II (Bologna 1903)
p. 375 segg. con le riserve accennate nel testo sulla funzione politica della
famiglia. — Osservazioni acute ed utopie si alternano nello scritto di E. Lambert
La trad. romeiine sur la succession des formes du testament devant l'histoire
comparative (Paris 1901). Cfr. anche A. Zocco-Rosa ' Riv. ital. per le scienze
giuridiche ' XXXV (1903) p. 302 segg.
74 CAPO XIV - LE LKCUEKDE SUI DECKMVIRl, KCC.
e i loro diritti di cittadini; e non la famiglia, ma l'individuo era
tenuto a servii- lo Stato in forza della legge o del costume. Lioltre
della trasmissione di sovranità, che non può non farsi con forme
solenni, il presupposto primo è l'anteriorità del testamento alla suc-
cessione intestata. Or tale anteriorità mal s'accorda con le analogie
del diritto comparato ; e del resto non v'ha dubbio che il testamento
rom.ano in-ocede da quello di un altro X)opolo affine e più progre-
dito con cui gl'Italici praticarono continuamente dal sec. VITI, cioè
il popolo greco, che non conobbe il testamento se non in età ab-
bastanza recente. Inoltre una trasmissione di sovranità richiede il
permanere almeno virtuale dell'unità del gruppo su cui la so\Ta-
nità si trasmette, mentre la famiglia si scinde con l'aprirsi della
successione in tante famiglie indipendenti quanti sono gli eredi
senza che sussista nel diritto romano alcun pri\dlegio di primoge-
nitui'a; né importa che talora gli eredi amministrassero in comune
il x^atrimonio paterno come condomini, poiché ciascuno dei coeredi
poteva in qualsiasi momento domandarne ed ottenerne la divisione
per mezzo d'una procedm-a determinata appmito dalle dodici ta-
vole (net io familiae erciscundaé) (1). Infine l'ipotesi della società
familiare sovrana imj)lica la preesistenza d'una famiglia bene
ordinata allo Stato, il quale si sarebbe in certo modo costituito
per la parziale rinuncia di jjoteri fatta dalle famiglie indipendenti
a favore di esso. Or tale concetto è erroneo e in x^iena contraddi-
zione con la etnografia comparata, la quale fa ritenere probabile
la preesistenza dell'orda alla ben regolata società familiare che é
venuta costituendosi nel suo seno (v. I pag. 83); né può in alcun
modo accogliersi l'assimilazione tra la famiglia e la gente che é
presujDposta da quella teoria, x)erchè famiglia e gente son due as-
sociazioni diverse non solo d'estensione, ma anche d'origine e di
natm-a; e ad ogni modo, ammessa anche la loro affinità, manca
ogni fondamento di fatto per asserire che la gente abbia a\aito
in Roma ordinamento monarchico.
Perciò è da ritenere che scopo del testamento fosse in origine
semx)licemente quello della costituzione di un erede quando l'erede
naturale mancava o si voleva, per indegnità, diseredare (2); in altri
(1) Gai. dig. X 2, 1.
(2) È in sostanza il concetto dello Schulin Das griech. Testament verglichen
mit dem romischen (Basai 1882) p. 50 segg., col quale del resto non mi accordo
ne nel ritenere che il testamento calatis comitiis fosse fatto per iscritto, ipo-
IL TESTAMENTO 75
termini esso non mirava che ad una adozione postuma. Certo l'ado-
zione poteva aver luogo anche in vita, ma forse a molti non gar-
bava di essere x)reventivamente adottati quando ciò conferiva su
di essi air adottante il potere di disporre della loro vita e della
morte ; e a molti altri forse non conveniva di avere a carico proprio
in vita il figlio adottivo. Inoltre all'adozione tra vivi poteva essere
di grave impedimento la rivalità tra i parenti ])iii prossimi che
avessero aspirato ad ereditare per adozione o per successione inte-
stata e r opposizione interessata dei gentili a cui in mancanza
d'agnati ricadeva l'eredità (1). Ma l'estinguersi giuridicamente della
famiglia metteva a pericolo lo Stato che rischiava di vedersi rac-
cogliere in mano di XDOchi le facoltà di molti e con ciò diminuire
il numero de' suoi difensori quando più v'era d'uopo di difesa ; e
tui'bava l'animo di chi era privo d'eredi legittimi facendogli pre-
vedere derelitta e priva del conforto d'offerte funebri la vita di ol-
tretomba. E però s'introdusse l'uso della presentazione dell'erede
ai comizi calati che eran chiamati a guarentirne con voto so-
lenne la successione, e quello dell'analoga dichiarazione ai commi-
litoni in assetto di guerra, che si facevano mallevadori dell'adem-
pimento dell' estrema volontà del loro compagno d' arme (v. I
pag. 244). Ma tali forme di testamento erano troppo solenni per
essere comuni ; inoltre la pubblicità stessa che avevano, mentre ne
assicm'ava l'esecuzione, poteva render più malagevole a taluno di
risolversi ad usarne. E j)er quanto una disposizione delle dodici
tavole assicui'asse al testatore x)iena libertà (2), frequenza e libertà
piena di testamento non s'ebbe in effetto se non quando si trovò
tesi che muove da un concetto errato sull'antichità della diffusione della scrit-
tura presso i Romani, ne nel ritenere che il testamento per aes et lihram non
contenesse in origine l'istituzione d'un erede, ipotesi che rende a mio avviso
incomprensibile la storia del testamento romano. — Del resto l'istituzione d'un
erede è stata sempre riguardata come la essenza del testamento: Gai. 11229:
testamenta vini ex institutione heredis accipiunt et oh id veliti caput et fiiiuìa-
mentiim intellegitur totius testamenti heredis institutio.
(1) Secondo il principio delle dodici tavole : si intestato moritur cui suus
heres nec escit, adgnatus jJ^'oximus familiam habeto, si adgnatus nec escit geiifiles
familiam habento, v. Ulp. reg. 16, 1. Coli. 16, 4.
(2) Uti legassit super fainilia tutelave suae rei ita ius esto. Così Ulp. 11, 14.
Questo passo è riportato da molti altri scrittori con non poche varianti. Qui
legare vuol dir semplicemente legem dicere e non si applica punto specifica-
mente a ciò che poi si designò col nome di legata.
76 CAPO XIV - LE LEt.CENDK SUi DECEMVIRI, ECC.
il modo di testare senza tante solennità con una finzione di ven-
dita della universalità dei rapporti patrimoniali (1). Si cedevano
questi per mezzo della mancipazione col metallo e la bilancia ad
un compratore del patrimonio {familiae eniptor)^ il quale dichia-
rava di lasciarne il possesso e il godimento al proprietario fino
alla sua morte e di disx^orne dopo la sua morte secondo le sue in-
tenzioni in origine manifestarte verbalmente innanzi ai cinque te-
stimoni della mancipazione, poi trasmesse all'esecutore testamen-
tario scritte entro tavolette suggellate (2). Assicurata cosi la piena
libertà di testare, essa poi trasmodò quando prese a disgregarsi la
famiglia, e, invece di assicurarne la continuazione, servi a trascu-
rare per estranei gli eredi legittimi. L'antico adagio gimidico se-
condo cui nessmia successione poteva essere in parte testamentaria
in parte intestata, fondato sulla presunzione che, costituendosi un
erede per testamento, uno volesse diseredare per indegnità i suoi
eredi legittimi se ne aveva, ebbe conseguenze gravi e imi^revedute
talora allo stesso testatore quando la i^iena libertà di testare servi
allo scopo, affatto alieno dalla mente del legislatore clie l'aveva
sancita, di legittimare i lasciti di qualunque natura e misiu^a (3).
Ma questi abusi della libertà di testare, a cui convenne poi cer-
care, e non fu facile, di porre in qualche modo riparo, furono assai
più tardi; pel momento le conseguenze di quella libertà, man mano
che divenne effettiva col diffondersi del testamento per mancipa-
zione, non fui^ono che benefiche : ossia di porre un termine airestin-
guersi delle famiglie per la rapacità degli agnati e dei gentili, e
di facilitare, potendo essa inserirsi nel testamento, la manumissione
degli schiavi.
Nel testamento, del resto, come nella mancipazione, la legge non
tutelava per sé l'atto esterno in cui s'era espressa la volontà del
testatore e dei contraenti, ma lo tutelava soltanto in quanto per
mettersi sotto la sua protezione aveva rivestito quelle l'orme deter-
minate che essa indicava e in particolare era stato accompagnato
dalle parole solenni prescritte. Lo stesso era il caso dell'altro con-
(1) Non si dica che la frequenza del testamento è implicita nella clausola
negativa si intestato moritur della legge riportata sopra a p. 75 n. 1; perchè
quella clausola va unita strettamente con l'inciso cui suus heres nec escit: in
altri termini prova al più per quelli che non avevano sui heredes.
(2) Gai. II 102. 103. Ulp. 20, 9.
(3) Inst. II 10, 5: neque enim idem ex parte testatus ex parte intestatus dece-
dere potest.
PROCEDUKA GIUDIZIALE H
tratto di cui la legge assumeva nelle dodici tavole la guarentia,
il " ìiexiim „ per cui il debitore rimaneva obbligato con la persona
al suo creditore (v. sopra pag. 2 seg.). E la formola orale era pure
di grandissimo momento in tutta la giurisdizione civile. Nessuno
poteva ricorrere al magistrato per tutelare in via contenziosa i
propri diritti senza fare uso di formole determinate ; talché una
richiesta ragionevole e convenientemente espressa non era accolta
se un vocabolo, pm- essendo proprio, non corrispondeva alla lettera
della legge (1). La ragione di questo formalismo sta soprattutto
neiresser verbali contratti e procedure, il che induceva ad una me-
ticolosità non necessaria quando tutto si scrive e la scrittura rimane
a testimoniare il significato dell'atto: in altri termini nell'avere i
rapporti economico-giuridici presso i Romani raggiunto fin dal
V sec, sotto l'influenza de' più civili Greci ed Etruschi, uno svi-
luppo quale in genere non si ha presso popoli poco pratici della
scrittura. Inoltre in Roma come altrove lo Stato non assunse se
non lentamente la piena giurisdizione civile e cominciò col co-
stringere l'un contendente ad accettare l'intervento del potere
pubblico richiesto dall'altro solo in casi tassativamente determi-
nati; si spiega quindi la maggiore importanza che aveva in tali
condizioni la formola precisa adoperata dall' attore, la quale gua-
rentiva che il caso in cui egli chiedeva l'intervento del pretore era
realmente di quelli avuti di mira dalla legge: ciò del resto faceva
sì che a jjoco a poco una formola prendesse ad usarsi per analogia
anche dove il senso proprio della parola non l'avrebbe comportato.
I modi che le dodici tavole additano ai cittadini per ottenere, nei
vari casi in cui son lesi i loro interessi, il risarcimento, risentono
d'assai della primitiva difesa privata. Primo è il sequestro {pignoris
capio)^ che si faceva senza intervento del magistrato e anche in
assenza del debitore. Ma questa procedm-a, che metteva a pericolo
la tranquillità pubblica e lasciava libero il campo all'arbitrio, fu
dalle dodici tavole ristretta a pochissimi crediti privilegiati (2).
Assai più comune fu l'arresto della jjersona tenuta al risarcimento
(inanus iniectio), ma anche questo, dal caso di nexuni in fuori,
(1) Gai. IV 11: amie eiiin qui de vitibus succisis ita egisset ut in actione vites
nominaret responsum est rem jyerdidisse cum debuisset arhores nominare eo quod
lex XII tabularum ex qua de vitihus succisis actio conpeteret generaliter de ar-
boribus succisis loqueretur. L'esempio, sia jjure fittizio, illustra assai bene il
formalismo dell'antico diritto romano.
(2) Gai. IV 26-29. 32.
(b CAPO XIV - LE LEOUKNDK SUI DKCEMYmi, ECC.
venne usato in genere come procedimento esecutivo per l'obbli-
gazione nascente da contratto o da delitto riconosciuto da previo
giudizio; e ad ogni modo non x)otè più farsi se non con forme de-
terminate e dovette essere convalidato dal pretore (1). Vere procedure
giudiziali erano invece due soltanto, quella per scommessa (sacra-
mentum) (2) e quella per ricliiesta d'un giudice {iudicis postulatìo).
La prima è preceduta da un simulacro di lotta {vis festucaria).
sopravvivenza dell'antica lotta effettiva tra i contendenti pel pos-
sesso dell'oggetto su cui verte la questione : dopo di che provocatisi
ad una scommessa sulla giustizia della causa rispettiva, ne depo-
sitavano l'importare presso il magistrato. Questi allora nominava
un giudice non perchè decidesse direttamente intorno alla materia
della lite, ma perchè ne pronunciasse indirettamente, dichiarando
giusta o ingiusta la scommessa di ciascuna delle parti. Qui appare
evidente come lo Stato intervenne in una procedm^a assolutamente
privata non attentandosi neppure di modificarne lo svolgimento
in modo conforme all'importanza nuova che per l'intervento suo
assumeva. Certo più tarda, più semplice e più corrispondente al
nuovo ufficio assunto dallo Stato è la procedm'a già ammessa
dalle dodici tavole i^er cui l'attore chiedeva senz'altro al magistrato
un giudice o uno o più arbitri intorno alla cosa di cui si ccaiten-
deva; ma non conosciamo x3urtroppo l'ambito in cui era dato va-
lersi di tal procedura. Certo essa s' applicava a quei casi in cui,
non essendovi modo di precisare prima del processo la mism-a dei
propri diritti, non poteva farsi una recisa asserzione come quella
presupposta dalla procedura per scommessa ; ma è incerto se
potesse farsi richiesta d'un giudice anche nelle cause per cui il
conservativismo romano aveva voluto che si serbasse in vigore
l'altra più rozza procedura.
Forse anche j)iù che di diritto civile si occuparono i decemviri
di diritto penale. Per qualsiasi reato capitale commesso da un cit-
tadino entro il pomerio, sia di quelli contro la sicm-ezza dello Stato
iperdueUio) sia di quelli che indirettamente la mettevano a peri-
colo macchiando la città al cospetto degli dèi o turbando la pace
cittadina, fu data facoltà al magistrato soltanto d'iniziare il pro-
cesso e conceduto sempre all'accusato d'appellarsi ài popolo ; e fu
(1) Gai. IV 21-25. V. sopra p. 2 n. 2.
(2) Gai. IV 13 segg. Varrò de l. l. V 180. Fest. p. 344 s. v. sacramento e
sacramentum.
DIRITTO PENALE 79
sancito elle non era lecito uccidere alcuno senza condanna, né con-
dannare a morte se non nei maggiori comizi di tutta la cittadi-
nanza (1). Cosi accanto ai rei di perduellione, i comizi ebbero a
giudicare dei iDarricidi, degli incendiari, dei falsi testimoni, di chi
recideva o faceva pascere di notte le messi altrui, di clii cercava
danneggiarle con incantesimi. Tra questi reati il parricidio, ossia nel
senso originario della x)arola l'uccisione dell'eguale o del compagno
di cuiia, fu forse il i3rimo delitto ]3rivato per cui la solidarietà
d'interessi tra i membri d'una curia introdusse, in luogo della
vendetta privata, la vendetta preceduta almeno da un simulacro
di giudizio di tutta la curia; e la vendetta privata fu poi in tutto
surrogata dalla pubblica giustizia quando alla singola curia, so-
stituitasi r assemblea delle cuiie, ogni omicidio venne equii)arato
ad un parricidio. Da allora l'omicidio fu x^unito dietro giudizio jDro-
nunciato nelFassemblea popolare, prima in quella delle ernie, poi
in quella delle centurie, quando questa divenne l'assemblea mag-
giore della città (2).
Li tutti cotesti reati x)ertanto la legge esclude e la vendetta e
la composizione privata. La vendetta privata non scomparve però
senza lasciar qualche vestigio. Uno è nella facoltà, che in modo più o
meno esplicito anche legislazioni più progredite delle dodici tavole
lasciano al padi'e di una donna o al marito, di uccidere l'adul-
tero colto sul fatto (3). Un secondo se n'ha da cercare (se però la
notizia è degna di fede) nel non potersi procedere giudizialmente
contro l'uccisore del padi'e, perchè a richiesta appunto del colpevole,
che come figlio era tenuto in origine alla vendetta del sangue, si sa-
(1) Salvian. de gubern. dei Vili 5: interfici... indemnatum quemcumque hominem
etiam XII tabularum decreta retuerunt. Cic. de leg. Ili 19, 54 {lex XII tahu-
larum) de capite civis rogavi nisi maximo comitiatti vetat.
(2,1 Pel concetto del parricidio (la più corretta ortografia latina è da rite-
nere ^^arictrfitiw) V. HuscHKE Die Multa iind das Sacramentum (Leipzig 1874)
p. 183 segg. Brunnenmeister Das Todtungsverhrechen im altromischen Rechi
(Leipzig 1887). E. Meyer Geschichie des Alt. II p. 511 seg. Fest. epit. p. 221:
parricida non utique is qui parentem occidisset dicebatur, sed qualemcumque ho-
minem indemnatum. ita fuisse indicai lex Numae Pompila regis his composita
verbis: si qui hominem liberum dolo sciens morii duit, paricidas esto.
(3) È da ritenere che questa facoltà fosse in origine amplissima, se così
ampia era anche dopo le limitazioni introdotte dal costume o dalla legge nel-
l'età imperiale, v. Paul. coli. 4.
80 CAPO XIV - LE LEGGENDE SUI DECEMVIRI, ECC.
rebbe dovuto iniziare il procedimento (1); ed un terzo forse iieirariete
espiatorio clie è obbligato a consegnare clii lia ucciso involonta-
riamente un altro (2). Ma traccie assai maggiori della difesa e della
vendetta privata si hanno nel trattamento del furto e delle lesioni
personali. Il ladro colto sul fatto poteva di notte essere senz'altro
ucciso (3) e, se non si arrendeva, anche di giorno (4); arrestato e
sottoposto a giudizio, tolto il caso che il danneggiato si iDiegasse
spontaneamente ad un accordo con lui, se non era libero veniva
condannato a morte dal tribunale, se libero consegnato alla parte
lesa (5). Del pari per le gravi lesioni personali, salvo accordo spon-
taneo, la parte lesa, avvenuto il giudizio, poteva inferire al reo le
stesse mutilazioni che ne aveva ricevuto (6). Ma negli altri casi di
furto non manifesto (7), di lesioni più leggere o d'altri danni inferti
deliberatamente od esercitando una violenza fisica {iniuria) (8),
(1) Plut. Rom. 22: t'òiov (nelle leggi di Romolo) tò |Lir)^fMÌ«v òiKr|v Y.o.ià rra-
rpoKTÓvujv ópiaavxa, TtQaav àvbpoqpoviav TTarpoKTOviav irpcaenteW (falsa etimo-
logia di paricidiìiin). E noto che posteriormente l'uccisore del padre si puniva,
more maiorum, gittandolo nel fiume cucito in un sacco con una vipera, un
gallo ed una scimmia. Cfr. Mommsen Strafrecht 922. La menzione del gallo e
della scimmia però induce a non attribuire a quest'uso in Roma ne soverchia
antichità ne origine indigena.
(2) Cic. t02). 17, 64: aries... subiicitur... si telimi manu fugit ma()is quam iecit.
(3) Macrob. I 4, 19: si nox furtum faxsit (codd. factum sit) si im occisit iure
caesus esto.
(4) Cic. prò Tullio 21, 50: furem... luce occidi vetant XII tabulae... nisi se telo
defendit.
(5) Gell. n. A. XI 18, 8 : ex ceteris autem manifcstis furibus liberos verbe-
rari addicique iusserunt et cui factum furtum esset... servos item furti manifesti
prehensos verberibus affici.
(6) Fest. p. 363 : si membrum rupit (cod. rapii, v. l'ed. di Thewrewk de Ponor
p. 550) ni cum eo pacit talio esto. Membrum ruptum è la mutilazione, l'aspor-
tazione violenta di un membro. Così si spiega il trattamento diverso del-
Vos fractum, la rottura o contusione di un osso. V. su ciò la eccellente memoria
di P. Huvelin La notion de l'iniuria dans le très-ancien droit Romain in ' Mé-
langes Appleton ' p. 369 segg.
(7) Gai. inst. HI 190: nec manifesti furti poena ex lege XII tabular um dupli
inrogatur.
(8) Pel concetto deWinitiria v, Huvelin 1. e. Sulle pene àeWiniuria semplice
V. Gell. n. A. XX 1, 12: si iniuria (così è da l'estituii'e coi codd. secondo
Huvelin) [alteri] faxsit viginti quinque poenae sunto. Cfr. Plin. n. h. XVII 7. Gai.
Ili 223 : propter os vero fractum aut conlisum trecentorum assium^ poena erat
DIETTTO PENALE 81
l'accordo era obbligatorio, le condizioni di esso ben determinate
dalla legge e la procedura prescritta la stessa delle cause civili ;
onde ad esempio il ladi'o non colto sul fatto non era tenuto che a
risarcire in doppio il valore dell'oggetto rubato e chi recideva un
albero altrui a pagare venticinque libbre di rame (1).
Non può negarsi che in varie di queste disxDosizioni e in parti-
colare nella disparità fuor d'ogni proporzione fra il trattamento cui
si sottopone il ladro colto sul fatto e il ladro che non si è potuto
sorprendere si dimostri una grande rozzezza del sentimento etico;
ma si manifesta anche in modo, per un popolo in condizioni pri-
mitive, sorprendente il conscio, fermissimo x3roposito dello Stato
di mantenere l'ordine e ad ogni costo con severità massima di re-
pressione impedire qualsiasi turbamento della pubblica pace. Di
che, come di tante altre singolarità della storia e delle istituzioni
romane, va recata la cagione alla perenne disperata lotta per l'esi-
stenza che i Romani sostennero e che insegnò loro la necessità del-
l'ordine e della discii^lina inducendoli ad imitare nella vita civile i
provvedimenti pronti e severi della vita militare.
Per ciò che riguarda i tribunali scende dal già detto che ]ìon
si distingue in Roma un foro civile ed un foro penale; ma piut-
tosto uno privato ed uno pubblico (2). L'una e l'altra giurisdizione
era stata esercitata dal re, in parte in concorrenza coi comizi, nei
limiti in cui dm'ante l'età regia l'aveva assunta lo Stato. Assiso
sul sedile del suo cocchio (onde alla sedia di parata dei magistrati
maggiori il nome di sedia curale) il re rendeva giustizia nel
Foro, forse all'ombra di quel fico ruminale che, secondo la leggenda,
aveva protetto dai raggi del sole la cuna dei fondatori di Roma.
Poi la giurisdizione criminale pubblica passò ai duoviri della ^jer-
duellione ed ai questori del parricidio che l'esercitarono j)resie-
si libero os fractum erat; at si servo CL. Sebbene questa disposizione venga
attribuita anche da altri alle dodi<;i tavole, non è da negare che è alquanto
imbarazzante il testo di Cato fr. 81 Peter ap. Priscian VI p. 254: si qiiis
membrum ruint aut os fregit tallone proximus cognatus ulciscitur.
(1) Pi>iv. 1. e: cautum est XII tabulis ut qui iniuria cecidisset alienas (arbores)
lueret in singulas aeris XXV.
(2) Questa distinzione è messa assai bene in chiaro da Dionisio, che l'attri-
buisce al buon re Servio Tullio, IV 25, 2: bieXubv òtto tùjv ìbuuTiKùv xà òr||uóaia,
TiDv |uèv €l<; Tò Koivòv qpepóvTuuv <ìbiKr|,udTUJv aÙTÒ<; ètroietTO xàq òia^vdjaeK;, tOliv
b' lòiujTiKuJv lòidurac; ^raEcv elvai hwaaxà-c,. Come lavoro sintetico è da citare
P. F. Girard Histoire de Vorganisation judiciaire des Romains I (Paris 1903).
G. De Sanctis, Storia dei Romani, II. 6
82 CAPO XIV - LE LEGGENDE SUI DECEMVIRI, ECC.
dendo i comizi (v. I pag. 418) (1). Agii altri magistrati non rimase
in città elle il mettere a dovere {in ordinem redìgere) chi si mo-
strasse riottoso ai loro comandi mediante la coercizione entro
limiti che vennero stabiliti sempre più restrittivamente dalla
legge (2). Fecero eccezione i nuovi magistrati plebei, i quali ten-
tarono dapprima, appoggiati dalla plebe, d'assumere una illimitata
potestà coercitiva a tutela della loro classe (v. sopra pag. 27), ma,
almeno dopo il rigoroso divieto delle dodici tavole, di fatto nei
casi più gravi si limitarono a traduiTe gli accusati innanzi ai
comizi.
Frattanto la giurisdizione privata regia passò, accresciuta assai
di àmbito, al pretore, che fu poi detto ui'bano, il quale ebbe ad oc-
cuparsi tanto della giurisdizione contenziosa quanto di quella vo-
lontaria, ossia di quella, in cui, sotto la forma d'un processo, si
compiva un atto legale convenuto fra le parti (adozione, emanci-
pazione, manumissione). Della giurisdizione volontaria peraltro si
occuparono anche i due colleghi superiori in grado del x^i'etore, i
consoli (v. I pag; 414). E quanto alla giurisdizione contenziosa
solo nel caso in cui si trattasse di rendere esecutiva una sentenza
con l'arresto {manus iniectio) o in cui una delle i3arti tacesse o
confessasse essere giusta la richiesta dell'altra {in iu?'e cessio) la
procedura si chiudeva con la sentenza del pretore; altrimenti il
pretore, precisato il punto di diritto su cui verteva la questione,
rimandava le parti innanzi a un giudice (3), che pronunciava, dopo
aver prestato gim-amento, la sentenza. Toccava al vincente di farla
eseguii'e ; nel che lo Stato non gli forniva se non l'aiuto negativo
di dargli, purché osservasse certe norme, facoltà di procedere al-
l'esecuzione sia mettendo le mani addosso al soccombente, sia im-
padronendosi di qualche oggetto di sua proprietà come pegno.
Vertesse il i^rocesso sopra un contratto o sopra un delitto, il
giudice di regola era uno; e l'albo entro cui il pretore doveva
sceglierlo era, in età storica e probabilmente fin da tempo assai
remoto, l'albo dei senatori (4). Simile scelta dei gim-ati non era tale
(1) Gli ultimi son ricordati appunto nelle dodici tavole : Pompon, diff. 1 2,
2, 23.
(2) Sulla coercizione dei magistrati vedi 1 p. 415 n. 1.
(3) Era questa la procedura detta in iudicio per distinguerla dalla antece-
dente in iure. Cfr. I p. 349.
(4) PoLYB. VI 17 : ìk Tf]c, ouykXhtou ÓTroòiòovTai Kpixaì tuùv TtXeiOTUJV koì
TUJv òr||uoaiujv Kai tujv ìòiujtikujv auvaXXayiLioiTUJv, òaa jnéYeGoq ^x^i tujv èyKXr)-
ladxujv.
PENE
da rassicurar troppo i plebei, soprattutto finché senatori potevano
essere i soli patrizi. E ]3erciò in alcune delle cause più gravi, quelle
che si riferivano alla libertà della persona, la plebe imj)ose in via
rivoluzionaria allo Stato (v. sopra ijag. 40) i giudici decemviri a
cui il pretore doveva commetterne il giudizio (1). Fu questo uno dei
pochi casi in cui il diritto romano piii antico ammise nelle cause
l^rivate un verdetto emanato a pluralità di voti. Alquanto diverso
era il caso degli arbitri dati dal pretore dietro un' azione per ri-
chiesta di arbitri che potevano in certi casi esser tre, probabil-
mente nominati uno da ciascmia delle parti e il terzo dal magi-
strato (2). E finalmente i giudici erano più pure nelle i)iccole corti
arbitrali di ricuperatori che si costituivano a soddisfare i reclami
di stranieri quando sussistevano relazioni di amicizia con gK Stati
di cui essi erano cittadini (3).
Due pene usa soprattutto l' antichissimo diritto criminale ro-
mano, la morte e la multa: altre non sono che eccezionali. La
condanna a morte si eseguisce con la scure, con la croce o con la
forca, col fuoco, con l'annegamento, col precipitare dalla ruxDe
Tarpea, col seppellir vivo (4); ed è spesso preceduta dalla flagel-
lazione del condannato e inasprita ad arbitrio per gli schiavi con
pene- accessorie. Multa si chiama propriamente la i^ena pecuniaria
imposta a profitto dello Stato e pena (dal greco ttoivìi) o più anti-
camente danno {damnum da dare) l'ammenda o il risarcimento
offerto alla parte lesa (5). Non s'infliggono mutilazioni che come
taglione {folio da talis)^ ossia risarcimento di mutilazioni simili e
a cm^a non dello Stato, ma della vittima (v. sopra pag. 80). In
schiavitù è ridotto il colpevole non in forza di giudizio, ma in al-
(1) Che i centumviri siano assai più recenti non dovrebbe ormai esser posto
in dubbio, v. Wlassak Rom. Processgesetze I (Leipzig 1888) 131 segg.
(2) Fest. p. 376 s. V. vindiciae. Cfr. Cic. de leg. I 21, 25.
(3) Fest. p. 274 s. v. recìpeì-atio: reciperatio est, ut ait Gallus Aelius, cum
inter populum (scil. Romanum) et reges nationesque et civitates peregrinas lex
convenit quomodo per reciperatores reddanttir res reciperenturque resque pri-
vatas inter se persequantur.
(4) L'ultima maniera d'esecuzione è serbata alle vestali; l'annegamento, che
si usa solo nel caso di cui a p. 80 n. 1, è posteriore probabilmente alle dodici
tavole. V. del resto Mommsen Strafrecht p. 911 segg.
(5) L'uno e l'altro termine è adoperato nelle dodici tavole : per questo v.
Fest. p. 876 s. v. vindiciae, per quello sopra p. 80 n. 8. Cfr. Mommsen Strafrecht
p. 13.
84: CAPO XTY - LE LEGGENDE SUI DECEMVIRI, ECC.
cuni casi più gravi di coercizione che il magistrato esercita contro
i renitenti alla leva od al censo in virtù del suo imperio ; e in nn
caso solo il reo è ceduto come scliiavo dal tribunale alla parte lesa,
quando si tratta di ladro colto sul fatto (v. sopra pag. 80); ])iù
sovente può esser consegnato, a soddisfazione d'un danno clic
ha recato, da chi lo detiene come figlio o come schiavo sotto la
sua potestà [noxae deditio). La consegna al creditore (addicfio)
di chi per una obbligazione procedente da contratto o da delitto
gli è debitore, in caso di insolvibilità, non è una pena, ma piut-
tosto una procedura esecutiva, e soddisfacendo al suo debito il con-
segnato {addictus) X3UÒ sempre ricuperare la libertà. La flagellazione
è pur essa un mezzo coercitivo frequentissimo in campo, ma di
cui anche in città fino al II sec. il magistrato può, in dati casi,
valersi ad arbitrio a tenore delle dodici tavole e d'altre leggi (1);
non sembra però sia stata mai nelle condanne giudiziarie se non
una consueta aggravante della pena capitale (2). L'esilio, ossia, se-
condo il senso letterale della parola, lo sbalzo oltre i confini, non è
una pena, ma il mezzo per sottrarvisi ; la carcere non è neppur essa
una i)ena, ma serve o per assicm-are il reo alla giustizia o come
mezzo di coercizione al magistrato. Nel tutt' insieme il diritto cri-
minale romano è, nelle pene che applica e nella frequenza con cui
le applica, poco mite ; ma la sua severità differisce profondamente
dalla raffinata e sapiente crudeltà degli Orientali. In un punto
esso merita poi lode speciale che, se non ha al tutto abolito i tor-
menti come accessori della condanna a morte, pur contenendoli in
generale entrò limiti abbastanza moderati, li ha esclusi affatto per
gli uomini liberi come mezzo di prova (3). E da credere che l'abo-
lizione dei tormenti nella istruttoria, fuori che per gli schiavi, non
essendo mai riferita a nessuna legge comiziale, debba ascriversi ai
decemwi. Ma probabilmente questo provA-edimento umanitario,
onde Appio Claudio può riguardarsi come un predecessore del Bec-
caria, si deve' all'esempio del iDopolo greco e in particolare dell'ate-
niese i^resso cui era in rapporto con la mitezza maggiore delle
pene, col carattere stesso più dolce e meno rigido del popolo e col
più elevato livello della sua coltura (-1).
(1) Così il fanciullo reo delfurto di cui sotto a p. 85 n. 1 veniva flagellato
con verghe arbitrio praetoris, Plin. n. h. XVIII 12.
(2) Con la sola eccezione notata sotto a p. 86.
(3) V. in particolare Mommsen Strafrecht p. 405.
(4) Purtroppo ci è ignoto anche il precursore ateniese del Beccaria. Sap-
SACERTÀ 85
Del primitivo significato sacro ed esx3Ìatorio die aveva in ge-
nerale la condanna a morte per conto dello Stato (v. I p. 288)
non era perduta nelle dodici tavole ogni traccia. Ad esempio vi è
prescritto clie chi taglia di notte le messi altrui debba essere so-
speso alla forca come vittima a Cerere (1). In questo come in altri
casi in cui la legge scritta ó la consuetudine consideravano il col-
pevole come sacro alla divinità, esso veniva condannato a morte
dopo un regolare processo. Invece in moltissimi altri casi in cui
era comminata la sacrazione, o per non esservi uno che avesse
l'interesse o la possibilità di intentare l'accusa o perchè riuscisse
impossibile di rintracciare il colpevole, il processo non aveva
luogo ; cosi x3el marito che vende la moglie , pel figlio che batte
il padre, per la nuora che maltratta la suocera, iDcl patrono che
manca al suo dovere verso il cliente (2). Allora non è i3unto a cre-
dere che il consacrato fosse fuori della legge e che a chiunque fosse
lecito sostituirsi alla giustizia divina. Grli dèi fanno da sé le proprie
vendette ; e lo Stato si limita a mettere in sulF avviso ciascuno
perchè non cada in quelle colpe e a scindere la propria resj)onsa-
bilità da quella di chi vi è incorso ; e se gli dèi manifestano V ira
loro contro tutta la città, i cittadini hanno sempre modo di i^la-
carli sostituendo all'ignoto colpevole vittime espiatorie che, quando
son più terribili le manifestazioni dell'ira divina, possono anche
essere vittime umane (v. I pag. 287). In mezzo tra codeste due ca-
tegorie di leggi sacrate stanno quelle che s'è data la plebe, con
cui protegge la inviolabilità dei iJropri tribuni e delle proprie as-
semblee (v. sopra pag. 23). Con queste la plebe ha inteso di gua-
rentirsi la facoltà ]}m ampia di difesa. Qui pubblica può essere
l'offesa, e può richiedersi immediata la repressione; e la consacra-
zione non implica in nessun modo che il colpevole sia un empio.
piamo soltanto che il sottoporre ai tormenti i cittadini era vietato dall' ètri
ZKOiaavòpiou vpriqpiaiua (Andoc. de myst. 43). L'arconte Scamandrio è certo ante-
riore al 481/0 e posteriore alla cacciata d'Ippia; onde l'abolizione della tor-
tura deve in ogni caso collegarsi con le riforme democratiche iniziate da
distene. Non voglio punto asserire del resto che i decemviri avessero cono-
scenza diretta della legge ateniese, ma poteva benissimo questa essersi in-
trodotta intorno alla metà del sec. V a Cuma od a Napoli.
(1) Plin. n. h. XVIII 12 (I p. 288 n. 2).
(2) Plut. Rom. 22 : àTTobó)uevov y^vaìKa GueaGai xQovioic; 0€oi<;. Pel figlio e la
nuora v, Fest. p. 230 s. v. plorare (I p. 301 n. 1). Pel patrono v.. I p. 228 n. 1.
86 CAPO XIV - LE LEGGENDE SUI DECEMVIKI, ECC.
bensì è semplicemente una formula per metterlo fuori della legge.
Ma le assemblee della plebe e il tribunato e le leggi sacrate non
sussistono agii occhi dei compilatori delle dodici tavole; per essi
non v'iia che il regolare giudizio dei maggiori comizi, e senza giu-
dizio non si danno esecuzioni capitali. Se non che concili della
plebe e tribuni e leggi sacrate risorsero con la caduta del de-
cem-virato ; ma tutto ciò che con quelle leggi si collega fu sempre
tenuto non per legittimo, si bene per rivoluzionario; e del resto
e la pacificazione tra le classi e l'ossequio alle disposizioni stesse
delle dodici tavole ammansò a poco a poco le magistrature plebee
e trasformò la difesa rivoluzionaria della plebe nei regolari giu-
dizi comiziali presieduti dai tribuni e dagli edili (1).
Ma non nelle formule sulla sacertà del reo è il vestigio mag-
giore dell' intervento della religione nel diritto penale, si nella
giuiisdizione che il pontefice massimo ha sui sacerdoti da lui di-
pendenti. Questa peraltro non eccede in generale la facoltà di
imporre multe concessa agii altri magistrati o, in casi di multe
più gravi, di dirigere il processo che per l'appello del reo si fa in-
nanzi ai comizi. Sulle vergini vestali per cui il pontefice sostituisce
in certa mism^a la patria potestà, che si spegne nell'atto della loro
consecrazione , la sua giuiisdizione , simile a quella del padre sui
figli, s'estende fino alla flagellazione nel caso che lascino spegnere
il fuoco sacro o alla condanna a morte in caso d'incesto. Ma non
soltanto la vestale, si anche il suo seduttore risponde del suo reato
innanzi al tribmiale del pontefice massimo, che lo condanna, senza
che gli sia lecito d'appellarsi al popolo, ad essere flagellato a morte
nel Foro (2) ; solo caso in cui la tradizione sacra ha trionfato della
civile guarentia sancita per le condanne capitali dai decemviri.
(1) Come si vede, io credo che sia impossibile interpretare in uno stesso
senso i casi variissirai di sacertà ricordati dalla tradizione. E così è anche
da spiegare la contraddizione degli antichi giuristi nel definirla, cfr. Fest.
p. 318 s. V. sacer mons: homo sacer is est, qiiem populus iudicavit ab malefìdum,
neqtie fas est eum immolari, sed qui occidit parricidi non damnatnr ; e più sopra :
sacratae leges sunt qiiibus sanctum est qui quid adversus eas fecerit sacer alicui
deorum {sit) sicut familia peciiniaque. sunt qui esse dicant sacratas quas plebes tu-
rata in monte Sacro sciverit. Del resto v. Mommsen Strafrecht p. 552 seg. 900 segg.
Maschke Zur Theorie der rum. Agrargesetze p. 19 segg.
(2) Fest. p. 241 : probrum virginia Vestalis ut capite puniretur, vir qui eam
incestavisset verberibus necaretur: lex fixa in atrio Libertatis. Altri testi presso
MoM.MSEN Strafrecht p. 919 n. 1.
ELEMENTI GRECI NELLE DODICI TAVOLE 87
Col diritto sacro si collegano anche i soli casi di grazia che
siano ammessi dalla implacabile severità romana ignara delle greche
amnistie. Il reo, se si rifugia in catene nella casa del flamine diale,
dev'esser liberato da' suoi vincoli, e questi si gettano fuori della
casa dal tetto (1); se gli abbraccia le ginocchia, non può in quel
giorno essere percosso con le verghe (2) ; e finalmente il condan-
nato a morte che s'incontra casualmente in una vergine vestale ha
salva la vita (3). ì^eì che del resto non son da vedere privilegi del
sacerdozio, ma soltanto, almeno in origine, provvedimenti diretti
ad evitare al flamine e alla vestale imiDurità rituali.
Questo breve esame del diritto civile e del diritto penale nelle
dodici tavole dimostra che in massima esse contengono " fermati ,,
i costumi romani tradizionali. Soltanto apijunto fermandoli, ossia
sottraendoli all'arbitrio dei magistrati e dei sacerdoti, determinan-
doli nei casi controversi, precisandoli, sceverandoli dalle tradizioni
che cadevano in disuso perchè incompatibili con la civiltcà progre-
dita, esse hanno posto il fondamento al maraviglioso sviluppo del
diritto romano ; né son rimaste senza conseguenze gravissime le
riforme che, sia pur timidamente, v'hanno introdotto i decemviri,
ora con allargare il significato d'una formula, ora con applicare
per analogia ad un dato ordine di cose principi sorti per un altro
ordine, ora finalmente con ispirarsi qua e là ai codici greci.
Perocché non solo son d'origine greca alcune istituzioni già an-
teriori alle dodici tavole e da esse regolate, come il testamento ;
non solo dai Grreci appresero gl'Italici come la scrittura cosi' anche
lo stesso uso di raccogliere in mi corpo scritto le norme giuridiche;
ma anche qua e là i decemviri si attennero assai dawicino al-
Fesempio dei codici greci, come nelle leggi intese a frenare il lusso
sregolato dei funerali, e in certe norme sui confini dei camici e
sui diritti dei collegi privati. Da questi e simili puliti di contatto
con legislazioni greche ebbe origine la favola dell'ambasceria
romana ad Atene. E s'intende del resto come gii antichi storici
e gimisti si dessero premm-a di i)aragonare le dodici tavole col
più famoso codice greco, quello di Solone; ma é al tutto in ve-
risimile che direttamente dal codice di Solone attingessero quelle
leggi d'origine greca i decemviri. Infatti leggi simili si trovavano.
(1) Gell. n. A. X 15, 8. Skrv. Aen. II 57.
(2) Gell. X 15, 10. Serv. Aen. Ili 607.
(3) Plut. Num. 10.
CAPO XIY - LE LECtGEXDE SUI DECEMVIRI, ECC.
e in parte ne abbiamo prova sicura, nei codici arcaici di non poche
altre città greche; ed è impossibile, ne importa al caso nostro, ri-
cercare quanto Solone avesse attinto alle leggi d'altre città più
progredite di quel che non fosse sul principio del sec. VI Atene,
quanto invece nel maggior fiore della potenza ateniese città vicine
e lontane ne ricopiassero nei loro codici le leggi. E quindi verisi-
mile che al codice di qualche colonia greca d'Occidente, forse a
quello di Cuma, risalgano direttamente o indirettamente quelle
leggi delle dodici tavole di cui gli antichi avvertirono l'apparente
identità con certe leggi di Solone. Queste infiltrazioni elleniche son
del resto d'assai poco conto. Il tutt' insieme delle tavole è schiet-
tamente nazionale ; e persino la più importante istituzione che i
Romani abbiano attinto ai Grreci, il testamento, è giunta ai decem-
viri elaborata in modo affatto originale dall'uso romano.
Se poi, lasciando i raffronti greci, iDaragoniamo le dodici tavole
con la più vetusta legge a noi pervenuta, quella promulgata di-
ciotto secoli prima dal re babilonese Hammurabi, ci sorprende non
qualche analogia concernente in ispecie l'autorità del cai30 di fa-
miglia, la pena del taglione, il procedimento contro il furto, ana-
logia che non obbliga davvero ad ammettere alcuna effettiva
parentela tra le due legislazioni (1); ma la immensa superiorità
apparente della più antica e il grado d'incivilmento più avanzato
che presuppone. Il codice di Hammurabi mira non meno risoluta-
mente delle dodici tavole ad assicm^are ai sudditi ordine e pace;
di che è affidata la cm-a, sotto l'assoluta x3otestà del re, a molte-
plici ufficiali con fmizioni amministrative e giudiziarie. Degli or-
dinamenti familiari il diritto babilonese si occupa largamente de-
terminando con maggior precisione che non facessero le dodici
tavole le relazioni patrimoniali tra i coniugi e non trascurando di
stabilire le conseguenze giuridiche del divorzio. Ma il progresso
civile dei Babilonesi si palesa soiDrattutto nella cura con cui prov-
vede la loro legge ad ogni maniera di obbligazioni provenienti da
delitto o da contratto e nello sviluppo stesso che hanno avuto
presso quel popolo, con l'aiuttf della scrittura, i contratti più sva-
riati pel loro oggetto. ■ Peraltro, rozze com'erano, le dodici tavole
in un punto superavano d'assai il raffinato codice d"Hammm"abi: in
(1) Di ciò giudica rettamente, fra altri, E. Besta nella sua eccellente me-
moria su Le leggi di Hammurabi e l'antico (Jiritto babilonese in ' Riv. ital. di So-
ciologia ' VIH (1904) p. 179 segg., particolarmente a p. 235 seg.
I DECEMVIRI ED HAMMURABI 89
quanto esse, con lievi eccezioni poco dopo abolite, sancivano l'egua-
glianza di tutti gli uomini liberi davanti alle leggi civili e cerca-
vano nella legge promulgata nell'interesse del popolo e convalidata
dal suo voto il fondamento della vita dello Stato; laddove pre-
supposto del codice babilonese è che sussista un potere superiore
alla legge stessa, quello del re, di cui tutti in certa guisa son servi
e che fa leggi non per delegazione del popolo, ma, sia pure nel-
l'interesse dei sudditi, di pro^jria autorità o per diretta ispirazione
divina. In questa differenza è la ragione per cui, mentre la legis-
lazione progredita d'Hammurabi perì con la civiltà babilonese, il
codice delle dodici tavole potè essere il primo germe, onde si svolse
per una lunghissima evoluzione, nella quale ebbe larga parte l'effi-
cacia di quelle leggi e di quelle dottrine elleniche ch'erano ispirate
agli stessi principi, il diritto vigente presso tutti i popoli civili.
CAPO XV.
La triplice alleanza fra Romani, Latini ed Ernici.
Durante l'età regia Roma non solo aveva incorporato buon
numero di comuni latini nel suo territorio, ma, cercando di sotto-
porre il Lazio alla' sua supremazia, pareva si preparasse a ridurlo
in uno Stato solo. Senoncliè, verso la fine del sec. VI, questa evo-
luzione s'arrestò d'improvviso. La fusione piena dei Latini in un
solo Stato fu ritardata non di pochi anni, ma di più che quattro
secoli; e se la causa di ciò fu la rivalità delle maggiori città la-
tine, che dovevano sentir poco desiderio di piegarsi al primato
romano, rinunziando alle proprie tradizioni d'antica e gloriosa
autonomia, e anche meno di lasciarsi assorbire dai Romani in un
solo Stato, l'occasione fu offerta o dai torbidi civili che forse ac-
compagnarono in Roma il declinare della monarchia o dalla rea-
zione nazionale del Lazio contro gli Etrusclii che erano riusciti
persino a dominare qualche tem^jo in Roma (v. e. XII).
Allora si costituì tra i Latini una lega da cui Roma era esclusa
e che aveva anzi lo scopo evidente di sottrarre il Lazio alla ege-
monia romana; non più unione essenzialmente religiosa, che per
abuso si sfruttasse talora a scopo politico, ma alleanza essenzial-
mente politica, in cui avevano importanza secondaria le immanca-
bili ceremonie religiose. Capo supi-emo della lega era un dittatóre
che comandava le forze federali e offriva i sacrifizi pel buon esito
delle imprese comuni, probabilmente non con autorità di magistrato
stabile, ma come un generalissimo che si nominava secondo che se
LA NUOVA LEGA LATINA 91
ne presentasse T occasione e al cui sommo potere dovevano sotto-
porsi pienamente, per ciò che si riferiva alla leva ed al comando
in guerra, i magistrati ordinari delle singole città (v. I p. 422 seg.).
La nuova lega aveva anche le sue assemblee federali, che si riu-
nivano alla fonte dell'acqua Ferentina nel territorio di Aricia a
occidente del lago di Nemi (1). Come queste assemblee fossero co-
stituite ignoriamo; ma non v'è dubbio che ciascuno dei confede-
rati poteva farvisi rappresentare ed aveva pari diritto di voto (2),
Un caso fortuito ci ha conservato la lista genuina dei popoli
alleati (3). Si è da alcuni revocata in dubbio l'autenticità del
documento in cui è contenuta quella lista, perchè in esso è il
nome del dittatore Egerio, che vuoisi un personaggio mitico aftine
alla ninfa Egeria. Ma la irrealtà di Egerio è una supposizione
gratuita per cui non fornisce argomento sufficiente la somiglianza
col nome d'Egeria. Il documento poi è riferito da uno scrittore
serio e fededegno che l'ha trascritto, com'è da credere, nello stesso
sacrario nemorense, sia pm^e traducendolo in parte nel latino dei
(1) Si soleva cercare dal Cluverio in poi la fonte dell'acqua Ferentina presso
Marino ; ma è evidente che non si trovava in territorio romano. Non può del
resto neppure collocarsi col Beloch It. Btind 187 n. 2 nei dintorni del san-
tuario nemorense, perchè era sulla via da Eoma al paese dei Volsci (Liv. II
38. DioNYS. Vili 4), dunque a un dipresso sull'Appia. La indicazione topogra-
fica di CiNcio ap. Fest. p. 241 (sub monte Albano) non ha che un valóre ap-
prossimativo.
(2) Secondo Dionts. V 50 era Y^YPaM^évov èv xaii; auvGriKan; (di Servio Tullio?)
ÓTTCtaat; irapeivai ràc; TróXeic; raxc, Koivaìc; dfopaìt; òaai toO Aarivuuv eìaì yévouc;,
TTapaYYei^<ivTUJv aÙTaìt; tujv irpoéòpujv. Però nella riunione qui da lui menzio-
nata, i Romani, illegalmente secondo Dionisio, non vengono invitati. È lecito
supporre che all'acqua Ferentina abbiano avuto luogo annualmente le riunioni
federali della nuova lega di cui Roma non faceva parte, e che quindi non vi
sia spettato ai Romani diritto di voto. La nostra tradizione ricorda assemblee
dei Latini colà fin dall'età regia (Liv. I 50 segg. Dionts. Ili 34. 51. IV 45);
ma forse si tratta di anticipazioni dirette ad ilhistrare il preteso predominio
romano in quelle assemblee, cfr. Cincio 1. e.
(3) Cato fr. 58 Peter ap. Priscian. IV p. 129 H (cfr. VII p. 337 H) : Caio
Censoriua... ibidem (in 11 originum) : lucum Dianium in nemore Aricino Eyerius
Laevius Tuscidanus dedicavit dictator Latinus, hi populi comtnimiter: Tuscidanus,
Ariciniis, Lanitvinits, Laiirens, Coranns, Tihurtin, Pometinus, A?'deatis Rnfnlus.lia
realtà storica di Egerio fu messa in dubbio dietro il Cluverio //. antiqua II
p. 931 dal Pais I 1, 291. La migliore illustrazione del documento è data dal
Beloch It. Bund. p. 179 segg. e Die Weihinschrift des Dianahaines von Aricia
nei ' Jahrbb. f. Phil. ' CXXVII (1883) p, 169 segg.
92 CAPO XV - ALLEANZA FRA ROMANI, LATINI ED ERNICI
suoi tempi. Del resto ragioni esterne fanno ritenere clie la lista
sia integra (1) ; né vi contraddice la critica interna, perchè la man-
canza di molti comuni minori conferma che intorno al 500 il Lazio
aveva politicamente un assetto molto diverso che non due secoli
prima, e quella d'alcuni maggiori si spiega, come A^edi^emo, senza
soverchia difficoltà.
I popoli che facevano parte della lega erano pertanto i Tuscu-
lani, gli Aricini, i Lanuvini, i Laui'entini, i Corani, i Tibuilini, i
Pometini e gli Ai'deati; cosicché il territorio federale doveva avBre
allora una estensione di ch'ca 1500 km^ (2). Non vi aveva fatto
adesione Preneste, la quale sembra essersi destreggiata, non-
ostante la sua nazionalità latina, tra Latini ed Equi fin dopo Fin-
vasione gallica (3); non vi era Fidene, alleata dei Veienti, non
Nomento, che forse alla propria sicui^ezza aveva provveduto unen-
dosi per qualche tem^jo con le contigue tribù sabine, non Pedo
che segui l'esempio della vicina Preneste e forse si strinse in lega
con essa, non Labici, sia che fosse alleata con Preneste, sia che
fosse caduta fin d'allora iielle mani degli Equi. E del j)ari non
son menzionate Grabì che, minacciata da tre potenti vicine, Roma,
Tivoli e Preneste, aveva creduto prudente concludere a buoni patti
un accordo con Roma cui rimase sempre fedele (I pag. 389), La-
vinio, che senza dubbio faceva parte allora del comune lam'entino
(I p. 182), e da ultimo Velletri. Ora che il territorio velliterno
fosse compreso nella federazione par certo, poiché ne facevano
parte Cora e Pomezia; ma le fonti non ascrivono origine latina
a Velletri, e quindi va ritenuto che, almeno in qualità di comune
autonomo, Velletri sia d'origine volsca e posteriore alla distruzione
di Pomezia (4).
(1) Prisciano cita ambedue le volte il passo per illustrare il nominativo
Ardeatis. Ora a tal uopo era più che sufficiente cominciare con populi com-
muniter e terminare con Ardeatis, come appunto Prisciano fece la seconda
volta. Ciò vuol dire che la prima volle riferire l'arcaico documento integral-
mente. L'identità delle citazioni mostra del resto che nessun nome è caduto
nei manoscritti di Prisciano fra Tnsculanus e Ardeatis.
(2) Cioè Tusculo km^ 100 ; Aricia e Lanuvio 65 ; Laurento e Ardea 400 ;
Cora 65; Velletri 135; Tivoli 400 (?) ; Pomezia 400. Totale 1565. Il computo
è fondato in generale sui dati raccolti dal Beloch neWIt. Bund.
(3) Probabilmente una induzione ricavata dal nostro documento o da un
documento affine è la notizia data da Liv. II 19 (a. 499): Praeneste ah Latinis
ad Romanos descivit.
(4) Peraltro è possibile che nel sito di Velletri sia esistito l'antichissimo
LA NUOVA LEGA LATINA 93
In ordine alla cronologia, è fuor di dubbio che questa lista
dei collegati latini spetta al 500 av. C. circa. Vi comparisce infatti
Pomezia, la cui caduta è ricordata ripetutamente dalla tradizione
alla fine del VI secolo o al principio del V (v. oltre), mentre non
vi son registrate le colonie dedotte dal principio del sec. V in poi,
a cominciare da Signia (495) e da Norba (492). Ora se la precisione
delle date die gli annalisti assegnano alla distruzione di Pomezia
o alla fondazione di Signia e di Norba è discutibile, l'argomento
ch.e si desume da tutte insieme non può essere disconosciuto da una
critica temperata.
La nuova lega latina provvide subito a darsi un santuario fe-
derale. Non pm-e il sacrario di Diana aventinense, ma anclie quello
di Giove Laziale, trovandosi in territorio romano, era disadatto
a divenirne il centro religioso. È del resto a notare che l'antica
federazione sacra albana non fu punto abolita con la costituzione
della nuova lega latina, ma soltanto tornò ad essere, come era
prima, una pm-a e semplice unione religiosa. Presso il lago di
Nemi la venerazione di Diana, sebbene nessun tempio sorgesse
nel sacro bosco, era probabilmente antichissima, come mostrano
gli usi barbarici che si collegano col sacerdòzio del re nemorense
(I p. 218 e 273). Ora il dittatore latino Egerio Levio vi fondò a
nome dei collegati un'ara federale che si contrapponeva all'ara di
Diana aventinense, di cui i re di Roma avevano tentato invano di
fare il centro religioso del Lazio (1). Non è diffìcile che contem-
poraneamente sia stato riconosciuto come federale il santuario di
Diana nel Tusculano (2) e quello di Venere tra Lavinio ed Ardea (3).
centro latino dei Velienses (I p. 379 n. 1 nr. 29) privato in proceder di tempo
della originai-ia autonomia. Per la origine dei Velliterni v. Cass. Dio XLV 1 :
r\yj \xi-\i è2 OùeXiTpuJv xùiv OùoXaKiòuuv.
(1) In questa condizione di cose non deve stupire che i i-itrovamenti dell'area
di Diana non siano in massima anteriori al V secolo, per quanto paia indu-
bitato che il culto di Diana debba essere molto più antico. Il Incus dedicato
da Egerio sembra fosse una radura, in cui naturalmente s'innalzò un altare.
Alla medesima dedica par riferirsi Fest. p. 145: Maniiis Eger[ius ìucum]
Nemorensem Dianae consecravit. A età posteriore risale il piano dell'ampio re-
cinto, e anche più tarda è la costruzione del tempio, v. Morpurgo 'Mon. ant. '
XIII p. 361 segg.
(2) Plin. n. h. XVI 242: est in suburhano Tusculani (ujri colle qui Come ap-
pellatur lucus antiqua religione Dianae sacratus a Latio.
(3) Su cui V. sopra I p. 200 e p. 203 n. 3.
94 CAPO XY - ALLEANZA FRA ROMANI, LATINI ED ERNICI
Quando Roma ed il Lazio foi'ono liberi dal pericolo etrusco
era inevitabile che Roma rinnovasse il suo tentativo d'assumere
Fegemonia dei Latini. Questa volta però non si trovava a fronte
i singoli popoli latini, ma una lega compatta. Alla guerra che segui,
la tradizione riferiva la grande battaglia del lago Regillo, proba-
bilmente il cratere ora asciutto detto Pantano Secco a nord di Fra-
scati (1), riportandola con lieve disparere al 499 o al 496 av. C. (2).
I precedenti della battaglia son raccontati variamente; ma sempre
la sollevazione dei Latini contro Roma di cui essa fu l'episodio
culminante si attribuiva all'opera di Ottavio Mamilio Tusculano,
genero di Tarquinio il Superbo, presso cui si sarebbe rifugiato il
suocero dopo fallito il tentativo di tornare in patria con le anni
di Porsenna; ed a Tarquinio ed ai figli si fa nella battaglia una
parte notevole. Ora poiché s'erano sviluppate rigogliosamente le
leggende intorno alla cacciata dei Tarquini e a' loro tentativi per
ritornare con aiuti stranieri, era naturale che venisse attratta in
quel ciclo anche la tradizione della battaglia del Regillo che rife-
rivasi appunto agii anni del declinare della monarchia; ma non
v'ha dubbio che questi sono elementi estranei alla tradizione pri-
mitiva. Del resto il racconto tradizionale della battaglia è ricco
di combattimenti singolari e d'altri episodi poetici. Cosi alla testa
della cavalleria romana sarebbero comparsi due giovani montati
su bianchi cavalli che poi non fu possibile ritrovare quando il dit-
(1) Il lago era nell'agro tusculano, Liv. II 19. Sulla posizione v. Nibby Ana-
lisi III ^ p. 9. AsHBv ' Rend. dei Lincei ' ci. di scienze mor. etc, ser. V voi. VII
(1898) p. 103 seg.
(2) Al 499 la riferisce Livio accennando che altri la riportavano al 496.
Sotto r ultima data la descrive Dionisio. Comandanti romani son secondo la
tradizione A. Postumio dittatore e T. Ebuzio maestro dei cavalieri. Fasti dit-
tatoriali per questa età non esistevano, e così la battaglia fu riportata al 499
perchè i fasti registravano in quell'anno un console T. Ebuzio o al 496 perchè
registravano un console A. Postumio. Si vede da ciò che l'una data non è
meno arbitraria dell'altra; ma nel vero è la tradizione collocando la battaglia
tra il declinare della monarchia e la conclusione del foedns Cassianuin. — 11
15 luglio era tenuto come l'anniversario della battaglia semplicemente perchè
in quel giorno aveva luogo, almeno dal 304 in poi, una grande parata di ca-
valieri [transvectio equitum) preceduta da solenni sacrifizi in onore dei Dioscuri
(testi presso Mommse.v Staatsrecht III 493 n. 1). Non sembra che la solennità
sia stata istituita di pianta da Q. Fabio Massimo, ma non è chiaro in che
consistessero le sue innovazioni e che cosa preesistesse, cfr. Diosvs. VI 13.
BATTAGLIA DEL REGILLO 95
tatore ne fece ricerca per conferire loro i premi. Invece termi-
nata appena la battaglia, prima che avesse fine l'inseguimento,
furono visti coi cavalli madidi di sudore accanto alla fonte di
Griuturna presso il Foro Romano dove diedero notizia della vit-
toria (1); e un tale Domizio avendo mostrato di non prestarvi fede,
gli toccarono con la mano la barba che di nera si cangiò in rossa,
onde Domizio fu soprannominato Aenobarbo (barba di rame) e
trasmise questo cognome ai suoi discendenti (2). Ora è chiaro che
il racconto della apparizione dei Dioscuri alla battaglia del Regillo
dipende da quello della loro apparizione alla battaglia della Sagra
(I p. 28). Anche qui secondo la leggenda greca combatterono pei
Locresi due giovani montati su cavalli bianclii, e nello stesso
giorno ad Olimpia, celebrandosi i giuochi, si diffuse la notizia
della vittoria locrese (3). Ma il mito greco non pervenne certo a
Roma in età tarda per mezzo della storiografia greca, si indipen-
dentemente dalla letteratm-a si diffuse in Italia assai prima, in-
sieme col culto dei Dioscuri (4); è infatti evidente che il racconto
tradizionale della battaglia del lago Regillo risale nel tutto in-
sieme ai carmi epici popolari. Ma ])\ir prescindendo dagli elementi
senza dubbio mitici, anche gli altri x^articolari sulla battaglia al
lago Regillo meritano poca fede. Forse il comando dei Romani
in quella battaglia si attribuì ad un Postumio solo perchè nella
sua famiglia era usato il soprannome di Regillense che a torto
si reputò corrispondente ai cognomi trionfali venuti in uso, più
tardi. Forse d'Ottavio Mamilio si fece il comandante dei Latini
in questa battaglia avvenuta nell'agro Tusculano solo perchè i
Mamili erano una delle genti principali di quella città (5). Ma non
(1) DiONYS. VI 13. Plut. Coriol. 3. Cic. de nat. deor. II 2, 6. Ili 5, 11. Auct.
de tir. ili. 16, 3 etc.
(2) Plut. Aemil. 25. Suet. Nero 1 narra il fatto, di cui tacciono a proposito
della battaglia del Regillo Livio, Dionisio e Cicerone, un po' diversamente e
par riferirlo all'età delle guerre sannitiche (Muenzer in P. W. ' Real-Encyclo-
pildie ' V 1313). Ma non è dubbio che il racconto originario si collegava con
l'unica epifania dei Dioscuri conosciuta dalla leggenda romana, quella al Re-
gillo. Esso del resto è recente; e fu inventato a maggior gloria dei Domizi
Euobarbi quando divennero una delle famiglie pivi ragguardevoli della nobiltà
plebea, nel II o piìi verisimilmente nel I see. av. Cr.
(3) V., oltre i testi citati I p. 338 n. 2, Cic. de nat. deor. II 2, 6. Ili 5, 13.
SuiD. s. V. àXtiGéOTepa tujv è-rrl Zdypot.
(4) Per qualche analogia v. al e. XXIV.
(5) 1 Mamili secondo Liv. Ili 29, 6 (cfr. Cato fr. 25 Peter ap. Priscian. VI
96 CAPO XV - ALLEANZA FKA ROMANI, LATINI ED ERNICI
v'è ragione per mettere in dubbio che presso il lago Eegillo si sia
combattuta, tra Romani e Latini, una grande battaglia; e come
quella battaglia non si riferisce alle posteriori guerre coi Latini
del sec. IV su cui abbiamo notizie abbastanza copiose e fededegne,
è da ritenersi, con la tradizione, anteriore al trattato concluso da
Cassio; non di molto però, perchè solo quando declinò in Roma
la monarchia potè il Lazio costituirsi in lega politica escludente
Roma (1).
La tradizione che discorre tanto largamente, attingendo ai
carmi epici popolari, della battaglia al Regillo, tace sui fatti che
indussero i belligeranti a por termine alla lotta con un trattato
di pace e di alleanza (2); segno evidente che di questo trattato
non aveva notizia per mezzo di quei carmi, ma i^er mezzo d'un
documento: cioè il testo dell'accordo che si conservava inciso in
una colonna di bronzo sul Foro fino all'età di Siila, come riferisce
un testimonio oculare (3). Di questo trattato, che recava il nome
del console Cassio, gli articoli più notevoli erano redatti a un
p. 227 H) avrebbero avuto la cittadinanza romana fin dal 458. Al consolato
però non pervennero in Roma che nel 265.
(1) Secondo il Pais I 2, 345 n. ' il lago Regillo posto fra Tuscolo e Roma
fu considerato come il luogo in cui erano stati sconfitti i Latini perchè ivi
si solevano dal tempo più antico radunare i contingenti degli alleati, Liv. Ili
20 '. Così ad una tradizione molto antica, come dimostra l'ampia elaborazione
poetica da essa avuta, il Pais preferisce un particolare affatto secondario, dato
in un racconto di cui son sospetti tutti i particolari, e ch'egli stesso del resto
fraintende perchè al lago Regillo debbono radunarsi secondo il passo liviano,
d'ordine dei consoli, nel 460, non i Latini, ma i Romani. Come si potesse
esser conservato ricordo di questo particolare non si vede; si vede invece
molto bene come avrebbe potuto inventarlo un annalista poco scrupoloso me-
more della battaglia del Regillo, tanto piii che quel ricordo poteva essergli
suggerito dal nome del Tuscolano Mamilio di cui Livio racconta appunto in
quell'anno la parte che ebbe alla liberazione del Campidoglio occupato dagli
esuli sotto Appio Erdonio.
(2) Liv. 11.33, 4: per secessionem plebis Sp. Cassius et Postumus Cominius con-
sulatiim inierunt: his consuUbus ctim Latinis poptilis ictum foedtis. Dionts. VI 95:
èYévovTO ò'èv Tuj aÙTLp xpóvo) Kal Tipòc; tò^ tujv Aati'vujv tróXeic; ÓTrctcrat; auv9f)-
Ko» KOival |ue9'6pKUjv ùirèp eìptivr|<; Kal cpiXiac;.
(3) Cic. prò Balbo 23, 53: cuni Latinis omnibus foedus esse ictiun Sp. Cassio
Postumo Cominio consuUbus quis ignorat? quod quidem nuper in columna ahenea
meminimus post rostra incisum et perscriptum fuisse. La colonna fu rimossa pro-
babilmente quando Siila prese a ricostruire la Curia.
TRATTATO DI CASSIO 97
dipresso nei seguenti termini: " Sia pace tra i Romani e le città
<loi Latini fincliè la i^osizione del cielo e della terra rimanga la
stessa e né essi faccian guerra tra loro, né di fuori conducano
nemici, né a chi muova guerra (all' uno dei contraenti) offrano
sicm'tà di via; ma al soccorso di quelli die siano assaliti vengano
invece con tutte le forze, e del bottino e della preda fatta nelle
guerre comuni toccliino egual parte gii uni e gii altri. I giudizi
intorno ai contratti privati si facciano entro dieci giorni (dalla
({uerela) in quella città dove sia stato concluso il contratto. A
questo trattato non xjossa nulla aggiungersi né togliersi se non di
comune accordo tra i Romani e tutti i Latini „.
Della data, delF autenticità, del significato di questo frammento
del trattato, clie ci é stato trasmesso da uno scrittore greco (1), si
é senza fine discusso. Ma il testo del trattato si conservava fino
neiretà sillana, e sappiamo che v'era il nome del console Cassio (2).
Non é quindi da dubitare ragionevolmente che il frammento con-
servatoci sia ricopiato appunto dal trattato inciso nel Foro col
nome di Cassio. E però, stabilita la sostanziale autenticità dei
fasti, può esservi solo questione se debba riferirsi al primo, al se-
condo o al terzo consolato di Sp. Cassio Vecellino (502, 493, 486),
l'unico Cassio registrato nei fasti prima dei Cassi plebei che vi
compaiono dal 181; ma é questione di poco momento, trattandosi
d'una età in cui a precise determinazioni cronologiche conviene
in ogni caso rinunciare; e del resto par probabile che nel docu-
mento fosse menzionata la iterazione del consolato e che appunto
cosi debba spiegarsi come l'annalistica lo abbia riferito concorde-
. mente al 493. Si é detto che il documento conservato nel Foro
conteneva il trattato coi Latini che ebbe vigore dal 338 alla guerra
sociale ; ma questo, anclie prescindendo dalla menzione del console
Cassio, é un gravissimo errore; xDoiché ognun sa che dal 338 in
poi una lega latina con cui Roma potesse avere un trattato d'al-
leanza non v'era, e men che mai nel II sec, av. C. (3) ; riportare
(1) DioNYs. 1. e. Non è certo che a questo documeato si riferisca Fest. p. 166 :
iteni in foedere Latino: ^ pecuniam quis nancitor habeto ' et ' si quid pignons
nanciscitur sibi habeto '.
(2) Liv. II 33, 9: nisi foedus cum Latinis {in) colunma aenea insculptum mo-
numento esset ab Sp. Cassio uno quia collega afuerat ictum, Postumum Cominium
bfllum gessisse cum Volscis memoria cessisset.
(3) E veramente singolare l'asserzione del Pais essere evidente ' che il do-
cumento che era ancor visibile nei primi anni della carriera forense (li Cice-
G. De Sanctis, Storia dei Roniani, II. 7
96 CAPO XV - ALLEANZA FRA ROMANI, LATINI ED ERNICI
poi questa leg'a con piena parità di diiitti {foedus (lequiiin) alla
metà circa del sec. FV, j)i'ima della guerra latina, può solo chi non
riferisca a quella età, come indubitatamente si deve, il primo trat-
tato romano-cartaginese, il quale mostra Roma nell'atto d'esercitare
una indiscussa supremazia nel Lazio (v. e. XV ili) (1). Del resto
la ragione addotta- contro ranticliità del trattato cassiano, clie cioè
è ben lungi dall'essere vero clie i Latini abbiano riconosciuto fin
dal principio del sec. V la supremazia romana, è la j)iù bella con-
ferma della sua autenticità, giacché nel testo di esso non è il più
piccolo accenno a questa supremazia. E la divisione per metà della
preda di guerra si spiega assai bene al princiijio del sec. V, quando
le forze messe in campo da Roma e dalla lega a un dipresso si
bilanciavano, non più alla metà del sec. IV, quando la potenzii
di Roma era di gran lunga superiore, come mostra anche l'esito
della guerra combattuta poco dopo coi Latini e i Campani collegati.
Si aggiunga che la divisione per metà della preda ci riporta a un
tempo anteriore alla lega contro gli Ernici. che obbligò a dividere
la preda in tre parti eguali (2), lega la cui prima conclusione non
può in alcun modo collocarsi, come vedremo, alla metà del sec. lY.
rone ed al tempo di Siila conteneva quel trattato che ebbe vigore sino a
quella legge lulia che ai soci Latini accordò la piena cittadinanza romana '
(I 2 p. 325). Ciò perchè ' è assurdo pensare che ivi (sul Foro) fosse esposto
un trattato che secondo la versione comune non avrebbe avuto piìi valore
dopo la battaglia di Suessa e di Astura '. Come se sull'acropoli ateniese non
si fossero conservati nell'età imperiale trattati che non avevano piìi valore
da mezzo millennio. Per la possibilità della conservazione di documenti ante-
riori all'incendio gallico, v. sopra I p. 5. S'intende bene che se anelici Galli
avessero distrutta la colonna, i Romani si sarebbero dati cura di rinnovarla
per mezzo delle òopie conservate nelle città latine i-imaste fedeli. Che se poi
il Pais pensa che il magistrato con cui il trattato si collega invece di essere
il console del principio del sec. V debba essere piuttosto un tribuno della
plebe vissuto in tempi assai posteriori, è da osservare che per eliminare le
pretese difficoltà della tradizione il critico ne crea gratuitamente di piìi gravi
assai: che cosa mai può aver avuto a fare col foedus latino un tribuno della
plebe ? — Sulla personalità storica del console Cassio, v. sopra p. 12.
(1) In questo errore cade il Bfloch Gr. Geschichte 111 1, 180, troppo ligio qui
all'autorità del Pais. Della questione aveva giudicato assai piìi rettamente ncl-
Vltal. Band. È però singolare che discorrendo due volte con diversissime ve-
dute cronologiche sul foedus Cassianum lo abbia ambedue le volte ritenuto
contemporaneo col primo trattato romano-cartaginese, il che è inammissibile.
(2) Plin. n. )i. XXXIV 20, da interpretarsi per mezzo di Dionys. Vili 69.
TRATTATO DI CASSIO 99
La nostra tradizione dà sempre per comandanti degli eserciti
collegati i magistrati romani, i quali avrebbero anzi richiesto nor-
malmente ai Latini anno per anno i contingenti cui erano tenuti
in virtù del trattato (1), e ritiene che la deduzione di colonie nei
territori conquistati avvenisse per deliberazione del popolo romano
e che i collegati Latini ed Ernici fossero liberamente invitati dai
Romani a prendervi parte (2). In realtà il testo del trattato non
si concilia affatto con questa pretesa egemonia dei Romani. E si
noti che le guerre degli Equi e dei Volsci che occupano quasi
intero il sec. V erano dirette non tanto contro il territorio ro-
mano quanto contro quello della lega, onde i Romani dovevano
inviare i loro contingenti al soccorso della lega latina più che la
lega latina non dovesse inviarne al soccorso di Roma. E inoltre
evidente che la fondazione di colonie le quali entravano a far
parte della lega latina doveva essere deliberata di comune consenso
tra Romani e Latini, che potevano parteciparvi con parità di di-
ritti. Il trattato cassiano non s'accorda col concetto esagerato della
potenza romana nel V secolo che domina nella tradizione (3), ma
è invece in piena armonia con una notizia isolata, pervenutaci
non senza qualche errore nei particolari, secondo cui le truppe
federali dovevano solo qualche anno (verisimilmente un anno si e
un anno no) esser guidate da comandanti romani; ed anche in
questo caso non dagli ordinari magistrati, ma da un duce nominato
in via straordinaria (4), il quale, com'è chiaro, aveva l'autorità di
71. 77: "EpviKa<i jf\c, t€ Kai Xeiaq r\v av èk iravTÒt; KTriouuvTai ^xaEe Xoju-
Pàveiv rpirriv |U€piòa.
(1) Cfr. p. es. Liv. VI 10, 6 (ad a. 386) : ab Latinis Heniicisque ... quaesitum
cur per eos annos militem ex instituto non dedissent.
(2) Un esempio tipico è in Dionys. IX 59 a proposito della pretesa coloniz-
zazione di Anzio nel 467 av. Cr.: òXi^iuv àTTOYpanjaf-iévujv èòoEe xrì PouXrì è-rreiòi'i
oÙK àSióxpeujc; fjv ó ò.-aòajo\oc, èTTirpéipai Aariviuv re Kaì ' EpviKuuv toTi; PouXofuévoie;
if\c dtiroiKiac; laeréxeiv.
i'ò) Vedasi p. es. la contraddizione in cui parlando dei tempi di Coriolano
DioxYS. vili 15, nel discorrere del trattato secondo la tradizione annalistica,
si mette col testo datone innanzi da lui: i^ PouXi^ rote; juèv òtto toO koivoO
TóJv AoTivujv TrapoOoi irpeapeuTaì? èuì auiu^axia; atxriaiv àireKpivaTo |uì^ ^óòiov
dvai aqpiai Pon9eiav àTTOOxéXXeiv Korà tò trapóv • aÙToìi; ò ' èKeivoit; èTTirpéireiv
Tr)v éauTUJv orpariàv KaiaYpàfpeiv koI i^Y€MÓva(; xnq òuvóiueujc \h\.o\ic, èKTr^iuTteiv xe
firav aÙToì èKiréiaHJUjai bùvauiv • èv yòp xaiq auvtìnKai<; alt; éiroiriaavro irpòi; aÙTOùi;
Ttepl cpiXiaq ónópprixov f^v toótujv éKàrepov.
(4) CiNcio ap. Fest. p. 241 : Albanus rerum jwtitos usqite ad Tullnin rcgcin :
100 CAPO XV - ALLEANZA FKA ROMANI, LATINI ED ERNICI
dittatore latino. E possiamo pure congettm-are con fondamento clie
i comandanti federali celebrassero dopo le loro vittorie un trionfo
affatto indipendente da quello che si faceva in Roma dai magi-
strati romani e senza bisogno d'alcun voto del senato. Questa fu
probabilmente l'origine della pompa trionfale sul monte Albano
che più tardi si decretarono di proprio arbitrio alcuni generali
romani cui fu negato di trionfare in città (1).
La ragione per cui la lega latina si strinse novamente in fida
alleanza con quella Roma contro la quale appunto s' era costi-
tuita, va cercata negli assalti degli Equi e dei Volsci contro cui i
Latini da soli non riuscivano a sostenersi, mentre anche con l'aiuto
dei Romani non affermarono in modo definitivo la loro superiorità
che dopo mia lotta disperata di più che mezzo secolo. E non si
andrebbe lontano dal vero cercando la causa occasionale nella di-
struzione della ricca Pomezia, che diede ai Volsci circa quattro-
cento chilometri quadrati di territorio latino e tolse alla lega una
delle sue città j^iù importanti.
Uno scrittore greco dà una lista di trenta città latine che pre-
sero parte alla lega contro Roma (2). Si credette che egli avesse
Alba deinde diruta iisque ad P. Deciiiin Murem cos. populos Latinos ad cajjut
Ferentinue quod est sub monte Albano consulere solitos et imperium communi
Consilio administrare, itaque quo anno Romanos imperatores ad exercitum mit-
tere opovteret iussu nominis Latini, complures nostros in Capitolio a sole oriente
auspicis operam dare solitos. ubi aves addixissent militem illuni qui a communi
Latio missus esset illiim quem aves addixissent praetorem salutare solitum, qui eatn
provinciam optineret praetoris nomine. L'errore capitale di Cincio sta nell'aver
cercato in questa istituzione l'origine del proconsolato e della propretura :
avrebbe dovuto invece cercarvi l'origine della dittatura (v. 1 p. 422 segg.).
(1) Il primo esempio è quello di C. Papirio all'a. 231, v. fasti triumph. ad a.
Val. Max. Ili 6, 5: nam Papirius quidem Masso cum bene gesta republica
triumphum a senatu non impetravisset in Albano monte triumphandi et ipse
itUtium fecit. Plin. n. h. XV 126. Cfr. Liv. XXXIII 23, 3: in monte Albano se
triumphatnrum et iure imperii consularis et midtornm claroruni virorum exemplo.
NlKUlTER II 42.
«2) DioNYs. V 61, 3: oi b' èyYpom'ainevoi Ta!<; ouvBiiKaic xaOTa npóPouXci KaJ
Toùt; SpKOUi; òjuóaavre^ dirò toùtuuv tujv TróXemv fjaav fivòpeq 'Apòeaxwv, 'Api-
Krivujv, BoiXXavùJv (o piuttosto BuuXavùiv : i codd. hanno BoioXavuJv), Bou|^ev-
TovOJv (cfr. la lista di Plin. cit. I p. 879 n. 1 al nr. 5), Kópvujv (da correg-
gere KopavOùv, perchè pare difficile debba pensarsi alla collina Come presso
Tuscolo, su cui V. sopra p. 93 n. 2, che non ebbe mai autonomia comu-
nale), KapuevTavòiv (verso l'Algido non lontano da Preneste, cfr. Macrob-
LA LISTA DELLE CITTÀ LATINE DI DIONISIO 101
attinto a un documento ufficiale antichissimo, alla lista di città
annessa al testo del trattato cassiano. Ma in realtà la sua lista
comprende troppe colonie posteriori al 500 perchè possa riferirsi
ad età cosi remota. Vi compaiono cosi Signia, Norba, Circei, Sezia,
vi è inclusa Velletri, che è probabilmente d'origine volsca, e Ter-
racina, che giace troppo a mezzogiorno dei termini cui stendevasi
intorno al 500 la potenza romano-latina; e vi è notata Lavinio
accanto a Laurento, mentre fin d'allora probabilmente costituivano
un comune solo. Né poi è lecito ri^Dortar questa lista al 400 per
spiegarvi la presenza di recenti acquisti della lega (1), perchè
allora non avrebbero potuto in nessun caso comparirvi né Grabi,
sempre i3Ìù stretta a Roma, né comuni assorbiti da vicini x3Ìùpo-.
tenti come Corioli od i Bubentani. Quella enumerazione di città non
ha dunque valore di documento, ma è frutto delle arbitrarie in-
duzioni d'un annalista, e dobbiamo preferirle la lista del sacrario
di Diana nel bosco aricino (2).
saturn. Ili 18, 5 : est autem natio iiominum iuxta agrnm Praenestinum qui Car-
sitani vocantur óirò tOùv Kapuuuv, dove è da leggere Caruetani), KipKOtriTuJv,
KopioXaviùv, KoppivTUÙv (da Corbione verso il confine degli Equi: forse è da
leggere KopPiujviujv), Ka^avAv (v. I p. 382 n. 2), <I)opTiv6Ìuuv (Monte Fortino,
cfr. la lista di Plin. al ur. 11), TaPioiv, Aaupevxivujv, Aavouiviuuv, Aa^iviaTuòv,
AaPiKCvujv, NuuuevTavujv, Noip^aviùv, TTpaiveoTivuuv, TTeòavuùv, KopKOTOuXaviùv
{Querquetulani, cfr. la lista di Plin. al nv. 23), laTpiKaviJùv, ZKaTTTr|viUJv (cfr.
Fest. p. 343 M: S[captia trihiis a no]mine urbis Scaptiae [appellata quani La-
tini] incolehant: posizione incerta), ZrjTivLuv, Ti^oupxivuuv, TuOKXavùJv, TpiKpivujv
(non si trovò finora in alcun codice, ma solo nella edizione dello Stefano, il
quale però non può aver inventato di suo capo un nome sì strano , da cor-
reggere evidentemente in TappaKivuuv o TappaKivixujv. Solo introducendo nel
testo questo nome la lista comprende, come quasi certamente deve, il nu-
mero tradizionale di trenta città latine), ToAppiviuv (v. la lista di Plin. al
nr. 26), TeXXriviinv (v. I p. 370 n. 1), OùeXiTpavlJùv.
(1) NiEBUHR R. G. il .30.
(2) MoMMSEN R. G. l^ 347 ritiene che il documento rappresenti la lista di
quei comuni che furono poi tenuti come membri ordinari della lega, lista re-
datta allorché circa il 382 la lega si sarebbe chiusa non ammettendo più nel
suo seno le nuove colonie. Così vi sarebbe Sezia (382), Signia (il cui nome il
Mommsen suppone caduto dopo Sezia, non tenendo conto dei Tricrini di
Stefano : altrove però si mostra egli stesso incerto della sua congettura), ma
non le colonie posteriori comprese Sutri e Nepi, nonostante che la nostra tra-
dizione le riguardi come di poco anteriori a Sezia. È degno di nota 1', ordine
alfabetico, la posizione che occupa il G in quest'ordine, il numero di trenta.
Tutto ciò conferma che la lista è invenzione annalistica: di che giudica ret-
tamente il Beloch Tt. Bund p. 177 segg.
102 CAPO XV - ALLEANZA FRA ROMANI, LATINI ED ERNICI
I piccoli popoli latini che avevano perduto la loro antonomia
menzionati da (inello scrittore greco, se non facevano parte della
nuova lega politica laziale, continuavano in buon numero ad essere
invitati regolarmente alla distribuzione della carne delle vittime
nelle Ferie Latine sul monte Albano. Là la vetusta solennità, che
da un giorno si prolungò a poco a poco ad uno spazio di quattro,
si continuava a celebrare sotto la direzione dei magistrati ro-
mani (I). I fasti di quelle ferie a partire dal' decemvirato furono
poi incisi in pietra; ma la prima parte della lista conservataci in
istato frammentario non ha purtroppo alcun carattere d'autenti-
cità (2). S'intende che col trattato di Cassio tutti quei diritti reci-
proci di connubio, di commercio, d'isopolitia, che si connettevano
con la lega sacra (v. I p. 388) e che erano stati sospesi rispetto
alle relazioni tra Koma e le altre città dalla lotta romano-latina,
furono richiamati in vigore. E non v'ha dubbio che la facoltà
data ai Latini d'acquistare proprietà fondiaria nel territorio romano
e d'iscriversi come cittadini stabilendosi in Eoma, unita alla natu-
rale attrazione che col progredire della civiltà esercitano le città
grandi sulla popolazione delle piccole città vicine, contribuì lar-
gamente al meraviglioso incremento della città di Roma nei se-
coli successivi.
Cosi dunque s'era ricostituita, su altra base, l'unità politica di
Roma e del Lazio, venuta meno col declinare della monarchia in
Roma. Essa durò, sottp questa forma, non quanto il cielo e la
terra come si ripromettevano i suoi fondatori, ma tanto da lasciare,
nella storia d'Italia traccie indelebili.
Frattanto, stretta al pari dei Latini tra gli Equi ed i Volsci^
la tribù montanara degli Ernici, che occupava una buona parte del
bacino del Sacco, entrò in lega col Lazio e con Roma. Gli Ernici
costituivano una lega in cui, a quanto pare, le prime parti spetta-
vano, in ragione della maggior potenza, agli Anagnini, che nel
loro territorio riunivano le diete federali (3), mentre minore im-
portanza avevano gli altri centri di Alatri e di Veroli.
(1) DioNYs. VI 95.
(2) I frammenti sono raccolti nel CIL. I- p. 55. Li ha illustrati particolar-
mente il MoMMSEN Rum. Forschungen II 97 segg.
(3) Liv. IX 42 ci parla di una adunanza federale nel circo marittimo di
Anagni, cbe forse era entro il sacro bosco di Diana nel Compito anagnino di
cui discorre pur Liv. XXVII 4. Qn altro centro della lega ernica era proba-
GLI ERNICT 103
Quale fosse la stirpe italica cui appartenevano gli Ernici non
|)Ossiamo determinare con sicurezza in mancanza d'iscrizioni dia-
lettali. Le testimonianze degli antichi che li dicono Sabini o attri-
buiscono origine marsica ad Anagnia non hanno troi^po valore (1);
e spiegare con l'affinità di stirpe la loro fida alleanza coi Latini
contro i Volsci e gli Equi sarebbe tanto attraente quanto arbi-
trario. Ad ogni modo la tradizione fa risalire, certo non senza an-
ticiparle, le loro relazioni con Roma alla età regia (2), per poi
datare la lega a parità di diiitti dal terzo consolato di Sp. Cassio
(486) (3). Ora è certo probabile che l'accordo con gli Ernici sia
stato ascritto a Sp. Cassio solo perchè era una copia testuale del
trattato concluso appunto da Cassio coi Latini (4). Ma la piena
eguaglianza riconosciuta agli Ernici coi Romani e coi Latini (5)
sarebbe inesplicabile se si fosse introdotta nel trattato del 358,
quando essi rinnovarono, non sappiamo bene a quali patti, la loro
lega con Roma. Allora il territorio di Roma, pm' non volendovi
comprendere Cere, Tuscolo, la tribù Pomj)tina e la Poplilia, s'era
dilatato a più che duemila km^ e molto più che duemila ne abbrac-
ciava pure la lega latina ampliata di numerose colonie, mentre il
'territorio degli Ernici non s'estendeva che i3er circa un migliaio (6);
e la differenza cosi notevole pel territorio era ancor i^iù conside-
revole per la popolazione; ne poi, domati ormai gli Equi ed i
Volsci, l'aiuto degli Ernici era tanto prezioso da giustificare stra-
ordinaria larghezza di concessioni. Li vece le cose erano ben diverse
sul principio del sec. V quando il territorio di Roma non giungeva a
bilmente, nello stesso territorio di Anagni, la terricciuola conosciuta col nome
di Capitulum Hernicorum (Piglio), anch'esso, così è da credere, in relazione con
qualche celebre santuario.
(1) ScHOL. Verg. Aen. VII 684 : Sabinorum lingua saxa herna vocantur. quidam
(lux magnus {Magius vel Marsus corr. Buttmann) Scibinos de suis locis elicuit
et habitare fecit in saxosis montibus, linde dieta stmt Hernica loca et populi
Ilernici.
(2) Fest. p. 348 s. V. Septimojitio. Dioxrs. IV 49.
(3) DiONYS. VITI 68. Liv. II 41, 1 : citm Hernicis foedus ictum: agri partes dune
udemptae: inde dimidium Latinis, dimidium plebi divisurus consid Cassius erat.
(4) DioNYs. Vili 69: ai rcpòc, "EpviKoe; ó|uoXoYiai fjoav àvxiYpaqpoi tòjv iTpò<;
Aaxivouq YevO|Liévu)v.
(5) V. sopra p. 98 n. 2.
(6) IH 382 ett., secondo Beloch Jt. Band p. 71; ma forse il computo è
troppo largo. Se il territorio di Trevi e di Affile spettasse agli Ernici o agli
Equi è incerto.
104: CAPO XV - ALLEANZA FRA ROMANI, LATINI ED ERNICI
mille km''', e a poco più, dopo la caduta di Pomezia, doveva essersi
ridotto il territorio della lega latina. Inoltre la minaccia perma-
nente dei Volsci, degli Equi e degli Etruschi fece si che Roma e il
Lazio accogliessero a condizioni di favore nella loro alleanza i
robusti contadini del Sacco. Ciò prova che, prescindendo dal nome
di Cassio, la tradizione è approssimativamente nel vero (inantf)
alla data che assegna alla lega dei Romani con gli Ernici. Anzi,
senza questa lega sarebbe diffìcile spiegare la meravigliosa resi-
stenza dei Latini a fronte di tanti nemici.
Tra questi, veramente indomabili si mostrarono i Volsci. I Volsci,
una popolazione del gruppo osco-umbro, il cui dialetto (1) si acco-
stava all'umbro più di quello delle vicine popolazioni sal^elliche (2),
risiedevano probabilmente durante l'età regia nell'alta valle del
Liri e in j)arte nel territorio che è compreso tra questo ed il
Sacco, giungendo fors'anche fìno alla sponda del lago di Fucino.
Ma sospinti dalle belligere tribù dei Marsi e dei Sanniti, attratti,
come spesso i montanari, dalla vista delle pianure ubertose, cer-
carono nuove sedi a mezzogiorno. La lunga striscia costiera tra il
Tevere e il Volturno era allora abitata dai Latini e dalla stirpe
probabilmente affine degli Aurunci, che fronteggiavano a sud gli
affini Opici (I p. 108 segg.). E su questa zona larga e poco i^ro-
fonda e (luindi adatta agii assalti delle tribù montanare premevano
da nord gli Etruschi, che erano anche riusciti ad assoggettare
buona parte del paese (I i3. 446). Probabilmente del declinare della
potenza etrusCa e dell'anarchia che segui nella regione, anarchia
di cui è episodio la battaglia del Regillo, approfittarono i Volsci
per penetrare tra Aurunci e Latini. Discesi per la valle dell'Ama -
seno occuparono la sponda laziale da Anxur -ad Anzio ; e risalendo
l'alta valle dell'Ufente tentarono di guadagnare le cime dei monti
Lepini che dominano la pianm'a pontina. Pomezia, della cui opu-
lenza la tradizione ha conservato vivo il ricordo, era la più im-
portante città latina di questo piano uniforme (I p. 172 n. 2). La
sua caduta fece una impressione cosi profonda da esser ricordata
non meno di quattro volte dalle nostre fonti. Prima esse narrano
che Tarquinio Prisco distrusse Apiole, il cui nome è semplicemente
una traduzione greca di Pomezia ; la seconda volta chi distrugge
Pomezia è il Superbo (3); a due riprese poi sul principio della re-
(1) Noto dalla iscrizione di Velletri, Zvetaieff Inscriptiones It. niediae ilial.
n. 46, tav. X 4.
(2) Cfr. Planta Grammatik I p. 25.
(3) V. I p. 172 n. 2 e p. 373.
DISTRUZIONE DI POMEZIA 105
j)nbblica la città cade in mano dei Romani, jcui s'era ribellata
defezionando agli Am'unci ed ai Volsci, nel 502 e nel 495 (1). Nei
primi due racconti Pomezia appare come città volsca, negli ultimi
due presso qualche scrittore (2) ancora come capitale dei Volsci,
presso qualclie altro come colonia latina dedotta dai Tarquinì. Che
([ui si abbiano quattro ripetizioni d'uno stesso fatto è evidente.
Ma è molto incerto se in realtà Pomezia, come asserisce la tradi-
zione, fosse distrutta dai Romani e se vi sia ragione di ammettere
che davvero abbia defezionato dalla lega latina per darsi ai Volsci.
Certo il documento del sacro bosco di Aricia prova che anterior-
mente al trattato di Cassio essa faceva parte della lega latina. E
non pare molto verisimile né che passasse s]3ontane amente ai Volsci,
mentre era appunto l'ultimo baluardo latino nel paese da essi
occupato, né che la distruggessero i Latini stessi o i Romani,
abbandonandone cosi al nemico il ricco territorio, invece di rico-
stituii'la, puniti gli autori della defezione, come colonia latina. Pro-
babilmente questa città cadde per mano dei Volsci quand'essi dila-
garono nella regione; e poi ai Romani se ne ascrisse la rovina
quando, latinizzati i Volsci, le leggende de' loro prosperi fatti
d'arme si fusero con quelle del popolo vincitore.
Invece resistette l'altra vecchia città latina di Cori (3), protetta,
se non ancora dalle sue mura, almeno dalla sua i)osizione forte
SUI" una altura di cui due torrenti lambiscono il piede; ma rimase
isolata dalla lega, poiché i Volsci, impadronitisi di Pomezia, si
spinsero innanzi tra i monti Lepini e gli Albani e fondarono Vel-
letri che domina il passaggio tra quei due grupi3Ì montuosi (4).
A questo momento peraltro 1' avanzata volsca s' arrestò. Che
l'alleanza dei Romani, Latini ed Ernici, formatasi soijrattutto per
resistere ai Volsci, riusci a riportar sul nemico successi notevoli.
La conquista di Velletri riunì nuovamente Cori al corpo della
lega (5;. E poiché a ricostruire Pomezia nella pianura, troppo
(1) Liv. II 17 (per gli Aurunci qui menzionati v. I p. 172 n. 2). — Liv. II 25.
DioNYs. VI 29.
(2) Cioè Dionisio : l'altra versione è di Livio.
(3) Di una defezione di Cori parla Liv. II 16. 22; ma essa e altrettanto so-
spetta quanto la delezione di Pomezia.
(4) NissEN Landcskunde II p. 632.
(5) Viene narrata veramente al 494 (Liv. II 30. Dionys. VI 42) ossia l'anno
prima del secondo consolato di Cassio a cui è riferita la conclusione del foedus
latino. Ma si parla d'un rinforzo inviato nel 492 (Liv. II 34. Dionys. VII 13.
106 CAPO XV - ALLEANZA FRA EOMANI, LATINI ED ERNICI
esposta agli assalti dei Volsci, non poteva pensarsi, venne fondata
(4:92) in posizione fortissima come rocca nel territorio pontino,
sopra un monte clie scende con ripido pendio alla pianura, Norba,
che è rimasta in quella regione imj)rendibile baluardo della lati-
nità (1). Più a nord fu innalzata appunto in questi anni un'altra
valida fortezza destinata a guardare la valle del Sacco e ad assi-
cm'are le comunicazioni con gli Ernici, Signia (2).
Non si diedero per vinti i Volsci. E a lungo lottarono con
varia fortmia le due popolazioni volsche cui pare toccasse in sorte
di sostenere l'urto dei Teatini: i Volsci Ecetrani e i Volsci An-
ziati (3). Di queste due tribù discorre specialmente la pseudostoria
romana del sec. V, per quanto anclie spesso il popolo volsco ap-
parisca nella tradizione senza distinzione di tribù e non di rado sia
menzionato il nome volsco (-4) o il concilio del popolo volsco che si
sarebbe do\mto riunù-e ad Ecetra (5). E che ad Ecetra convenissero
i Volsci del paese vicino, è da credere; ma non è certo se vi si
riunissero altri che quelli che n'ebbero appunto il nome di Ece-
Plut. Coriol. 12) alla colonia dedottavi nel 494 (Liv. Il 31. Dionys. VI 43): e
probabilmente non si tratta che d'un'altra data dello stesso fatto, la quale è
approssinaativamente degna di fede.
(1) Liv. II 34 : Norham in niontis noram colonicnn quae arx in Poiiiiìtino esset
miserunt. Sugli interessantissimi scavi di Norba che hanno sfatato la opinione
della antichità favolosa delle mura così dette pelasgicbe. v. Savignoni e Men-
GARKLLi ' Notizie degli scavi ' 1901 p. 514 segg. 1903 p. 229 segg. 1904
p. 403 segg.
(2) Liv. II 21 all'a. 495. La data ha valore soltanto approssimativo, cfr. p. 105
n. 5. La colonia già dedottavi da Tarquinio il Superbo (Liv. I 56. Dionys. IV
68) è sospetta soprattutto per l'assenza di Signia nella lista di Catone: proba-
bilmente non si tratta che d'una anticipazione della colonia del 495. Sopra
una conferma archeologica della data tradizionale v. I p. 303 n. 2.
(8) La preminenza di queste due popolazioni tra quelle a contatto coi Latini
si rispecchia nel racconto leggendario di Dionys. IV 49 sulla lega costituita
da Tarquinio il Superbo : ^k òè toO OùoXoùokujv ^Gvouq òùo itóX6i<; èòéSavTO
MÓvai toc; TTpoaKXiìaeic;, 'Exexpavoi Te Kaì 'AvTiàreq. Cfr. Dionys. Vili 1, 4: €Ì<;
"AvTiov rriv éTTicpaveoTÓTriv tòjv év OùoXoùokok; TróXeuuv. X 21 : tì^v 'Exerpavòiv
TTÓXiv r\ TÒT6 rjv ToO OùoXoùaKujv éiriqpaveaTàTri t6 Kaì èv tùj KpariOTiu tóttui
MaXiara KeiMévr).
(4) Così Liv. II 85, 7. 88, 6. HI 8, 10. Vili 11, 10.
(5) Dionys. Vili 4. Liv. Ili 10, 8. Per conciliuni o concilia in generale, v.
Liv. IV 25, 7. Dionys. Vili 56. Plut. Coriol. 26. La riunione ad caput Ferentinae
(Liv. II 38, 1) è dovuta ad una confusione con le adunanze dei Latini.
ECETRANI ED ANZI ATI 107
traili. Di un centro religioso comune a tutto il popolo volsco non
si fa parola ; e nulla mostra che il santuario di Satrico fosse centro
di un'anfìzionia sul genere di quella albana. E quindi molto dubbio
se i Volsci avessero realmente unità ])olitica e se il rumore di
guerra quando si combatteva a Yelletri pervenisse ai Volsci del-
l'alta valle del Liri. Par più verisimile che i Romani e i Latini
combattessero con le singole tribù volsche, in ispecie con gli Anziati
e gli Ecetrani, che talora si saranno uniti contro il nemico, ed
avranno anche ricevuto qualche aiuto dai connazionali più distanti,
i quali fiu-ono poi trascinati nella lotta man mano che, cedendo gii
Anziati e gii Ecetrani, il pericolo si venne facendo più dappresso al
resto della nazione volsca. Ecetra, la cui posizione non ci è nota,
sembra fosse il centro più ragguardevole della tribù che abitava
nel nodo montuoso più orientale dei Lepini, ossia probabilmente
della stessa tribù che compare nel IV secolo col nome di Priver-
nati, quando la capitale tra i monti fu oscui'ata come centro dalla
città di Priverno che era venuta sorgendo nella pianura (1). Quanto
ad Anzio, la tradizione dev'essere nel vero quando ne afferma
antichissime le origini riportandole ad un figlio di Ulisse e di
Circe (2); poiché il promontorio anziate offriva la sola rada passa-
bile della sponda compresa tra Ostia e Terracina. Ma nulla prova
che Anzio abbia mai fatto parte della lega latina in qualità di
comune autonomo (3). La sua celebrità a ogni modo data da quando
divenne il centro d'una bellicosa tribù di Volsci (4), audace del
pari per terra nella guerriglia contro i Latini e per mare iiella
pirateria, che, tra lotte continue, conservò la sua nazionalità fino
alla seconda metà del sec. IV. Certo non è da escludere che nella
guerra lunga ed incerta tra Volsci e Latini, Anzio, come altre
(1) È affatto errato cercare Ecetra in vicinanza del paese aurunco fondan-
ilosi su Liv. II 26, 4 (cfr. 25, 6) o Dionys. VI 32. La menzione degli Aurunci
in mezzo alle prime gueiTe coi Volsci è assai sospetta; e proviene forse dalla
confusione su cui v. I p. 172 n. 2. Dionisio del resto parlando di coloni con-
dotti nel territorio di Ecetra al 495 non può alludere cheaSignia: a cui al-
ludeva probabilmente allo stesso proposito anche la fonte di Liv. II 25, 6. Im-
portante per la posizione di Ecetra è Liv. IV 61, 5: ciiin Volscis inter Feren-
finum afque l'ki'tram signis co«/rt<j srf/wjiVa^^o/j. L'ultima menzione degli Ecetrani
è al 378, Liv. VI 31.
(2) V. i testi I p. 209 n. 7.
(8) Non è il caso d'invocare il passo citato di Dionys. IV 49.
(4) Vohci Antiales, Liv. II 33. Vili 13, 5. Fusti triumph. ad a. 459. 846 av. Cr.
108 CAPO XV - ALLEANZA FRA ROMANI, LATINI ED ERNICI
città, abbia cambiato momentaneamente di padrone; ma so vi fn
dedotta una colonia (la tradizione ne parla al 467 (1), ma forsr
anticipa soltanto la colonia del 338), oli effetti non ne fnrono dn-
revoli e il fatto deve considerarsi come nn e]jisodio trascm'abile
della Innga guerra.
D'altre terre volsclie da Velletri in fuori la tradizione, anterior-
mente agli ultimi anni del V secolo, tace quasi affatto (2). Solo
sulla fine del sec. V o sul principio del IV son ricordate Verrugine
che. non lontana né dal Lazio proprio né dai confini dei Volsci e
degli Equi, pare debba essere cercata nelle vicinanze di Velletri
e sarà stata forse in origine una fortezza velliterna (3), Satrico
presso Conca, famosa pel santuario della Madre Matuta, che pro-
babilmente era con Anzio in stretta unione (4), Circei (5) e Anxur (6).
(1) Liv. Ili 1, 4.
(2j Prescindendo dalla isolata menzione di Verrugine al 446 in Liv. IV 1, 4;
oudiere Volscos Aequosque oh communitam Verruginem fremere, e da qualche
città ricordata nella leggenda di Coriolano.
(3) Combattimento presso Verrugine del 423, Val. Max. 11 3, 8. VI 5, 2
(Liv. IV 37 non fa cenno del sito). Ne è ricordata l'occupazione da Liv. IV
55, 8 (receptam) al 409, la perdita da Liv. IV 58, 3 e Diod. XIV 11 al 407
(il testo di Diodoro ha 'Eppouxo: ma non si può ragionevolmente dubitare col
BuKGER p. 110 della sua identità con Verrugine). È di nuovo secondo Liv. V
28 e DxOD. XIV 98 nel 394 in mano dei Romani, che in quell'anno tornano a
perderla, questa volta però per opera degli Equi. — Cfr. su Verrugine Pais
' Studi italiani di filologia classica ' VI 122.
(4) Fondazione albana secondo Diod. VII 3; inclusa nella lista delle città
latine in Dionys. V 61; conquistata da Coriolano, Liv. II 39. Dionys. VIII 36.
Del resto non è menzionata prima del 393 , quando si sarebbe ribellata ai
Romani secondo Diod. XIV 102. Sul tempio della Madre Matuta v. I p. 277
n. 2. Degli scavi di Satrico, i quali confermano la sua alta antichità, non si
hanno che relazioni insufficienti nelle ' Notizie degli scavi ' 1896 p. 190 segg.
1898 p. 166 segg.
(5) Menzionata come colonia di Tarquinio il Superbo in Liv. I 56, 3, poi
nella lista delle città latine di Dionys. V 61, poi tra le conquiste di Coriolano,
Liv. II 39. Dionys. VIII 14. Plut. Coriol. 28. Nella storia non ricompare che
al 393, quando viene colonizzata, Diod. XIV 102. — Sulla topografia v. Ashby
Monte Circeo nei ' Mélanges d'arch. et d'histoire ' XXV (1905) p. 157 segg. —
Il nome deve scriversi Cercei. La connessione con Circe trovata dai Greci e
adottata dagli indigeni (cfr. 1 p. 336) fece prendere il sopravvento alla forma
Circei. Di quella connessione con Circe non son documento i versi esiodei
theog. 1011 segg.: che anzi essi sono stati occasione ad inventarla; il primo
ricordo è in [Scyl.] 8.
(6) Anxur (Terracina) è ricordata la prima volta quando i Romani se ne
LA LEGGENDA DI CORIOLANO 109
Ciò in parte procede dalla natiu'a stessa della nostra tradizione, in
parte dall'essere alcune di queste città, come Circei ed Anxur, fin
quasi alla fine del sec. V, fuori dei termini cui stendevasi l'attività
politico-militare dei Romani.
Ad ogni modo la pseudostoria del sec. V abbonda di particolari
sulle lotte coi Volsci. L'avanzarsi minaccioso dei Volsci è il tema
della leggenda di Coriolano. Una delle gemme inii fulgide della
epopea popolare italica era certo il carme di Coriolano (1), clie ci
è pervenuto tradotto in prosa e coi rimaneggiamenti prammatici
degli annalisti. Questo carme è così bello ed armonico ed ispirato
a sentimenti cosi profondamente umani che saremmo tentati di
riferirlo ad età assai progredita se non vi ostasse il difetto di ele-
menti greci (2j. La leggenda di Coriolano consta di tre parti: la
jjrima è la spedizione vittoriosa dei Romani in cui l'eroe s'impa-
dronisce di Corioli; la seconda è la sua oijposizione ad una distri-
buzione di grano ai plebei affamati, la sua condanna e la sua
fuga i^resso il principe volsco Attio Tullio; la terza è la cam-
pagna da lui condotta alla testa dei Volsci fin quasi alle porte di
impadronirono nel 406, Liv. IV 59. Diod. XIV 16. Sarebbe stata poi perduta,
nel 402, Liv. V 8, ricuperata nel 400, Liv. V 13, e assediata dai Volsci nel 396,
Liv. V 16. R. DE LA Blanciière Terracine nella ' Bibl. des écoles frany. d'Athènes
et de Rome ' fase. XXXIV (Paris 1887).
(1) DioNV's. vili 62: OùoXoOaKOi (aùiòv)... ijuc; xiLv àpioxujv yevóixevov iv Tiimr)
exouaiv... où yé^oxev ìììty]\oc, ì] toO rivòpòc; f-ivrmn dX\' oberai koì ù|.ivelTai irpòe;
TidvTiJUV ók; eùaeP>i(; xaì òiKaioc; àvnp.
(2) La storia di Temistocle non influì che sugli ultimi rimaneggiamenti
della leggenda di Coriolano. Così, secondo la forma piti antica della leggenda
Coriolano sopravvisse in esilio fino alla vecchiaia (Liv. Il 40, 10); poi, ad imi-
tazione di Temistocle, si narrò invece della sua fine per suicidio (Cic. Brut.
10, 42. Lael. 12, 42). Il motivo stesso del ricorrere al nemico che fino a ieri
s'era combattuto è troppo comune nella realtà della vita per credere che debba
essere stato imitato dalla fuga di Temistocle presso Admeto e in Persia. Di-
cendo ciò non voglio peraltro negare che Dionisio Vili 1 e più ancora Plutarco
Cortol. 23 nel dipingere come Coriolano si presentasse supplice ad Attio
Tullio abbiano avuto presente l'analoga scena di Temistocle ed Admeto.
La favola poi delle sedici donne elee, nominate una per ciascuna delle città
dell'Elide, le quali avrebbero fatto da arbitre tra Pisa e l'Elide (Pausan. V 16),
non ha proprio nulla a fai'e con l'intervento delle matrone romane per la sal-
vezza di Roma. — L'analisi che della leggenda dà il Mommsen Rum. Forschungen
li 113 segg., ricca di osservazioni utilissime, è però, per quel che a me sembra,
sostanzialmente errata.
110 CAPO XV - ALLEANZA FRA ROMANI, LATINI ED ERNICI
Roma e la sua ritii^ata in conseguenza delle preghiere delle donne
romane e segnatamente della madre e della consorte. Questi ele-
menti ricorrevano senza dubbio nel carme epico originario; meno
sicuro è che vi fosse menzionata la instaiu-azione dei ludi romani
e la cacciata dei Volsci venuti a Roma per assistervi, che sarebbe
stata la cagione dell'ultimo conflitto. Il rinnovarsi dei ludi non
ha infatti alcun nesso intimo col racconto; e l'aneddoto stesso
narrato a tal proposito, che si fonda soltanto sopra una falsa
etimologia della parola instaurazione, è riferito da altre fonti ad
età molto più tarda (1). Recente ])i\ò essere altresì il collegamento
della leggenda col tempio della Fortuna Muliebre al quarto miglio
della via Latina (2), il quale ha la sua ragione in ciò che rincontro
di Coriolano con le donne romane si prestava assai bene a spie-
gare rorigine di quel tempio. Lo stesso può dirsi dell'artifizio di
Attio Tullio perchè i Romani i3rovocassero i Volsci con una espul-
sione inconsulta e dell'adunanza dei Volsci iiTitati alla fonte del-
l'acqua Ferentina (3). Chi immaginò questi particolari ignorava
che all'acqua Ferentina non si congregavano i Volsci, ma i Latini,
e xDare riputasse lo stato usuale tra Romani e Volsci quello della
pace; mentre invece il nucleo stesso della leggenda sembra pre-
supporre come usuale uno stato di guerra o almeno una relazione
ostile.
Evidente nella leggenda di Coriolano, ma comune con altre
leggende simili, è la mancanza di cronologia, cioè di qualsiasi
legame sicmro con altri fatti databili della storia di Roma e coi
fasti consolari. E a questo proposito il non ricorrere in una delle
nostre fonti (4) le coppie consolari del 490 e 489, le quali avrebbero
dovuto essere inserite nel racconto della leggenda di Coriolano, è
forse da spiegare col non essere in quella nessun appiglio per in-
trodurvele. Se poi il console Cominio del 493 è ricordato a pro-
posito della presa di Longula, Polusca e Corioli , ciò proviene da
mi'induzione arbitraria la cui origine si desume dalle parole stesse
con le quali n'è fatto cenno (5). Nel testo dell'alleanza romano-
(1) Mackob. sat. I 11, 3.
(2) Per la posizione v. Val. Max. I 8, 4. Fest. p. 242.
(3) V. sopra p. 91 n. 1.
(4) In Livio. Cfr. Mommsen Roih. Forschungen II 137.
(5) V. sopra p. 97 n. 2. Secondo 1' Auct. de tnr. ili. 19 Coriolano sarebbe
stato console quando non volle si distribuisse il grano alla plebe. È incerto
LA LEGGENDA DI CORTOLAXO 111
latina clie si assegnava a quell'anno non essendo che il nome del
console Cassio, rimaneva disponibile per qualsiasi impresa l'altro
console Cominio ; e una qualche impresa doveva attribuirglisi per
spiegare la sua assenza nella conclusione di quel trattato. E come
Coriolano non era registrato nei fasti e quindi non poteva aver
fatto le sue conquiste che sotto auspici altrui, non si trovò nulla
di meglio che attribuire a Cominio la direzione della guerra in
cui egli s'era segnalato contro i Volsci. Del resto la mancanza di
cronologia della leggenda si tradisce qui scopertamente ; iDcrchè se
v'è un momento in cui sono affatto inverisimili i ijrosxjeri successi
dei Volsci da essa naiTati, si è negli anni che seguirono immedia-
tamente al trattato di Cassio, il quale raccolse le forze dei Ro-
mani e dei Latini contro il nemico. Ed è pur degno di nota un
altro punto. Gli annalisti, i quali davano un nome al tiranno sira-
cusano che aveva inviato le granaglie, occasione della discordia,
menzionavano Dionisio (1), il più famoso senza dubbio dei tiranni
siracusani, nonostante che egli vivesse quando i Volsci non ave-
vano i)iù una X30tenza tale da mettere a pericolo l'esistenza di Roma.
Della patria e del valore storico del carme non ci chiarisce il
giudizio di Coriolano innanzi alle tribù; poiché se questo è in
contraddizione patente con le istituzioni romane dell'età storica,
non pronunciandosi sentenze di morte in Roma dopo le dodici
tavole se non nella massima assemblea ijopolare, l'assemblea cen-
tmùata, non è impossibile che le assemblee della i^lebe avessero
per lo innanzi tentato d'usurpare il diiitto di ijronunciarne (p. 23).
Può del resto trattarsi parimente della speculazione pseudostorica
di qualche giurista che si fosse posto il quesito come venissero
effettuati i giudizi capitali prima delle dodici tavole (2). Sicché
se questo scrittore ci rispecchi qui meglio delle altre fonti il carme epico po-
polare su Coriolano (che nulla vieta menzionasse un console di cui tacevano
i fasti), perchè Coriolano vi sarebbe comparso, se mai, come console nella sua
campagna vittoriosa contro i Volsci.
(1) V. sopra p. 14 n. 2.
2) V. MoMMSEN' Roin. Forschungen II 147 seg. Molto si è discusso sul passo
di Dionisio VII 64, 6: Mifii; yòp Kaì etKoai tótc qpuXujv oùoOùv olq l'i vpf\fpo(; àve-
bó6n, Tà<; àiToXuoùaa^ qpuXà; èaxev ó MdpKiot; èwéa Ujot' el òùo TtpoarjXGov aÙTuJ
cpuXai olà Tì*iv taoipriqpiav (ÌTteXéXuT' fiv ujairep ó vó|uoq riEiou. Se ne è voluto ri-
cavare che secondo la leggenda originaria le tribù erano venti, v. Mommsen
op. cit. pag. 138 seg., e v'è chi ha cercato di correggere |uia<; koI ekocri. Ma
taoMJr|<pia significa semplicemente pari diritto di voto, cfr. Pli-t. C. Gracch. 9.
112 CAPO XV -ALLEANZA KKA KOMANI, LATINI EU EKXICI
non soii questi sicuri indizi d'origine non romana del carme. Piut-
tosto nella importanza che vi hanno Corioli, Longula e Polusca (1),
terre di nessun conto, che non ricompaiono più mai o quasi nella
storia delle guerre coi Volsci, potrebbe cercarsi un indizio che il
carme abbia avuto origine in questa regione. E a confermare anche
la provenienza non romana dell'eroe starebbe che, se si prescinde
da re Anco Marcio, non abbiamo altra testimonianza in Roma né
d"una gente laatrizia Marcia, ne d'un cognome Coriolano. Certo
<luesto nome non ha nulla di singolare, e mancando ogni traccia
di culto a Coriolano, la congettura moderna della sua identità col
Marte di Corioli (2), che non sappiamo neppui'e se sia mai esistito,
appare pienamente arbitraria. Anzi nessun argomento abbiamo
per affermare o per negare che Coriolano sia un personaggio sto-
rico come tanti, altri di cui pur narra cose meravigliose l'epopea
popolare di tutti i tempi; ne quand'anche fosse storico e non ro-
mano dovrebbe suscitar meraviglia la sua attrazione nel ciclo delle
leggende romane. Volendo tuttavia arrischiare una ipotesi si può
pensare che Coriolano, in origine l'eponimo di Corioli (3), solo col
tempo si sia trasformato nel conquistatore di questa città quando
le leggende sulla fondazione di Corioli erano rimaste obliterate
con lo sparire della città stessa. A questo modo si spiegherebbe
come in mia leggenda che non par posteriore al sec. IV Coriolano
figm'i come un cognome trionfale, mentre cognomi trionfali vera-
mente autentici non sembra siano anteriori al secolo III.
Queste congetture si accordano bene col difettare di ogni nesso
tra la leggenda di Coriolano e le altre leggende romane che hanno
di mira la stessa età, talché non ha parte in quella nessuno dei
personaggi più celebri di Roma nel V secolo. V'è certamente tutto
e Dionisio vuol dir soltanto che il voto di ciascuna tribù aveva egual valore
qualunque fosse il numero dei votanti, come bene vide J. J. Mueller ' Philo-
logas ' XXXIV (1876) p. 109 segg. Traducendo poi i passi di Dionisio ove è
detto che Coriolano buoi vpriqpoK; éà\uu (Vili 6, 3. 24, 3) ' fu condannato con
duo voti di maggioranza ' s'introduce nel testo di Dionisio una contraddizione
che non c'è. Dionisio intese di dire che fu condannato per due voti ossia che
sarebbe stato assoluto se due tribìi fossei-o state favorevoli anziché contrarie.
(1) Longula è poi ricordata nella campagna del 484, Dionys. Vili 85, i fines
Coriolanorum a proposito della contesa tra Ardea ed Aricia del 446, Liv. Ili 71.
(2) Pais I 1, 501 scg. nella sua analisi della leggenda di Coriolano in cui
sembra dilungarsi dal vero più assai che non la leggenda stessa.
(3) Per nomi d'eponimi tratti dall'etnico v. I p. 207 nota.
LA LEGGENDA DI COMO LAND 113
un "TupiDG d'eccezioni : P. Valerio, ambasciatore in Sicilia per pro-
emiare le granaglie che sono occasione alla contesa, M'. Valerio,
menzionato a proposito della discussione che si fece intorno ad esse
nel senato, Valeria, che guida l'am.basceria delle matrone a Corio-
lano e diviene la prima sacerdotessa del tempio della Fortuna
Muliebre eretto in quella occasione (1). Ma questi particolari, in-
sieme con altri dello stesso valore, rendono soltanto testimonianza
della elaborazione che ha fatto della leggenda Valerio Anziate.
La leggenda di Coriolano a ogni modo, quale che ne sia l'ori-
gine prima e gli elementi favolosi, rispecchia al vivo il ricordo
che s'aveva nel IV secolo dell'avanzarsi vittorioso dei Volsci nel
Lazio e contro Roma un secolo prima. Delle città enumeratevi
che i Volsci avrebbero conquistato sotto gli ordini del fuoruscito (2),
alcune furono occupate dai Volsci quando scesero nella pianura
pontina (Satrico, Cii'cei), altre sono le città ricordate nelle guerre
con gli Equi o sono almeno nella direzione del paese di costoro,
(Tolerio, Boia, Labici, Pedo, Corbione, Vitellia, Carvento) e la loro
menzione prova soltanto che la leggenda aveva confuso le guerre
con gli Equi e con i Volsci. Restano Longula, Polusca, Corioli,
La"ST.nio. Corioli, che si trovava tra Ari eia ed Ardea (3), è menzio-
nata soltanto nelle guerre volsche a proposito delle due campagne
fattevi da Coriolano, l'una servendo nell'esercito dei suoi concitta-
dini, l'altra conducendo quello dei Volsci. Ma è incerto se i Volsci
si siano mai avanzati fin là con le loro conquiste, e forse in, ciò è
da vedere una conferma dell'ipotesi che Coriolano fosse in origine
il fondatore, non il conquistatore di Corioli. Invece Longula e Po-
lusca, che erano situate verisimil mente tra Anzio ed Ardea, seb-
bene siano ricordate quasi solo a xjroposito di queste due campagne,
non è difficile che fossero realmente contese tra Volsci e Latini,
il che non potremo dire con eguale probabilità della città di La-
vi nio.
(1) DioNYs. VII 1. 54. Vili 39. 55.
(2) Liv. II 39 menziona per ordine le seguenti conquiste : Circei, Satrico,
Longula, Polusca, Corioli, Lavinio, Corbione, Vitellia, Trebio (ricordata solo qui),
Labici, Pedo; Dionisio, ricorda Circei (Vili 14), Tolerio (17), Boia (18), Labici,
Pedo, Corbione, Carvento (19), Boville (20), Longula, Satrico, Keria (Sezia?), Po-
lusca, 'AXPifìTai (forse i Lavinati, fors'anche gli Albensi del catalogo pliniano,
cfr. I p. 379 n. 1 nr. 1), Muglila (ricordata solo qui, cfr. il cognome dei Papiri
Mugillani: in Liv. 1. e. è stata introdotta per via di congettura), Corioli (36).
(3) Cfr. sopra p. 100 n. 2.
G. De Sanctis, Storia dei Romani, II. 8
114: CAPO XV -ALLEANZA FBA ROMANI, LATINI ED ERNICI
In questa campagna leggendaria di Coriolano e di Attio Tullio
i Volsci appaiono per la prima volta in lega con gli Equi (1). La
lega tra i due popoli si ripetè poi spessissimo secondo la nostra
tradizione fino alla discesa dei Galli. E certo, se per lunghi anni
cessò quell'espansione dei Latini nel paese volsco che s'era iniziata
cosi vigorosamente dopo l'alleanza di Cassio, si deve alla violenta
pressione che cominciavano ad esercitare da oriente sul territorio
della lega gli Equi. E però degno di nota che, per quanto la nostra
tradizione sulle guerre volsche sia imxDerfetta e manchevole, in ge-
nerale sembra risultare che più d'una delle imprese comuni degli
Equi e dei Volsci fosse in origine attribuita separatamente agli uni
od agli altri. Cosi ad esempio i^er le campagne di Coriolano sembra
si parlasse in origine soltanto dei Volsci e del i^ari a proposito della
vittoria romana riferita al 446, dove la tradizione più recente parla
d'Equi e di Volsci (2), mentre alla battaglia dell'Algido del 432
o 31 partecipavano in origine soltanto gli Equi (3). Certo però una
parziale cooperazione di tribù volsche ed eque nulla avrebbe avuto
di singolare quando gii Equi dell'Algido davano la mano ai Volsci
di Velletri.
Pertanto dopo i primi decenni del secolo V non solo s'arrestò
l'espansione latina, ma i Volsci ricuperarono terreno . Sarebbe, è
vero, un errore di critica il ritenere che le conquiste di Coriolano o
d' Attio Tullio corrispondano a conquiste reali fatte ]3rima o poi dai
Volsci. Ma certo il carme di Coriolano rispeccliia ih terrore volsco
che chiuse talora i Romani nelle fortificazioni della loro città. E
se Velletri nel sec. IV era una città volsca (4), ciò dimostra che i
Volsci l'avevano ricuperata, non certo nel periodo della loro deca-
denza, ma in quello del loro maggior fiore, verso la metà del sec. V.
Allora i Latini di Cora, di Norba e di Signia rimasero isolati dai
loro connazionali. Ma tenaci e agguerriti, resistettero nei loro nidi
d'aquila, che forse appunto allora circondarono di mm'a ciclopiche.
E mentre nel sovrapporre faticosamente i grandi blocchi di quelle
fortificazioni occupavano gli ozi invernali, scendevano nella state
(1) DioNYs. Vili 16. Cfr. Liv. II 40, 12.
(2) Liv. Ili 66-70. Ma v. Diod. XII 30.
(3) Diod. XII 64, cfr. Liv. IV 26-29. - Così pure al 485 Liv. II 42 e Dionys.
Vili 81 parlano d'Equi e di Volsci, Diod. XI 87 solo di Volsci. — Su tuttociò
cfr. BuRGER Sechzig Jahre aus der iìlteren Geschichte Roms (Amsterdam 1891)
p. 109.
(4) Come risulta dalla iscrizione citata sopra a p. 104 n. 1.
GLI EQUI 115
alla pianura a mietere le messi dei Volsci, che se ne rifacevano alla
loro volta nelle campagne dei Romani, dei Latini e degli Ernici.
Anche la città latina di Ardea pare che cadesse o rischiasse di
cadere in mano dei Volsci. e di questo fatto era memoria nella
leggenda, argomento di canti epici, della vergine d' Ardea (1). La
rivalità fra un patrizio ed un plebeo per la mano di lei avendo
cagionato una sedizione, la plebe, sopraffatta ed espulsa, avrebbe
tentato di rientrare nella città a mano armata con l'aiuto dei Volsci
condotti dall'Equo Cluilio. Ma vinta dagli ottimati con l'aiuto di
Roma, il duce dei Volsci sconfitto sarebbe caduto in potere dei
Romani e da essi condotto come prigioniero nel trionfo del console
M. Greganio (443). Questo racconto è in parte favoloso; tuttavia,
anche prescindendo dalla leggenda, la deduzione d'una colonia la-
tina ad Ai'dea nel 442 (2) non si spiegherebbe se la sua latinità
non fosse stata in pericolo.
Il vigor nuovo degli assalti dei Volsci dipende dunque probabil-
mente dal rincalzo che ebbero dagli Equi, che forse non molto dopo
i Volsci avevano cominciato a scendere, anch'essi sospinti dalle tribù
sabelliche, verso la pianm^a latina. A quale delle stirpi italiche ap-
partenessero gii Equi non può determinarsi con sicurezza, poiché
le iscrizioni in dialetto indigeno venute alla luce nel loro paese
sono di dubbia autenticità (3). Erano una tribù montanara che abi-
tava sparsa in villaggi tra il lago di Fucino e le vicinanze di Rieti
sui monti Simbruini e nell'alte valli dell'Imella e dell' Aniene che
li limitano a settentrione e a mezzogiorno (4). Dal loro paese bo-
scoso ed alpestre, povero e inaccessibile, essi da un lato, procedendo
lungo l'Aniene, devastavano il territorio tibra-tino (5), dall'altro ad
(1) Liv. IV 9 seg. Cfr. sopra p. 48.
(2) Liv. Ili 11. DioD. XII 34. Pel Pais I 1, 553 la colonizzazione di Ardea
del 442 è ' assurda '. Dicendo ciò il Pais dimentica che se Ardea non fosse
stata colonizzata dopo il 500 circa, non comparirebbe tra le colonie latine,
come non vi è inclusa Cora. 11 foedus Ardeatinum del 440 (Liv. IV 7, 10. Dionys.
XI 62) non è probabilmente che una invenzione di Licinio Macro, il quale
pretendeva di averlo letto, Liv. IV 7, 12.
(3) NissEN Landeskunde I 514.
(4) Il loro territorio aveva forse un 2000 km- di estensione; ma era per la
massima parte deserto e inadatto alla coltivazione.
(5) Un qualche ricordo delle guerre che dovettero sostenere i Tiburtini
pare si conservasse, v. Serv. Aen. Vili 285, dove sembra però dover essere
confusione tra Equi e Volsci. Cfr. I p. 387 n. 3.
116 CAPO XV -ALLEANZA FRA ROMANI, LATINI ED ERNICI
oriente del pianoro d'Ai'cinazzo invadevano il paese degli Ernici ;
e nel mezzo, tra Subiaco ed Affile lasciando l'alta valle dell' Aniene
per quella del Sacco, si spingevano diritti pel passo dell'Algido nel
cuore del Lazio. La mancanza di centri cittadini in concorrenza
tra loro fa ritenere clie fossero ordinati ad imita con parlamenti
comnni a tutto il popolo e con comuni magistrati temporanei o
permanenti e clie quindi sia nel vero la tradizione raj)presentan-
doli sempre, senza eccezione, come una tribù unita. Nella storia ro-
mana (se si prescinde da un accenno alla pretesa pace fatta da essi
con Tarquinio il Superbo) (1) son menzionati per la prima volta
nel 494 (2). Di qui comincia una serie monotona di notizie, poco o
nulla fededegne nei particolari, di devastazioni e di battaglie, tra
cui spiccano raramente qua e là i colori della genuina leggenda
popolare, come a proposito della vittoria di Cincinnato (458).
Assai bello, ma di natura molto diversa da quello di Coriolano,
era il carme intorno a T. Quinzio Cincinnato. Gli Equi, che erano
venuti a patti coi Romani, dopo un anno, rompendo senza motivo
l'accordo, sotto la guida di Gracco Clelio, devastano il territorio
latino e si accampano all'Algido. Gli ambasciatori inviati da Roma
a chieder soddisfazione sono trattati con disprezzo dal duce equo,
che li invita per ischerno a parlare con la quercia che ombreggiava
la sua tenda ; e allora uno degli a,mb asciatori, rivoltosi all'albero,
chiede alla sacra quercia e agli dèi d'esser testimoni della pace
violata. Muove tosto contro gli Equi il console L. Minucio, che dal
nemico viene circondato nel suo campo, mentre solo cinque cava-
lieri giungono a portare l'annunzio in Roma. A tale notizia tutti
si trovano d'accordo per nominare dittatore T. Quinzio Cincinnato.
Cincinnato attendeva a lavorare egli stesso il suo campicello nel
Trastevere, quando soi^ravvengono i messi che lo invitano a vestire
(1) Liv. I 55, 1. — Favola etimologica di nessun conto è la provenienza
dagli Acquietili dello ius fetiale, v. I p. 302 n. 1.
(2) Liv. II 30, 9. 31, 4. Dionys. VI 42. Zon. VII 14. Anche la tradizione meno
interpolata cominciava assai presto a parlare degli Equi, v. Diod. XI 40
ad a. 484: 'Puj|uaToi upòc; AlKoXavoùq koì toù^ tò ToOokXov kotoikoOvtoc; èv€-
OTnaavTO TróX€|uov Kai irpòq luèv AÌKoXavoùc; luaxiv auvctii^avrec; èvÌKn(Jav koì ttoX-
Xoù(; TiJùv TToXeiaiujv eiXov, Mera hi. raOra tò ToOokXov ètgiToXiópKriaav Kai ti^v
tOùv AJKoXavOùv iróXiv èxeipuOaavTO. Quale che sia l'origine di queste singolaris-
sime notizie, non è lecito trattare il testo arbitrariamente come fa Burgee
Sechzig Jahre p. 119 seg. Al più invece di t^v tOùv Aìk. potrebbe congettu-
rarsi 'OpTUJvr|v AIk. TTÓXiv.
LA LEGGENDA DI CINCINNATO 117
la toga per udire gii ordini del senato. Fattasi recar la toga dalla
moglie Racilia, Cincinnato, ricevuta la notizia della sua nomina,
dolente di abbandonare il suo campicello, ma ossequente agii or-
dini, traversa il Tevere. Il giorno dopo si sceglie a maestro dei
cavalieri un x3atrizio povero, ma valoroso, fa chiudere le botteghe,
sospende i giudizi e gii affari, e ordina a tutti i cittadini atti alle
armi di trovarsi prima del tramonto nel campo di Marte, ciascuno
con dodici pali, provvigioni per cinque giorni ed armi. Al tramonto
si mette in marcia ; sulla mezzanotte è già all'Algido, dove avverte
con grida Minucio dell'insperato soccorso. Mentre Minucio fa una
sortita contro gii assedianti, le truppe di Cincinnato piantano in
terra i pali onde son provvedute, e circondano l'esercito assediante
d'una immensa palizzata. Al mattino gli Equi son già assediati
a lor volta e non x30ssono che render le armi, ottenendo la vita a
patto di passar sotto il giogo. Cincinnato torna trionfante recando
j)rigioniero il duce spergiuro degli Equi, e dopo sedici giorni, de-
posta la dittatura, si riduce novamente al suo campicello (1).
Le inverisimigiianze di questo racconto saltano agii occhi
d'ognuno. Il vallo imprendibile costruito in una notte attorno alle
trincee degli Equi, che erano abbastanze vaste per cingere un ac-
campamento romano, è degno di stare accanto al mm-o che in un
giorno gli Achei d'Omero eressero attorno alle navi. Ma dove la
poesia popolare s'è ciucata della rigorosa verisimigiianza ? Nella
narrazione che dà di questi fatti un retore greco, il razionalismo
ha cancellato i colori dell'epopea senza ricostituire la storia. Né
certo alcuno ritenterà l'impresa osata da lui o dalla sua fonte di
cercare il nucleo storico della leggenda eliminandone soltanto il
meraviglioso e l'inverisimile. A noi basti notare che sono storiche
le lotte con gii Equi sull'Algido e che questa leggenda ci rappre-
senta al vivo l'alternarsi di vittorie e di sconfìtte che costringeva
nel sec, V i Romani a vegliare senza tregua nell'armi. E storico è
pure, come si desume dai fasti, il personaggio di Cincinnato e non
senza motivo il suo ricordo dev'essere soi3ravvissuto nel popolo.
Ma sarebbe affatto vano il cercare quali imprese dei vari Quinzì
o dello stesso Cincinnato fuse insieme e abbellite dalla fantasia
poetica abbiano fornito il sostrato del carme epico. Il quale è certo
d'origine romana perchè indubitatamente romano n'ò l'eroe e perchè
fondati sulla esatta conoscenza di cose romane molti dei partico-
(1) Liv. Ili 25-29. DioNYs. X 22-25. Nel testo e seguito Livio.
118 CAPO XV -. ALLEANZA FRA KOMANI, LATLM ED ERNICI
lari, compreso quello del campicello di Cincinnato nel Trastevere,
che proviene dalla denominazione di prati Quinzi data a un ter-
reno in quella regione (1).
I motivi caratteristici di questo carme si trovano ripetuti più
volte nella nostra tradizione. Così il richiamo di Cincinnato dal-
l'aratro non è riferito soltanto per la sua dittatura del 458, sì
anche a proposito del suo consolato del 460 (2) ; ma è facile rico-
noscere che sta a suo luogo soltanto in occasione della dittatura,
allorché Cincinnato partiva per una impresa militare che non si
sapeva come e quando sarebbe terminata, non a proposito del con-
solato che trascorse in Roma, dove poteva tener sempre d'occhio
il suo campicello (3). All'anno 464 poi si narra già di un Quinzio
che liberò un console assediato dagli Equi (4). Ma il racconto, vacuo
e prosaico, si chiarisce a prima vista per una copia sbiadita della
leggenda di Cincinnato. La deliberazione del senato che incarica
un console di provvedere affinchè la repubblica non soffra detri-
mento, la nomina di T. Quinzio Capitolino a proconsole, la men-
zione della colonia di dubbia autenticità condotta ad Anzio, il
difettare di quei particolari locali che son caratteristici della ge-
nuina tradizione romana, il numero dei morti dato con una pre-
cisione che rasenta la impudenza, tutto dinota che qui abbiamo a
fare con una delle peggiori falsificazioni deirannalistica sillana.
E anche innegabile l'efficacia che la leggenda di Cincinnato
ebbe nel racconto dell'assedio posto dai Volsci sotto il duce equo
Cluilio ad Ardea (443). La leggenda della lotta tra Volsci e Romani
per Ai-dea, occasionata dalla contesa tra due pretendenti alla mano
d'una fanciulla (5), è senza dubbio assai antica. Ma è troppo chiaro
che l'Equo Cluilio, il quale apparisce, non si sa come, in qualità
di duce dei Volsci, è lo stesso Gracco Clelio, il duce equo vinto da
Cincinnato. E una stessa è la sorte d'ambedue : vengono l'mio e
l'altro cinti d'assedio in una notte quando sono anch'essi asse-
dianti, costretti alla resa e riserbati al trionfo del vincitore, mentre
(1) Plin. n. h. XVIII 20. Liv. Ili 26, 8.
(2) DioNYS. X 17. Cic. Cato maior 16, 56 collega il fatto con la pretesa se-
conda dittatura di Cincinnato del 439 (sopra p. 15), forse solo per un errore
di memoria.
(3) Lo stesso vale per la seconda dittatura, che per di più non è neppure
storica.
(4) DioNYs. IX 63. Liv. Ili 4.
(5) V. s. p. 48 e 115.
GLI EQUI sull'algido 119
il loro esercito passa sotto il giogo. Di clie l'originale è da cercare
senza dubbio nella leggenda di Cincinnato, dove il racconto pro-
cede più coerente e dove un duce equo è a posto in mezzo a' suoi
connazionali (1).
Ad ogni modo si vede chiaramente, in mezzo alle falsificazioni
degli annalisti e agli abbellimenti della fantasia popolare, clie la
tradizione aveva conservato vivo il ricordo del tempo in cui gli
Equi accampati sull'Algido spargevano il terrore fino alle porte
di Tuscolo e di Roma. I colli Laziali son chiusi ad oriente con
un'alta parete montagnosa da Tuscolo a Velletri, che ha a sud la
sua cima più alta nel monte Peschio (936 m.). Questa specie d'an-
temurale del paese latino è traversato da una gola solitaria lunga
un mezzo miglio,, alta 540 metri sul livello del mare, la Cava o
Cava d'Aglio, in cui si conserva tuttora il nome dell'Algido, che
è la naturale linea di comunicazione, seguita poi dalla via Latina,
tra le sj)onde del lago Albano e la valle del Sacco. Traversa il
monte poco più a tramontana un passo meno agevole alto 619 m. ,
noto ora col nome di selva dell'Aglio. Tra l'una e l'altra via s'in-
nalza il monte Fiore, dov'era evidentemente il campo fortificato
degli Equi sull'Algido (2). Non lontane dall'Algido sembrano es-
sere state i)iù o meno a lungo in mano degli Equi le città latine
di Labici, Boia, Carvento ed Ortona, con la vicina fortezza di
Corbione (3), e persino Tuscolo appare qualche volta nella tradi-
(1) Errata in tutto è l'analisi che dà della leggenda di Cincinnato il Pais
I 1 p. 526, il quale crede che ' l'episodio del console Minucio liberato da Cin-
cinnato nell'Algido non sia che la perfetta duplicazione del ben noto fatto
del 217 a. C. in cui il dittatore Fabio Massimo trasse d'imbarazzo C. Minucio
il suo maestro della cavalleria '. Non credo che confronti simili possano citarsi
se non a titolo di curiosità.
(2) Per la topografia v. Njssen Landeslcunde II 595 seg. Per equivoco Dio-
nisio (X 21. XI 3 etc, cfr. Steph. Byz. s. v. 'AXti&oc) parla di una città sul-
l'Algido. Nulla ha a fave ad ogni modo col castello degli Equi 1' "AXyiòov
TtoXixviov di cui parla Strab. V 237, che è una stazione sulla via Latina.
(3) Labici è da cercare a Colonna (ove fu nell'età imperiale la sede della
res publica Lavicanoriim Quintanensium) o più verisimilmente a Monte Compatri,
v. ToMAssETTi ' Bull. archeol. comunale ' XXVII (1899) p. 288 segg. ' Diss. della
pont. Accademia romana di archeol.' ser. Il t. Vili (1903j p. 45 segg., a cui
meglio sembra attagliarsi il cenno di Strab. V p. 237 : Aa3iKLÙ TiaXaiLÙ KTia|uaTi
KaTeairaaiuéviu, Keiiaéviy ò' èqp' ùi|JOUi;. Labici che vien riguardata come colonia
albana (Diod. VII 5,11) e di fatto partecipava alla lega albana (I p. 379 n. 1
nr. 32) è inserita tra le città della pretesa lega latina di Dionys. V 61 e tra
120 CAPO XV - ALLEANZA FRA ROMANI, LATINI ED ERNICI
zione in loro potere o in alleanza con essi (1). Tace invece la tra-
dizione di Preneste; ma è evidente che senza accordi con questa
potente città gli Equi non possono avere occupato l'Algido e le
città vicine, esponendosi ad essere tagliati fuori delle loro mon-
tagne nel cuore d'un paese nemico. E chiaro quindi che Preneste,
come non faceva parte della lega latina al tempo in cui fu dedi-
cata l'ara di Diana, cosi non partecipava alla lega stessa nel V se-
colo, e lasciando che gii Equi devastassero impunemente il territorio
le conquiste di Coriolano (sopra p. 113 n. 2). I Romani l'avrebbero riconqui-
stata sugli Equi nel 418 (Liv. IV 47. Diod. XIll 6) inviandovi 1500 coloni.
Inutilmente poi gli Equi l'assediano nel 398 (Liv. V 16) e ne devastano il
territorio nel 383 (VI 21). — Boia, citata tra le colonie albane da Y erg. Aen.
VI 775 (in Diod. VII 5, 11 pare si alludesse a Boville), di posizione incerta,
ma da cercare nelle vicinanze di Labici, è ricordata tra le conquiste di Corio-
lano; ad ogni modo cadde nelle mani degli Equi, e come città equa appare
in Liv. IV 49, 3, quando se ne impadroniscono nel 415 i Romani. Nell'anno
seguente 414 è riperduta e ripresa con evidente raddoppiamento (Liv. IV 49.
DioD. XIII 6, 8). Gli Equi l'assediano novamente invano nel 389 (Liv. VI 2.
Diod. XIV 117), dopo di che essa sparisce dalla storia. — Carvento, anch'essa
di posizione incerta, ricordata nella lista delle città latine da Dionys. V 61,
partecipò probabilmente alla lega albana (I p. 379 n. 1 nr. 8). Livio assicura
(17 53) che nel 410 gli Equi s'impadronirono deir«r.r Carvetiiana, che iwpevò
ricuperata dai Romani lo stesso anno, e l'anno seguente (IV 55) fu ripresa
dagli Equi e invano ritentata dai Romani; dove evidentemente si tratta della
ripetizione d'una stessa notizia più o meno alterata sotto due date vicine. --
Ortona, che probabilmente fece parte anch'essa della lega albana (1. e. nr. 12),
fu assalita secondo Liv. II 43 nel 482 dagli Equi e conquistata nello stesso
anno secondo Dionys. VII! 91 (per una possibile menzione anteriore in Dio-
doro, V. sopra p. 116 n. 2); perduta poi e ricuperata dai Romani nel 457
stando a Liv. Ili 30. Dionys. X 26 narra soltanto come gli Equi se ne impa-
dronirono e vi fecero strage dei Latini. — Corbione, forse corrispondente a
Rocca Priora, è nella lista delle città latine di Dionys. V 61, vien tuttavia
presa d'assalto dai Latini nella guerra con Roma (VI 3) ed e poi menzionata
tra le conquiste di Coriolano (Liv. II 39. Dionys. VIII 19). Ripresa da Cincin-
nato nel 458 (Liv. III 28. Dionys. X 24) e perduta di nuovo l'anno seguente 457,
viene l'anno stesso ricuperata e distrutta dopo una battaglia che è evidente
reduplicazione della vittoria di Cincinnato (Liv. Ili 28.30. Dionis. X 26. 30);.
e tuttavia ricompare come città equa nel 446 (Liv. Ili 66. 69).
(1) Così nel 484, v. sopra p. 116 n. 2. Nel 459 poi secondo Livio (111 23)
la rocca e secondo Dionisio (X 20) la città e la rocca di Tuscolo, occupate
dagli Equi, son ricuperate dai Tusculani per l'aiuto di Roma.
LA BATTAGLIA DELl' ALGIDO 121
de' suoi connazionali, profittava della loro alleanza per opjpriinere
i vicini più deboli (1).
Grrave era dunque la condizione dei Romani e dei Latini a fronte
degli Equi e dei Volsci circa la metà del sec. V. Ma nella seconda
metà di quel secolo i Romani riuscii'ono finalmente a discacciare
gii Equi dall'Algido. Questo avvenimento è ricordato nel racconto
tradizionale della vittoria che riportò sugli Equi presso l'Algido
il dittatore- A. Postumio Tuberto nel 431 (2). Anche qui nell'eser-
cito consolare circondato dagli Equi, i quali da assedianti divengono
Xooi alla lor volta assediati, deve ravvisarsi evidentemente una
nuova copia della leggenda di Cincinnato. Ma se l'ajjplicazione di
questo motivo leggendario a Postumio è tarda ; se è tarda proba-
bilmente anche la confusione tra gli Equi e i Volsci che appare
nel racconto liviano della battaglia, dove invece altri parla sol-
tanto di Equi ; se la uccisione del figlio per aver trasgredito la
disciplina (3), attribuita tanto a Postumio quanto ad A. Manlio il
vincitore dei Latini, è forse originaria nel racconto del combatti-
mento tra Romani e Latini con cui appare stretta di più intimo
nesso ; il fatto stesso della grande vittoria di Postumio che sloggiò
gli Equi dall'Algido è difficilmente da revocare in dubbio, e da
esso data giustamente la nostra tradizione la ripresa della lotta
offensiva dei Romani contro gli Equi ed i Volsci. La impressione
della vittoria fu tanto profonda che, mentre sull'anno x3reciso v'è
qualche leggera discrepanza (4), s'è conservato il ricordo di- quel
giorno fausto nella primitiva storia romana, il 19 giugno (5). Ed
è fors'anche autentico il nome del duce avversario Vettio Messio,
uno dei pochissimi comandanti nemici ricordati negli annali romani
pel sec. V, che peraltro, se è personaggio storico, deve ritenersi,
contro la tradizione, non volsco, ma equo. In sostanza, nella leg-
genda di Coriolano il x^ersonaggio principale o non è storico o fu
trasportato in mezzo a circostanze assai diverse da quelle tra cui
era vissuto, non v'è né cronologia né esattezza di particolari topo-
grafici, ma solo il ricordo dell'invasione dei Volsci nel Lazio ; nella
(1) Il che non vuol dire peraltro ch'essa sia mai stata città equa, come ri-
tengono NiEBUHR II 650 seg. e Clason Rum. G. I 79. Certo è che da Preneste
abbiamo anzi il più antico documento latino a noi pervenuto, la famosa fibula.
(2) Liv. IV 27-29. Diod. XII 64. Plut. Camill. 2.
(3) Liv. e Diod. 11. citt. Val. Max. II 7, 6. Gkll. n. A. XVll 21, 17.
(4) Diod. 1. e. riferisce infatti la dittatura di Postumio al 432.
(5) OviD. fasi. VI 721 segg.
122 CAPO XV - ALLEANZA FRA ROMANI, LATINI ED ERNICI
leggenda di Cincinnato, storico è il personaggio, la cronologia al-
meno approssimativamente slemba, l'Algido il reale campo di bat-
taglia tra Equi e Romani, netto il ricordo delle lotte combattute tra
essi con varia fortuna, ma il fatto o i fatti particolari che diedero
occasione alla leggenda sfuggono all' analisi storica ; col racconto
della vittoria di Postumio Tuberto siamo ormai sul limitare della
storia ; onde, sfrondatolo dei iJ articolari leggendari, non è da porre
in dubbio la realtà del fatto, quand'anche si volesse, per la notata
incertezza della cronologia, dir sicuro soltanto che sia anteriore
all'assedio di Veì ed ai trionfi che i Romani riportarono intorno
alla fine del sec. V sui Volsci. E la tradizione è certo nel vero
quando mostra i Romani negli anni innanzi alla invasione gallica
procedere ormai alle offese contro gii Equi, ricuperare le città la-
tine perdute e ridurre gii Equi a tale che anche della catastrofe
gallica non furono in grado d'approfittare i^er tentare una efficace
riscossa (1). Infatti secondo la nostra tradizione dal 388 fino al ter-
mine della seconda guerra sannitica essi rimasero inattivi e tran-
quilli fra i loro monti, mentre il territorio che s'erano disputato
gli Equi ed i Latini si contendeva ormai tra Roma e Preneste (2) ;
giacché Preneste da una parte, e dall'altra i Latini in lega con
Roma si fronteggiavano ora immediatamente; e tra essi non erano
più né le minuscole città latine pronte a volgersi dall'uno all'altro
dei contendenti, né gli accampamenti trincerati degli Equi.
E intanto Roma, impedita la efficace cooiDcrazione tra Equi e
(1) V. per queste ultime lotte con gli Equi, di cui naturalmente non pos-
siamo ricostruire i particolari, i testi citati sopra p. 108 n. 3 e p. 1119 n. 3.
Inoltre Diodoro menziona all'a. 393 la conquista di una Aiq)\ov -nóXiv (XIV 102)
e al 392 la conquista di una AiqpoiKOuav -rróXiv (XIV 106), che sembra aver avuto
grande importanza. Il Mommsen congettura {CIL. IX p. 388) AÌkXov ed AìkikXov
{resp. Aequiculanorum) ; Burger Sechzig Jahre p. 120 e 122 nel primo testo
ATdbXov (Aefiila, cfr. Horat. carni. Ili 29; per la posizione v. Ashby ' Papers
of the Br. school at Rom ' III p. 132 seg.), nel secondo ZoupXdtKouav. È incre-
dibile affatto che i Romani si siano spinti nel territorio della posteriore resp.
Aequiculanorum. Perciò son da respingere le congetture del Mommsen. L'ultima
del Burger è tanto arbitraria da non poter essere neppure discussa. Felice è
invece la correzione AlqpXov ; ed essendo assai frequente il caso che lo stesso
avvenimento sia ripetuto sotto due anni successivi, possiamo congetturare che
della stessa città si tratti anche nel secondo testo. Alcuni codd. hanno ap-
punto AicpoÌKOv. Nulla di più agevole paleograficamente che la correzione di
AlcDOIKAN in AlcDOYAAN.
(2) V. oltre e. XVIII.
I SABIXI 123
Volsci, procedeva vittoriosamente anche contro i Volsci. Secondo
la nostra tradizione che, nonostante qualche alterazione o redupli-
cazione, è ormai sostanzialmente veridica, Velletri fu, sia pure per
breve spazio di tempo, ricuperata (1), la fortezza di Verrugine, im-
jjortante per tutelare o impedire l'unirsi degli Equi e dei Volsci,
fu disputata con varia fortuna (2), Artena fu distrutta (3), Satrico
almeno temporaneamente sottomessa (4), e tino a sud d'Anzio oc-
cupata Circei, che poi si ridusse a colonia, e raggiunta Anxur,
mentre gli Ernici, con l'appoggio dei loro alleati Latini, strappa-
vano ai Volsci Ferentino (5). I Volsci erano evidentemente impo-
tenti a resistere; sicché quand'anche la pace chiesta ed ottenuta
da essi nel 396 (6) fosse una semplice induzione d' annalisti, sa-
rebbe induzione giustificata. Allorché la catastrofe gallica mise in
forse l'esistenza stessa di Roma, la lega latina possedeva nel paese
^'olsco le tre antiche fortezze di Cora, Norba e Signia, e come
estremo avamj)osto Circei ; e mentre Velletri era rientrata a far
parte della lega, erano state probabilmente costrette a farvi ade-
sione le città volsche di Anzio e di Anxm\
Assai più pacifiche che non quelle con gli Equi ed i Volsci
fui'ono in generale le relazioni dei Romani con un altro dei popoli
confinanti , i Sabini (I p. 105 n. 2). Quelle fra le tribù sabelliche
a cui rimase il nome di Sabini, abitavano una vasta estensione di
territorio a cavaliere dell' Apennino, che nella sua massima lun-
ghezza si stendeva all'inch'ca dal confluente tra l'Aniene ed il Te-
vere alle sorgenti della Nera. La leggenda che per l'età regia e
per la prima metà del V secolo parla d'invasioni sabine a Roma
e nel Lazio riguarda anche i Sabini come costituiti ad unità poli-
tica. Ma è cliiaro che i Romani non ebbero a fare che con le tribù
sabme contigue al loro territorio. Unione stretta fra le stirpi sa-
bine non esisteva neppure sul principio del sec. IH, come mostra la
facilità con cui allora i Romani soggiogarono questa popolazione
(1) Avrebbe ricevuto nuovi coloni nel 404, Diod. XIV 34, 7. Si ribellò nova-
mente però nel 393 secondo Diod. XIV 102, 4. Livio non parla della sua ribel-
lione che dopo la catastrofe gallica.
(2) V. sopra p. 108 n. 3.
(3) Nel 404 secondo Liv. IV 61.
(4) V. sopra p. 108 n. 4. Per Circei ed Anxur n. 5 e 6.
(5) Nel 418 secondo Liv. IV 51.
(6) Liv. V 23, 12. Per gli Equi la cosa non è tanto chiara, perchè vien ri-
ferito che nel 394 s'impadronirono di Verrugine, v. s. p. 108 n. 3.
124: CAPO XY - ALLEANZA FRA ROMANI, LATINI ED ERNICI
non imbelle né poco numerosa. Probabilmente i Sabini delle valli
di Terni e di ISTorcia avevano apxjena un lontano sentore delle scor-
rerie che si facevano sulle sponde dell' Aniene. Del resto ostilità
fra Sabini e Latini nei primi secoli di Roma certo non manca-
rono. Ma, prescindendo dalla guerra leggendaria tra Romolo e
Tazio (I p. 220 segg.), il racconto impreciso, scolorito, convenzio-
nale delle lotte coi Sabini fino al 449, l'ultimo anno in cui se ne
fa parola prima delle guerre sanniticlie, mostra che si trattava di
cose tanto remote e di sì poco conto, che la tradizione ne conser-
vava appena un languido ricordo. Lo stesso episodio più singolare,
quello della occupazione improvvisa del Campidoglio per opera del
Sabino Appio Erdonio (1), appare tanto isolato cìa ogni precedente,
ed è narrato in modo si confuso che, piu" riconoscendovi qualche
fondamento di verità, riesce malagevole valutarne la importanza ed
il significato. I particolari del resto con cui alcune volte son narrate
le guerre romano-sabine sono in generale d'invenzione recente; e
qualche indizio sul loro autore ci dà tanto la parte preponderante
che vi hanno i Valeri quanto la ridicola precisione di dati numerici
con cui son narrati alcuni di quei combattimenti, il cui racconto
è pel rimanente assai sbiadito. Ciò vuol dire che in età assai re-
mota, favorite dal progredire dell'incivilimento e dall'affinità di
stirpe e di religione tra i Sabini e una i3arte almeno dei sudditi
romani o latini, si sono stabilite relazioni di buon vicinato tra gli
uni e gli altri. Relazioni simili presuppongono un confine preciso:
né andiamo lungi dal vero ritenendo che questo fosse dove ap-
l)unto lo colloca la tradizione, presso Ereto (2), che é, x)rescindendo da
Curi, l'unica terra sabina che ci venga ricordata tra queste guerre.
S'intende clie il dominio romano-latino non si dilatò fino al decimo-
nono miglio da Roma se non a poco a poco. Al di qua i territori
delle tribù Claudia e Clustumina difficilmente fm'ono incorporati
dai Romani innanzi ai iDrimi anni della repubblica, né i Tibmiini
conquistarono ad un tratto il vasto territorio che possedevano al
di là dell' Aniene. Nomento poi non fece adesione alla lega latina
prima del trattato cassiano (3), mentre Fidene rimase fedele fino
alla sua caduta alla politica di cercar salvezza dalla supremazia
(1) V. sopra p. 32.
(2) Oltre i testi citati I p. 172 n. 1 v. anche Dionys. Ili 32, 4. 59, 1. IV 51.
Val. Max. II 4,5. Non son accettabili le congetture del Bvrì^ìkr Sechzig JaJi re
p. 124 seg.
(3) V. sopra p. 92.
GUERRE COI VEIENTI 125
romana nella nnione con Veì. Del rimanente, le ipotesi moderne
che spiegano il tacersi di guerre coi Sabini nella nostra tradizione
posteriore alla metà del sec. V con lo spopolamento del paese sa-
bino (1) sono arbitrarie e poco sostenibili. Anche più arbitraria è
quella che senza alcun fondamento di tradizione riporta alla se-
conda metà di quel secolo l'avanzata dei Sabini contro Roma, e con
essa il sostrato storico della leggenda di Tito Tazio (I p. 220 n. 1),
quando al contrario appunto allora i Latini iniziarono una rapida
espansione nei territori confinanti.
Al confine settentrionale combatterono i Romani nel sec. V ad
intervalli, ma con accanimento. Non fu però, dopo la caduta del
dominio etrusco nel Lazio, una grande guerra nazionale tra Etruschi
e Latini, si una lotta tra due città rivali. Infatti tra le città della
bassa valle del Tevere, due nel sec. VI erano riuscite a superare
tutte le altre ed a crescere a loro spese, una etrusca a nord, una
latina a sud del fiume, Veì e Roma. Veì non aveva il vantaggio
della posizione sul Tevere, e quindi più arduo le riusciva assicurarsi
il beneficio della libera navigazione del fiume e arricchirsi pel
commercio fluviale. In compenso dominava sopra un territorio molto
più fertile (2), ed aveva una posizione più forte assai e più sana
(v. I p. 151), al coperto d'ogni sorpresa dalla parte del Tevere, sur
un'altura di tufo circondata da ogni parte, fuorché all'angolo nord-
ovest, da corsi d'acqua e fornita d'acqua potabile assai migliore,
mentre i Romani dovevano in genere contentarsi dell'acqua dei
pozzi o di quella impm-a del Tevere (3).
La prima guerra con Veì fu combattuta, secondo la leggenda,
da Romolo, il quale costrinse i Veienti a cedere ai Romani le sa-
line alla foce del fiume e il territorio transtiberino dei Sette Pagi (4).
Codesti pagi non sappiamo precisamente dove fossero, ma certo
appartenevano poi almeno in parte alla tribù Romilia (5), e questo
(1) NiEBUHR Rom. G. II 504.
(2) Liv. V 24, 6: ager Veientanus.... iihenor Romano agro.
(3) DioNYS. XII 1.5 : J^v òè l'i Oùievxavtjùv ttóXic; oùGèv ÙTtoòeearépa xf^i; 'Pibjuric;
èvoiKeiaGai. y^v te ttoXXi'iv koì TroXuKapTTOv Ixoxìaa,-.- Kaì tòv ÓTTepKei,u€vov àépa
KaGapiijTOTOv koì Trpòc ùyteiav àvOpuOirOK; apioTov...ùòàTUJv xe où airaviaiv òvtujv
oùò' ètraKTUJv àXX' aù9iY€vOL»v Kal irXouaiiJUv koI iriveoGai KparioTUuv.
(4) DioNYs. II 55. Pi.UT. Rom. 24; cfr. Liv. I 15.
(5) Fest. epit. p. 271 : Romulia tribus dieta qiiod ex co agro censebatur quem
Romnlus ceperat ex Veientibus. Cfr. Varb. de l. l. V 56 e il nome del console
del 455 T. Romilio Vaticano citato dal Beloch R. Band. p. 29.
126 CAPO XV - ALLEANZA FRA ROMANI, LATINI ED ERNICI
spiega come a Romolo se ne sia attribuita l'occupazione. D'un
altro xjossedimento romano verso la foce del Tevere la conquista
sui Veienti è ascritta a re Anco Marcio, la selva Mesia, il cui le-
gname egli avrebbe destinato alle costruzioni navali (1). Questa
regione oltre il Tevere, se fu rapidamente conquistata, fu poi aspra-
mente contesa tra Romani ed Etruschi. Di tali contese serba un
ricordo sia la leggenda della battaglia della selva Arsia (I p. 408),
sia la leggenda di Porsenna, nel particolare che il re etrusco
avrebbe rimesso ai Veienti il territorio dei Sette Pagi tolto per
trattato ai Romani, per poi restituirlo ai Romani stessi dopo il
combattimento d'Arici a (2).
La lotta coi Veienti ricominciò secondo la tradizione nel 485 o
nel 483 (3), limitandosi sul principio a devastazioni di territorio
per poi assumere prox3orzioni maggiori nel 481 (4). Quell'anno, es-
sendo il console Cesene Fabio avversato dai suoi stessi soldati, la
fanteria romana lasciò gli Etruschi padroni del cam]30 di battaglia.
Ma l'anno seguente (480) Cn. Manlio e M. Fabio riuscirono a ri-
XDortare una grande vittoria, di cui si discorre con particolari mi-
nuti e prosaici (5). Invece l'anno di poi (479) il console T. Verginio,
sconfitto e cii'condato dai Veienti, sarebbe xjerito se il collega
Cesene Fabio non fosse accorso a salvarlo, senza poter però im-
pedire che gli Etruschi devastassero il territorio romano fino al
Gianicolo (6). Allora i Fabì, in numero di trecento, accollando a
se, nell'interesse della x>atria che aveva a lottare con tanti nemici,
il carico della guerra veiente, deliberarono, passato il Tevere, di
occupare una fortezza sul Cremerà (7). Riusci vano l'assalto che
le diedero nel 478 con truppe di tutta l'Etrm-ia i Veienti; i quali
sconfìtti dal console L. Emilio si x)iegarono a chieder pace, violan-
dola subito dopo; e fu fortunata questa violazione, perchè l'anno
seguente riuscirono a fare strage dei Fabi al Cremerà. Il disastro
dei Fabi, raccontato con molte varianti, è i^erò riferito come segue
dalla tradizione i)iù diffusa. I Veienti, cimentatisi rix)etutamente
coi Fabì in campo ax)erto con fortuna avversa, ricorsero per an-
(1) Liv. I 33, cfr. Cic. de re i). II 18, 33. Auct. de vir. ili. 5, 2.
(2) Liv. II 13, 4. 15, 6.
(3) Nel 485 secondo Dionvs. Vili 82; nel 483 secondo Liv. II 42.
(4) Liv. II 43. DioNYS. IX 1-4.
(5) Liv. II 44-47. DioNYs. IX 5-13.
(6) Liv. II 48. DioNYs. IX 14.
(7) Liv. II 48-50. DioNYs. IX 15-22. Ovid. fast. II 196 segg.
I FABI AL CREMERÀ 127
iiientarli all'astuzia. Per ispirare fiducia ai Romani conducevano
delle greggie nelle vicinanze del forte dei Fabì e, quando i Fabi
uscivano a farne preda, con finto timore si davano alla fuga. Fi-
nalmente una volta i Fabì clie inseguivano i fuggiasclii, arriscliia-
tisi assai lontano dal forte, si lasciarono trarre in un agguato e,
circondati, fm'ono uccisi fino all'ultimo. Da questa strage che
IDrostrò quella gente numerosa e bellicosa scampò uno solo dei
Fabì, il fanciullo Q. Vibulano, che appunto per la sua età era ri-
masto in Roma. Né s'arrestarono a questo i successi fortunati dei
Veienti; che dopo avere sconfitto l'esercito del console T. Menenio
inviato alla riscossa, essi poterono impadronirsi del Grianicolo, e,
postovi un accampamento fortificato, minacciare la stessa Roma (1).
Per un momento (-1:76) Roma corse serio pericolo, e cominciò ad
infierirvi la fame. Ma poi gli Etruschi, che avevano passato il
Tevere, fm-ono battuti presso la porta Collina, e i Romani riu-
scirono a ricui3erare il Grianicolo, dove cadde in loro potere il
campo etrusco con tutte le sue ricchezze. La superiorità delle
armi romane fu novamente dimostrata nel 475 dal console P. Va-
lerio con una vittoria sui Veienti congiunti ai Sabini (2); talché
nell'anno seguente (474) si concluse coi primi una pace (3), dopo la
quale la nostra tradizione non parla i^iù di Veienti fino al 437.
Tutti i particolari di questo racconto della guerra veiente che
precedette e segui la strage del Cremerà son da avere sospetti.
La vittoria del 480 é narrata per diffuso, ma sopra uno schema
generico, senza né la concisione delle notizie documentali né il co-
lorito poetico e i particolari locali della leggenda; per modo che
il racconto, profondamente diverso da quelli delle battaglie del
Regillo, della selva Arsia e del Cremerà , anziché della leggenda
genuina cantata dall'epopea i)oi3olare, ritrae della prosaica e me-
schina immaginativa degli annalisti (4). E jiarimente l' assedio
posto a Roma dai Veienti nel 476 é una infelice reduplicazione
dell'assedio di Porsenna, Anche allora gli Etruschi si accampano
sul Gianicolo e di li passano a schiere il Tevere devastando e
predando, onde la città comincia a sentire la fame; finché, atti-
rati i predoni in un agguato, se ne fa strage presso la porta Col-
li) Liv. II 51-52. DioNYs. IX 24.
(2) Liv. II 53. DioNYs. IX 34-35.
(3) Liv. II 54. DioNYs. IX 36.
(4) Perciò e da ritenere errato il giudizio che della sua storicità danno
NiEBDHR II 224 e SCHWEGLER II 745.
128 CAPO Xy - ALLEANZA FRA ROMANI, LATINI ED ERNICI
lina. È vero che l'ultima scaramuccia è trasportata altrove nel-
Tassedio del 476, ma in compenso gli Etnischi ricevono presso la
porta Collina una sconfitta campale. E per quanto il successo dei
due assedi sia molto diverso, ambedue le volte il campo etrusco
sul Grianicolo viene in mano dei Romani. Il razionalismo critico
ha cercato l'originale dei due racconti, che son foggiati evidente-
mente l'uno sull'altro, nel più pallido e prosaico, ossia in quello
del 476 (1) ; ma par chiaro invece che l'originale è nella leggenda
di Porsenna, in mezzo a cui si spande la fulgida vena della poesia
popolare, e che l'altro è una tarda copia d'annalisti desiderosi di
dissimulare ad ogni costo le numerose lacune della tradizione.
In tutto il racconto poi della guerra è sospetta la costante connes-
sione prammatica dei fatti esterni con le discordie interne; non
che connessione simile non debba esservi stata ; ma nessun critico
serio può ammettere che per la prima metà del sec. V si conser-
vassero notizie sulla maggiore o minor difficoltà con cui si arro-
lavano milizie, e sul più o meno di fiducia che i soldati ripone-
vano nei loro comandanti.
Non va però giudicato alla stessa stregua il racconto della
strage dei Fabi. Senonchè per intenderlo convien chiarire la im-
portanza militare della posizione ove essa accadde (2). A circa
cinque miglia di distanza da Roma sul Tevere, a monte della
città, sopra un'altura che scende con ripido pendio verso il fiume,
sorgeva la città di Fidene, nel punto in cui i colli della sinistra
del Tevere si avvicinano maggiormente al corso del fiume lasciando
accanto al suo letto uno spazio piano di non più d'una settantina
di metri; sicché la città dominava il fiume, e la navigazione sul-
l'alto Tevere non era libera ai Romani se non nel caso che pos-
sedessero Fidene o l'avessero amica. Di qui le frequenti lotte coi
Fidenati, di cui ha serbato un ricordo, sia pure confuso, la tradi-
zione. Sebbene avesse fatto adesione all'antica lega religiosa che
aveva per centro il santuario albano (3), Fidene in età storica si
tenne lontana dalla nuova lega x3olitica latina e appare frequen-
temente in lotta con Roma, alleata coi Sabini e soprattutto coi
Veienti. Le guerre dei Romani coi Fidenati datano, secondo la
(1) Così SCHWEGLER II 754.
(2) Su ciò V. soprattutto Richter Die Fabier am Cremerà in ' Hermes ' XVII
(1882) p. 425 segg.
(3) V. I p. 379 n. 1 nv. 10.
BASE TOPOGRAFICA DELLA LEGGENDA. FIDENE 129
nostra' tradizione, dalle origini stesse di Roma. Dopo che Romolo,
impadi'onitosi di Fidene, l'aveva ridotta a colonia (1), Tulio Ostilio,
Anco Marcio, Tarquinio Prisco sottomisero novamente quella città,
che altrettante volte si ribellò, o fu conquistata a viva forza dai
A^eienti (2). Nel 498 poi si ricorda di bel nuovo la sottomissione
di Fidene per opera di T. Larcio (3) : dopo di che la città non è
menzionata più nelle guerre veienti se non a partire dal 438. Lo
schema di tutte queste lotte tra Fidenati e Romani è sempre il
medesimo, che si ripete fino al tedio con scarse varianti. I Veienti,
passato il Tevere, si accampano presso Fidene, che si ribella ai
Romani spontaneamente o vien costretta ad unirsi per forza con
Vei. I Romani accorrono a ricuperarla e battono i Veienti, il cui
esercito perisce in gran parte nelle acque del Tevere. Fidene vien
di nuovo conquistata e ridotta a colonia per ribellarsi novamente
alla prima occasione. Questi racconti, più che la ripetizione d'un
fatto unico, son la ripetizione d'un motivo suggerito dalla natm^a
stessa dei luoglii; perchè è evidente che i Veienti avevano ogni
interesse ad assicurarsi almeno in parte la navigazione del Tevere
mediante un accordo coi Fidenati, in modo che Fidene era pei
Veienti ciò che pei Romani il Grianicolo ; ed è pm- chiaro che se i
Fidenati potevano trovare protezione da Roma e dalla lega latina
nell'alleanza di Vei, Roma doveva tentare ogni sforzo per sotto-
mettere Fidene. Pare che non riuscisse per altro a domare i Fi-
denati se non verso la fine del secolo V; del resto, pur senza am-
mettere le uniformi rijjetizioni della tradizione, non è da escludere
che già prima della caduta suprema di Fidene la città fosse più
d'una volta venuta alternativamente in mano dei Romani e dei
Veienti. Ma ad ogni modo par diffìcile assai che dal 498 al 438 i
Romani ne conservassero incontrastato il possesso; e la leggenda
dei trecento Fabì suppone che Fidene non fosse romana. Se i Ro-
mani si stabilh'ono in un ]3unto che dominava lo sbocco del Cre-
merà (Valca) nel Tevere a fronte di Fidene, dovette essere appunto
per impedirle che si congiungessero Fidenati e Veienti e per to-
gliere ai Fidenati e Veienti la piena padronanza della navigazione
(1) Liv. I 14. DioNYs. II 53. Plut. Boni. 2.3. Frontin. straf. II 5, 1. Polyaen.
strat. Vili 3, 2. Plin. n. h. XVI 11.
(2) Liv. I 27. DioNYS. III 23 segg. — Dionys. III 89. Zon. VII 7. — Dionys.
Ili 57. — Novamente ribello dopo la caduta dei re, Dionys. V 40; sotto-
messa di nuovo, V 43; ancora ribelle nel 500, Dionys. V 52, cfr. Liv. II 19.
(3) Dionys. V 60. Livio ne tace.
G. De Saxctis, Storia (lei Romani, IL 9
130 CAPO XY - ALLEANZA FRA ROMANI, LATINI ED ERNICI
del Tevere a monte di Fidene. Due vie infatti, ima lungo la valle
del Cremerà, una ad una certa altezza ad occidente di questo ru-
scello, conducono da Veì al Tevere; ed una altm^a alla foce del
Cremerà, quella probabilmente in cui si fortificarono i Romani,
domina l'una e l'altra via.
Pertanto assai degno di considerazione è il fondamento topo-
grafico della leggenda. Non sempre invece ne son molto credibili
i particolari. Così quello del solo fanciullo scampato alla strage (1).
Un retore greco osserva molto ragionevolmente die in una gente
forte di trecento uomini atti alle armi non poteva esservi un solo
fanciullo e clie quindi anclie altri Fabì dovevano essere rimasti in
Roma (2). Del resto questo minorenne nel 467, solo dieci anni dopo
la strage, era già in età di poter rivestire la prima magistratm^a
dello Stato. Infatti quell'anno apparisce novamente nei fasti un
Fabio, Q. Fabio Vibulano. E si lia anclie motivo per ritenere che
non tutti i Fabì registrati gli anni appresso nella lista dei consoli
siano discendenti di questo Q. Fabio (3). Inoltre ai trecentosei
Fabì o ai trecento che danno alcuni arrotondandone il numero,
altri scrittori aggiungono in numero di cinquemila o di poco meno
di quattromila i loro clienti (4). Or tanti clienti atti alle armi non
poteva avere mia sola gente quando Roma non armava ancora
annualmente due legioni; che se la metà delle genti patrizie aves-
sero disposto di clienti si numerosi, Roma sarebbe" stata già fin
d'allora una delle prime potenze mihtari del mondo civile. Sicché
probabilmente in origine nei trecentosei Fabì erano compresi e
gentili e clienti. Ma quando poi ai tardi annalisti non x^arve cìie
la strage di trecento uomini, fossero pm* Fabì, avesse potuto co-
stituire un disastro per Roma, vi si aggiunsero le migliaia dei
clienti. E forse contribuì a farveli introdm-re la strage dei Grreci
alle Termopile, ben nota dalle storie d'Erodoto agli scrittori ro-
mani, la cui somiglianza con la rotta del Cremerà non poteva
certo sfuggire ad alcuno. Ora alle Termopile coi trecento Spartiati
erano alcune migliaia d'altri Grreci, in tutto quattromila Pelopon-
(1) Liv. II 50, 11. Ili 1, 1. DioNYs. IV 22. Ovid. fast. II 235 segg. Fest.
p. 170 s. V. Numerius. Eutrop. I 16. Serv. Aen. VI 846. Aver, de vir. ili. 14, 6.
ZoN. VII 17.
(2) DlONTS. 1. e.
(3) Cfr. MoMMSEN Rom. Forschungen II 259 segg.
(4) Cinquemila secondo Fest. p. 334 s. v. scelerata porta ; quattromila circa,
compresi i 306, Dionys. IX 15.
CRITICA DELLA LEGCtENDA 131
nesiaci, secondo repigramma di Simonide riportato da Erodoto (1).
Fors'ancKe il numero dei clienti è stato suggerito non da altro
che dall'analogia dei cinquemila clienti dei Claudi, che poco prima
di questo tempo si stabilirono, secondo la tradizione, nel territorio
romano (I p. 228).
Sul fatto stesso della strage un'altra versione riferiva che i
trecento Fabì fmono sorpresi e circondati dagli Etruschi mentre
s'erano incamminati verso Roma per eseguire un sacrificio genti-
lizio (2). Ma un antico osservò già essere impossibile che ad ese-
guh'e un sacrificio per cui sarebbero bastati uno o due di loro si
fossero mossi tutti i Fabì attraverso il paese nemico, abbando-
nando la fortezza affidata alla loro difesa; sicché è probabile che
qui si tratti di una ripetizione inopportuna della leggenda di quel
Fabio Dorsuone che durante 1' assedio posto al Campidoglio dai'
Gralli si recò tranquillamente sul Quirinale a compiere il sacrifizio
gentilizio traversando, senza che i Gralli osassero dargli molestia,
le linee nemiche. Secondo un' altra versione poi i trecento Fabì
sarebbero caduti con molti altri Romani in una grande battaglia
tra Romani e Veienti (3). Ma se quella è un'alterazione dovuta a
inetta contaminazione della leggenda con altre, questa è peggiore
alterazione procedente da un tentativo poco felice di renderla ra-
zionale. Certo la leggenda secondo cui erano caduti combattendo
i soli Fabì offriva qualche difficoltà, ma la battaglia campale a
cui presero parte tra gli altri trecentp Fabì ne offre assai più.
Eliminate queste alterazioni posteriori e ridotto il racconto ai
genuini elementi della leggenda, convien giudicare del suo valore.
Alcuni critici hanno voluto vedervi una favola giuridico-morale
diretta a dimostrare la inopportunità e i pericoli della guerra pri-
vata e soprattutto ad esemplificare la " congiura „ (coniuratio)
ossia quella forma tumultuaria di leva in cui il giuramento si presta
dai nuovi militi non individualmente, ma collettivamente (4). Altri
hanno creduto di trovarvi una copia latina del sacrifizio di Leonida
e de' suoi trecento alle Termopile (5). Sarebbe difficile immaginare
(1) VII 228.
(2) Diosrs. IX 19.
(3) DioD. XI 53: luefàXri ladxn auvéoTr) irepì tì-]v òvo|uaJ^o|Liévr|v Kpeixépav, iwv
a 'Puj)iaiujv )*|TTr|9évTUJv auvé^r) TToXXoùq aÙTUJv Tieaeiv oiq qjaai Tiveq xuùv avf-
Ypaqpéuuv koì Toùq 0apiou<; xoùc; TpiaKooiouc; av^feveic, à\Xr\kujv òvxaq.
(4j MoMMSEN lioin. ForschuHfjen 1 247 segg.
(5) Pais I 1 p. 623, il quale col meraviglioso dogmatismo usuale presso
132 CAPO XV - ALLEANZA FRA ROMANI, LATINI ED ERNICI
due ipotesi più remote da og-ni verisimigiianza, più aliene dal ca-
rattere della leggenda popolare, quale si palesa con la maggiore
evidenza nel racconto della strage dei Tabi; e può dirsi con sicu-
rezza che assai più dei moderni seguaci di codesto prosaico razio-
nalismo critico si è accostato al vero, riportando fedelmente la
leggenda, Tito Livio. Per la prima ipotesi va osservato inoltre elio
tra la " congiura „ militare come ci è nota dalla tradizione e la
guerra privata vi è a^jerto, insanabile contrasto; poiché la " con-
gim-a „ è fatta per conto dello Stato (1) ; ne del resto si vede perchè
nella guerra privata il gim^amento dovesse essere piuttosto collet-
tivo che individuale : sicché in sostanza con la sola " congim-a „ di
cui abbiamo notizia negli ordini militari romani, la leggenda dei
Fabi non ha la più piccola relazione. E se da qualche antico (2) l'im-
presa dei Fabì fu citata come esempio di "congim^i,,, si è perchè
agli antichi accade qualche volta come ai moderni di scegliere
inopportunamente gli esempì delle loro dottrine. Quanto poi alle
somiglianze tra il combattimento alle Termopile e la leggenda dei
Fabì, certo ve ne ha, come con qualsiasi racconto storico o leg-
gendario di milizie sopraffatte dal nemico e cadute per la patria :
solamente somiglianze di questa fatta, inevitabili nelle cose umane,
di per sé non provano nulla. Qualche ulteriore punto di contatto,
come il numero totale dei combattenti e forsimche quello dei Fabì,
può provenire da una elaborazione della leggenda indigena fatta
da annalisti familiari coi racconti della storia greca, benché pel
numero dei trecentosei Fabì non paia probabile. E s'è notato al-
tresì che dei Fabì si salva un solo rampollo, come alle Termopile
si salva l'unico figlio del vate Megistia (3). Ma in realtà non è il
solo figlio di Megistia che si salva tra gii alleati dei Lacedemoni
alle Termopile, e dei trecento Lacedemoni stessi i soli scampati, in
condizioni e con sorte affatto diversa, sono Aristodemo e Pantite (4) ;
né del resto il Fabio superstite fa parte delle truppe inviate contro
il nemico; sicché la pretesa somiglianza si riduce a una dissimi-
giianza; e il salvarsi d'uno dei Fabì ha la sua ragione non nella
imitazione di racconti greci, ma nella necessità di conciliare la
tanti che si dicono scettici o critici sa con piena sicurezza che ' tutto quanto
il racconto non ha valore di sorta ' (p. 515).
(1) Serv. Aen. II 157. VII 614. Vili 1.
(2) Sebv. Aen. VII 614. Cfr. VI 846.
(3) Pais I 1 p. 518. Herod. VII 221.
(4) Herod. VII 229-232.
CRITICA DELLA LEGGENDA 133
leggenda della strage dei Fabi col fatto clie la loro stirpe non si
estinse al Cremerà.
Prescindendo pertanto da queste congetture moderne, è da cre-
dere che il carme epico popolare sulla strage dei Fabi conservava
vivo il ricordo d'una sconfitta romana realmente avvenuta; che,
TeiJopea popolare diffìcilmente inventa sconfitte, ma può assai bene
serbarne la memoria come la canzone di Rolando ha tramandato
la rotta di Roncisvalle o i carmi serbi quella di Kosovo. E la no-
tizia del luogo ove la sconfitta avvenne è inseparabile dalla scon-
fìtta stessa. Onde possiamo ritenere che in fatto i Romani ab-
biano tentato di stabilirsi sul Cremerà loer tagliare le comunicazioni
tra Veì e Fidene e che i Veienti abbiano frustrato quel tentativo.
Ed è assai diffìcilmente immaginaria la connessione della rotta con
la gente Fabia, benché certo la gente Fabia non sia stata distrutta
né sia stato uno solo il superstite. Non é agevole spiegare come
vittima del disastro sia rimasta specialmente quella gente ; ma non
é questo buon argomento per negare il fatto; né è impossibile che
i Fabi abbiano tentato d'accordo con lo Stato, ma per jjroprio
conto e con forze proprie, d'estendere i loro possessi in quella di-
rezione ; e può darsi che sia da cercare appunto in quelle vicinanze
il territorio della tribù Fabia (1).
La leggenda del Cremerà doveva essere, come quasi tutte le
leggende, senza precisa cronologia. La tradizione tuttavia riferisce
hi rotta al 477. S'è detto che ciò proviene da un sincronismo ar-
tifìciale con la battaglia delie Termopile. Veramente questa fu
combattuta nel 480; ma la critica non manca di ripieghi, e fu os-
servato che al 480 si narra una battaglia combattuta pure sotto
la guida d'un Fabio, della quale la strage dei Fabi del 477 non
sarebbe che una reduplicazione (2). Simili sottigliezze persuadono
poco. La battaglia fu collocata al 477 probabilmente perché dal 478
scompaiono per undici anni dai fasti i nomi dei Fabi, mentre in-
vece nei sette anni dal 485 al 479 vi era stato sempre registrato
un console Fabio. L'annalistica collega questo scomparire improv-
viso dei Fabi dai fasti con la leggenda della strage di tutti i Fabi
salvo uno al Cremerà, non datando però la strage dal 478, il primo
a imo senza un console Fabio, ma dall'anno seguente per lasciar
(1) Secondo l'acuta congettura del Kubitschek De Romanarum tributtm ori-
gine ac propagutioiie p. 12.
(2) Pais I 1, 518.
134 CAPO XV -ALLEANZA FRA ROMANI, LATINI ED ERNICI
tempo ai Fabi di riportare sui Veienti (inalche felice successo che
A'alesse a circondare la loro sconfitta d'una luce di gloria; e forse
gli annalisti con queste induzioni non si dilungarono di molto
dal vero. La leggenda romana comincia a ricordare in certa copia
solo dalla fine del sec. VI o dal principio del V fatti sostanzial-
mente storici, quali la battaglia della selva Arsia e quella del Re-
gillo. Se è storico il disastro del Cremerà, non è j)rudente supporre
che sia più antico della sua data tradizionale. Ne convien ripu-
tarlo più recente; perchè sulla guerra degli ultimi anni del sec. V
abbiamo una tradizione nel tutt'insieme sostanzialmente fede-
degna, in mezzo alla quale non è possibile trovargli posto, visto
che Roma allora dalle difese x^assò con felice successo alle offese.
Intorno alla metà del secolo i)oi la tradizione presuppone che abbia
regnato pace profonda tra Romani ed Etrusclii; e deve essere nel
vero. Da una parte infatti si vede che dopo le battaglie di Aricia
e di Cuma la forza d'espansione degli Etruschi era d'assai dimi-
nuita, e gli Etruschi, datisi alle arti di j)ace, eran rimasti anche
a fronte de' G-reci sulla difensiva. Né i Romani frattanto ebbero
le forze per prendere efficacemente l'offensiva contro i loro po-
tenti vicini di settentrione prima che la battaglia dell'Algido e
l'avanzata vittoriosa nel paese dei Volsci avesse assicurato la loro
superiorità sui bellicosi avversari italici. E del resto se ch'ca la
metà del secolo V, ossia circa il temjDo in cui gli Equi ed i Volsci
riportarono i più felici successi sui Latini, i Romani fossero stati
in guerra con un altro avA^ersario che anche da solo non era
molto inferiore in potenza a Roma, difficilmente si sarebbero sal-
vati. La ventui'a di Roma fu che l'avanzarsi vittorioso degli Equi
e dei A^olsci cade appunto in quel momento in cui s'arresta l'espan-
sione e l'offensiva etrusca. Però i Romani ebbero tutto l'agio di
misurarsi con quelle tribù; e quando, impegnate nella lotta tutte
le loro forze, venne loro fatto di prendere la rivincita su di esse,
allora solo si trovarono in grado di iniziare l'offensiva contro gli
Etruschi. Cosi stando le cose, dobbiamo non solo accogliere ap-
IDrossimativamente la data tradizionale, ma fors'anche ripetere la
induzione che quella strage accadesse dopo i sette consolati con-
secutivi dei Fabì; poiché ci dà appunto un'adeguata spiegazione
dello scemare dell'autorità di quella gente che è dimostrato dai
fasti. Della battaglia la tradizione ricorda anche il giorno; e non
é inverisimile che d'un giorno così infausto per Roma si conser-
vasse memoria anche più che dell'anno. Tuttavia dà giusto motivo
a sospettare il fatto che, come la strage del Cremerà, cosi quella
CRONOLOGIA DELLA GUERRA ETRUSCA 135
delFAllia è riferita allo stesso giorno 18 luglio (1), perchè pare evi-
dente elle Funo dei due disastri debba aver attratto l'altro alla
stessa data. E forse il 18 luglio è la data genuina della battaglia
dell' Allia, giaccliè una notizia, sia pui-e isolata, ne assegna alla
strage dei Fabì un'altra, quella del 13 febbraio (2) ; ^particolare del
resto di poco conto sia in sé, sia perchè ignorandosi la rispondeiaza
tra il calendario romano d'allora e il calendario giuliano rimane
sempre un'incertezza di vari mesi, anche accolta quella data.
Così dunque di tutta questa guerra etrusca narrata tra il 485
e il 474 non s'aveva probabilmente altro ricordo genuino che quello
della strage del Cremerà. Attribuita a questa strage, per via di
una congettura non senza fondamento, la data del 477, gli anna-
listi diedero saggio della loro fantasia nel racconto di immagi-
nari fatti di guerra per gli anni che precedettero e seguirono : e
.soprattutto di vittorie, ]Derchè una rotta romana non si poteva nar-
rare senza che si facesse pagar cara al nemico. E tuttavia una
guerra tra Romani e Veienti, appunto in questi anni, deve aver
a^oito luogo ; e forse la breve serie di vittorie contro i Volsci che
avevan tenuto dietro al trattato cassiano incoraggiò i Romani a
tentar l'offensiva contro i Veienti. Ma poi l'avanzarsi degli Equi
stremò le forze della lega latina, e i Volsci tornarono alla riscossa;
e allora si concluse la pace coi Veienti, i quali appunto perchè
miravano non a conquistare, ma ad assicurarsi ciò che avevano,
l'avranno volentieri accettata. S'intende, che mentre i Romani con-
servarono la loro testa di ponte al di là del Tevere, il Grianicolo,
Fidene rimase indipendente da Roma ed alleata con Veì, quale fu
poi nella guerra successiva e quale il fatto stesso del Cremerà
prova che fu anche in questa. La tradizione asserisce che la pace
(1) Liv. VI 1, 11. Tac. hist. II 91. Serv. Aen VII 717. Cai. Ant. e Amit.
{CIL. V p. 248. 244). Plut. Camill. 19. Successivo alle idi non fu, come ritiene
Plutarco fraintendendo Livio (1. e.) che egli cita {q. B. 25), il giorno della
clades, ma secondo la tradizione quello del sacrifizio offerto dai tribuni militari
prima di uscire a battaglia, cfr. A. Gell. n. A. V 17, 2. Macrob. sat. 1 16, 23.
MoMMSEN Rljm. Chronol. '^ 26 n. 32. Del resto la coincidenza tra la data delle
due sconfitte è sospetta, solo tenuto conto del come ce n'è pervenuta notizia ;
che non mancano in realtà nella storia coincidenze anche più singolari : p. e.
il 24 giugno è la data delle due battaglie di Solferino e di Custoza a distanza
di sette anni.
(2) OviD. fast. II 193 segg.
136 CAPO XY - ALLEANZA FRA ROMANI, LATINI ED ERNICI
tra Romani ed Etrusclii fu conclusa per quarant'anni (1). Questo
particolare potrebbe essere attinto da qualche documento, e po-
trebbe anche essere ricopiato dalle storiche paci di quarant'anni
tra Roma e alcune città etrusche concluse nel IV e nel III se-
colo (2). Ma vi fu ad ogni modo sulla destra del Tevere pace du-
revole e profonda.
Nelle guerre degli Equi e dei Volsci si passa insensibilmente e
per gradi dalla storia alla leggenda. Nelle guerre etrusche v"è in-
vece netto distacco. Mentre, a tacere dell'età regia, il racconto della
guerra veientica che si collega con la strage del Cremerà manca,-
tolto quel poco che può desumersi da questa stessa leggenda, di
ogni dato fededegno e ha in tutto il resto carattere artificiale e
recente, la guerra comjDresa tra il 438 e il 395, con molti partico-
lari leggendari e non poche invenzioni annalistiche, ha un evi-
dente sostrato storico; e non manca notizia di monumenti e docu-
menti a cui si possa attingere la conferma della sostanza della
tradizione e la rettifica dei particolari.
L'anno 438 Fidene si ribellò, così la tradizione, ai Romani. I
Fidenati suggellarono la loro rivolta con un delitto , 1' assassinio
dei quattro ambasciatori L. Roselo, Tulio Clelio, C. Fulcinio e
Sp. Anzio che erano stati inviati a chiedere soddisfazione. Il re
dei Veienti, Tolunnio, li avrebbe fatti uccidere o, secondo un'altra
versione, avrebbe dato involontariamente occasione alla loro mòrte,
pronunciando, mentre era intento al giuoco dei dadi, una parola
che a\Tebbe potuto essere interpretata come un ordine di morte,
mentre non era che uno scherzo diretto al suo compagno di giuoco (3).
Ad ogni modo dopo ciò i Veienti ed i Fidenati, a cui si congiun-
sero i Falisci, mossero l'armi oltre l'Aniene. Qui diede loro batta-
glia il console L. Sergio (437) e vinse il nemico, ma senza fiac-
carne la ostinazione (4). Più gravemente lo percosse il dittatore
(1) Liv. II 54. DioNYs. IX 36. S'intende che trarre partito dal fatto die la
pace conclusa secondo la tradizione nel 474 durò fino al 437 per induzioni
sul preteso anno di dieci mesi, che non s' è usato mai, è peccare contro la
buona critica.
(2) Liv. VII 22, 5. X 37, 5. Diod. XX 44, 9.
(3) Liv. IV 17. Cic. Phil. IX 2, 4. Val. Max. IX 9, 3. Pi,in. n. h. XXXIV 23.
AucT. de vir. ili. 25,1. I nomi degli ambasciatori son dati concordemente dalle
fonti, tolto l'ultimo che suona Sp. Anzio in Livio e Cicerone, Sp. Nauzio in
Plinio : il primo nome è preferibile.
(4) Liv. IV 17, 8.
CORNELIO COSSO p: LA DISTRUZIONE DI FIDENE 137
Mamerco Emilio, col vincere presso Fidene nel 437 una battaglia
in cui il tribuno militare A. Cornelio Cosso uccise Tolunnio, il re
dei Veienti, dedicandone poi le spoglie opime nel tempio di Griove
Feretrio sul Campidoglio (1). Fidene però resisteva. Anzi nel 435,
insieme coi Veienti, i Fidenati passarono novamente l'Aniene e si
avanzarono fino alla porta Collina. Ma il dittatore A. Servilio con
prospero successo li assali e li sconfisse a fomento e poi, pene-
trandovi mediante un cmiicolo sotterraneo, conquistò Fidene (2).
I Veienti s'indussero dopo ciò a concludere una tregua (3), che poi
ruppero, poco prima del suo spirare, nel 426. Allora i Romani,
chiesta invano soddisfazione, ricominciarono le ostilità (4). Tosto,
avendo essi ricevuto una sconfitta, i Fidenati si partirono nova-
mente dalla devozione di Roma, e suggellarono daccapo la loro
riì)ellione con un delitto, facendo strage dei coloni inviati nella
loro città (5). Ma il dittatore Mamerco Emilio, che aveva per
maestro della cavalleria A. Cornelio Cosso, rix^ortata una nuova
vittoria, s'impadronì della città di Fidene e la mise a ferro ed a
fuoco (6). Dopo di che nell'anno 425 si fermò una pace di venti anni
con Veì (7), al cessare della quale fu iniziata coi Veienti quell'ul-
tima guerra che ebbe termine con la distruzione della loro città.
Questo racconto liviano non dà in ogni parte affidamento di
veridicità. I Fidenati si ribellano due volte con l'aiuto dei Veienti,
uccidendo la prima volta gli ambasciatori dei Romani, l'altra tru-
cidandone i coloni. E prima e dopo i Veienti e i Fidenati s'inol-
trano fino alle porte di Roma e in particolare fino alla porta Col-
lina; ed ambedue le volte piena vittoria è riportata su di essi dal
dittatore Mamerco Emilio, alla quale contribuisce non poco A. Cor-
nelio Cosso. Qui dunque si riscontrano evidenti i contrassegni della
(1) Liv. IV 18-20. DioNYS. XII 2. Val. Max. Ili 2, 4. Plot. Rom. 16. Marc. 8.
Fest. p. 189 s. V. opima spolia. Seev. Aen. VI 842. 860. Varianti dovute proba-
bilmente ad errori di memoria si hanno in Propert. V 10, 23 segg., in Flor.
I 12, 9 e nell'AucT. de vir. ili. 25, 2.
(2) Liv. IV 22. Flor. 1. e.
(3) Liv. IV 23.
(4) Liv. IV 30.
(5) Liv. IV 31.
(6) Liv. IV 31-34. Frontin. struteij. II 4, 19. 8, 9. Flor. I 12, 7. A questo
anno alcune fonti riportano l'uccisione di Tolunnio per opera di Cornelio
Cosso, Val. Max. Ili 2, 4.
(7) Liv. IV 35.
138 CAPO XV - ALLEANZA FRA ROMANI, LATINI ED ERNICI
tarda reduplicazione; e tra le due date non è dubbio die si avvi-
cini di più al vero quella del 426 che non quella del 438, poiché
la nostra tradizione migliore conosce una sola guerra coi Fidenati
e la colloca nel 426, riferendo a quell'anno sia la strage degli am-
basciatori, sia la battaglia data ai Fidenati dal dittatore Mamerco
Emilio, che però sarebbe rimasta d'esito incerto (1). E tuttavia
anche quest'ultima relazione, pur non allontanandosi sostanzial-
mente dal vero, va in parte corretta, come risulta da uno dei due
monumenti intorno alla guerra. Erano questi le spoglie opime di
Tolunnio, e le piccole statue alte tre piedi dei quattro legati ro-
mani uccisi, che si mostravano fino agli anni giovanili di Cicerone
presso i Rostri (2), onde furono probabilmente rimosse insieme col
trattato cassi ano, quando Siila costruì la nuova Curia al posto
deir antica Cm-ia Ostilia. E appunto i nomi scritti sulla base delle
statue hanno fatto si che si conservasse il ricordo di questi am-
basciatori tanto oscuri quanto disgraziati, mentre la nostra tradi-
zione è così parca in materia di nomi non registrati nei fasti con-
solari. Né v'è alcun motivo per ritenere che il monumento sia
tardo e privo d'autenticità (3). Certo i rostri delle navi degli An-
ziati non possono essere stati posti in mostra presso il Foro prima
del 338 ; ma senza dubbio anteriore è il suggesto onde gli oratori
parlavano al x^opolo, che s'è poi adornato di quei rostri. E non
siamo tenuti a credere che i Gralli si dessero cura nel 390 di ab-
battere quelle statue, che del resto non era difficile poi restaurare
o rinnovare più o ineno somiglianti agli originali. Ammessa l'anti-
chità delle statue, può certo discutersi e del fatto per cui si eres-
sero e più della sua cronologia; ma non è inverisimile che un
cenno del motivo per cui fm^ono innalzate, la uccisione degli am-
basciatori per mano dei Fidenati, fosse sulle loro basi; e se pur
non v' era, non é da respingersi alla leggera una tradizione che
nell'esistenza delle statue aveva quasi un punto d'appoggio tangi-
bile. Ammesso il fatto dell'uccisione, non può ritenersi uè molto
più antico né molto più recente della data tradizionale; non molto
più antico xjerché al tempo della guerra iDrecedente, intorno al 480,
la scoltm-a romana era difficilmente tanto progredita da cimen-
tarsi ad effigiare alcuno in pietra; non molto più recente, perchè
(1) DioD. XII 80.
(2) V. i testi sopra a p. 136 n. 3.
(3) Poiché non mi paiono argomenti le sottili disquisizioni del Pais I 1, 604.
CORNELIO COSSO E LA DISTRUZIONE DI FIDENE 139
dopo il 426 i Mani degli ambasciatori erano stati già placati con
l'eccidio di Fidene.
Molto più importante di quelle statue era l'iscrizione letta da
Augusto sulla corazza di Tolunnio, con cui Cornelio Cosso, in qua-
lità di console, dunque nel 428, la dedicava a Griove Feretrio (1).
Ohe Augusto, come taluno lia pur su^iposto (2), abbia frainteso la
iscrizione è tanto meno agevole ad ammettersi in quanto, come già
osservò rettamente uno scrittore antico, la dedica di spoglie opime
non poteva farsi se non da un duce che combattesse con pro]3rì
auspici, quindi non da un maestro dei cavalieri o da un tribuno
militare senza potestà consolare (3). Pertanto e dai documenti e
dairesame della tradizione rimane assodato che intorno al 428 si
combattè quella guerra contro i Fidenati che ebbe principio con l'as-
sassinio dei quattro ambasciatori romani e si chiuse o quell'anno
stesso o poco dopo con la caduta di Fidene; e certo nel 428 ebbe
luogo un importante episodio di quella guerra, la sconfitta e niorte
del re di Vei Tolunnio, alleato dei Fidenati, per opera del console
A. Cornelio Cosso. L'insistenza con cui a questa guerra vien col-
legato il nome del dittatore Mamerco Emilio, visto che ci acco-
stiamo omai alla piena luce della storia, fa ritenere che questi vi
abbia avuto una qualche parte, per quanto non possiamo né de-
terminare quale precisamente questa sia stata, né recarne docu-
mento. Della pace di venti anni con Veì non e' è modo di deter-
minare se si avesse memoria oppure se si tratti semplicemente
(1) Ltv. IV 20: tituliis ipse spoUìs inscriptus illos meque arguii consuleni ea
Cossum cepisse. hoc ego ciim Augustum Caesarem ingressum aedein Feretrii
lovis, qiiain vetustate dilapsain refecit, se ipsum in thorace linteo scriptum legisse
aiidissem, prope sucrilegium ratus sion Cosso spolìorum suorum Caesarem ipsius
templi auctorem snbtrahere testem.
(2) Pais I 2 p. 193 n.
(3) Liv. 1. e.: ea rite opima spol;a habeyitur quae dux duci detrarit, nec dncem
novimus nisi cuius auspicio bellum geritur. Che ciò Livio, poco per se perito
delle finezze del divitto pubblico romano, abbia sentito dire da Augusto non
è inverisimile. Che la questione si sia discussa in occasione delle spoglie del
re dei Bastami Deldone riportate nel 29 dal proconsole di Macedonia M. Li-
cinio Crasso, il quale kòv rà OKùXa aùxà <t>ereTpiiy Ali tjbt; koì ÒTTi)aa óvéGriKev
clnep aÙTOKpdTUjp arpatriTÒ; éreTÓvei (Cass. Dio LI 24), è possibile. Ma che
perciò l'iscrizione di Cosso possa essere una falsificazione di Augusto per giu-
stificare il rifiuto che egli avrebbe opposto alla dedica di Crasso è supposi-
zione affatto gratuita del Dessau Livius und Augustus ' Hermes ' XLl (1906)
p. 142 segg.
140 CAPO XV - ALLEANZA FRA ROMANI, LATINI ED ERNICI
d'induzione fondata sul mancar negli anni appresso ricordo d'osti-
lità coi Veienti. Certo su quella notizia e sull'altra che la pace
secondo le nostre fonti spillò nel 407 non è davvero da far tanto
assegnamento fino a trarne induzioni sul calendario romano: sa-
rebbe disconoscere la natura della tradizione pervenutaci per
questa età (1). Ma che dopo la caduta di Fidene vi sia stata per
parecchi anni pace con Veì è credibile. Sembra infatti che la vit-
toria dell'Algido, assicurando il Lazio dalle incm-sioni degli Equi,
stimolasse i Romani a tentare la conquista di Fidene per rimuo-
vere ogni pericolo d'offese etrusche dal loro territorio sulla si-
nistra del Tevere. E forse la certezza che l'ora della lotta suprema
era venuta spiega la condotta brutale dei Fidenati verso gli am-
basciatori romani. Caduta Fidene, ai Veienti, che non valevano più
ormai a portar la guerra nel territorio romano, dairostinarsi nella
lotta non potevano toccare che danni con poca speranza di utile.
E ai Romani giovava una tregua sul coniine settentrionale, che
permettesse di debellare appieno gii Equi e di assicurare con la
sconfitta dei Volsci le frontiere meridionali del Lazio, le sole
ormai aperte al nemico.
Le inesattezze cronologiche in cui cade nel racconto di questa
guerra la tradizione possono spiegarsi senza troppa difficoltà. Il
fatto di Cosso fu attratto, a così dire, da una parte dal consolato
'di L. Sergio (437), dall'altra dalla dittatm-a di Mamerco Emilio
(426): dal consolato di Sergio, perchè in quella gente ricorreva il
cognome Fidenate, probabilmente non cognome trionfale, ma de-
rivante da possessi in quella regione, ed esso fece credere che
sotto il consolato di un Sergio si fosse inflitto ai Fidenati un grave
colpo; dalla dittatura di Emilio, perchè, forse non a torto, la tra-
dizione la collegava con la guerra veiente; il che fu pur la ca-
gione che al 437 con la prodei^a di Cosso si trasportasse anche
la dittatura di Mamerco Emilio. Onde è molto probabile che la
dopj)ia dittatura d'Emilio non sia più storica della doppia ditta-
tura di Cincinnato.
Dell'ultima guerra coi Veienti ci è conservato un racconto meno
alterato, ma più laconico, ed uno più diffuso e complesso. Secondo
il primo, la guerra ebbe ijrincipio nel 406, e lo stesso anno deli-
berarono i Romani per la prima volta di pagare il soldo alle
truppe; nel 402 i Veienti fecero una sortita vittoriosa; infine.
(1) Cfr. sopra p. 136 n. 1.
ASSEDIO DI YEl 141
del 396, neirundecimo anno deirassedio, nominato dittatore M. Fui'io
e maestro dei cavalieri P. Cornelio, questi s'impadronirono di Veì
per mezzo d"un cunicolo e vendettero gii abitanti e la preda (1).
Secondo l'altro racconto (2) nel 407 era al termine la tregua coi-
Veienti, e i Romani tornarono a chieder soddisfazione dell'assas-
sinio degli ambasciatori; ma pregati dai Veienti clie si travaglia-
vano fra discordie intestine, non rinnovarono pel momento la
guerra. Senoncliè avendo mandato di nuovo ambasciatori nel 406,
i Veienti li cacciarono ignominiosamente minacciandoli della sorte
toccata ai quattro legati fatti uccidere dal re Tolunnio. Allora i Ro-
mani deliberarono di dichiarare la guerra e d'istituù-e il soldo mi-
litare per poterla condm-re innanzi con vigore; e spedirono tosto
un esercito contro Veì. Ma la città non cominciò a essere stretta
d'assedio che nel 405; e se ne commossero gli animi degli Etrusclii,
e se ne discusse nella loro riunione di quell'anno al sacrario di
Voltumna, senza che però si prendesse alcuna deliberazione. Nel 403
la guerra facendosi più accanita, i Veienti vennero nel consiglio
cU nominare un re; ma per questo appunto gli altri Etruschi av-
versi alla monarchia li abbandonarono alla loro sorte. Veì cosi fu
cinta interamente d'opere d'assedio, e si stabili che l'esercito ro-
mano rimanesse in campo anche dm^ante l'inverno. E quando i
Veienti, fatta una sortita vittoriosa, danneggiarono gravemente i
lavori degli assedianti, quelli tra i Romani che avevano il censo
equestre senza essere iscritti alla cavalleria né forniti d'un cavallo
dallo Stato si offrirono di servii'e a proprie spese, imitati tosto
da volontari che diedero il nome nella fanteria; e cosi furono ri-
parati i danni. Ma finalmente nel 402 due popoli etruschi, i Ca-
l)enati ed i Falisci, movendo al soccorso dei Veienti, assalirono con
la cooperazione degli assediati uno degli accampamenti romani,
dove comandava il tribuno militare Manio Sergio. Ora Sergio non
s'indusse a ricercare in tempo il soccorso del suo collega e avver-
sario L. Verginio, che comandava Taltro accampamento, e Verginio
s'ostinò a non intervenire non essendone richiesto. Cosi i Romani
furono battuti, preso uno dei loro accampamenti e rotte le linee
d'assedio. Tuttavia l'assedio fu rinnovato l'anno seguente 401, e per
atterrire e punire Capenati e Falisci se ne devastarono le cam-
pagne. Ciò non rimosse quei due popoli dal proposito di soccor-
(1) DioD. XIV 16. 43. 93.
(2) Liv. IV .58 - V 22.
142 CAPO XV - ALLEANZA FKA ROMANI, LATINI ED ERNICI
vere i Veienti. Ma nel 399 le loro truppe tornate all'assalto furono
sconfitte, e i Veienti, che avevano fatto una sortita, ricacciati nella
città. Nell'anno 398 poi si rigonfiò oltre misura il lago Albano; e
un aruspice di Veì catturato a tradimento o venuto come fuggiasco
nel campo romano vaticinò clie Veì poteva essere presa solo quando
fossero regolarmente incanalate le acque di quel lago (1). Siffatto
vaticinio avendo trovato una conferma nel responso clie recarono
nel 397 i messi die erano stati mandati a Delfi a consultare in
tal proposito l'oracolo d'Apollo, si cominciò lo scavo dell'emissario
del lago sotto la direzione dello stesso aruspice etrusco (2). Frattanto
i Tarquiniesi aprirono anch'essi, ma inefficacemente, la guerra
contro Roma, e andò pure a vuoto un tentativo che fecero i fedeli
alleati dei Veienti, i Capenati ed i Falisci, per indm-re i popoli
etruschi riuniti al sacrario di Voltumna alla guerra contro Roma.
Ne giovò ai Veienti che due tribuni, assalendo nel 396 i Capenati
ed i Falisci, si avessero la peggio; poiché, terminata la costruzione
deir emissario del lago Albano, era giunto il momento segnato
dai fati per la caduta di Veì. Allora si nominò dittatore M. Furio
Camillo, il quale, sceltosi a maestro dei cavalieri P. Cornelio Sci-
pione, ristabili la disciplina nel campo romano, fece nuove leve,
ricevette rinforzi di Latini e d'Ernici accorsi per la speranza del
bottino sotto i suoi vessilli, XDronunciò voti solenni ijerchè i numi
gli dessero vittoria, e mentre combatteva con felice successo nel
territorio di Nepi contro i Capenati ed i Falisci, fece scavare
una galleria sotterranea che conduceva alla rocca di Veì. Poi fece
dare un assalto generale. Ancora si combatteva alle mura, e
già i Romani per mezzo di quella galleria erano penetrati nella
rocca. Il re dei Veienti faceva un sacrifizio nel tempio di Giu-
none, e l'aruspice prediceva la vittoria a chi avesse sezionato le
viscere della vittima, quando i Romani, sbucati nel tempio, reca-
rono le viscere al dittatore che compì il saciifizio. Veì cadde in
mano dei vincitori, che trucidarono o vendettero schiava la popo-
lazione. La statua della dea di Veì, Giunone Regina, trasportata
a Roma col palese consenso della dea, fu collocata in un tempio
che le si edificò sull'Aventino (3).
(Ij Liv. V 16. DioNYs. XII 10-12. Plut. Cam. 3-4. Zon. Vii 20. Cic. de divin.
I 44, 100. Il 32, 69. Val. Max. I 6, 3.
(2) Liv. V 16. DioNYS. XII 12. Plut. Val. Max. 11. citt.
(3) V 19-22. UioNYs. XII 13-14. XIII 3. Plut. Camill. 5-6. Zoxx. VII 21. Flou.
I 12, 9. Okos. II 19.
CRITICA DELLA TRADIZIONE 143
In questo racconto si manifesta non di rado la efficacia della
epopea popolare; e fors^anclie con più frequenza si notano traccie
delle induzioni e invenzioni degli annalisti. E probabile, ad esempio,
clie la stessa sortita vittoriosa dei Veienti sia narrata due volte,
con particolari diversi al 403 e al 402. Certo è da credere che più
d'uni sortita abbiano tentato gli assediati con prospero successo;
ma è difficile clie si conservasse memoria d'una sola non che di
più, e par quindi che dei due racconti l'uno non sia che una va-
riante dell'altro. E non è ingiustificata la congettura che ciò pro-
venga dalla contaminazione di due versioni, una delle quali rife-
riva al 407 il princix3Ìo della guerra e quattro anni dopo, al 403,
la sortita, l'altra, conforme al racconto più sommario che a noi è
conservato, il principio della guerra al 406 e la sortita al 402 (1).
Ciò spiegherebbe come siano attribuiti al 407 quei negoziati senza
alcuna conseguenza di cui non si vede come potesse essersi con-
servato il ricordo. Ma di nessuna di queste date pel ijrincipio della
guerra può aversi x)iena sicurezza; xDerchè l'una e l'altra forse non
hanno fondamento se non nella notizia dell'assedio decennale, fatto
cominciare l'anno stesso in cui s'iniziò la guerra o l'anno seguente;
e quella notizia è assai sospetta iDerchè dovuta xjrob abilmente alla
poesia popolare, che alla sua volta può averla attinta alla leggenda
dell'assedio di Troia. E se anche si tratta d'una induzione fondata
sull'essersi introdotto il soldo per la milizia nel 406, di che non
era improbabile si conservasse documento o ricordo, non acquista
perciò molto di credibilità. Infatti se non è difficile che tra l'isti-
tuzione del soldo militare e la conquista di Veì vi sia relazione,
non è necessario che tal relazione sia xn'oprio immediata, vale a dhe
che lo stipendio si sia preso a pagare apposta per poter tenere
in campo, anche d'inverno, le truppe destinate all'assedio. Molto
sospetto è pure ciò che vien narrato delle riunioni al santuario di
Voltumna, perchè non è cliiaro come gli annalisti del II secolo
potessero sapere delle discussioni avvenute colà senza che si pren-
desse alcuna deliberazione ; di cui difficilmente conservavano me-
moria i carmi epici romani sull'assedio di Veì, Oltre di che la storia
della guerra di Roma coi Veienti sembra dimostrare che la lega
religiosa avente il suo centro nel santuario di Voltumna (2) non
s'era ancora trasformata nel V secolo in lega politica. Invece si
(1) Cfr. BuRGER Sechziy Jahre, particolarmente p. 140 seg.
(2) Cfr. I p. 146 a. 4 e p. 435.
14:4 f'APO XV - ALLEANZA FRA ROMANI, LATINI ED ERNICI
spiega assai bene come, avendo presenti le condizioni deirEtniria
nella seconda metà del IV secolo, gli annalisti riferissero anche al
tempo della guerra con Veì quei concili politici al sacrario di Vol-
tumna di cui si aveva ricordo sicuro per l'età delle guerre san-
nitiche. Ed era anche naturale che, anticipata a questo modo la
permanente lega politica tra le città etrusche, ricercassero perchè,
con grave iattura della lega stessa, venne abbandonata nel peri-
colo Veì. Ma l'ipotesi che ciò dipendesse dalla istituzione della
monarchia, se è abbastanza ingegnosa, non è meno arbitraria. La
leggenda ricordava, probabilmente non allontanandosi dalla ve-
rità, che Veì si reggeva a monarchia quando cadde in mano dei
Romani; e ciò trova una conferma monumentale nelle spoglie di
re Tolunnio dedicate da Cosso; ma questo stesso par dimostrare
che il governo monarchico era a quel tempo in Veì non l'ecce-
zione, come ritiene l'annalistica, ma l'uso costante. Non sappiamo
se la monarchia si sia conservata così a lungo anche nel resto
dell'Etrmia, dove la leggenda di Porsenna ne serba ricordo pel 500
circa ; ma pare evidente che per Veì almeno non costituiva punto
un fatto nuovo, tale da coonestare l'inazione della lega (1). Molti
altri sono i punti dubbi del racconto. Cosi può ben darsi che i Ca-
penati e i Falisci abbiano inflitto ai Romani più d'una rotta; ma
nei due tribuni che hanno la peggio combattendo contro i Falisci
nel 396 pare debba vedersi una copia dei due tribuni a cui è do-
vuta la sconfìtta del 402. Del pari il legame tra la costruzione del-
l'emissario del lago Albano e la presa di Veì non è certo inven-
zione d'annalisti; ma sebbene sia elemento genuino della leggenda,
è difficile che abbia altro fondamento che quello d'una approssima-
tiva contemporaneità. E pur dalla j)oesia popolare è attinto pro-
babilmente il particolare del cunicolo per cui i Romani penetra-
rono nel tempio di G-iunone ; ma esso, anche prescindendo dalla
relazione in cui una critica tropi30 sottile, ha voluto metterlo con
l'emissario del lago, non è tale da potersene servii'e per la storia;
poiché Veì è cii'condata di fìumicelli, e scavare una galleria che
passando al disotto del loro alveo sboccasse nella rocca, non era
per gl'ingegneri romani troppo facile impresa. Del resto del cu-
nicolo si parla anche a proposito dell'assedio di Fidane del 435 (2) :
(1) Sulla monarchia in Etruria cfr. 1 p. 153 n. 1.
(2) V. sopra p. 137 n. 2. A un cunicolo avrebbero ricorso per impadronirsi
ili Fidene pur Anco Marcio iDionys. Ili 39. Zon. VII 7) e Sp. Larcio (Dionys.
V 29).
CRITICA DELLA TRADIZIONE 145
onde pare clie uno stesso motivo leggendario si applicasse alle
due maggiori conquiste che intorno al 400 compirono i Romani.
E perfino Finvio dell'ambasceria all'oracolo d'Apollo, per quanto
in sé non abbia nulla di singolare, prescindendo dalla precisa mo-
tivazione, date le relazioni che coltivava da tempo con Delfi la
vicina Cere, potrebbe essere una semplice induzione ricavata dal-
rinvio a Delfi dopo la vittoria d'un dono votivo.
Ad ogni modo, sfrondato il racconto dell'ultima guerra veiente
di tutti questi particolari falsi o sospetti, ne traluce chiaramente
il sostrato storico, che sarebbe grave errore disconoscere. Adunque
la pace con Veì dopo la caduta di Fidene aveva lasciato liberi
Romani e Latini di rixjrendere con vigore e con fortuna la lotta
coi Volsci. E i Volsci cedevan terreno, e pareva vicino il momento
che sarebbero rimasti a pieno debellati ; ma j)rima che la sottomis-
sione dei Volsci avvantaggiasse troppo di forze i Romani a fronte
loro, i Veienti ripresero le ostilità. Ormai i^eraltro era tardi per poter
resistere con buon successo ai Romani, agguerriti e cresciuti di
potenza, senza soccorsi d'altri popoli etruschi; perchè i Volsci
erano inabili ad una efficace riscossa, e la caduta di Fidene toglieva
ai Veienti ogni speranza di trasportare la guerra in territorio ro-
mano. E la relativa bontà della tradizione si vede anche in ciò
che non ignora come questa guerra fu combattuta sulla destra,
anziché come le precedenti, in parte almeno, sulla sinistra del Te-
vere. Ma il soccorso dei connazionali mancò. Di questo si acca-
gionarono in generale dai moderni (1) i Galli, che appunto in quel
torno finivano di soggiogare l'Etruria padana. Ma il pericolo dei
Cfalli non molto poteva commuovere quelli di Cere, di Tarquinì,
di Volci e di Volsinì ; e se costoro non assistettero i Veienti o al-
meno non li assistettero efficacemente, deve recarsene la cagione
al difetto di sentimento nazionale tra gii Etruschi e al non avere
ancora avvertito gli altri Etruschi il pericolo che correvano pel
formarsi della potenza romana. Se ne addiedero i Veienti perchè
coi Romani avevano avuto lunghi contatti ostili ed erano stati in
grado di misurare l'importanza dei rivolgimenti che si effettua-
vano a mezzogiorno del Tevere. Ed è degno di nota che (qualunque
cosa convenga pensare dell'aiuto tarquiniese di cui abbiamo un
ricordo isolato e che forse anticipa soltanto le posteriori guerre
tra Tarquinì e Roma) il solo soccorso di qualche momento ebbero
(1) Seguendo un accenno di Liv. V 17, 8.
G. De Sanctis, Storia dei Romani, II. 10
146 CAPO XV - ALLEANZA FRA ROMANI, LATINI ED ERNICI
i \'eienti da due popoli politicamente etruschi, ma latini di nazio-
nalità, i Capenati ed i Falisci (I p. 106), i quali temettero di es-
sere travolti nella rovina di Vei. La lotta fu mortale; poiché i
Romani s'erano ripromessi di liberarsi per sempre, ora che l'occa-
sione era favorevole, dal pericolo veiente ; ed i Veienti furono per-
tinaci a resistere a ogni costo prima clie sottomettersi alla loro
rivale. La fortezza della posizione, la ricchezza d'acque, il soccorso
della iDotente Falerì li affidavano di salute. E sacrifizio estremo
era pei contadini romani il tenersi tutto l'anno sotto l'armi, lon-
tani dalle famiglie e dai campicelli; ma il premio sperato non era
inferiore al sacrifizio. Possiamo ben credere alla tradizione ch.e
riuscisse talora ai Veienti, stretti d'assedio, di rompere, con l'aiuto
dei Capenati e dei Falisci, le linee degli assedianti, e che la stan-
chezza e la sfiducia s'insinuasse talora nel campo romano. E non
è dubbio che ostinata fu la resistenza e lungo, con le sue inter-
ruzioni, l'assedio. E forse se fossero ijervenuti i Veienti coi loro
alleati a tenere per poclii anni ancora sospesa la vittoria romana
e se i Romani fossero stati meno perseveranti, il soi^ravvenire dei
Gralli avrebbe potuto mutare le sorti della guerra; ma prima che
ciò accadesse, riusci al dittatore romano M. Furio Camillo di pren-
dere d'assalto la città. Bene Camillo meritava la gloria onde lo
ricolmarono i carmi popolari; poicliè questo era il successo più
grandioso che i Romani avessero conseguito fino allora, successo
che dovette far profonda impressione a loro stessi, ai loro amici
e ai loro nemici. Mentre iDrima i Romani non avevano assalito
e superato che piccole città latine e volsche, povere e dal ristretto
territorio, ora una città antica ed opulenta, grande e forte, con ter-
ritorio ricco ed esteso era caduta in loro potere. Certo non può
senza orrore pensarsi alla sorte che per la barbarie dell'antico di-
ritto di guerra dovette essere serbata ai vinti, nò i3uò disconoscersi
che la caduta di Vei spense uno dei maggiori focolai di incivili-
mento che fossero allora nell'Italia centrale. Ma con la conquista
di Vei s'affermò per la |3rima volta la superiorità degli Italici
sugli altri invasori della penisola, e, senza che né vincitori né vinti
potessero pm* confusamente intravederne gli effetti, si fece il
primo e più arduo passo sulla via della riduzione d' Italia ad unità
nazionale.
Della presa di Vei si conservò un monumento, la cui origine é
narrata diffusamente dalla tradizione. Camillo aveva fatto voto
di dedicare la decima del bottino ad Apollo Delfico. E però cia-
scuno dovette versare il decimo del valore della preda fatta o con-
segnatagli; e stimato il valore della città e del territorio veiente
IL DONO AD APOLLO DELFICO 147
anche l'erario ebbe a contribuire, dando l'equivalente del decimo,
al dono votivo (1). Non trovandosi poi l'oro richiesto per l'aureo
cratere che si voleva dedicare a Delfi, le matrone furon preste a
cedere allo Stato i loro ornamenti preziosi, e ne ricevettero in com-
penso il dii'itto di andare in cocchio in città (2). Grli ambasciatori
romani che recavano il dono caddero in mano di pirati liparei che
li condussero nella loro isola. Ma Timasiteo, lo stratego di Lipari,
li pose in libertà e li fece anzi scortare col loro cratere a Delfi (3),
dove essi lo deposero nel tesoro dei Massalioti (4). Onimarco però
fece poi fondere il cratere durante la guerra focese, sicché ne ri-
mase soltanto la base di bronzo (5). Quanto a Timasiteo, i Romani
l'onorarono concedendogli l'ospizio pubblico (6), e quando poi nella
prima punica si impadronirono di Lix)ari, si ricordarono della sua
generosità dichiarandone i discendenti liberi ed immuni dalle im-
poste (7). Dell'autenticità di queste notizie si è dubitato (8). Si è
osservato che il culto d'Apollo in Roma non è anteriore alla metà
del secolo W; ma, concesso pm^ questo, di che xduò discutersi
(1) Liv. V 23. 25. Plut. Camill. 7-8. App. Ital. 8. Zon. VII 21.
\2) Liv. V 25. Fest. p. 245 s. v. pilentis. Zon. 1. e. Con qualche variante
Plut. Camill. 8.
(3) Liv. V 28. DiOD. XIV 93. Con qualche variante Plut. Camill. 8.
(4) DioD. Appian. n. citt.
(5) Appian. 1. e.
(6Ì Sul significato dell' ospizio pubblico, v. Mommsen Rom. Forschungen I
326 segg.
(7) DioD. 1. e, che narra di Timasiteo all'a. consolare stesso della presa di
Veì (396), dice che ciò accadde 137 anni dopo. Ora i Romani presero Lipara
nell'anno consolare 252 av. C. Dal 252 si risale così per l' invio dell'amba-
sceria (computando nella somma uno degli estremi) al 388. E il 388, aggiunti .
i quattro anni dittatoriali e i quattro anni attribuiti in più dai fasti capito-
lini all'anarchia che e annua in Diodoi'O, corrisponde precisamente al 396
della cronologia comune (I p. 9). Ma è affatto impossibile che le onoranze a
Timasiteo spettino all'anno stesso della caduta di Veì; sicché con ragione
Livio narra di Timasiteo due anni dopo, al 394. È d'altra parte poco credibile
che la data della caduta di Veì si sia determinata da quella delle onoranze
rese a Timasiteo; anzi pare piuttosto da tenere il contrario. Quindi l'inter-
vallo dev'essere stato determinato non per mezzo della lista dogli strateghi
di Lipara, ma, partendo dalla data tradizionale della presa di Veì, per mezzo
dei fasti consolari romani, nella redazione appunto in cui se ne serve Diodoro;
e però esso non ci è d'alcun aiuto per lo studio della cronologia romana.
(8) Ihne Rom. G. I - 235. Pais II 1 p. 28 seg. Burger p. 82.
148 CAPO XV - ALLEANZA FRA ROMANI, LATINI ED ERNICI
(v. c. XXY), non ne segue che fosse ignoto e molto meno ohe non
potessero a Delfi chiedersi oracoli o inviarsi doni votivi. Non c'è ra-
gione per escludere che Roma avesse relazioni con Delfi quando,
a poca distanza, Cere ne aveva di cosi intime da erigere persino
in Delfi un proprio tesoro. Certo la connessione del dono con l'ora-
colo concernente la derivazione del lago Albano è probabilmente
tanto immaginaria quanto quell'oracolo ; ma non è ragione suffi-
ciente per dubitare della storicità di un fatto il vederne data dalla
tradizione una causa fantastica. E pur molto sospetto il partico-
lare dell'oro ceduto volontariamente dalle matrone, che vien nar-
rato anche un'altra volta a proposito del riscatto di Roma dai
Galli (1): in questa generosità delle matrone è da vedere un mo-
tivo leggendario che non sappiamo con quali avvenimenti sia stato
in origine collegato della poesia popolare. Quanto poi al premio che
questo atto generoso avrebbe trovato nella concessione alle ma-
trone del carpento entro la città, non pare sia altro che un mito
etiologico destinato a s]DÌegare come, essendo vietato andar nella
città in cocchio, non fosse esteso questo divieto alle matrone: pri-
vilegio che non ha certo bisogno d'una spiegazione mitica. Ma i
liarticolari sul monumento . e in specie sulla conservazione della
base dopo spogliato dai Focesi il tempio, son difficilmente da re-
vocare in dubbio: ed è da credere che nella base fosse una iscri-
zione ricordante il fatto: altrimenti mal si spiegherebbe come si
pensasse di riconoscere la base del dono romano. Così pure delle
piraterie dei Liparei a danno degli Etruschi abbiamo altre notizie
indipendenti da quelle sul cratere dedicato ad Apollo (2); e il con-
tegno dei primi verso gli ambasciatori romani ha la sua ragione sia
nelle ottime relazioni in cui e Liparei e Romani erano coi Mas-
salioti (3), sia nel fatto che probabilmente i Romani come i Ceriti
si astenevano da quelle piraterie a danno dei Greci per cui erano
in genere famigerati i navigatori tu-reni (4). Non v'è quindi mo-
(1) Liv. V 50, ofr. VI 4, 3. Diod. XIV 93.
(2) Paus. X 16, 7.
(3) Per le relazioni di Roma con Marsiglia v., oltre il luogo citato di Diod.,
Strai». IV 180 (vera o leggendaria provenienza da Marsiglia del simulacro di
Diana aventinense). Iustin. XLllI 5 (contributo dei Marsigliesi all'oro pagato
dai Romani ai Galli, v. capo seg.). — Del resto la tradizione ritiene i Liparei
come indipendenti, mentre pochi anni dopo furono sottomessi da Dionisio, e
deve essere nel vero. Non così E. Mkyku G. des Alterthums V p. 448 seg.
(4) Strab. V p. 220.
NUOVE GUERRE IN ETRURIA 149
tivo di dubitare nò dell' esistenza del dono né della sua connes-
sione con la presa di Vei. Se anche tal relazione non fosse tra-
mandata, non saprebbe scegliersi in tutta la storia romana anteriore
alla guerra di Pirro occasione più opportuna della presa di Vei
per r invio d'un dono votivo ad Apollo. Quel dono non aveva sol-
tanto una ragione religiosa, ma doveva servir certo a dimostrare
al cospetto degli alleati, degli amici e dei nemici che Roma si te-
neva ormai per una potenza civile.
L'occupazione del territorio veiente indusse i Romani sia a cer-
care una linea di frontiera che assicui'asse il nuovo acquisto, sia
a costringere gli antichi alleati dei Veienti a piegarsi al nuovo
stato di cose. E per prima fu sottomessa, secondo la tradizione,
nell'anno seguente (395) Capena (1), e il suo territorio fu come
quello di Vei incorporato allo Stato romano (2); poi furono sog-
giogate Sutri e Nepi, due città a settentrione del lago di Brac-
ciano, che probabilmente come Capena avevano avuto relazioni di
dipendenza verso i Veienti (3). Anche di queste i Romani si ax^-
propriarono il territorio, forse fin d'allora cedendolo alla lega la-
tina col proposito di ordinare quelle due terre a colonie. Con la
conquista di ìTepi e di Sutri i Romani s' erano assicurati e una
posizione dominante sulle vie che conducevano nell'interno del-
l'Etruiia e pei loro nuovi possessi il confine naturale del Cimino.
Per Imigo tempo Sutri fu in quella regione baluardo avanzato
della latinità, e andare a Sutri rimase presso i Romani frase pro-
verbiale che equivaleva a mettersi prontamente in assetto di
guerra (4).
(1) Liv. V 24: ea clades popiclum Capenatem suhegit: pax petentibus data.
(2) Ciò non potrebbe trarsi dalla frase citata di Livio, ma risulta da Fest.
p. 343, cfr. Liv. VI 4, 4. Sul municipio capenate v. al e. XXII.
(8) Vi è qualche discrepanza in materia nella tradizione. Diodoro (XIV 98, 5)
riferisce al 394: ('Pcjuuaìoi) Zoùrpiov |aèv aip|uriaav, dove è stato congetturato
con ragione iÙKioav ; e (XIV 117, 7) al 390 narra come Camillo ricuperò e re-
stituì agli abitanti Zouxpiavi'iv oOaav ÒTTOiKiav f^v ci Tuppnvoi 3ici KareiXnopei-
<Jov. Livio narra quest'ultimo fatto al 389 riguardando allora i Sutrini come
sodi populi Romani (VI 3, 2), lo ripete con qualche variante al 386 e raccoji-
tando un fatto analogo a proposito di Nepet mostra di riguardare ancora le
due città come sociae urbes (VI 10, 6); finalmente al 383 parla della coloniz-
zazione di Nepet (VI 21, 4), tacendo di quella di Sutrio. Invece Velleio I 14
scrive: 2}ost septem annos quatn Galli urbem ceperunt Sutrium dcducta colonia
est et post annum Setia, novemque interiectis annis Nepet.
(4) Plaut. Casin. 524. Fest. p. 310.
150 CAPO XV - ALLEANZA FRA ROMANI, LATINI ED ERNICI
Il teiTÌtorio romano confinava ora con quello di quattro po-
tenti città della lega etrusca: Cere, Tarquinì, Faleri, Volsinì. Se
si prescinde dalle leggende dell'età regia (1), il primo ricordo dei
Ceriti nella tradizione romana è a proposito della condotta anii-
chevole che tennero verso i Romani in occasione dell' incendio gal-
lico (2). Questo, e più il silenzio della tradizione intorno ai Ceriti
durante la guerra di Vei, dimostra che essi assistettero neutrali e
forse non senza qualche compiacimento alla caduta della potente
vicina; del resto assai più che di Roma si preoccupavano allora
di Siracusa, la cui j)otenza cresceva per terra e per mare, formi-
dabile ai Fenici ed agli Etruschi (3). Forse non altrettanto amiche-
voli verso Roma erano le disposizioni della regina della maremma,
la potente Tarquinì. Ma Tarquinì e Roma, ciascuna con mi terri-
torio d'un duemila chilometri, s' incutevano rispetto e timore scam-
bievolmente; né avevano ragione di anticipare la lotta inevitabile.
La guerra continuò invece dopo la caduta di Veì con la maggiore
alleata dei Veienti, Faleri, che non poteva veder senza terrore i
Romani a Capena, a Sutri ed a Nepi. Si combattè, secondo la tra-
dizione, per due anni, e poi (394) i Falisci si sottomisero a Camillo,
che in qualità di tribuno militare era a campo contro la città^,
ammirati della magnanimità con cui il duce romano rifiutò di ap-
profittare del tradimento d'un maestro di scuola che gli aveva
consegnato i figli dei maggiorenti di Faleri (4). In realtà Faleri
non si sottomise punto, né agevole sarebbe stato pei Romani sog-
giogare una città che seppe resistere vigorosamente a Roma an-
cora sul chiudersi della prima punica. Solo dovette concludersi una
pace in cui i Falisci si adattarono a riconoscere i fatti compiuti.
Quanto alla storiella del maestro di scuola, può f ors'anche aver
fatto parte di quel ciclo di leggende che la ijoesia ]3opolare radunò
intorno alla memoria di Camillo; ma in questo caso mostra soltanto
(1) DioNYS. Ili 58. IV 27, cfr. Liv. IV 60, 11.
(2) V. cap. seg,
(3) V. al cap. seg. sulla devastazione del porto di Cere compiuta nel 384 da
Dionisio.
(4) Liv. V 27. DiONYS. Xlll 1-2. Plut. Camill. 10. Cass. Dio fr. 23, 3-4. Zon.
VII 22. Dioo. XIV 96, 5 riferisce al 395: 'Pa)|Liaìoi OaXiaKOv ttóAiv ék toO (t>a-
XiaKuuv ^Gvouq èEeTTÓp6ri<Jctv, e al 394 (XIV 98, 5) : 'Pu)|Liatoi irpòq «J^aXiaKouq elpn-
vriv TToir|ad)aevoi ktX. È lo stesso fatto assegnato con diverse circostanze a due
anni successivi: ne s'ha da fare alcuna congettura per eliminare la contrad-
dizione. Per un'analogia v. sopra p. 122 n. 1.
ROMANI E LATINI 151
con quale cautela debba usarsi della pctesia popolare nelle ricostru-
zioni storiche. Del resto, secondo la nostra tradizione, qui poco
degna di fede, non si sarebbero neppur appagati di questi felici
successi i Romani e avi'ebbero avuto poco dopo (392-1) guerra coi
Volsiniesi e coi Salpinati (popolo ignoto, di cui c|ui solo occorre
menzione) e sarebbero penetrati, devastando, oltre i monti Ci-
minì (1), in una regione che, non molto consona a sé stessa, la tra-
dizione rappresenta come ignota ed inaccessibile ai Romani sulla
line del sec. IV.
Ma anche prescindendo dalle conquiste immaginarie, bastavano
quelle compiute in effetto da Roma per preparare un profondo
mutamento nei rapporti tra Roma e la lega latina. Questa lega,
dopo la caduta di Pomezia, abbracciava un territorio d'un migliaio
di chilometri quadrati d'estensione, ossia superiore di poco al ter-
ritorio romano. Dopo l'accordo, le conquiste territoriali degli alleati
servirono a fondare colonie latine, ossia nuovi comuni autonomi
a cui potevano inscriversi cittadini di tutti gli Stati confederati,
i quali entravano a far parte della lega latina con diritti pari a
quelli dei Prisci Latini che in origine la costituivano. Cosi subito
dopo l'accordo con Roma furono fondate Segni e Norba (p. 106).
Inoltre accedettero probabilmente alla federazione nel corso del
sec. y due città affini di stirpe, Nomento (2) e Pedo (3) ; abbiamo
invece ragione di credere che continuasse a tenersene fuori Pre-
neste (4), come ne rimase fuori anche Grabì, che i suoi vincoli
speciali d'alleanza con Roma tendevano a trasformare a poco a
poco in un comune romano (5). S'avvantaggiava del resto la lega'
anche degli acquisti che veniva facendo per conto proprio taluna
delle sue città confinanti coi nemici del nome latino; per modo
che intorno al 120, prima che cominciasse l'offensiva fortunata
(1) Liv. V 31-32. DioDORo XIV 109, 7 ricorda una vittoria dei Romani sui
Volsiniesi al 391 presso roupdoiov (?).
(2) Per Nomento (Mentana) pare che ciò debba ricavarsi dalle notizie sul
confine di Ereto (sopra p. 124 n. 2). Livio fa ricordo della città a proposito
delle guerre coi Fidenati del 435 e del 426 (IV 22. 32).
(3) Pedo (Gallicano?) è tra le città latine ricordate da Dionys. V 61 e poi
tra le conquiste di Coriolano (Liv. II 31. Dionys. Vili 19. 26. Plut. Coriol. 28);
dopo di che non torna a parlarsene fino al 358.
(4) V. sopra p. 92 n. 3.
(5) V. I p. 389.
152 CAPO XV - ALLEANZA FRA KOMAXT, LATINI ED ERNICI
contro i Volsci, essa comprendeva undici comuni e 1500 km' di
territorio (1).
Ma ne ai Romani né agli Ernici poteva garbare die d'acquisti
fatti col sangue di tutti s'avvantaggiasse la sola lega latina. È
vero che qualsiasi cittadino dei tre popoli aveva pari diritto a
prender parte alla fondazione delle nuove colonie: non andava
però forse a grado di molti Romani ed Ernici di rinunciare, per
aver parte alla colonia, ai diritti che esercitavano nel Foro di
Roma o nel Compito d'Anagni, Oltre di che non era senza pericolo
lasciare che il territorio della lega latina superasse di troppo quello
degli altri contraenti della triplice alleanza. E tuttavia, fatta ec-
cezione delle ultime guerre con Fidene e con Veì, i Romani e gli
Ernici si tennero paghi a reclamare per sé qualche distretto di
confine conquistato ai comuni nemici. Cosi gii Ernici non si eb-
bero che Ferentino (2), e i Romani poco spazio di terreno verso il
confine equo. Quando infatti si riusci a far sgomberare gli Equi
dall'Algido, questo, coi distretti degli antichi comuni latini di La-
bici, Boia, Carvento ed Ortona, deve essere stato incorporato nel
tenitorio romano; poiché non c'è ragione per mettere in dubbio
quel che la tradizione dice sulle colonie romane di Labici (418) (3)
e di Vitellia (4), sol che si tenga a mente che non può essersi trat-
tato di veri comuni autonomi di cittadini romani, ma d'assegna-
zioni di terreno in iDaese annesso. Ma questi ampliamenti dello
Stato romano furono largamente compensati dagli ampliamenti
che ebbe la lega latina con la fondazione di Circei (393j, seguita
da quella di Sezze, Sutri e Nepi, il cui territorio, se non coloniz-
zato, fu però assai probabilmente ceduto alla federazione prima
della invasione gallica, e dalla accessione di Velletri, d'Anzio con
Satrico, e poi anche d'Anxur; cosicché la lega, anche j)rescindendo
dalle terre che s' avevano da ridurre a colonie, raggiungeva la
(1) I menzionati sopra a p. 92 n. 2 con Pomezia e Velletri in meno e un
centinaio di km* in piìi pel territorio tiburtino. Inoltre Norba che avrà ab-
bracciato un 100 km^, Signia con 100, Nomento con 70, Pedo con 75. To-
tale 1445 km^
(2) Sopra p. 123 n. 3.
(3) Liv. IV 47, 7 : coloni ab urbe mille et quingenti missi bina iugera acce-
perunt.
(4) Liv. V 29 al 393 : Vitelliam coloniam Romanam in suo agro Aequi ex-
pugnant. Cfr. Sueton. Vitell. 1. È incerto se sia la stessa colonia in Volscos
ricordata da Liv. V 24, 4 al 396.
ROMANI E LATINI 15B
estensione di 2500 km. quadrati (1), e comprese quelle s' esten-
deva per un 3000 (2).
Ma la conquista di Fidene, di Veì e di Capena tolse la spro-
porzione clie si era venuta formando tra il territorio latino ed il
romano (3). Dell'm'to con Veì, Roma aveva dovuto portare il pe-
ricolo e il danno; e forse neppure fece richiesta per la guerra
etrusca, che era diretta contro lei sola, dei contingenti federali-
Onde ad essa poi restò, fatta eccezione degli avamposti di Sutri
e di Nepi, tutto il vantaggio della vittoria; e così vi fu copia di
terreni da distribuire a cittadini romani senza che dovessero ri-
nunciare al beneficio della cittadinanza; e il territorio romano, più
che raddoppiato, gareggiò quasi in estensione con quello latino,
pui' tanto dilatato dalle ultime conquiste.
Frattanto se la lega latina aveva molto guadagnato in esten-
sione, aveva però molto perduto in coesione. Per lunghi anni l'avan-
zarsi dei Volsci e degli Equi aveva spezzato in tre il territorio
federale: a sud Cora, Norba e Signia circondate per tre lati dai
Volsci e dagli Equi e solo a nord-est confinanti con gli alleati Er-
nici ; al centro Lanuvio, Laurento, Ardea ed Aricia, il nucleo della
lega latina, strette tra i Volsci ed il territorio romano ; a nord Ti-
voli, Nomento e Pedo, che da una parte il territorio romano con
l'annesso agro sabino, dall'altra il paese equo e prenestino sepa-
ravano dal resto della federazione. Quanto a Tuscolo, era' quasi
un'isola nel territorio romano, e solo ad oriente confinava con
paese occupato dagli Equi; ma rimase poi interamente circondata
dai possedimenti romani quando i Romani acquistarono Labici e
Boia. In tal condizione di cose nulla era più diffìcile ai Latini che
intendersi efficacemente j)er un'azione comune. Assai prima che
i delegati latini avessero fatto in tempo a congregarsi alla fonte
dell'acqua Ferentina, gli ottimi ordini di guerra e la continuità
del territorio mettevano i Romani in grado di avere in assetto una
legione e li rendevano pronti ad accorrere dovunque nel paese la-
(1) Totale precedente km- 1445. Velletri 165, Anzio e Satrico con l'agro pon-
tino 440. Circei 100. Terracina 170. Incrementi del territorio di Signia (Beloch
It. Bund p. 146) 135. Totale 2455.
(2) Totale precedente kin- 2455. Sezze 185. Sutri e Nepi 300. Totale 2940.
(3) Territorio romano comprese Fidene e Labici, circa 1000 km^. Territori
di Veì e di Capena, circa 1220. Totale 2220. V. la tabella presso Beloch It.
Band p. 69 segg.
15J: CAPO XV - ALLEANZA FRA KOMANI, LATINI ED ERNICI
tino fosse invocato il loro aiuto. Da ciò venne di conseguenza
che l'articolo del trattato il quale stabiliva che il comando degli
eserciti federali sarebbe spettato un anno ai Romani ed un anno
ai Latini, senza essere abolito, cadde in dissuetudine. Si assuefe-
cero i Latini a ricorrere direttamente per aiuto a Roma dalla città
minacciata dal nemico, fosse Tuscolo o Lanuvio; e i Romani ad
invitare le varie città latine a rinforzare coi loro contingenti
l'esercito senza attendere che si convocasse il concilio della lega
o che si nominasse il dittatore federale. E cosi le truppe latine a
poco a poco fecero l'uso a non aver altri comandanti supremi che
i consoli e i dittatori romani.
Ma oltre allo scompaginarsi del territorio della lega per effetto
delle conquiste degli Equi e dei Volsci e alla frequente ui'genza
di soccorsi immediati che Roma sola poteva dare, contribuì a ciò
anche il moltiiDlicarsi delle colonie latine. Ai^icia e Tivoli avevano
vecchie e gloriose tradizioni d'autonomia e mal si adattavano a
cedere ai Romani, la cui potenza appariva ad esse maggiore bensì,
ma meno antica della propria. Di tali tradizioni difettavano invece
le nuove colonie, che costituivano ormai una parte importantissima
della federazione ; e per questo e per esser baluardi della latinità
in paese straniero dovevano intendere a conservarsi un punto di
appoggio dove era il fulcro della potenza latina, a Roma; tanto
più in quanto in buona ]3arte i coloni erano raccolti tra i citta-
dini romani, che non iDotevano dimenticare d'aver servito nelle le-
gioni della patria e che tramandavano nelle loro famiglie, coi
carmi popolari, l'ossequio a Roma. Né giovò alla omogeneità della
lega l'accessione forzata di comuni volsci come Velletri od Anzio,
che se ricolmavano in qualche punto le lacune del territorio fede-
rale, non i^otevano trovarsi in conformità di sentimenti coi Latini
che essi avevano combattuto a morte, e specialmente dovevano
sentir vivo il ricordo della inimicizia con le città più vicine di cui
tante volte avevano invaso con varia fortuna il territorio.
Frattanto la potenza romana cresceva e per l'aumento natu-
rale della popolazione e ])er quello della civiltà e pel confluire in
Roma di Latini a cui i trattati permettevano d'acquistare la cit-
tadinanza e pel continuo esercizio delle armi e pel sempre maggior
vigore con cui adoperavano i Romani le loro forze nella lotta per
l'esistenza e da ultimo per i gravi effetti morali e materiali del
trionfo su Veì. Né alla potenza romana potevan far contrappeso
efficace a favore dei Latini gli Ernici, fin da principio assai meno
potenti e numerosi dei loro alleati e scaduti ora d'importanza e
i^el loro teiTitorio rimasto quasi tal quale, mentre tanto s'era dila-
I
ROMANI E LATINI 155
tato il territorio romano e latino, e perchè pareva cessato il peri-
colo equo e volsco clie aveva reso preziosi i loro aiuti. E cosi s'era
di fatto se non di diritto instaurata novamente e con assai mag-
gior gagliardia quella egemonia che Roma aveva tentato di con-
seguire nel Lazio sul declinare dell'età regia per mezzo della lega
albana; e pareva che dovesse servirle di guarentia al suo primato
l'allentarsi e quasi sciogliersi di fatto dei vincoli che stringevano
tra loro le città della nuova lega politica latina. A grado a grado
pertanto Roma s'era trasformata in un grande Stato di cui si
estendeva il dominio o la egemonia dai monti Ciminì fin oltre il
Circello. E se le conseguenze di questo fatto tardarono a manife-
starsi, si fu perchè per un momento non pur la i^otenza, ma l'esi-
stenza stessa della città fu messa in pericolo dall'inatteso soprav-
venire d'un nuovo nemico.
qV" k ftV* k 0/"° k oV* k flV* !>. e^
CAPO x^a.
Gli Italici in lotta coi Celti e coi Greci.
Allorcliè risalendo il Danubio gl'Italici ancora nell'età eneoli-
tica s'incamminavano verso occidente, li seguivano, tenendosi con
essi a contatto, i Celti (1). Poi i due popoli si se^Dararono. Proba-
bilmente per le Alpi orientali gli Italici discesero nella nostra pe-
nisola, mentre i Celti continuarono risalendo il Danubio a penetrare
nell'Europa centrale. E cessò tra i due popoli fratelli ogni relazione
diretta : poiché sospinta dai Celti, una nazione non aria, che j)rima
di essi nell'età eneolitica, procedendo probabilmente per la stessa
via, s'era diffusa nell'Europa centrale, l'etrusca, scese in parte in
Italia occupando la valle padana e inducendo gl'Italici a prose-
guire verso mezzogiorno la loro migrazione (v. e. IV). La profonda
differenza tra la postura delle nuove sedi dei Celti e degl'Italici,
il mancar di contatti tra essi e soprattutto la vicinanza tra gl'Ita-
lici ed altri popoli più inciviliti e la lontananza invece in cui ri-
masero per lungo tempo i Celti da ogni focolare d'incivilimento,
differenziò d'assai lo sviluj)po dei due popoli. Per modo che gl'Ita-
lici i quali, ora amici, ora nemici, si sentivano però stretti sempre
dal vincolo della stessa civiltà non solo coi G-reci, ma anche con
gli Etruschi e coi Fenici, pm' da essi etnicamente tanto diversi,
(Ij Questa ipotesi è fondata sulle attinenze tra il celtico e l'italico, intorno
a cui V. p. es. Kretschmer Einleitung p. 126 segg.
MIGRAZIONI DEI CELTI 157
provarono invece per gli affini Celti, quando questi scesero in Italia,
solo quel sentimento complesso misto di terrore, d'odio e di disprezzo
che l'uomo incivilito nutre pel barbaro clie gli si rende formidabile.
A fronte di quelle turbe di guerrieri dall'ampia e robusta cor-
poratura, dai folti inconditi mustacchi, dalla lunga chioma scarmi-
gliata di rado protetta con l'elmo, che si precipitavano sull'av-
versario appena vestiti, armati delle loro affilatissime spade, non
cm'anti della vita, con barbariche grida di guerra (1), il panico si
diffondeva tra i soldati italici usi a combattere con nemici che si
coprivano al par di loro di lucenti armi difensive metalliche, che
marciavano e combattevano riuniti in ben disciplinate unità tat-
tiche, che sapevano le stesse evoluzioni militari e usavano gli
stessi stratagemmi.
E piu'e quei barbari non s'erano mostrati al tutto refrattari alla
civiltà, anzi le loro grandi immigrazioni nelle penisole meridionali
dell'Europa son posteriori all'apparire sull'alto Danubio e sull'alto
Reno, nell'odierna Germania fino ai monti della Germania media,
nell'odierna Francia escluso il mezzogiorno del paese, dei segni d'un
nuovo sviluppo civile che sostituisce la civiltà predominante nel-
l'Europa centrale nella prima età del ferro, e conosciuta col nome
di civiltà di Hallstatt, da mia città dell'Alta Austria j)i'esso cui si
rinvenne una ragguardevolissima necrox)oli di quella età (2). E la
nuova civiltà, cui si dà il nome di civiltà della Tene, da una sta-
zione, del resto assai più tarda, situata in Svizzera sul lago di
Xeuchàtel (3), si annunzia danna parte con la ulteriore elaborazione
(1) Areian. anab. I 4, 6 (da Tolemeo di Lago^ cfr. Strab. VII p. 301 seg.).
PoLYB. II 20. DiOD. V 28 segg. (Posidonio). Cfr. S. Reinach Les Gaulois dans
l'art antique in ' Revue archéol. ' ser. IH t. XII (1888) p. 273 segg. XIII (1889)
p. 11 segg. 187 segg. 317 segg. — Sulla storia dei Celti v. in ispecie Contzen
Die Wanderungen der Kelten (Leipzig 1861), Bertrand et Reinach Les Celtes
dans les vallées du Pò et du Danube (Paris 1894), e anche D'Arbois de Jdbaix-
viLLE Les premiers habitants de l'Europe II (Paris 1894) p. 254 segg. Degli
scrittori antichi che discorsero dei Celti tratta lo stesso D'Arbois de Jubain-
viLLE Cours de Uttérature celtique, XII (Paris 1902).
(2) Sacken Grabfeld von Hallstatt (Wien 1864). Hoernes Die Hallstuttperiode
in ' Arch. fur Anthropologie ' N. F. Ili (1905) p. 233 segg.
(3) Gross La Tene, un oppidum Helvète (Paris 1886). — Sull'arte della Tene
V. in particolare l'eccellente studio del Reineke Zur Kenntniss der la Tène-
Denhmdler in ' Festschrift zur lunfzigjahr. Feier des Museum^ zu Mainz ' (Mainz
1902) p. 53 segg. Un utile riassunto è presso Hoernes Vrgeschichte des Menschen
(Wien 1892) p. 636 segg.
158 CAPO XVr - GLI ITALICI IN LOTTA COI CELTI E COI GRECI
di forme preesistenti dell'arte barbarica, dall'altra con Tintrodii-
zione di nuove forme artisticlie. Queste nuove forme son Topera
di artefici che si ispirano a modelli greci, ma sono alieni dal
cercar di riprodm'li e forse inetti a farlo, e iDer tal rispetto si
dimostrano superiori ad un tempo ed inferiori agii artisti bar-
bari delle regioni a settentrione del Ponto Eusino. Tale s\'ilui3po
s'iniziò nella Francia orientale a settentrione di Marsiglia. Atti
come tutti gii altri IndoeuroiDei al progresso, i Celti tanto più vo-
lentieri accolsero gFinflussi della civiltà ellenica die loro perveni-
vano per la valle del Rodano, in quanto Favversione ai Ligmi che
cliiudevano ad essi la via del Mediterraneo li riuniva in comunione
di sentimenti e d'interessi coi Greci di Marsiglia ; onde dagli scrit-
tori greci s'ebbero la rinomanza di barbari filelleni (1). Ma in questo
primo periodo cominciano appena a delinearsi le caratteristiche
della posteriore civiltà esterna dei Celti, la frequenza delle collane,
delle armille, degli anelli e delle fibule di foggie strane, l'abbon-
danza delle spade e la rarità degli elmi, accanto a cui si rinven-
gono anche quei carri da guerra a due ruote che poi a lungo so-
pravvissero i^resso i più arretrati in civiltà tra i Celti, i Britanni (2).
ManelFetà successiva che corrisponde alIVsecolo, mentre scompaiono
in generale i cocchi, si diffonde anche più l'uso della spada corta
e sottile a dojDpio taglio, che poi s'allunga e s'arrotonda in punta,
diviene sempre idìù raro l'uso dell'elmo e più frequente la collana
e l'armilla e usuale la fìbula caratteristica degli strati celtici, che
serviva a fermare sul petto il sago onde i barbari erano vestiti,
la fibula della Tene, con la staffa ripiegata e le molte spu'ali della
sua molla.
La diffusione della civiltà della Tene nel suo primo periodo
corrisponde a un dijDresso alla più antica estensione delle sedi del
popolo celtico, quando esso non aveva abbandonato i territori sulla
sinistra dell'alto Danubio nella selva Ercinia e nella Boemia, e al
tempo stesso scendendo il Reno e valicando i Vosgi s'era inoltrato
in Francia sino all'Oceano. Sono le sedi che assegna ai Celti Ero-
doto (3) quando li colloca intorno alle sorgenti dellTstro e alla città
di Pirene nell'Europa occidentale, ma meno ad ovest dei Cineti
(1) Strab. IV 181. 189. [ScvMN.] 183 segg.
(2) Caes. 6. G. IV 33.
(8J II 33. IV 49. Prima di Erodoto forse i Celti erano stati menzionati da
EcATEo. Prescindendo infatti dai fr. 19 e 22 e da tenere conto del fr. 21 ap.
Steimi. Byz. s. V. Nùpaì • itóXk; KeXriKT'i ■ 'EKaraioq Eùpiinr)-
LA CIVILTÀ DELLA TENE 159
della penisola iberica. Poi un altro gruppo compatto di migratori
indoeui'opei, i Grermani, cominciò a premere sui Celti, tentando di
respingerli oltre il Reno e oltre il Danubio (1) ; onde i Celti si
riversarono nelle isole Britanniclie soggiogandovi i discendenti
degli abitatori primitivi ('2) e al tempo stesso avanzandosi in Grallia
verso occidente e verso mezzogiorno, toccarono il golfo di Biscagiia.
e, respinti o soggiogati i Liguri, il Mediterraneo (3), mentre inva-
devano l'Eberia, ove furono conosciuti col nome di Celtiberi nel-
Taltipiano centrale, e di Celtici sulla costiera meridionale clie essi
raggiunsero tra la Gruadiana e il Guadalquivir, vicino al territorio
dei Tartessì (4). Né qui s'arrestarono le loro migrazioni : che tra
il -450 ed il 400 essi discesero nell'Italia settentrionale, e un mezzo
secolo dopo le loro orde cominciarono a penetrare nella penisola
balcanica (5) ; per modo cbe a buon diritto ad uno storico greco
cbe scriveva circa la metà del sec. IV, il paese dei Celti appariva
come una regione di smisurata grandezza, e i Celti stessi il maggior
popolo d'Occidente (6).
Un ricco mercante di Chiusi per nome Arante, volendo vendi-
carsi del superbo Lucumone che gli aveva sedotto la moglie, e non
potendo ottenere giustizia in patria, si recò al di là delle Alpi
presso i Galli — è questo il nome con cui gli scrittori romani so-
(1) Questa sembra la migliore spiegazione delle migrazioni celtiche, per
quanto i Germani non compaiano nella storia che assai piìi tardi.
(2) Il dominio dei Celti nella Britannia è anteriore probabilmente alla se-
conda metà del sec. IV, sebbene per noi il più antico indizio della loro pre-
senza colà sia nei nomi di Albione e di Britannia che dà all'isola il navigatore
Pitea; efr. [Akistot.] de mundo 393 &. Il nome di Albione Ì3 noto anche all'antico
periplo delle coste atlantiche usato da Avieno {ora marit. 108); ma questo è
posteriore a Pitea, come sembra aver provato Marx ' Rh. Museum ' L (1895)
]). 321 segg. contro Muellenhoff Deutsche Alterthumskundc I 73 segg.
(3 Sui Liguri nella Provenza v. I p. 62 n. 1. Sebbene il ps. Scilace non
menzioni ancora i Celti sul Tirreno, è verisimile che già al suo tempo aves-
sero cominciato a prendervi stanza.
(4) Che i Celti già dimorassero nell'Iberia al tempo di Erodoto è probabile;
ma non bastano a dimostrarlo i testi citati sopra a p. 158 n. 3. La più an-
tica testimonianza sicura è quella di Eforo. Sulla distinzione dei Celtiberi e
Celtici V. CoNTZEN p. 21 segg.
(h) Sull'antichità delle invasioni celtiche nell'IUiria v. Contzen p. 63. Zippei.
Die rómische Herrschaft in Ilhjrien (Leipzig 1877) p. 31 segg.
(6) Ephor. fr. 38. 43 (ap. Strab. IV p. 199).
IGO CAPO XVI - t!LT ITALICI IN LOTTA COI CELTI E COI GRECI
ii^liono chiamare i popoli celtici (1) — con una provvista di vino,
(i olio e di fichi, a fine d'invogliarli a scendere in Italia mostrando
loro i prodotti ad essi ignoti del nostro paese (2). Questo aneddoto
con cui la tradizione spiega la invasione gallica del 390 cii'ca nel-
l'Italia centrale, presuppone che i Celti non avessero fino allora
valicate le Alpi. E noto come abbiamo invece in Livio una enu-
merazione prammatica delle loro i3recedenti invasioni nell'Italia
settentrionale dai tempi di Tarquinio Prisco (3). Ora non è facile
che i Galli, senza aver posto piede stabilmente in Italia, venissero
difìlati a Chiusi e di li senz'altro a Roma ; ma quell'aneddoto ci
rappresenta un frammento dell'antica poesia popolare, mentre in-
vece i racconti prammatici sulle successive invasioni galliche non
sono che un tardo e più o meno fantastico tentativo di ricostru-
zione storica. Ed è del pari una semplice induzione non sce\a'a
d'inverisimiglianza che l'invasione gallica impedisse agli Etruschi
di soccorrere efficacemente i Veienti nella loro lotta contro Roma
(sopra p. 145); né sembra altro che un artificioso sincronismo
privo di valore storico, dovuto probabilmente alla fantasia degli
annalisti romani, quello della caduta di Melpo nella Etruria pa-
dana per opera dei Celti con la caduta di Veì per opera di Ca-
millo (4). A priori non abbiamo motivo per ascrivere l'occupazione
della valle padana ad una lenta espansione celtica più che ad una
(1) Caes. h. (r. I 1 : ipsorum lingua Celtae nostra Galli appellantii)'. Galli, come
il greco faXarai (di cui non abbiamo esempio innanzi all'età di Pirro), non
pare che una diversa riduzione dello stesso termine celtico onde ebbe origine
la denominazione di Celtae, KeXxoi, dovuta ad una diversa pronunzia dialet-
tale. Cfr. NissEN Landeskunde I p. 476. Zetiss Die Deutsclien und die Nachbar-
stamme (MiJnchen 1837) p. 65. Vari tentativi etimologici sui vocaboli Galli o
Galati vedansi presso Holder Altceltischer Sprachschatz 1 1522. 1638. Ma è
assai poco credibile che due nomi così simili con cui due nazioni diverse hanno
preso a designare, certo indipendentemente l'una dall'altra, lo stesso popolo
derivino da radici affatto distinte.
(2) Liv. V- 83. Plut. Cam. 15. Dionys. XIII 10-11. Cfr. Caio fr. 36 ap.
Gell. n. A. XVII 13, 4. Anche Poltu. II 17, 3 sembra alludere a questa che
il MoMMSEN Rotn. Forschungen lì 302 ritiene a torto ' cine der Ausgeburten der
jiingsten Annalistik '.
(3) Liv. V 34-35, cfr. Iustin. XX 5. XXIV 4. Sul valore di questo racconto
v. Mdei-lenhoff Deutsche Alterthumskunde lì (1887) p. 250 segg. Niese Zur Ge-
schichte der keltischen Wanderunjen iii ' Zeitschrift f. deutsches Alterthum '
XLII (1898) p. 129 segg. E. Metek Geschichte des Alterthums V p. 151 segg.
(4) CoHN. Nei-, fr. 7 ap. Plin. n. h. IH 125.
I CELTI IxN ITALIA 161
^'igo^osa e subitanea spedizione di conquista. Ma non è inverisimile
die lo spostarsi verso mezzodì dei popoli s abellici e il loro avan-
zarsi verso l'Enotria e la Campania circa la metà del sec. V si
colleglli con la pressione che venissero esercitando dal settentrione
sugli Etrusclii e sugli Italici i Galli. Né d'altra parte convien ri-
ferire l'inizio di quella espansione ad età molto anteriore alla metà
del sec. V, perchè non par dubbio che la civiltà etrusca continuasse
a fiorire nell'Emilia per tutto o quasi quel secolo.
Cadde in ogni modo in potere dei Celti la maggior parte della
regione tra il Po e le Alpi (1). A occidente si stabilirono i Salassi
nella vai d'Aosta, i Leponzì attorno al Sempione e al lago Mag-
giore (2), i Libici presso Vercelli (3) ; e probabilmente Celti erano
pm"e i Taurini sull'alto Po presso il confluente con la Dora Ri-
paria (4), i Vertamacori attorno a Novara (5), i Levi (I p. 62)
attorno a Ticino (Pavia). Seguiva ad oriente il popolo principale
della Gallia Cisalpina, gl'Insubri, il cui centro era a Mediolanio,
allora certo non altro che una p)iccola borgata, e più ad oriente
ancora, nei territori di Brescia e di Verona, i Cenomani. Oltre Ve-
rona i Celti per allora non si spinsero. I Veneti rimasero signori
dei territori di Vicenza e di Ateste (Este) ; e se più tardi troviamo
in potere dei Celti la regione delle Alx3Ì Carniche, ciò si deve ad
invasioni assai iDosteriori. Non dappertutto inoltre nelle regioni
conquistate disparvero le traccie degli antichi abitatori. Cosi la
lingua e le istituzioni etrusche si conservarono a Mantova (I p. 436) ;
e tribù retiche ed euganee sopravissero a lungo nel territorio di
(1; NissEN Landesìcunde I 477 segg. V. anche U. Pedrou Roma e la Gallia
Cisalpina (Torino 1893).
(2) Cato fr. 37 ap. Plin. >i. li. Ili 134: Lepontios et Salassos Tauriscae gentis
idem Cato arbitrata)'.
(3) Plin. n. h. Ili 124: Vercellae Libicioriim ex Salluis ortae. I Libici son
Celti, secondo Polyb. II 17, 4. Liv. V 85, 2. Al contrario i Salluvì son detti
talora Liguri, Plin. Ili 47. Ciò vuol dire che si mescolarono coi Liguri che
avevano trovato nelle loro sedi dell'età storica.
(4) V. I p. 62 n. 3. Una testimonianza della loro nazionalità celtica può
vedersi anche nel passo di Catone citato sopra alla n. 2, perchè Catone non
allude certo ai Taurisci del Nerico. I suoi Taurisci non sono che i Taurini. La
nazionalità celtica dei Taurini è confermata del resto e dalla toponomastica
e dal dialetto.
(5) Plin. n. h. Ili 124: Novaria ex Vertamacoris, Vocontiorum hodieque jMffo,
non ut Cato existimat Ligiirum. I Voconzì peraltro son riguardati come Liguri
nei fasti trionfali ad a. 123 e 122; ma la cosa è da spiegare come pei Salluvì.
G. De Sanctis, Storia dei Romani, U. 11
162 CAPO XVI - GLI ITALICI IN LOTTA COI CELTI E COI CtEECI
Verona (I p. 65). A sud del Po i Celti occuparono TEmilia senza
però cancellarvi ogni traccia del dominio etrusco ed umbro ; né
mancarono città che conservassero la loro indipendenza dai Celti,
tra cui l'italica Ravenna (I p. 102). Qui tre tribù galliche si suc-
cedevano lungo la sponda destra del Po da occidente ad oriente,
gii Anamari nei pressi di Clastidio (Casteggio) (1), i Boi ed i Lin-
goni. Come fra i Traspadani gl'Insubri, cosi fra i Galli Cispadani
primeggiavano i Boi, che, insignoritisi della principale città etrusca
della regione, Felsina (I -p. 436), le lasciarono il nome di Bononia.
E finalmente più a sud, sulla sponda adriatica dall' Uti all'Esino,
si stabilirono ultimi i Senoni. In questa vasta regione non mancano
documenti epigrafici ed archeologici del dominio celtico ; più a mez-
zogiorno i trovamenti archeologici, in specie quelli di Montefortino
presso Arcevia nel paese dei Senoni (2), ci dimostrano che i Q-alli
risentirono assai presto gl'influssi della civiltà etrusca ; a setten-
trione invece i G-alli ne rimasero anche più tardi assai meno tocchi,
di che fan prova i sepolcreti di Ornavasso, in provincia di Novara ,
nel territorio dei Leponzì (3). Ma documento anche più ragguarde-
vole del dominio celtico son gii odierni dialetti gallo-italici, pie-
montese, lombardo ed emiliano, il cui territorio corrispoiide a^^pros-
simativamente a quello occupato dai G-alli, fuori di qualche distretto
perduto ad oriente, in cui s'è diffuso il veneto, e di qualche altro
guadagnato sul dialetto ligure a mezzogiorno del Po.
Onde provenissero quei Galli che occuparono l'Italia superiore
può desumersi dalla posizione dei passi alpini che rimasero in loro
potere (4). Tra questi, poiché il Cenisio ed il Sempione non pare
venissero praticati se non dai temici dell'impero, non possono es-
sere stati usati dai Galli che il passo del Monginevra, pel quale si
scende nella valle di Susa e nel territorio dei Taurini, e il piccolo
San Bernardo (alx)e Graia), x^er cui si scende tra i Salassi della
(1) PoLYB. II 32 ('Avaiaàvuuv). Lo stesso nome deve riconoscersi in II 34, 5
("Avòpuuv) e II 17, 7 {'Avavec,).
(2) Brizio Sepolcreto gallico di Montefo7-tino 'presso Arcevia in ' Mon. Ant. '
IX (1901) p. 687 segg.
(3) BiANcuETTi 1 sepolcreti di Ornavasso in ' Atti della Società di archeol.
e b. arti di Torino ' voi. VI (1895). E. Ferrerò ' Atti dell'Acc. della scienze
di Torino ' XXXII (1896-7) p. 78 segg. — Sull'uno e sull'altro trovamento
V. le importantissime osservazioni del Déchelette Montefortino et Ornavasso
' R, Archéol. ' ser. III voi. XL (1902) p. 245 segg.
(4) Di ciò giudica rettamente E. Meyer V 150. 152 contro Niese 1. e.
PROVENIENZA DEI CELTI d' ITALIA 163
vai d'Aosta (1). Difficilmente può ammettersi che scendessero i
Celti per le Alpi Retiche, le quali rimasero fino in piena luce di
storia in possesso d'un popolo di differente nazionalità, o per le
Alpi Carniclie e Griulie, sia perchè tra queste e la Gallia Cisalp)ina
si stendeva il territorio dei Veneti, sia perchè quei iDassi alpini non
sembra fossero occupati dai Celti prima del 200 circa av. C. E la
provenienza dei Celti d'Italia dai valichi occidentali delle Alpi,
sembra confermata dal fatto che nella regione centrale della Gallia
Transalpina si riscontrano non jpochi dei nomi di tribù portati dai
Galli Cisalx)ini : cosi quelli dei Cenomani, dei Lingoni e dei Senoni.
La vicinanza di queste tre tribù nelle due Gallie mostra all'evi-
denza che non può trattarsi d'una casuale omonimia come non son
rare tra popoli parlanti la stessa lingua, ma che quelle tribù della
Cisalpina son x^ropagini delle corrispondenti tribù della Transalpina.
Accanto ai Senoni ed ai Lingoni dimora-vano gli Edui, da cui si
diceva che derivassero gl'Insubri (2). Non lungi dal passo del Mon-
ginevra stanziavano nella Gallia meridionale i Voconzi onde pure
provenivano i Vertamacori del Novarese (sopra p. 161 n. 5); e se
più a mezzogiorno nella Provenza risiedevano i Salluvì, onde si
stimava i3rovenissero i Libici (ibid. n. 3), assai probabilmente non
è quella la sede i3rimitiva dei Salluvì, perchè la Provenza era in
origine abitata da tribù ligmi e solo più tardi vi si stanziarono i
Celti. Solo indizio d'altra provenienza potrebbe cercarsi pei Boi
nella loro omonimia con quella tribù celtica che lasciò il nome alla
Boemia e che dimorò poi nel Norico (3) ; giacché la leggenda che
di questi Galli danubiani fa i discendenti dei Boi sopraffatti in
Italia dai Romani ed esuli dalle loro sedi è certo indegna di fede (4).
Ma può osservarsi che questa omonimia è isolata, e però ben lon-
tana dall'avere la forza dimostrativa delle altre già citate. E del
resto Boi si trovavano pm-e in Gallia ; ed è vero che in parte vi
eran giunti in età storica dalle regioni danubiane (5), ma in parte,
(1) Queste due strade (òià Taupivujv e b\à ZaXaaowv), quella delle Alpi Ma-
rittime (bla AiYÙujv) e verisimilmente il passo del Brennero (fcià Pairiùv) sono
i quattro soli valichi alpini che conosca Poliiìio presso Strab. V p. 209 (per
penetrare nella Liguria o nella Gallia Cisalpina). Oltre a questi era nota da
tempo remoto la via del Gran S. Bernardo (Alpe Pennina), ma essa era ancora
al tempo di Stkab. IV 208 ripida, stretta e impraticabile ai carri.
(2) Liv. V 34, 9.
(3) PosiDON. ap. Strab. VII 293. Caes. b. G. I 5. Tac. Gcrm. 28.
(4) Strab. V 213. 216.
(5) Caes. b. G. I 5. 28.
164 CAPO XVI - GLI ITALICI IN LOTTA COI CELTI E COI GRECI
nelle vicinanze di Bordeaux (1), si eran forse stanziati colà anterior-
mente alle grandi migrazioni dei Celti verso mezzogiorno. Perciò
la maggiore verisimiglianza è clie romonimia sia puramente ca-
suale ; e la diffusione del nome potrebbe provenire dal suo signi-
ficato che allude forse al valore guerresco ; talcliè non è difficile
che lo stesso vocabolo entri come componente nell'etnico Tolistoboi
o Tolistobogi, con cui si designa una delle tribù celtiche stabilitesi
più tardi nell'Asia Minore (2). Non volendo accogliere questa ijjo-
tesi, può senza grave difficoltà supporsi non già con la fonte di
Livio che 1 Celti della Gallia si siano inoltrati con due spedizioni
contemporanee e x)arallele nella Selva Ercinia sotto Sigoveso, nel-
l'Italia sotto Belloveso ; ma che i Celti danubiani rappresentino il
retroguardo della migrazione celtica rimasto nelle sedi più antiche
di tutto il popolo, mentre con gli altri Celti, anche qualche tribù
ad essi più specialmente affine si spostava verso occidente per poi
aver parte alla grande immigrazione in Italia. '
Ad ogni modo, forse in un mezzo secolo, un quarto della peni-
sola italiana era caduto sotto il dominio dei Gralli. ISTè pareva che
s' arrestasse il loro impeto aggressivo. Peraltro sembra che l'orda
di Gralli che passò l'Apennino intorno al 390, anzi che di x^render
sedi stabili nell'Etrmia o nel Lazio, si proponesse di muover contro
Roma, adescata dalla fama della ricchezza e della p)otenza di quella
città (3). Non pare che per via i Gralli s'impadronissero d'alcuna
delle città importanti della valle del Tevere, dacché ce ne sarebbe
probabilmente conservata memoria ; ma non vi è ragione di met-
tere in dubbio che, forse nella speranza di ricco e facile bottino,
(1) Itili. Anton. 456. Paulin. carni. X 239 segg.
(2) Cfr. HoLDEK Altceltischer Sprachschatz I p. 463.
(3) Della invasione gallica del 390, oltre a notizie sparse in vari scrittori
e nei frammenti di Dionisio, di Appiano Celi, e di Cassio Dione, abbiamo un
racconto particolareggiato in Diod. XIV 113-117, Liv. V 38-55 e Pi.ut. Camiìl
Dei tre racconti per valore letterario è superiore il liviano, che non sempre è
inferiore a quel di Diodoro per valore storico. Conciso, ma importantissimo e
il cenno di Polyb. II 18 segg. sulle relazioni tra Galli e Romani. Di moderni
sono da citare Mommsen Die galUsche Katastrophe nelle Rom. Forschungen li
297 ^Qgg. Thouret mem. cit. 1 p. 5 n. 2. Biikger Sechzig Jahre aus der Ultcren
Geschichtc Roms. I. Abschn. Hirschkeld Zur Camilluslegende nella ' Festscbrift
fur Friedlànder ' (Leipzig 1895) p. 125 segg. — Per ciò che si riferisce alla
cronologia, è da ritenere che l'anno consolare che corrisponderebbe al 390
av. Cr. secondo i fasti, corrisponda in realtà al 387 o al 386 (v. I p. 13 n. 2).
I GALLI CONTRO ROMA 165
forse indotti da qualche traditore, si siano trattenuti per un certo
tempo ad assediar Chiusi.
A Cliiusi, secondo si narra, richiesti di soccorso dai Chiusini o
per informarsi dei nuovi invasori, i Romani inviarono un amba-
sceria. Ma i legati, non limitandosi ad un intervento pacifico, presero
parte attiva alla difesa della città e, in una sortita degli assedianti,
uno di essi uccise e spogliò un guerriero barbaro. Allora i Gralli
spedirono alla loro volta ambasciatori a Roma a chieder soddisfa-
zione ; negata la quale, lasciarono l'assedio di Chiusi e mossero
contro Roma (1). Questa storiella è evidentemente inventata allo
scopo di motivare la venuta dei Galli a Roma e di spiegare per
mezzo dell'ira degli dèi, sdegnati per la violazione del diritto delle
genti, la sconfitta dei Romani, che sarebbero stati altrimenti invin-
cibili. Ma i Galli per assalire Roma non avevano d'uopo di cercare
un pretesto nelle consuetudini internazionali dei popoli più civili :
e, quanto ai Romani, il loro orizzonte politico non s'estendeva al-
lora oltre i monti Cimini, come prova l'impressione che fece poi
il passaggio di quei monti nel 310 per opera di Q. Fabio RuUiano ;
è quindi difficile assai che si curassero delle relazioni tra Chiusini
e Galli, e anche più che gii Etruschi, invece di aiutarsi tra loro, si
rivolgessero alla lontana Roma con cui erano stati sempre in re-
lazioni ostili. Allora del resto relazioni di diritto internazionale
tra i Romani e i popoli della Etruria settentrionale non sussiste-
vano, se non si vuol tener conto di quelle stabilite dal mitico re di
(1) La leggenda è riferita con molte varianti. Livio parla di tre ambascia-
tori mandati dopo la richiesta d'aiuti, Diodoro di due inviati semplicemente per
esplorazione; e pare che quest'ultimo numero corrisponda all'uso più antico
(MoMMSEN Staatsrecht li ^ p. 685). Per Livio son tre Fabì; Diodoro non fa nomi,
ma accenna solo che il colpevole è figlio di uno dei tribuni militari. Or nel
391 non fu tribuno alcun Fabio. Può egli alludere però ai tribuni del 390,
per quanto le altre fonti narrino il fatto al 391 e asseriscano che i legati
furono poi creati tribuni pel 390. Porse la tradizione originaria parlava di un
Fabio, figlio di uno dei tribuni del 390. Esagerando, si immaginò che il reo
fosse stato fatto tribuno nel 390; e come allora ebbero tal carica tre Fabì,
così si parlò di tre Fabì ambasciatori. Essendo il fatto inventato, si può ri-
cercare perchè si sia attribuito ad uno o a piìi Fabì piuttosto che ad altri. La
ragione sta foi'se in ciò che si voleva spiegare l'ambasceria col tribunato del
padre ; e forse anche contribuì al sorgere della leggenda il ricordo della clades
dei Fabì al Cremerà, che una tradizione errata, ma ammessa generalmente,
collocava lo stesso giorno della battaglia dell'AUia (sopra p. 135 n. 1).
166 CAPO XVI - GLI ITALICI IX LOTTA COI CELTI E COI GRECI
Chiusi, Porsenna, di cui a questo punto la tradizione si dimentica
del tutto.
n duce dei Galli clie assalirono Roma è cliiamato dalla tradi-
zione Brenne, con lo stesso nome di quel condottiero clie un secolo
dopo guidò i Celti contro Delfi. Si è i^erò ritenuto che Brenne
in celtico voglia dire semplicemente duce, ovvero che il nome di
Brenne (1) sia attribuito al vincitore dei Romani ad imitazione del
Brenne che superò le Termopile. Ma entrambe le ipotesi son prive
di fondamento. Le leggende sulla presa di Roma sono nel tutt'in-
. sieme antiche, ed è naturale che ricordassero il nome del duce
nemico ; mentre sembra impossibile che, sia nella loro forma origi-
naria, sia nella elaborazione che ebbero dagli annalisti, ricalcassero
in questo punto, e in questo soltanto, la storia dell'invasione celtica
in Grecia. Quanto al numero dei barbari, la fonte nostra migliore
asserisce che erano trentamila, ma che al momento di muovere
contro Roma portarono il loro esercito a settantamila uomini (2).
Poiché secondo un'altra notizia resercito romano di quarantamila
soldati non era numericamente scarso, ossia, come pare debba in-
tendersi, non era inferiore al gallico, par chiaro che in quella fonte
son combinate due tradizioni, secondo l'una delle quali i Galli erano
forti di trentamila, secondo l'altra di settantamila uomini. Dei due
numeri il primo ha tutto il carattere della verisimiglianza, e deve
reputarsi quindi derivante da qualche scrittore greco contemporaneo
ai fatti e in grado d'esserne abbastanza esattamente informato,
quale era ad esempio Filisto (3).
Contro gl'invasori è da credere che i Romani abbiano messo in
(1) Pel nome Brenno, che ricorre p. es. in CIL. XIII 677, cfr. Holder Altccl-
tischer Sprachschatz I p. 524. Diodoro non dà il nome del duce gallico.
(2) DioD. XIV 113, 3. 114, 1. Cfr. Plut. Cam. 18.
(3) Sembra impossibile che Filisto non abbia discorso dell'incendio gal-
lico. Certo da lui pare derivata la notizia di Iustin. XX 5, 4 sull'alleanza tra
Dionisio e i Galli che avevano preso Roma. Non vuol dir molto che Plutarco
non sappia citare altre antiche testimonianze greche che quella d'Aristotele
(v. oltre) e di Eraclide Pontico ibc; arparòc; èE 'TirepPopéiuv èXeùjv ?£uj6ev i|)pnKOi
TtóXiv 'EXXrjviba 'Pib|uriv èKel ttou KaTUJKri|uévr)v irepì Tt'iv jueydXriv QaKaaaav
{Camill. 22). Sappiamo infatti con piena sicurezza che anche'Teopompo (Plin.
n. h. ITI 57> ricordava nrbem a Gnllis captain. E un frammento di Teopompo
intorno all'invasione gallica del 390 è forse il brano citato senza nome d'au-
tore da SuiDA s. V. Karéanepxe su cui ha richiamato V attenzione il Pais I 2
p. 89 n. 1 : Xoyiaiuòc; òè aÙTÒv èKeTvoc; KaTéOTrepxev (iv9piJbnou<; ÓKoXaaTOUt; cpùaiv
Toùc; Tuppiivoùi; ttoX€|liìujv éqpobov luri^ciM'ì f-in^«M"J«; ùqpopiu|aévou(; ùPpiileiv xai ^a-
CTUJveùeiv.
LA ROTTA DELl'aLLIA 167
campo tutte le milizie die avevano in piede di guerra quelFanno,
()ssia, daccliè nel 390 i tribuni militari erano sei (cf. e. XVII), due
legioni, la forza massima dell'esercito romano iino alle guerre san-
nitiche (1). Erano dunque, giusta i quadri, sei corpi, ciascuno di
mille uomini di grave armatura, cioè, computando la fanteria leg-
gera e la cavalleria, un novemila uomini. Data la gravità del caso
e la vicinanza del campo di battaglia alla città, si può ritenere che
la forza effettiva della milizia quell'anno non pui' non fosse infe-
riore alle cifre segnate nei quadri, ma fors'anche le superasse fino
a raggiungere i diecimila uomini. Quanto agli ausiliari, la tradi-
zione rex3uta che Roma a fronte dei Gralli fosse abbandonata alle
l)roprie forze (2); ma se, come non può escludersi, erano coi Ro-
mani anche gli alleati, l'esercito opposto all'invasore avrà numerato
forse un quindicimila uomini, di cui nove o diecimila di fanteria
l)esante ; non xjìù, perchè sarebbe grave errore supporre che i Latini
<• gli Ernici potessero fornire alle milizie romane quei contingenti
che esse ricevevano dagli alleati italici al tempo della guerra an-
nibalica. Per quanto a noi, assuefatti alle grandi battaglie moderne,
dieci o quindicimila combattenti i30ssano sembrar poca cosa, era
quello probabilmente il maggiore esercito romano che si fosse mai
tino allora apprestato ad una battaglia campale (3).
All'avanzarsi dei Galli (cosi narra Livio) (4) i Romani presi
alla si3rovvista, non avendo tempo di far lunghi apparecchi, dovet-
tero tumultuariamente usch"e a battaglia. All'midecimo miglio da
Roma, sulla sinistra del Tevere presso l'Allia (5), s'imbatterono nel
(1) Secondo Diod. XIV 114 i Romani fecero una leva in massa e armarono
24.000 uomini validi e un numero non specificato di àoSevéoTaTOi. Secondo
Plut. 1. e. erano in tutto 40.000 uomini. Dionys. XIII 12, 2 parla di quattro
legioni di truppe esercitate e di un numero maggiore di truppe meno valide,
in sostanza tutti prendono le mosse dagli effettivi normali delle truppe che
-i mettevano in campo annualmente in età posteriore, ossia due eserciti con-
solari foi'ti di due legioni per ciascuno con altrettanti o più ausiliari, che
4ui son sostituiti dagli àoGevéaraToi, cioè un quarantamila uomini in tutto.
(2) Cfr. però Polyb. II 18, 2.
(3) Chi trovasse troppo bassi questi computi si riduca alla memoria che
allora la maggiore città greca dell'Occidente non disponeva di più che 6 o 7
mila opliti cittadini e che contro non molto più di 25 mila uomini ebbe a
combattere poco prima Dionisio nella battaglia dell'EUeporo che decise delle
sorti dell'Italia greca (v. sotto p. 190).
(4) V 37-38.
(5) È da scriversi Allia anziché Alia, come mostrano i calendari e CIL. XI
1421, cfr. HuELSEN in Paui,y-Wi3Sowa ' R. E. ' I 2, 1385.
168 CAPO XVI - GLI ITALICI IN LOTTA COI CELTI E COI GRECI
nemico. Colà i tribuni, che nell'imminenza del pericolo avevano
perduto il senno, non si accamparono regolarmente né presero gli
auspici, ma si tennero paghi a schierare le trupx^e sopra una lunga
linea di battaglia per non essere aggii-ati dal nemico. Api30ggiando
la sinistra al fiume, i Romani a difesa dell'altra ala collocarono
le riserve su certe alture che dominavano la destra. I G-alli, la cui
linea di battaglia era anche più estesa della romana, aprirono il
combattimento con un assalto alle riserve. Battute queste dopo
una breve resistenza, il grosso dell'esercito romano che si vide in
pericolo d'essere aggirato prese la fuga senza neppur venire alle
mani. La sinistra fuggì verso il Tevere, dove alcuni annegarono,
mentre altri, varcato il fiume a nuoto e toccata l'altra sponda, si
salvarono a Veì. I fuggiaschi della destra invece presero la via
di Roma ; ma il loro panico era tale che si rifugiarono nella rocca
senza neppur pensare a chiudere le ijorte della città. Non molto
diverso da questo è il racconto che fa dello stesso scontro un altro
storico, sol che per lui la battaglia ha luogo sulla destra del fiume,
e quindi giungono a Roma quelli tra i fuggiaschi che lo hanno pas-
sato a nuoto (1). S'è discusso se il campo di battaglia vada cercato
(1) Secondo Diod. 1. e. i Romani passato il Tevere si avanzano fino ad 80
stadi (10 miglia) da Roma. La linea di battaglia si stende dal fiume ai colli;
verso i colli, ove sono schierati i meno validi tra i Romani, i Celti muovono
all'assalto con le loro truppe scelte, che hanno facilmente ragione degli av-
versari: dopo di che piega la falange romana della pianura. La maggior
parte dei Romani si salva a Veì, solo pochi nuotando pervengono a Roma.
Al racconto di Diodoro si attengono Mommsen Boni. Forscliungen II 360 segg.
HuKLSEN e LiNDNER Die AUiaschlacht {Rom. 1890). Beloch ' BuUett. dell' Inst. '
1877 p. 55, il quale in omaggio a Diodoro è giunto persino a trasportare
l'AUia sulla destra del Tevere, ed E. Meyer Geschichte des Alterthums V p. 155,
e Die Alliaschìacht in ' Apophoreton uberr. v. der Graeca Haliensis der XLVII
Phil.-Versammlung ' (Berlin 1903) p. 136 segg. Con ragione 0. Richter ' Berlin,
phil. Wochenschrift ' 1892 p. 149 segg. Beitriìge zur romischen Topographie 1.
Il (Berlin 1903) p. 5 segg. e Pais I 2 p. 80 seg. preferiscono, dal lato topo-
grafico, il racconto di Livio. È interessante vedere che in questo caso la tra-
dizione più antica e fededcgna ci è conservata da Livio (I p. 45). Sulla destra
si è trasportata la battaglia o per avere frainteso l'antico racconto del , com-
battimento, 0 per aver supposto che i Galli venendo dall'Etruria dovessero
manovrare sulla destra del Tevere, o per meglio spiegare la fuga a Voi.
E. Meyer insiste sul punto che la tradizione è unica e che quindi una delle
due versioni rappresenta una tarda correzione dell'altra. Ma appunto se la
tradizione collocava la battaglia sulla destra, a nessuno poteva venire in mente
di trasportarla alla sinistra.
LA ROTTA DELL'aLLIA 169
in realtà siili' una o suiraltra sponda del Tevere. Ora FAUia, che
sorgeva, come ci vien detto, nei monti Grustumini e presso cui,
secondo mia notizia sia pm^e di scarso valore storico, avvenne
nel 380 un combattimento tra Romani e Preiiestini, è senza dubbio
uno dei ruscelli die affluiscono sulla sinistra del Tevere a una
decina di miglia da Roma, probabilmente il Fosso della Bettina
che prende verso il confluente il nome di Fosso Maestro. Ma il
disastro alliense, di cui la tradizione romana conservò sì viva la
memoria, se fosse avvenuto sulla destra del Tevere, non avrebbe
potuto prender nome da un insignificante fiumicello della sinistra.
D'altra iDarte è in sé verisimile che i Galli varcassero il fiume
alquanto a monte di Roma per non doverlo traversare ove il suo
letto è i3Ìù esteso e ove il passaggio poteva essere pericoloso in
X)resenza del nemico ; come pure è da ritenere che i Romani, se il
disastro fosse avvenuto sulla dritta, non avrebbero mancato di ta-
gliare il doppio ponte che all'altezza dell'isola di S. Bartolomeo
allacciava le due sponde e il ponte Sublicio, profittando dei giorni
o delle settimane cosi guadagnate per mettere la città in istato
di difesa prima che il nemico avesse potuto tragittare il fiume.
E però sulla sinistra del Tevere deve ritenersi avvenuto il fatto
d'arme dell' Allia; e il campo di battaglia può anche designarsi
con maggior precisione, perchè non è a credere che i Romani
abbiano collocato le truppe oltre quel fiumicello invece di' XDrofit-
tarne per proteggere la loro fronte, come usavano fare gli antichi
nelle loro posizioni di battaglia. Ora a sud del Fosso Maestro i
Romani potevano, apx3unto conforme al racconto liviano, appog-
giare la sinistra al Tevere, la destra alle altui^e della Marcigliana
ed occupar queste con un distaccamento di fanteria leggera. Poco
a mezzogiorno del confluente dell' Allia la valle del Tevere si
restringe sulla sinistra del fiume formando come una angusta
gola tra il Tevere e le alture della Marcigliana. Appunto innanzi
a questa gola, sbarrandola al nemico, stavano schierati i Romani
in una pianni^a che ha una larghezza di circa un chilometro e
che quindi permetteva di disiDorre sopra sei file una falange di
seimila uomini di armatura pesante e anche soi3ra nove file una
di nove o diecimila uomini (1). Lo scopo di quest'ordine di bat-
(1) 11 legionario romano in ordine di battaglia dista dal vicino tre piedi
(di 0,296 mm.), Polyb. XVllI 30, 6. Veget. Ili 14. A questo tempo i Romani
si schieravano per falange, non per manipoli, quindi non abbiamo da calco-
lare come per le posteriori battaglie romane gl'intervalli tra i manipoli che
pare fossero normalmente di 60 piedi. La ragione per cui militari provetti
170 CAPO XVI - OLI ITALICI IN LOTTA COI CELTI E COI GRECI
taglia che tanto assottigliava le linee romane era d'impedire Tag-
giramento cui s' era esposti combattendo contro le scliiere dei
barbari clie, forti d'un trentamila uomini, avevano una rilevante
superiorità numerica sui dieci o quindicimila dei Romani. Ninna
fede pertanto merita ciò clie vien detto d'impreparazione, di sba-
lordimento e di leva tumultuaria. Agli scrittori del II secolo po-
teva sembrare strano che i Romani avessero lasciato avanzar tanto
il nemico; ma nel 390 il confine latino sulla sinistra del Tevere
era solo ad Ereto al diciottesimo miglio della via Salaria (v. sopra
p. 124). I Romani, abbandonando alle devastazioni dei barbari un
breve tratto di paese, presero dietro l'Allia all'undecimo miglio
un'ottima jjosizione difensiva per coprire la città, riparando quanto
era possibile con la felice scelta del luogo alla inferiorità del nu-
mero. La notizia dell'assalto dato dai Gralli alle alture può essere
stata conservata dalla poesia popolare ed è in sé verisimile, talché
è dato usarne a ricostruire l'andamento della battaglia. I Gralli
adunque, passato di corsa il fìumicello, debbono aver attaccato
impetuosamente, armati delle loro spade affilate, la falange romana.
Mentre le loro colonne profonde tentavano di sfondare la linea
sottile dei legionari, un corpo di Galli sulla sinistra si scagliava
all'assalto dei colli della Marcigliana. Senza lasciarsi arrestare dai
tiri di fionda e di giavellotto della fanteria leggera, i Galli, saliti
per le altui-e con l'agilità dei barbari e con la noncui'anza che i
barbari hanno della vita e giunti a contatto col distaccamento
romano, ne ebbero facilmente ragione per la superiorità del numero
e delle armi. La fuga cui si diede dopo breve resistenza la fanteria
leggera e l'apparire dei Galli sulle alture dominanti il campo di
battaglia tolse animo alla destra romana che presto cominciò a
piegare e a fuggire. Quando già, travolta una delle ale, i fuggiaschi
ostruivano la gola fra il Tevere e i colli della Marcigliana, la si-
nistra romana, assalita dai Galli di fronte e di fianco, fu respinta
sul Tevere e la battaglia si mutò in carneficina. E mentre i super-
stiti della destra per la gola della Marcigliana si difilavano a
Roma, i superstiti della sinistra, varcato a nuoto il Tevere, cerca-
vano salvezza verso Vai.
come il Lindner hanno errato nella determinazione del campo di battaglia è
che si suol partire da due falsi supposti, l'uno che l'esercito romano nume-
rasse in realtà 40 mila uomini, l'altro che la lunghezza delle linee romane
vada calcolata sui dati che abbiamo per l'età in cui era in vigore la tattica
manipolare.
CADUTA DI KOMA 171
I Romani avevano dunque ijerduto la maggiore battaglia che
avessero combattuto fino allora. La rotta del loro esercito di prima
linea era un disastro gravissimo e non guari riparabile, poicliè
riorganizzarlo chiamando alle armi le riserve era tanto più diffi-
cile in quanto neppm" tutti i fuggiaschi erano convenuti in Roma ;
ed era da far poco conto sugli alleati, trepidi e vacillanti, i quali
dovevano preferire di assistere alla calamità dei Romani e profit-
tarne anziché esserne a i)arte. Il lutto privato, che moltissimi
avranno avuto qualche congiunto tra i morti o tra gli scomparsi
nella battaglia, cospii'ò con la sfiducia di poter resistere efficace-
mente al nemico che aveva sbaragliato le forze migliori di Roma
a fiaccare per un momento l'energia del senato romano; né vi fu
il tempo di riaversi per provvedere virilmente ai rimedi; giacché
tosto, il giorno api3resso secondo alcuni, dopo tre giorni secondo
altri, i Gialli comparvero innanzi a Roma (1). Frattanto non s'era
riuscito ad apprestare una difesa che nella rocca capitolina. Le
mura di Roma attribuite a Servio, se fossero esistite fin d'allora,
all'ebbero trattenuto i Gralli come trattennero poi Annibale (I i). 392);
ma poiché esse non sono anteriori al sec. IV, si accosta al vero la
tradizione secondo cui i Gralli trovarono aperte le porte della
città, in questo senso che in realtà non c'era bisogno di entrarvi
per le porte.
La poesia popolare illuminò del suo fulgore la caduta di Roma.
Si narra cosi che le sacerdotesse di Vesta fuggendo a piedi verso
Cere s'imbatterono al di là del ponte Sublicio in un po^jolano che
si metteva in salvo co' suoi, il quale le fece salire sul suo carro,
dopo averne fatti scendere la moglie ed i figli (2). I senatori ci
vengono rappresentati nell'atto di attendere il nemico che li tru-
ciderà senza compassione nella Curia, vestiti dei loro abiti solenni,
assisi sulle sedie cm-uli. Di Fabio Dorsuone si narra che, mentre
il Campidoglio era assediato, si recò coraggiosamente a compire
un sacrifizio nel temx)io di Vesta o, secondo altri, sul Quirinale,
senza che alcuno degli assediati osasse attraversargli la via (3).
(1) La prima è la versione di Liv. V 41, 4. La seconda è data concorde-
mente da DioD. XIV 115. PoLYB. II 18. Vekr. Flacc. ap. Gell. n. A. V 17.
I'lut. Camill. 22.
(2) Liv. V 40. Plut. Camill. 41. Vai.. Max. 1 1, 10. Flor. I 7. È molto incerto
se a questo popolano si riferisca l'elogio del Foro d'Augusto in CJL. P
p. 191 n. 6.
(3j Api'ian. Celt. 6 che cita un Kaùaioq (Cassio Emina?). Liv. V 40. Val. Max.
I 1, 11. Flou. I 7, 16.
172 CAPO XVI - GLI ITALICI IN LOTTA COI CELTI E COI GRECI
Una discussione di questi particolari sarebbe oziosa. Richiede
invece maturo esame la leggenda della liberazione di Roma. I
Romani scampati a Veì, ripreso animo, si riordinano per tentar
di venire al soccorso dei concittadini assediati nel Campidoglio.
Per loro mandato Ponzio Cominio scende il Tevere sopra una cor-
teccia di sughero a fine di mettersi in relazione col senato e col
popolo romano, e, giunto alla riva, sale per uno scosceso sentiero
al Campidoglio, poi torna per la stessa via a' suoi mittenti con la
notizia della nomina a dittatore di Camillo, richiamato dall'esilio.
Ma i Galli fanno ora di notte il tentativo di ascendere al Cam-
pidoglio per la sti\ada seguita da Cominio. In questo frangente
le guardie ed i cani, sfiniti, vengono meno al dovere di vigilare.
Avvertono invece la presenza del nemico le oche sacre a Giunone,
e M. Manlio si desta a tempo al loro strepito per respingere il
primo degli assalitori che già aveva dato la scalata al colle. Sal-
vata da lui e dai comijagni la rocca, dopo sette mesi i Galli,
stanchi dell'assedio e afflitti da una epidemia che fa strage fra le
loro schiere, s'inducono a trattare coi difensori. I Romani, oppressi
dalla fame, si dispongono ad un accordo promettendo ai Galli,
pm-chè si allontanino da Roma, mille o duemila libbre d'oro (Ij.
Frattanto Camillo, che come dittatore ha ricostituito fuori di Roma
l'esercito romano, sopravviene mentre i Galli pesano su bilance
false il prezzo del riscatto e rescinde l'accordo dicendo che esso
non è valido perchè fatto senza il consenso del dittatore. Si
viene a battaglia sul Foro. I Galli sgominati e fugati rinnovano
il combattimento all'ottavo miglio della via Gabina, dove sono
ancora sconfitti tanto che neppur uno scampa alla strage, e Camillo
torna trionfante in città (2).
(1) L'ultima cifra è data da Vakk. ap. Non. p. 228. Plin. n. h. XXXIII U
DioNTs. XIII 9 (25 tal.).
(2) Questa leggenda è mirabilmente narrata in Livio. Concordano nella so-
stanza con lui, pur differendo in qualche particolare, Plutarco, Dionisio e Dione.
Pel MoMMSEN non si tratta che d'una falsificazione della piìi recente annali-
stica, e solo è da lamentare, dic'egli (mem. cit. p. 338), ' dass der namenlose
Urheber dieser in aschyleischem Stil gehaltenen Umgestaltung der Ueberlie-
ferung nicht statt der Annalen vielmehr Praetextaten geschrieben hat '. Con
ciò riconosce egli stesso che abbiamo qui, in prosa, un frammento d'ottima e
originale poesia quale nessuno sapeva scrivere circa il 100 av. Cr. in Roma.
Ma la versione data da Diodoro, che pel Mommsen è assai più antica, in realtà
non rappresenta che un tentativo di correzione della leggenda. Così p. es. in
Diodoro i Romani di Veì mandano Ponzio Cominio per mettersi d'accordo con
LA LEGGENDA DELLA LIBERAZIONE DI ROMA. MANLIO E CAMILLO 173
Questo, cli'è senza dubbio il riassunto d'uno dei migliori tra i
carmi epici popolari, ci mostra non come i fatti si svolsero real-
mente, bensì come si rispecchiavano nella fantasia dei Romani
del secolo III. Ma gli annalisti più antichi e coscienziosi, che nelle
fonti greche, se trovavano qualche cenno su chi aveva salvato il
Campidoglio, non ne leggevano nessuno sulla pretesa liberazione
di Roma e sulla rivincita di Camillo, contaminarono storia e leg-
genda narrando che Camillo riprese si l'oro gallico, ma dopo che
i Galli si erano ritirati da Roma, presso Volsinì o presso Pesaro,
che dall'oro pesato avi^ebbe avuto il suo nome di Pisauro (1) ; ov-
vero che il bottino fu tolto ai Galli, se non dai Romani, dai loro
amici di Cere (2). Altri poi, ripudiando al tutto la leggenda, cer-
cavano il motivo per cui i Galli avevano abbandonato Roma in
una invasione veneta nel loro paese inducendolo dalla ostilità che
continuava anche in età storica tra Veneti e Galli (3).
gli assediati del Campidoglio. Ora l'invio è in Livio ben motivato; in Diodoro
non serve a nulla: i Romani di Veì non avevano alcun interesse a inviare
Ponzio se non preparavano un'azione contro gli assedianti; e tale azione non
può essere che quella di Camillo. Quindi il racconto dell'intervento miraco-
loso di Camillo, che è il presupposto della leggenda di Ponzio, è piìi antico
della versione diodorea. Così pure l'esilio di Camillo è stato inventato jierchè
il vincitore di Veì non avesse colpa nella catastrofe gallica e si trovasse
pronto fuori di Roma per riordinare i fuggiaschi. Il racconto di Diodoro, se-
condo cui Camillo andò in esilio dopo la vittoria gallica, è la pedantesca
correzione di uno il quale trovava troppo miracoloso il richiamo per eSetto
della legazione di Ponzio Cominio.
(1) DroD. XIV 117, 5: tujv b' ÒTTeXrjXuBÓTUJv FaXaTiiv òtto ' PiJu|uri<; OùedOKiov
Tr)v TTÓXiv au|a|uaxov ouaav 'Pu))LiaiuJv TtopOoùvTmv èiriOéiuevoc; aÙTOìq ó aÙTO-
KpuTUjp Kal Toùq TTXeìOTOu^ àTTOKTeivac; ific, àr:oOKevr\c, Tiàor]c, èKupieuoev èv rj Kaì
TÒ xpucriov fjv [ò eìXrirpeiaav eie; 'PU)|ur|v] Kaì ax^bòv anavxa rà bnqpuaa^éva Kaxà
xriv Tr)c, TTÓXeujt; aXujoiv : dove il nome corrotto OùectaKiov è stato variamente
reintegrato ; ma la congettura OùoXaiviov (Niebuhr) ha per se l'evidenza paleo-
grafica. Serv. Aen. VI 825 : Camillus ... Gallos iam abeuntes secutus est, quibus
interemptis aurum omne recepii et signa. quod cum Ulte appendisset civitati nomen
dedit; nam Pisaurum dicitur, quod illic aurum pensatum est.
(2) Strab. V p. 220 : (ci Kaiperavoì) toù<; éXóvxaq ■xi\v 'Pib.urjv FaXàrac; Kare--
TTcXé^uriocv àmoOaiv èTri0é,uevoi kotò ZaPivouc; koì ot iiap' éKÓvTwv éXa^ov 'Puj-
f-iaioiv èKeìvoi Xàqpupa fiKOvxaq àqpeiXovxo. Diod. XIV 117 combina questa versione
con la precedente: oi ò' elq Tr)v 'lattu-fiav tujv KeXxiJùv èTteXriXuGóxec; àveaipen^av
bla Trìq xiùv 'Puj|uaiujv xùjpaLC, ■ koì juex' òXìyou ùttò Kepioiv èmPouXeueévxec; vuKxòq
óÌTTavx€<; KoxeKÓnriaav èv xiIj Tpauaiiu (TTiaaupiuj ?) -rrebiiy.
(3) PoLYB. II 18, 3. Che la versione di Polibio secondo cui i Galli per questo
motivo tornarono in patria àOpauaxoi koI àaivdi; (forse è da leggere àa\Mr\) fxovxe^
174 CAPO XVI - OLI ITALICI IN LOTTA COI CELTI E COI GRECI
Queste congetture o indazioni sono preziose per noi perchè
mostrano come lo stesso ingenuo senso critico dei primi annalisti
romani avvertisse che la leggenda era in contraddizione con la
realtà storica: ma prescindendo da ciò hanno meno valore della
antica leggenda che tentano correggere. La quale del resto, come
tutte le leggende che ebbero elaborazione poetica, comporta solo
in piccola parte l'analisi. In essa qualche particolare può aversi
per mito etiologico destinato a spiegare ceremonie sacre. Cosi le
avi'à fornito forse qualche elemento Fuso d'appiccare alcuni cani
presso il tempio di Summano sul Campidoglio, che procede forse
eia un motivo sacro analogo a quello del sacrifizio di cagne rosse
che si faceva nelle Robigalia (I p. 284) (1). E lo stesso intervento
di Manlio può essere un mito etimologico sorto per spiegare il
cognome di Capitolino ereditario nella gente Manila, che deve
aver avuto origine dalla dimora originaria di quella gente sul
colle (2). L'esilio di Camillo può essere stato inventato perchè il
vincitore di Veì, . senza alcuna responsabilità nella catastrofe, si
trovasse fuori di Roma, pronto ad intervenii'e come deus ex ma-
china. E il suo ravvicinamento con Achille, del quale partendo
da Roma avrebbe imitato l'imprecazione (3), è forse opera degli
Ti'iv iJjqpéXeiav (II 22, 5) sia inconciliabile con quella di Diodoro è tanto evi-
dente che non varrebbe la pena di notarlo se il Mommsen non avesse voluto
riferirle ambedue a Fabio. Molto singolare è il racconto di Polyaen. Vili 25, 1:
PujMOìoi Ke\TÙ)v Ti^v 'Puj|ur|v XapóvTwv ouvGfiKa^ Trpòq aÙToùt; èxprii^Jovro qpó-
poui; xeXeìv, irùXriv àveuJTf^évriv rrapexeiv òià iravTÒq Kal Ynv èpyàcyiiuov. Tornati
i Celti, i Romani li colmano di doni ospitali, e quando si sono ubbriacati,
li tagliano a pezzi : iva hk kotò ràq auv9iiKa<; fiiravra iroiriijai ÒOKotev, èitì uérpae;
dirpoapóTou irùXriv (ìv6UJY|aévr|v KaxeaKeOaaav. La porta cui si allude è la Pan-
dana. L'aneddoto concernente la porta (Pandana), che si può stralciare dal resto
senza danno, è inserito qui dalla leggenda di Romolo e Tazio: Fest. p. 363:
Tatius posteci in pace facienda cavit a Roimilo ut ea (porta) Sahitiis semper pa-
teret. Cfr. Gilbert Geschichte und Topographie der Sfadt Rem I p. 330 n. 2. —
E sta, come questo, isolato il cenno di Frontin. strateg. II 6, 1 : Gallos eo
proelio quod CavtilU ductu gestum est desiderantes navigia quibus Tiberim transi-
renf, senatus censuit transvehendos et commeatibus quoque prosequendos.
(1) Plin. n.'h. XXIX 57: suppUcia annua canes pendant Inter aedeni luven-
tutis et Summani vivi in furca sabucea armo fìxi. Schol. Aen. Vili 652. Cfr. Pais
I 2, 92 seg., il quale ha ragione in sostanza, sebbene fraintenda il passo di
Plinio confondendo i cani colà appiccati col catulo che si sacrificava a Gè
nita Mana.
(2) Liv. VI 20, 13. Cic. de dom. 38, 101. Ovid. fasti VI 185.
(3) A 240: f^ ttot' 'Ax\\\f\o^ iroOt^ iSexai ulaq 'Axmujv.
LA LKC.(;KXDA Dr']LLA LIBERAZIONE DI ROMA. MANLIO E CAMILLO 175
annalisti più recenti, dettato ad essi coni' era dall' analogia delle
circostanze e dai ricordi omerici. Finalmente l'immaginaria distru-
zione dei barbari pnò essere stata attribuita al miglior guerriero
romano ricordato per quelle età dalla tradizione, M. Fiuio Ca-
millo il conquistatore di Veì, con tanto maggior ragione quanto
meno è da dubitare clie Camillo abbia con efficacia servito la sua
X)atria e contribuito a rialzarne le sorti nella lotta per l'esistenza
elle immediataniente dopo la partenza dei Gralli ebbe a sostenere
contro i vicini. Si è preteso che la leggenda abbia origine da una
confusione tra le gesta del padre Marco e quelle del figlio L. Ca-
millo che fronteggiò i Galli nel 349; ma tale confusione difficil-
mente iDoteva aver luogo, dacché secondo la tradizione più antica
L. Furio non venne nepxiure alle mani coi Galli , e conforme a
ciò i fasti trionfali non registrano alcun suo trionfo sui barbari
(v. oltre e. XVIII). È vero che uno scrittore greco del secolo IV dà
al salvatore di Roma il nome di Lucio (1); ma questo Lucio non
ha nulla a fare con L. Furio, del quale non s'era ancora in-
ventata la vittoria sui Galli, si è semplicemente uno storico o
mitico predecessore di M. Manlio, il salvatore del Campidoglio nel-
l'assalto nottui'iio dei barbari. Di recente poi un critico ha creduto
di trovare il segreto della leggenda di Camillo nel suo cognome
che vuol dire " ministro degli dèi „ (2); questo spiegherebbe la
sua relazione col sacro colle capitolino: tale relazione farebbe in-
tendere alla sua volta iierchè la pseudostoria attribuisse l'occupa-
zione del colle a Romolo, il fondatore di Medullia, presunta patria
dei Fmi (3) ; e infine quelle attinenze recondite tra Camillo e Ro-
molo varrebbero a mostrare iierchè di Camillo si disse che al iiaii
di Romolo aveva superato i Veienti. Non c'è nessuno il quale non
veda come queste sottili combinazioni, assai meno verisiniili del
resto della stessa leggenda, sono tanto insufficienti al loro assunto
quanto superflue.
Lasciando da parte la leggenda e le sue correzioni, a|3i)are evi-
dente che la scorreria fatta dai Galli intorno al 390 in mezzo a
paese straniero non poteva aver iier iscopo la stabile occupazione,
(1) Plut. Caui. 22: 'ApiaTOTéXr|(; bè ó qpiXóaocpoi; tò |uèv àXuJvai ti^v ttóXiv ùttò
KeXxOùv (ÌKpipOùc, bfiXó<; èariv ÓKTiKoiIjq, tòv òè aObaavxa AeÙKiov elvai qpr|aiv.
(2) Pais I 2, 177 segg.
(3) Ciò si ricava dal loro antico cognome di MeduUini. È incerto quanto l'ar-
gomento sia valido. Non si dimentichi del resto che a Tuscolo si sono trovata
iscrizioni sepolcrali arcaiche della gente Furia, CIL. XIV 2578.
176 CAPO XVI - (il.I ITALICI IN LOTTA COI CELTI E COI CrKECI
ma semplicemente il bottino e l'umiliazione degli indigeni d'Italia,
alla stessa guisa delle spedizioni contro Roma d'Alarico e di Gren-
serico. E però non è da stupire che i Galli si siano indotti a par-
tire senza aver compito il loro trionfo entrando nel Campidoglio:
nò v'ha motivo alcuno di mettere in dubbio che il Campidoglio,
secondo asserisce la tradizione romana, abbia resistito agli assa-
litori; il che par confermato dall' antica notizia di fonte greca su
([uel Lucio che sarebbe stato il salvatore di Roma. L'incm-sione
dei Veneti nel paese dei Galli sembra destinata a spiegare cosa
che non ha altrimenti bisogno di spiegazione; al più sarebbe da
ritenere, non tanto per riguardo alla tradizione che ne fa ricordo,
quanto per le analogie, che una epidemia possa aver contribuito
a determinare i Galli al ritorno. La notizia del riscatto da essi
preteso, se pur non sicmissima, è però grandemente probabile,
(piand'anche la somma d'oro richiesta si sia immaginata movendo
dalle condizioni d'età più recenti (1).
I Galli non lasciarono certo la città senza averla orribilmente
devastata; nò avranno mancato di appiccare qua e là qualche in-
cendio a compir l'opera di distruzione; ma che ogni cosa sia pe-
rita, compresi tutti i documenti, salvo poche case sul Palatino, è
soltanto un mito etiologico destinato a spiegare la scarsezza che
s'aveva in Roma sul termine della repubblica, di documenti e di
monumenti anteriori al IV secolo (cfr. I p. 5). Il particolare delle
case scampate all' incendio sul Palatino (2) è anch'esso un mito
diretto a salvare l'autenticità di quella capanna che s'attribuiva al
fondatore di Roma. E come i miti si sono accumulati sulla pretesa
distruzione, cosi sulla pretesa ricostruzione di Roma. Vien detto,
p. e., che le vie di Roma antica erano cm-ve e strette a cagione
della fretta con cui si provvide a ricostruire la città dopo l'incendio
gallico (3). Ma al contrario le vie anguste e curve si spiegano
assai meglio se la città si è formata a poco a poco in età remota;
(1) Mille libre d'oro eqiiivalgono a 150 talenti euboici d'argento. Per avere
un termine di paragone si può ricordare che la contribuzione imposta a Fi-
lippo V di Macedonia dopo la battaglia di Cinoscefale non superò 1000 talenti
d'argento.
(2) Dato dal solo Diod. XIV 115, 6: tì]v ttóXiv èXu|Lia(vovTO x^pU òXìyojv oìkiùv
èv Tuj TToXaTiiu. Cfr. Mommsen op. cit. p. 319.
(3) DiOD. XIV116: 'Piuiaatoi ^bujKav èEouaiav tlù 3ouXo|a6Viu xaG' 6v TTpoV)-
PHTai Tònov oIkiov oiKoboneìv àTrdvTuuv oOv upòi; tì^v ibiav irpoaipcaiv oÌKObo-
l-iGÙvTuuv, auv^Pn TÒq Kaxà iróXiv óboù(; ajevàc, fevéoQai koì KO^Trà*; èxoùaa<;.
Cfr. Liv. V 55, 4. Tac. ann. XV 43.
l'incendio gallico 177
che se si fosse ricostruita a nuovo in età relativamente progre-
dita com'era il principio del secolo IV^ quando le norme della
limitazione etrusca erano state già adottate dai Latini, nulla im-
pediva che venissero tracciate secondo un piano regolatore vie
eguali e tagiiantisi ad angolo retto. Con l'incendio gallico spiega-
vano pure gli- antichi come le cloache passassero in Roma sotto
alle case private, mentre in origine dovevano essere state costruite
in terreno pubblico (1) ; dove è chiaro che si ha piuttosto da infe-
rirne che quando si son costruite in Roma le cloache non vigevano
ancora le rigorose norme giuridiche posteriori sulla x^roprietà del
loro soprassuolo. E infine lo stesso particolare che lo Stato for-
nisse ai privati le tegole per coprire le loro case (2) è manifesta-
mente inventato allo scopo di illustrare una poco nota istituzione
posteriore, poiché fino al tempo di Pirro le case romane furono
coperte con assi di legno (3).
Ad ogni modo più che i danni materiali, pur rilevantissimi, di
questa scorreria doveva essere grave il suo effetto morale ; poiché
essa rivelava in modo inatteso la debolezza, degli indigeni d'Italia
e in particolare dei Romani. Ma mentre ui'geva da settentrione
sugl'Italici il pericolo celtico, non meno formidabile si riaffacciava
da mezzogiorno il pericolo greco. Veramente da qualche tempo i
Grreci parevano aver cessato d'esser troppo temibili aglTtalici.
Dopo che le vittorie d'Imera e di Cuma avevano dato all'ellenismo
un nuovo vigore sul principio del sec. V (sopra e. XII), la demo-
crazia e il particolarismo avevano ridotto a vergognosa impotenza
le città pm" si ricche e popolose dell' Italia e della Sicilia greca.
Come già era caduta a Cuma la tirannide lasciando la città inca-
pace di resistere con le sue forze ai nemici della nazione, cosi
cadde di poi, quasi subito dopo la morte di Terone, ad Agrigento (4),
e in Siracusa non sopravvisse che di poco a lerone, che aveva
ridotto alla sua dipendenza la nuova repubblica agrigentina riu-
scendo ad unificare quasi a pieno la Sicilia greca (5); ultimi, pochi
anni dopo, furono rovesciati a Messana e Regio i figli di Anas-
(1) Liv. V 55, 5 : ea est causa (festinatio) car veteres cloacae primo per pu-
blicum ductae mene privata passim subeant tecta.
(2) DioD. XIV 116, 8: òr)|Lioaiaq Kepainiòa^ èxoprifouv ai in^xpi toO vOv TroXiTiKoi
KoXoOvTai. Liv. V 55, 3: teyula publice praebita est.
(3) Plin. n. h. XVI 36 : scandula contectam fuisse Romam ad Pi/rrhì ttsque
bellum annis CCCCLXX Cornelius Nepos aitclor est.
(4) DiOD. XI 53.
(5) DioD. XI 67-68. Aristot. polii. V p. 1312 b.
G. De Sanctis, Storia dei Romani, lì. 12
178 CAPO XVI - GLI ITALICI IX LOTTA COI CELTI E COI GRECI
silao (1), mentre a Crotone e a Taranto fiu'ono instaurati al posto
delle vigenti oligarcliie governi democratici (2). I soli Locresi Epi-
zefiri rimasero rigidamente fedeli alle istituzioni oligarcliiche e
alle leggi di Zaleuco (3), il che, unito con la differenza di stirpe
e con la inferiorità civile , conferi solo ad isolarli maggiormente
dai loro connazionali italioti. Questi mutamenti di governo si ac-
compagnarono do\'Tinque a lotte sanguinose in cui si consumarono
inutilmente le energie vitali dei Greci, in Sicilia tra i fuorusciti
cui i tiranni avevano confiscati i beni e i mercenari cui essi ave-
vano distribuito quei beni e largito la cittadinanza (4); in Italia
tra i democratici e i Pitagorici che avevano usato a difesa del
partito conservatore la forza materiale e morale della loro setta. A
ciò si aggiungeva il risorgere dello spirito particolaristico represso
sia dai tiranni, sia dalla lega pitagorica, la quale ramificandosi
nelle varie città aveva contribuito a crearvi una certa commianza
d'mtendimenti. In queste condizioni ripresero vigore, a fronte dei
Greci, gl'indigeni. In Italia gli Iapigi, clie erano riusciti a riportare
poco dopo il 480 una grandissima vittoria sui Eegini e i Tarentini
collegati (5), continuavano, sia pure con scarso successo, la lotta (6).
Nell'isola il re siculo di Mene (Mineo), Ducezio, dopo aver aiutato
i democratici siracusani contro i mercenari di lerone, diede a' suoi
connazionali una nuova capitale in Palice (Palagonia) sul lago
sacro dei Palici e cercò di ridm^li ad unità e guidarli all'assalto
contro i Greci (7) ; ma finì col soggiacere quando Agrigentini e Si-
(1) DioD. XI 76.
(2) Per Crotone la cosa si collega con la oppressione dei Pitagorici (1 p. 323),
V. Akistox. fr. 11 ap. Iamblich. v. Pyth. 248 segg. Ofr. Polyb. II 39. — Per Ta-
ranto il mutamento è in relazione con la rotta sofferta per opera degli Iapigi
(v. oltre n. 5) : Aristot. poUt. V p. 1303 a.
(3) Cfr. Demosth. c. Aristocr. 139-141.
(4) DioD. XI 72-73. 76. Aristot. V p. 1303 a. Qualche nuova notizia è in un
frammento di papiro d'Oxyrhynchos (IV p. 80 segg.), che contiene probabil-
mente una parte del sommario del lib. IV delle storie di Filisto; v. le mie
osservazioni nella ' Riv. di filologia ' XXXIII (1905) p. 66 segg.
^.5) Hekod. vii 170: cpóvoq 'EXXnviKÒq néfiajoc, oOtoc; bf] èYéveTO tcóvtujv tù)v
fliaeiq lòiLiev. Dico. XI 52 (a. 473/2). Aristot. jyolit. V p. 1303 a. Pais Atakta in
' Ann. delle univ. toscane ' XIX (1891) p. 1 segg.
(6) Pausan. X 13, 10. Cfr. Pais meni. cit. p. 8.
(7) Il fatto è narrato da Diou. due volte, all'a. 458/7 (XI 78, 5) ed al 453/2
(XI 88, 6. 90, 2). Come siano da intendere questi testi ha mostrato il Beloch
' Riv. di st. antica ' I 2 (1895j p. 80 seg.
J
REAZIONE degl'italici CONTRO I GRECI 179
racusani, dimentichi delle loro rivalità, si coUegarono contro di lui,
e con la sua sconfitta falli il primo ed ultimo tentativo dei Siculi
per effettuare con proprie forze la riscossa contro Tellenismo (1).
Circa questo tempo i Siracusani raccolsero ancora una volta le
loro energie per combattere le piraterie degli Etruschi, e fecero
contro di essi due s^jedizioni devastando la Corsica e impadronen-
dosi dell'isola d'Elba (2); ma fu quella una breve parentesi; poi
tornarono alla consueta inerzia cui li faceva propendere l'avver-
sione ai sacrifizi onde non apparisse l'utilità immediata. Ne alcun
pericolo immediato pareva minacciare i Glreci di Sicilia dopo che
l'insurrezione sicula era stata domata e anzi Ducezio, rinunciando
ad un ideale che non sembrava più attuabile, s'era rassegnato a
servire gl'interessi siracusani (3). Cosi i Grreci di Sicilia, poco cu-
ranti dell'avvenire, lasciarono andare in decadenza le fortificazioni
delle città e gii ordini militari, né provvidero a rinnovare il na-
viglio da guerra. Certo le città greche fiorirono allora come non
mai per lo innanzi d'industrie e di commerci, mentre la popola-
zione moltiplicata attendeva a godere e ad arricchife. Ma venne
il momento del risveglio, e i sacrifizi non fatti a tempo in piccola
misura dovettero compiersi in misura di gran lunga maggiore, e
non valsero ad evitare che l'ellenismo soffrisse disastri non inù.
riparati.
Fu quella del resto l'età dell'oro della coltm-a siceliota ed ita-
liota;. A Siracusa, che divenne per opera dei Dinomenidi la prima
grande città del mondo greco e che solo nel corso del sec. V fu
superata da Atene, sorse per la prima volta a dignità d'opera
d'arte la commedia, cui appunto offriva materia e ispn-azione la
vita della grande città. Il primo poeta comico siracusano fu un
uomo d'origine oscura, uno de' nuovi cittadini a cui i tiranni
avevano largito i diritti politici, Epicarmo (4), Grli scarsi frammenti
(1) DioD. XI 91 seg., che narra tutta la guerra all'a. 451/0.
(2) DioD. XI 88, 4-5. Questa guerra è riferita da Diodoro all'a. 453/2; ma
verisiinilmente essa durò più di un anno attico.
(3) Non par possibile che senza segreto accordo coi Siracusani egli tornasse
di Corinto, ov'era stato rilegato, per procedere alla fondazione di Kale Akte
sulla costa settentrionale dell'isola: Diod. XII 8 (a. 446/5), cfr. Holm Storia
della Sicilia I p. 486.
(4) Kaibel Com. Graec. fragm. I 1 p. 88 segg. — Epicarmo fiorì nella prima
metà del sec. V, e ammettendo col Beloch ch'egli abbia toccato l'età della
guerra del Peloponneso {Gr. Geschichte I p. 577 n. 1) si cade in contraddizione
180 CAPO XVI - GLI ITALICI IN LOTTA COI CELTI E COI GRECI
delle sue cominedie mostrano, con l'abbondante vena satirica ed
umoristica del poeta, la profondità della sua coltura. Assai moderna
in confronto di quella più recente d'Aristofane, la commedia di
Epicarmo, aliena dalla satira personale come dalle sfrenate biz-
zarrie della commedia attica antica, discuteva le questioni filoso-
fìclie più vitali con una libertà e con una acutezza che torna a
gran vanto non solo del poeta, ma anche del pubblico che lo in-
tendeva e lo aijplaudiva. Anche più moderno d'Epicarmo, Sofrone
circa il tempo della guerra del Peloponneso dettò primo dialoglii
in prosa che per la pittui'a dei caratteri e la naturalezza della
conversazione meritarono d'essere o di farsi stimare gli esemplari
cui si ispii-ò per l'ethos dei suoi dialoghi il divino Platone (1). Frat-
tanto, intorno a quello stesso tempo, coltivò la logografia col me-
desùno indirizzo che si seguiva nella Grrecia jjropria Antioco di
Siracusa raccogliendo tutte le notizie che si avevano sulle colonie
greche di Sicilia e d'Italia; né probabilmente son da lui molto
distanti d'età i due Regini Ippi e Glauco, l'uno autore d'opere di
storia simili a quelle d' Antioco e d'Ellanico, l'altro storico della
poesia e della musica (2).
Ma anche più della di"ammatica e della storia fiori nelF Occi-
dente la filosofia. Qui Parmenide di Elea, iniziato alla riflessione
dagli arditi ' dubbi e dalle ardite negazioni di Senofane, cercò
per mezzo del puro raziocinio una intuizione del mondo di
cui potesse aversi sicurezza (3). E, noncurante della ■ esperienza,
costruì la dottrina dell' essere uno, infinito, assoluto, immutabile,
eterno. E il suo discepolo Zenone dirizzò l'acume del suo ingegno
a difendere la teoria del maestro segnalando con logica formida-
troppo grave con Aristot. imet. p. 1448 a, che lo dice ttoXXuj TrpÓTepoc; di Chio-
nide e di Magnete. V. Wilhelm Dram. Urkunden in ' Sonderschr. des oesterr.
avch. Inst. ' VI (1906) p. 107 seg., cfr. Kaibel ibid. p. 174 seg. È certo da ri-
tenere coi Beiceli autentico il carme fisico imitato qua e là da Euripide e
tradotto poi da Ennio : ma questo può essere di parecchio anteriore al 430,
(1) Kaibel op. cit. p. 152. Per le attinenze coi dialoghi platonici v. Durjs
ap. Athen. XI p. 504 b. La. Diog. Ili 18. Suid. s. v. Zibqppiuv etc.
(2) Della età di Ippi fa cenno solo Suida s. v. "Ittttui; collocandolo ètri tOùv
TTepaiKUJv. I frammenti possono far sorgere qualche dubbio sulla sua remota
antichità. Certo è solo che egli è anteriore a Fania di Ereso, scolaro di Ari-
stotele, che lo cita, v. Plut. de orac. def. 6. Di Glauco ci vien detto che fu
contemporaneo di Democrito (La. Diog. IX 38); e s'accorda con ciò un fram-
mento in cui si parla della fondazione di Turi (ibid. Vili 52).
(3) Sembra che questo sia il vero senso della à\r[Qe\a parmenidea: Covotti
a p. 124 della mem. cit. sopra I p. 828 n. 1.
COLTURA SICELIOTA DEL SEC. Y 181
bile le contraddizioni in cui si avvolge l'esperienza. Ma frattanto
in Sicilia, mal soddisfatto del sistema di Parmenide, mi notabile
agrigentino, Empedocle, cercava la verità sul mondo esteriore non
nelle pure intuizioni della ragione, ma nella esperienza rij)etuta
e verificata con raiuto di tutti i sensi in modo da escludere ogni
errore (1). E su quella credeva di poter fondare la sua dottrina, che
poi ebbe tanti seguaci, dei quattro elementi e del ciclo interminabile
delle esistenze nascenti dall'amore e uccise dall'odio, le due forze
cke accozzano e risolvono senza tregua gii elementi eterni. Se non
che accanto al mondo della materia, Empedocle, assai sujDeriore in
questo a Parmenide, riconosceva, ben distinto, il mondo dello spi-
rito (2). E svolgendo meglio del discepolo di Senofane la dottrina
del Colofonie definiva Dio mente sacra ed ineffabile attribuendogli
la più assoluta spiritualità (8). Nel mondo della materia ogni esi-
stenza è contingente e solo eterni gli elementi, nel mondo dello
spirito eterna è ogni esistenza e solo per legge divina gli esseri che
si macchiano di colpe scendono nel mondo della materia e pren-
dono tutte le forme delle esistenze mortali:, la furia del vento li
caccia nel mare, il mare li respinge al suolo della terra, la terra
ai raggi del sole lucente, il sole li travolge nei vortici dell'aria (4).
Accanto a queste scuole cercava anch'essa di conciliare scienza
e religione la vecchia scuola pitagorica sopravvissuta alle proscri-
zioni e alle stragi. Ed essa ebbe anzi nella seconda metà del s'ec. V
quello che fu forse il maggiore de' suoi rappresentanti, Eilolao di
Taranto (5). In questo tempo i Pitagorici, mentre studiavano pro-
fondamente e non senza frutto matematica e astronomia, trasfor-
marono la loro filosofia in una mistica dei numeri, rimanendo
(1) La genesi della filosofia di Empedocle è ottimamente chiarita dal Co-
voTTi op. cit. p. 140 seg. ; non così le attinenze tra la fisica e i Ka9ap|uoi'.
(2) L'apparente contraddizione tra il trepì qpùaeiuq e i xaGapuoi è spiegata
dal Bidez, dal Diels e dal Covotti ponendo a distanza di tempo i due scritti
e ammettendo una conversione del filosofo dallo sperimentalismo al misticismo
0 viceversa. È questa una ipotesi non necessaria, che costringe tra altro a
riferire arbitrariamente al irepl qpùaeux; il fr. 110 Diels che spetta invece ai
Kaeapjuoi (Hii'POL. refut. haer. VII 30).
(3) Fr. 134 DiELs.
(4) Fr. 11.5 DiKLS. S'intende che la relazione tra il bai'iuujv decaduto e l'esi-
stenza terrena era concepita da Empedocle molto diversamente da quel che
uno spiritualista odierno immagini la relazione tra l'anima e il corpo (cfr.
RoHDE Psyche IP p. 171 segg.).
(5) Diels Die Fragmente dev Vorsohratiker I^ p. 283 segg.
182 CAPO XVT - OLI ITALICI IN LOTTA COI CELTI E COI ORECI
addietro d'assai nella speculazione a Parmenide e ad Empedocle;
ma pur con la distinzione della cosa e della sua essenza, che cer-
cavano appunto nel numero, prepararono la dottrina platonica
delle idee.
Dalla contraddizione fra i sistemi filosofici, sia clie cercassero
nella piu-a ragione o nell'esame dei fenomeni il loro punto di par-
tenza, nacque anche in Sicilia lo scetticismo, e principale rappre-
sentante ne fu appunto uno scolaro di Empedocle, Gorgia di Le-
ontini (1). Nulla è reale; o se qualcosa v'ha di reale, non è dato
conoscerlo; o se è dato conoscerlo non è possibile trasmetterne ad
altri la conoscenza (2): questa è la dolorosa conclusione de' suoi
studi filosofici. Ma non perciò Gorgia si rimane dalla sua serena
operosità; poiché se non v'è realtà, v'è apparenza, se non può darsi
scienza, può aversi opinione, e se non a pieno, può questa almen
parzialmente trasfondersi in altri. Il mezzo per diffonderla è la
retorica. E uno dei maggiori maestri di retorica a tutti i Greci, e
con la dottrina e con l'esempio, fu appunto Gorgia, il quale con-
tinuò cosi l'opera di due altri Sicelioti, i Siracusani Tisia e Corace.
In questa età in cui tanto fiorivano nell' Occidente ellenico le
discipline del pensiero e della parola, erano coltivate anche, seb-
bene con minore originalità che nella madrepatria, le arti plastiche.
Soprattutto s'innalzavano tempi vasti ed imponenti, che sono tra
i meglio conservati che l'antichità ci abbia trasmesso. Cosi alcuni
tra i tempi di Selinunte, quello onde i Sù^acusani hanno fatto. la
loro cattedrale, il tempio di Era Lacinia, le cui rovine hanno dato
nome al capo delle Colonne, il tempio di Posidone a Pesto, quello
di Segesta, che rende testimonianza dell'ellenizzarsi degli indigeni
anche se avversi ai Greci, il tempio della Concordia in Agrigento
e l'Olimpico della stessa città, imiDonente anche ora nel suo cu-
mulo immane di rovine (3). Alcuni di questi tempi, i maggiori,
come l'Olimpico di Agrigento e uno dei tempi di Selinunte (G),
rimasero incompiuti perchè l'arte e il benessere d'una gran parte
della Sicilia greca non toccò mai più l'altezza raggiunta nel sec. V.
Con l'inerzia politica in cui si adagiavano fra tanto splendore
di civiltà i Sicelioti contrasta l'attività e il vigore che Atene, dive-
(1) Gorgia morì vecchissimo (di 109 a. secondo Apollod. presso La. Diog.
Vili 58) non molto dopo il 380.
(2) Sext. adv. mathem. VII 65 segg. — V. per l'intelligenza di questo testo
GoMPERz Griech. Denker I 380 segg.
(3) V. l'opera di Koldewey e Puchstein cit. sopra I p. 323 n. 5.
GLI ATENIESI NELL'OCCIDENTE 183
niita dopo le guerre persiane la maggior potenza greca e la capi-
tale intellettuale ed economica della nazione, spiegò nell'Occidente.
Essa inviò coloni a Napoli rafforzando quell' avamposto dell' el-
lenismo (1), strinse lega con gli Elimi avversati dai vicini Seli-
nunzì (2) e coi Calcidesi di Sicilia cui metteva in pericolo l'incre-
mento delle colonie doriche (3), x^romosse la fondazione di Turi,
destinata a succedere alla distrutta Sibari (4), e infine intervenne
due volte con l'armi in Sicilia contro Siracusa e i suoi alleati. La
seconda spedizione in cui gli Ateniesi impegnarono le loro forze
migliori di terra e di mare era diretta certo nella mente dei suoi
autori non tanto alla difesa di Segesta o alla riedificazione della
calcidese Leontini, clie i Siracusani avevano poco prima distrutta,
quanto a preparare la fondazione d'un grande impero ateniese nel-
l'Occidente. L'interesse che prese Atene alle cose di Sicilia si ri-
specchia nella leggenda, che allora x3robabilmente si formò, secondo
cui Ateniese era il Colombo della Sicilia, quel Teocle cui la tra-
dizione ascriveva la fondazione della jdìù antica colonia greca nel-
l'isola, Nasso (5).
n disastro del settembre 413, che tenne dietro alle accanite bat-
taglie navali combattute nel porto grande di Siracusa, tra le
maggiori che avessero luogo nei nostri mari fino alle guerre pu-
niche, ridusse quelle speranze al nulla e rimosse ogni pericolo di
predominio ateniese nel Mediterraneo occidentale. La stessa Turi,
(1) Strab. V p. 246 accenna a coloni ateniesi in Napoli. Secondo Timeo fr. 99
l'ateniese Diotimo (che è forse lo stesso Diotimo figlio di Strombico che fu
stratego nel 433/2, Thuc. I 45. CIA. I 179) istituì in Napoli una corsa con
fiaccole in onore di Partenope òxe arpaT^^òc, Ojv tOùv 'AGrjvatujv èTroXé|uei toìc,
ZiKeXoìt;. La data è incerta; ma forse il fatto si collega con l'alleanza tra Atene
e gli Elimi e la guerra tra gli Elimi e Selinunte di cui alla n. seg.
(2) Fin dal 453/2: CIA. IV 22 k e 139. Sulle prime avvisaglie tra Segestani
e Selinuntini v. Diod. XI 56 (a. 454/3) con le osservazioni del Beloch ' Hermes'
XXVIII (1893) p. 631.
(3) Trattato con Regio: CIA. I 33. IV" p. 13. Trattato con Leontini: CIA.
IV 33 a. Ambedue sono del 433/2.
(4) Secondo Diod. XII 9 nel 446/5, secondo le vitae X orai, del Ps. Plutarco
p. 835 d nel 444/3. L'ultima data, che è forse da preferire, sembra presupposta
anche da altre notizie derivanti da antiche cronografie, cfr. Busolt Griech.
Geschichte II 523 n. 3.
(5) Teocle era calcidese secondo Hellan. fr. 52, ateniese secondo Ephor. fr. 52
ap. Strab. VI 267 seguito dal Ps. Scymn. 274. Sull'origine di quest'ultima ver-
sione v. Pais Storia della Sicilia I 169.
184 CAPO XTI - G-LT ITALICI IX LOTTA COI CELTI E COI GRECI
che già s'era mostrata poco fedele a' suoi fondatori, non ebbe più
d'allora in poi altre relazioni che ostili con Atene. E tuttavia il
ricordo di quella spedizione e degli uomini che vi avevano avuto
parte si conservò a lungo in Italia e in Sicilia; e n'è documento
anche Fantica statua di Alcibiade che fu eretta nel Comizio romano,
perchè egli era ritenuto evidentemente in Roma prima d'Alessandro
il più valoroso dei Grreci, come il più saggio era ritenuto Pitagora
che aveva anch'egli colà una statua (1). Le popolazioni indigene
s'erano in generale dichiarate per gli Ateniesi contro i Siracusani
che esse avevano imparato a temere ; e anche qualche città etrusca,
tra cui probabilmente Cere, aveva inviato alcuni ausiliari che si
segnalarono in uno degli ultimi combattimenti presso Siracusa (2),
mentre giunsero a cose finite ottocento mercenari indigeni assol-
dati in Camx)ania (3).
La distruzione dell'armata spedita in Sicilia ebbe effetti gra-
vissimi neirOriente ellenico, perchè segnò colà la fine del primato
ateniese, mentre nella storia deirOccidente e l'invio della grande
spedizione e il disastro con cui si chiuse non son che incidenti tras-
curabili. Certo la impreparazione, le dissensioni, il difetto d'energia
e di spirito militare in Siracusa avi'ebbero reso impossibile alla
città senza aiuti spartani e corinzi e jdìù senza la fatale lentezza
di Nicla di salvarsi dagli assedianti. Ma la fondazione d'un impero
ateniese nell'Occidente non era che un sogno: troppi nemici aveva
Atene a combattere in Grrecia, troppo debole era la compagine
della sua lega marittima, troppo scarsa la popolazione cittadina,
perchè Atene potesse pugnare con prospero successo nell'Occidente
insieme e nelF Oriente. Se anche Atene conquistava Siracusa, il
suo dominio non poteva essere che passeggero, e la storia delle
colonie greche in Occidente avrebbe tosto ripreso il suo corso
fatale. Non valse del resto neppure il pericolo a strappare dalla
loro inerzia i Sicelioti e a mostrar loro la necessità d'armarsi e
d'unirsi se non volevano soccombere al primo nemico che li assa-
lisse. Anzi la vittoria riportata con tanto scarso loro merito li
riempi di fiducia e di tracotanza; e col montare della marea de-
mocratica che ne fu la conseguenza, declinò anche più Fordine,
la disciplina e lo spirito di sacrifizio.
E venne inattesa, ma pronta, la Nemesi. Gli Elimi combattuti
(1) Plin. n. h. XXXIV 26. Plut. Nnm. 8.
(2) Tiiuc. VII 53- 54.
(3) DioD. XIII 44, 2.
INTERVENTO CARTAGINESE 185
ancora dai Greci, dopo aver cercato invario, a ogni patto, la pace,
si rivolsero per aiuto a Cartagine (1). Cartagine, dopo la rotta di
Imera, si era astenuta per settant'anni da ogni intervento nelle
cose di Sicilia. Ma la sua pace coi Greci non era stata inoperosa.
Aveva atteso a rinvigorire il suo dominio sulle coste sarde, sx^a-
gnuole e africane e a popolarle di nuove colonie, e, francatasi da
ogni soggezione ai barbari Libi, li aveva soggiogati e resi tributari
nelFodierna Tunisia e s'era acquistata l'alleanza delle tribù della
Numidia. Ora Cartagine doveva deliberare se le conveniva abban-
donare alla loro sorte gli Elimi o intervenire in Sicilia e cercar
la rivincita d'Imera. L'effetto dell'abbandono sarebbe stato la piena
vittoria dell'ellenismo e in particolare dell' ellenismo dorico nel-
l'isola; poiché la sottomissione di Nasso e di Catania ove si soste-
nevano a mala pena i Calcidesi, appoggiati dai superstiti della
grande spedizione ateniese (2), non poteva tardare : onde nasceva
il pericolo che alla prima occasione, facendo centro in Siracusa, si
costituisse un impero ellenico nell'Occidente. Il non intervenire
adunque non solo avrebbe imp)ortato l'abbandono delle colonie
fenicie di Sicilia, ma presumibilmente avrebbe soltanto ritardato
il conflitto tra Fenici e Greci e tolto ai Fenici d'iniziarlo in circo-
stanze favorevoli come si poteva allora; poiché un impero greco
d'Occidente era inevitabile che tendesse al dominio esclusivo del
Mediterraneo occidentale. L'essere intervenuti a tempo permise
allora e poi ai Cartaginesi di condurre offensivamente con
grande loro vantaggio quella guerra che pur mirava alla sem-
pUce difesa dei loro interessi, lottando coi Greci in Sicilia, e, dal-
l'audace tentativo d'Agatocle in fuori, serbando immuni dai danni
e dai pericoli d'invasioni elleniche i loro territori. Certo la guerra
allora iniziata per la difesa delle colonie fenicie in Sicilia condusse
alla sanguinosa lotta per l'esistenza con Roma che trovò il suo
epilogo nella distrazione di Cartagine; e può dirsi che si tratti
d'una sola guerra tra Arii e Semiti in cui ai Greci stremati si
sostituirono poi gl'Italici, durata con tregue più o meno lunghe
due secoli e mezzo. Ma che l'indebolimento dell'ellenismo in Oc-
cidente avrebbe giovato agli Italici più che ai Fenici era allora
fuori d'ogni umana previsione; né del resto da una politica di
rinuncia avrebbe tratto Cartagine altro vantaggio che quello di
(1) Fonte quasi unica per la guerra del 409-4 è Diod. XIII 43-44. 54-63, 75.
80-96. 108-114, che trascrive da Timeo.
(2) [Lys.] jìì-o Polijstr. 24 segg. Diod. XIII 56, 2.
186 CAPO XAT -• GLI ITALICI IN LOTTA COI CELTI E COI GRECI
dover cedere poi, e senza gloria ne dignità, agli Arii in Spagna
ed in Africa dopo aver ceduto in Sicilia. E la storia, la quale non
dal solo evento giudica delle azioni degli uomini e dei popoli,
deve tributar lode a Cartagine per non aver seguito quella poli-
tica di pusillanimità camuffata da prudenza clie fini col trascinare
a una vilissima caduta un'altra regina dei mari.
Le due grandi spedizioni cartaginesi del 409 e del 406 recarono
all'ellenismo siculo danni immensi. Selinunte, Agrigento, clie Pin-
daro aveva chiamato la più bella delle città mortali (1), Grela e Ca-
marina sulla costa meridionale, Imera sulla settentrionale fui'ono
prese e distrutte; e si rialzarono si col tempo dalle loro rovine, tolta
Imera, che fu sostituita dalla nuova città di Terme (Termini) (2), ma
senza assurgere mai più all'antico splendore. Sul particolarismo e
sulla democrazia cadeva i^rinci pai mente la responsabilità di tante
stragi e rovine; e nessuno poteva dimenticare che la monarchia
militare aveva saputo ben altrimenti difendere l'ellenismo nella
giornata d'Imera. Perciò dopo la caduta d'Agrigento il tentativo
d'assumere la th^annide che fece un giovine ufficiale siracusano di
nome Dionisio (405) trovo il patrocinio di molti dei maggiorenti
siracusani e il favore della pubblica opinione. La sventm-a di Dio-
nisio e della Sicilia volle che il primo fatto d'arme del nuovo
signore terminasse con un'altra rotta e con l'abbandono di Gela
ai Cartaginesi (3). Seppe ben poi riparare quella rotta Dionisio ; e
del resto forse i3Ìù di lui poteva accagionarsene la democrazia,
poiché non s'improvvisano né disciplina né armi. Ma quella scon-
fitta fece riprendere animo agli avversari della tu^annide e perder
fede in lui a molti che erano disposti a rinunciare alla libertà re-
pubblicana pur di salvarsi dalFox^pressione straniera ; e con la vio-
lenza egli dovette conservare ilsuo potere prima che gli fosse dato
di dimostrarne la legittimità vincendo i Cartaginesi e liberando la
Sicilia greca dall'oppressione semitica. La violenza inasprì del pari
il tiranno e i suoi avversari, e togliendo tra lui e i sudditi ogni
legame d'affetto impedi il formarsi d'un sentimento monarcliico. E
con orrore in Sicilia e fuori i contemporanei guardavano quest'uomo
macchiato di sangue cittadino, questo potente cui i suoi sgherri e
le sue proscrizioni non davano un'ora di sicurezza dai nemici in-
(1) Pijth. XIT 2 : kaXXi'oTa Ppoxeàv tioXìiuv.
(2) DioD. XIII 79, 8 (407/6).
(3) Dell'importanza che questo fatto ebbe nella storia di Dionisio giudica
rettamente E. Meyer Geschkhte des Alterthums V p. 87 seg.
I PRIMOEDÌ DI DIONISIO IL VECCHIO 187
terni. Ma intanto il tiranno preparava la riscossa contro i Carta-
ginesi cui nella pace del 405 aveva dovuto abbandonare tutta la Si-
cilia greca salvo la sponda orientale dell'isola. E cominciò col ridurre
ad unità la Sicilia orientale e sopraffare l'elemento calcidese di-
struggendo r antichissima ISTasso (1), che, non risorta più dalle sue
rovine, fu sostituita poi in posizione più forte da Tam^omenio (Taor-
mina), e impadronendosi di Leontini, gicà rilevatasi dopo la sua
distruzione, e di Catania, che furono poi ricostituite da lui stesso
come colonie militari (2). Poi nel 397, chiamati alla riscossa i Grreci,
ruppe guerra a Cartagine (3). Segui una lotta sanguinosissima e
combattuta con varia fortuna in cui per un momento parve Dio-
nisio sul punto di cacciare i Semiti dall'isola, per un momento i
Cartaginesi, distrutta Messana, e, vinto con terribile strage dei Grreci
il naviglio siracusano nelle acque di Catania e posto l'assedio a
Siracusa, parvero vicini a ridiuTe tutta la Sicilia a loro provincia.
Ma l'assedio di Siracusa terminò pei Cartaginesi con un disastro
pari a quello della grande spedizione ateniese, e il vanto d'averlo
preparato come allora spettò ad Ermocrate e allo spartano Grilippo,
cosi ora a Dionisio e al navarco Faracida che Sparta aveva inviato
al suo soccorso (4). Cartagine però non aveva nemici così nume-
rosi come Atene, né il disastro la costrinse ad abbandonare sen-
z'altro l'impresa e l'isola. Onde nel 392 tra Dionisio e il generale
cartaginese Magone che comandava una nuova spedizione in Sicilia
si venne a una pace per cui Cartagine abbandonava le città greche
conquistate e i loro territori, mentre i Grreci riconoscevano come
pro\^ncia (èTTiRpàieia) cartaginese i territori delle città fenicie ed
elime dell'estremo occidente di Sicilia (5): tra le quali alla distrutta
(1) DioD. XIV 15 (a. 403/2).
(2) DioD. ]. e, cfr. 78, 3.
(3) Fonte principale per la seconda guerra cartaginese di Dionisio è Diod.
XIV 45-78. 86-88. 90. 95-96, pur troppo manchevolissimo per gli anni seguenti
alla liberazione di Siracusa.
(4) È a ragione ammessa l'identità del navarco spartano Faracida (Diod.
XIV 63, 4. 70, 1) col navarco Farace che comandava nel 397 in Asia (Xen.
Hell. Ili 2, 12. Diod. XIV 79). Ciò conferma che l'assedio di Siracusa spetta
al 396 : poiché non c'è motivo per ritenere che Faracida a Siracusa non fosse
navarco nel senso stretto della parola.
(5) Diod. XIV 96 dimentica la condizione più importante : la rinuncia di
Cartagine ai territori delle città greche. Ciò si trae all'evidenza dal succes-
sivo trattato con Cartagine, v. Beloch Gr. G. II p. 169 n.
188 CAPO XVI - GLI ITALICI IN LOTTA COI CELTI E COI GRECI
Mozia era stata sostituita Lilibeo, la odierna Marsala, clie fu poi
il più poderoso baluardo del dominio cartaginese nell'isola.
Questa pace che rese Dionisio padi'one di cinque sesti deirisola
fece del suo regno uno degli Stati più potenti del bacino del Me-
diterraneo. Le catene d'adamante (1) con cui egli si vantava di
avervi assicui'ata la monarcliia (2) non erano soltanto le mm-a for-
tificate, gli arnesi di guerra, il naviglio e l'esercito permanente
costituito di mercenari d'ogni nazione, ma soprattutto le colonie
militari che fondò nelle antiche città greche di Messana, Catania
e Leontini (3), a Tauromenio dove i Siculi avevano costruito sotto
la protezione di Cartagine una città ch'egli conquistò (4), ad Adrano
(Adernò) in territorio Siculo (5) e a Tindaride ad occidente di
Messana (6).
Ed ora Dionisio cercò d'unire con la Sicilia anche, in parte
almeno, l'Italia greca. Nella Terra di Lavoro, che al principio del
sec. V era campo di battaglia tra Grreci ed Etruschi, sulla metà
del secolo cominciarono a scendere al piano dai monti del Sannio
quelle tribù sabelliche a cui Etruschi e Greci dovevano parimente
soggiacere. L'etrusca Capua e la greca Cuma furono conquistate
dagli invasori (7); con Cuma o poco dopo cadde nelle loro mani
Dicearchia a cui diedero quel nome italico che fu reso dai Latini
con Puteoli (8). Ai Greci non rimase che NaiDoli con Capri e con
Ischia, che, colonizzata dai Sii'acusani e poi lasciata in conseguenza
(1) DioD. XXII 10, 4, cfr. XIII 54, 4. Già prima della pace egli aveva as-
sunto il titolo di fipxujv IiKeXiaq: CIA. II 8. 51. 52.
(2) Pi.uT. Dio 7.
(3) Sopra p. 187 n. 2. Per Messana v. Diod. XIV 78, 5.
(4) Diod. XIV 59, 2. 96, 4.
(5) Diod. XIV 37, 5.
(6) Diod. XIV 78, 5-6. Cfr. Beloch L'impero siciliano di Dionisio ' Atti del-
l'Acc. dei Lincei ' ci. di se. mor., ser. Ili voi. VII (1881Ì p. 211 segg.
(7) Secondo Diod. XII 31. 76 nel 438/7 (o datando coi fasti consolari nel 445)
Tò levoq tOùv KaiiTTttvuJv auvéairi e nel 421/0 (428) conquistò Cuma; secondo
Liv. IV 37. 44 Capua cadde nel 423 e Cuma nel 421.
(8) Di preciso sulla caduta di Dicearchia nulla possiamo dire. Le monete
con la leggenda osca ^V>|T^I8 o la greca OIITEAIA, per quanto da alcuni
ultimo il NistìEN Ital. Landeskunde II 738, attribuite erroneamente a Puteoli,
nulla hanno a fare con questa città, v. Sambon Les monnaies antiques de l'Italie
I p. 327 segg.
DIONISIO IN ITALIA. I LUCANI 189
di terremoti, era stata occupata dai Napoletani (1). Non solo in tutto
il l'esto della Campania con le sponde del golfo di Salerno i mi-
gratori sabelb'ci stabilirono il loro dominio; ma anche a sud del
Silaro si ordinarono nella seconda metà del V secolo col nome di
Lucani in una confederazione che assorbì i preesistenti elementi
italici e li guidò alla riscossa contro l'ellenismo (2). Posidonia,
PiKmite, Scidi'o e Lao fm-ono occupate circa il 400 dai Lucani; per
modo che sulla sponda tiiTcna oltre il Lao soltanto Elea conservò
con Napoli la sua nazionalità ellenica. " Ai Posidoniati accadde
(narra uno scrittore tarentino dell'età d'Alessandro) clie, Greci di
origine, s'imbarbarirono e mutarono la favella e le altre istitu-
zioni, ma celebrano tuttavia una delle antiche solennità elleniche,
in cui si rammentano deirantico parlare e degli antichi costumi
e si separano dopo fatto lamenti e sparso lacrime (x3er averli per-
duti)„ (3).
Sul principio del sec. IV i Lucani costituirono forse lo Stato
italico più potente e più comi^atto ; e i Greci d'Italia per provve-
dere alla propria sicurezza contro di essi e contro la potenza for-
midabile della monarchia militare in Sicilia avvertirono la necessità
di unirsi in lega nazionale. Tutti gli Italioti, tolti i Locresi, si
collegarono per la difesa comune (4); e, data la vitalità che pos-
sedeva tuttora in Italia l'ellenismo, era da sperare che questa
lega non solo avrebbe rintuzzato i Lucani, ma forse sarebbe riu-
scita a ridare all'ellenismo una posizione dominante sulla sponda
tirrena. Senonchè i Lucani trovarono un alleato nel signore di Si-
racusa, Dionisio, il quale ambiva la supremazia dell'Italia greca.
Cosi gl'Italioti, assaliti da un lato dai Lucani e dall'altro da Dio-
nisio, ebbero la peggio. Un corpo di quindicimila Italioti che si
era avanzato nel 390 contro Lao fu circondato e per due terzi
(1) Strab. V p. 248.
(2) Compaiono per la prima volta in lotta con Turi, Polyaen. strateg IT.
10, 2. 4.
(3) Aristox. fr. 90 (cfr. Strab. VI 252). — Lao lucana nel 390 : Diod. XIV
101. — Per Elea v. Strab. 1. e. : irpòt; A€UKavoù(; àvtéaxov.
(4) Diou. XIV 91 (a. 393): oi bè ti')v 'IroXiav KaToiKoOvtee; "EXXrjvec; ou|n-
\xa.\\.av òè irpòt; dWriXou^ è-rroiriffavTo koì auvéòpiov èYKaxeoKeùaZiov • fjXmJIov YÒp
TÒv Aiovùaiov ^<?òiuj(; à|uuveìa6ai xai toì<; TiapoiKoOoi AeuKavuùv àvriTÓHeaGai.
Gl'inizi primi della lega son probabilmente più antichi di qualche decennio
(PoLYB. II 39, 6j. Sembra infondata l'opinione di K. Meyer Geschichte lìes Al-
terthums V p. 128 che intorno al 390 non vi appartenesse ancora Taranto.
190 CAPO XVI - GLI ITALICI IN LOTTA COI CELTI E COI CiKECI
annientato dai Lucani (1); e poco dopo, nel 389, un esercito di
più elle venticinquemila Italioti fu rotto da Dionisio sul fiume
EUeporo presso Caulonia (2). La battaglia di LaO, la prima grande
vittoria campale degli Italici sugli EUeni di cui abbiamo notizia (3),
e la battaglia dell'EUeporo, la maggiore clie si fosse fino allora
combattuta in Italia, segnano un'epoca imiDortantissima nella storia
deir ellenismo nella penisola. Grl' Italioti non valsero più a rifarsi
di forze, e la loro lega, che le ulteriori vicende delle guerre con
Dionisio ridussero a Turi, Eraclea, Metapontio e Taranto, non fu
più in grado di tentar di per se sola una lotta offensiva contro
grindigeni (4). Ma la tutela degli interessi ellenici in Italia fu pel
momento assunta vigorosamente da Dionisio. Il signore di Siracusa
non aveva stretto alleanza coi Lucani e scompaginato la lega ita-
liota allo scopo di giovare agi' indigeni, ne per questo distrusse
Regio, die gritalioti avevano dovuto abbandonargli, e fiaccò la
potenza di Crotone ; ma soltanto per aprirsi la via al dominio del-
l'Italia greca. Così mentre egli fortificava l'istmo di Catanzaro per
difendere la sua alleata Locri e il territorio da lui conquistato di
Regio dalle incursioni dei Lucani (5), profittava dell'indebolimento
degli Etruschi dopo l'invasione gallica per devastare Pirgi, il x^orto
di Cere (6), occupare novamente l'Elba (7) e fondare in Corsica,
regione fino allora sottoposta all'influenza etrusca, un " Porto sira-
cusano „ (8). Al tempo stesso edificava suU'Adiiatico la colonia di
Ancona (9), s'impadroniva di Adria alla foce del Po (10), e tentava
perfino un principio di colonizzazione delle isole e delle coste
(1) DioD. XIV 101-102.
(2) DioD. XIV 104-105. PoLYB. I 6, 2. Polyaen. V 3, 2.
(3) Degl'indigeni d'Italia in generale la prima grande vittoria è quella degli
Iapigi sui Tarentini e i Regini (473). V. sopra p. 178.
(4) Cfr. PoLYB. II 39, secondo cui i propositi degli Italioti di darsi un buon
ordinamento federale furono impediti vuò Tr\(^ Aiovuaiou ZupaKoaiou òuvaOTeiac;,
^Ti òè xì)c, Tiliv irepioiKoùvTUJv Pappdpuuv èrrinpaTeiaq.
(5) Plin. n. h. Ili 95. Strab. VI 261.
(6) DioD. XV 14. Ael. V. h. I 20. Strab. V 220.
(7) V. sopra p. 179. La nuova occupazione si desume da Auistot. polii.
1 1259 a, cfr. Pais ' Studi Storici ' li 347 segg.
(8) ZupaKÓaio*; Xi|uriv, Diod. V 13, 3.
(9) Strab. V 241. Plin. n. h. Ili 111.
(10) Plin. n. h. Ili 120. Plut. Dio 11. Etym. M. n. v. 'Aòpióq.
DIONISIO IN ITALIA. I LUCANI 191
illiriche (1). Cosi dopo un lungo arresto pareva ricominciata l'espan-
sione greca in Italia e nelle isole vicine. E mentre i Celti incen-
diavano Roma, e Dionisio, die era con essi in relazione di ami-
cizia (2) e che anche tra i Celti reclutava i suoi mercenari, deva-
stava il porto della vicina ed amica Cere, si poteva pensare che i
giorni delle iDopolazioni italiche fossero contati e che sarebbero
soggiaciute ai barbari del settentrione o ai coloni greci del mez-
zogiorno.
(1) DioD. XV 13. 14. Cfr. gli scritti cit. sopra I p. 326 n. 3. Un importante
documento epigrafico della operosità coloniale dei Greci nell'Adriatico in questa
età è presso Dittenberger Sijlloge II ^ 933.
(2) Secondo Iustin. XX 5, 4 avrebbe stretto alleanza coi Galli dopo l'assedio
di Roma.
:''"illMF)"'.';'.li|; "»l|,.j|l>""J||Mipi"l.iP)ii -l;(|.H||P-Hfl|||»."llj|l|'l|||lll-"il|ilil| "lll!li<ltr"l'>ll||i.lir'tJ.i|||..i|lll»-»i|||li||.lll'Jìl||PI|||IIW»li!lli||il.' |||l.||l»i"".lH'illii*-iil|I.g|H".IH|r.lH,i-i.;||.i|f.i^l-il||ilìl ,|i|ll,[,»MI.|l,.„,.".IH|.
CAPO xvn.
L'ordinamento centuriato.
La città era devastata; vacillanti le istituzioni; scompaginata
la federazione coi Latini e con gli Ernici ; non esercito, non opere
di difesa; formidabile il pericolo di nuove invasioni barbariche. Ma
ai Romani non mancò animo né consiglio per provvedere al ri-
medio. E si cominciò con un pieno rinnovamento degli ordini
interni. Nella seconda metà del sec. V l'antica leva annua che
prendeva il nome di legione e si componeva dei tre reggimenti-
di mille uomini di fanteria i3esante comandati dai tre tribuni dei
militi non era più prox)orzionata né alle esigenze sempre maggiori
della lotta disperata che i Romani sostenevano contro i vicini, né
all'incremento della popolazione. Fino allora al servizio militare
di prima linea era stata chiamata solo la categoria dei x^ossidenti
più ricchi che si potevano armare di tutto punto a proprie spese,
quella che corrispondeva alla prima classe dell'ordinamento centu-
riato. Cosi si spiega come questa fosse detta per eccellenza " classe „
(leva) (1) e "' classici „ quelli che ne facevano parte, " al disotto
(1) Da calare = Ka\etv secondo Dionys. IV 18 e Quintil. inst. 1 6, 33, i quali
debbono essersi accostati assai al vero, per quanto forse convenga piuttosto sup-
porre col CoussEN una radice clat (*clat-é-re = KXr|Teùuj), cfr. Curtius Grundziige '"
139. Non par da seguire il Mommsen Staatsrecht III 262 seg. ne nel suo scetti-
cismo sulla etimologia ne nella sua interpretazione del vocabolo.
ACCRESCIMENTO DELL'eSERCITO 193
della classe „ {infra classem) quelli clie erano iscritti nelle classi
inferiori (1). Ma più tardi cliiamandosi a grado a grado al servizio
militare di prima linea anche altre categorie di cittadini meno
provvisti dalla fortmia , si cominciò a far leva annualmente di
quattro e poi di seimila fanti d'armatura pesante. Ciò si desume
dai fasti consolari, i quali mostrano come i tribuni militari che
prima erano tre, uno per ciascuno dei tre corpi di mille uomini
arrolati ogni anno, fm-ono d'ordinario quattro dal 426 in poi e si
elessero sovente in nmnero di sei a partire dal 405 (2). Anche te-
nuto conto però dell'estendersi graduale dell'obbligo del servizio
militare, quando il territorio romano a.bbracciava solo un 900 km'
(I p. 384) e la popolazione cittadina non poteva superare i 50 mila
uomini, tra cui un 15 mila maschi adulti, il mettere in piede di
guerra annuahiiente tremila fanti gravemente armati era già chie-
dere al popolo romano un non piccolo sacrifizio; un esercito di
seimila uomini di fanteria pesante non si potè arrolare costante-
mente anno per anno se non quando il territorio dello Stato si fu
accresciuto a sijese degli Equi e degli Etruschi. Cosi la statistica
conferma quel che si ritrae dai fasti, che la normale leva annua
di seimila uomini non può essere anteriore al princix^io del IV secolo.
Raddoppiato il contingente che si metteva ciascun anno in
assetto di guerra, si divisò d'ordinarlo in due unità rispondenti cia-
scuna alla legione che prima aveva costituito l'esercito romano:
ciò era suggerito tanto dalla lunga tradizione che faceva consi-
derar quella come la normale unità delle forze militari e dalla ne-
cessità di dividere -i combattenti per fronteggiare i vari nemici
contro cui Roma aveva a difendersi, quanto dall' opportunità di
dare a ciascuno dei due magistrati che annualmente erano o
avrebbero dovuto essere a capo dello Stato un j)iccolo corpo d'eser-
cito che stesse a' suoi ordini.
La legione era costituita più tardi di tremila uomini di fanteria
pesante e milleduecento di fanteria leggera (3); ed abbiamo ragione
(1) Gell. n. A. VI 13. Fbst. ep. p. 113: infra classem signi/ìcantur qui minore
siimma quam centiim et viginti milium aeris censi sunt.
(2) Queste induzioni dal numero dei tribuni militari son fondate su ciò che
s'è detto sopra sulla natura e la origine del tribunato militare con potestà
consolare (sopra p. 57).
(3) PoLYB. VI 20 (a proposito degli ordinamenti militari romani). Il 24, 18
(pel 225). Liv. VII 25, 8 (pel 349). 11 numero delle truppe leggere si desume da
PoLYB. VI 21. In cifra tonda la forza effettiva della legione si computa spesso
a 4000 uomini: così già pel 494 presso Dionys. VI 42.
Gr. De Sasctis, Storia dei Romani, II. 18
194 CAPO XVII - l'ordinamento centuriato
di credere che questa fosse la sua forza effettiva fin da quando
intorno al 400 si trasformò Tordinamento militare romano. Due
legioni comprendono ijertanto sessanta centinaia di fanti di grave
armatura e ventiquattro d'armatura leggera. Or gli anticlii ci
parlano d'un ordinamento romano in cui erano sessanta le centurie
dei giovani destinati a servirle nella fanteria di linea e venticinque
quelle dei giovani destinati alle truppe leggere ; e non v'ha dubbio
che esso fu adottato quando la milizia levata annualmente si ordinò
in due legioni (1). E come ciò non potò farsi in nessun modo innanzi
al 405, quando i tribuni militari furono portati per la X3rima volta
a sei, è chiaro che una riforma si grave di conseguenze militari
e politiche deve essersi introdotta dopo che il disastro gallico ebbe
dimostrata la insufficienza degli ordinamenti antichi. Nò deve im-
pedirci di cosi ritenere la tradizione che riferisce le origini della
riforma a Servio Tullio ; X30ichè già vedemmo che a lui sono state
attribuite in generale, senza tener conto della cronologia, le istitu-
zioni più importanti della Roma repubblicana. Si ijonga mente
inoltre che 1' essersi distribuito il popolo in 193 centurie, alcmie
molto numerose, sebbene forse non quanto pretende la tradizione,
tutte, eccetto le centurie dei cavalieri, ben più numerose del con-
tingente che dovevano fornire all'esercito, suppone una popolazione
cittadina adulta di almeno trentamila uomini, ossia doppia di quella
del principio del sec. V (2).
(1) Che l'ordinamento serviano fosse essenzialmente ordinamento militare fu
riconosciuto dallo Schweglek R. G. I 740, dal Mommsen R. G. I ^ 92 ed in modo
anche pi\i esplicito da H. Genz Die servianische Centurienverfassung (Sorau
1874, progr.) e dal Soltau Altrom. Volksrersammlungen p. 229 segg. La tradi-
zione suppone però che ab origine avesse insieme carattere militare e politico.
— Si è speso molto acume per cercare di spiegare come i fanti leggeri fossero
2400 mentre le centurie corrispondenti eran 25, v. Mommsen Tribiis p. 153 seg.
Lanoe Rom. Altertkumer 1 ^ 527. Delbrueck Geschichte der Kriegskunst I 231.
La ragione è forse questa, che per facilitare i computi il numero delle centurie
di ciascuna classe doveva essere in rapporto semplice con quello delle altre;
e perciò conveniva che le centurie iuniorum delle due ultime classi fossero
25 e non 24; il numero dei fanti della legione doveva essere per la stessa
ragione divisibile per cento ; onde di milizie leggere non potevano esservi
12 ^/j centinaia, ma solo 12. Praticamente è probabile che ogni anno una
centuria delle due ultime classi rimanesse per turno esente dal servizio
militare.
(2) Il Delbrueck Gesch.der Kriegskunst I p. 219 segg. ha jjer primo usato della
statistica per discutere i dati tradizionali sull'ordinamento centuriato ; ed è
MANLIO 195
Di riforme faceva del resto assai d'uopo dopo l'incendio gal-
lico; elle il malcontento e la sfiducia negli ordini vigenti si ma-
nifestarono chiaramente nel tentativo di M. Manlio Capitolino per
assumere la tirannide (1). Intorno a questo attentato alla costitu-
zione repubblicana sappiamo soltanto quel che ci è tramandato
dalla migliore delle nostre fonti : che cioè nel 385 M. Manlio, avendo
cercato dimpadronn-si del potere, fu soiDraffatto ed ucciso (2). Con
tale notizia, che allude evidentemente ad una sollevazione di cui
Manlio fu a capo, s'accorda sia Livio quando designa il fatto col
nome di sedizione manliana (3), sia il racconto che abbiamo presso
un altro scrittore secondo cui Manlio, dox)0 aver occupato il Cam-
pidoglio, fu assalito e vinto da Camillo (4). L'ultimo particolare è
peraltro sospetto, perchè par collegarsi, come l'altra notizia pur
sospetta della parte che Manlio ebbe alla salvezza di Roma dai
Gralli, col suo cognome di Capitolino (p. 174); e di dubbio valore
è il contrappósto che vi riappare dei due salvatori della città,
Manlio e Camillo (5). Ma ad ogni modo assai meno antica ed at-
tendibile i^ar l'altra versione della fine di Manlio, secondo cui egli
fu processato per delitto di perduellione innanzi all' assemblea
(delle centurie) nel campo di Marte, e sarebbe stato assolto dal
popolo, che la vista del Campidoglio faceva memore dei servigi
da lui resi alla patria, se Camillo non fosse riuscito ad ottenerne
la condanna a morte trasportando l'assemblea nel bosco Petelino,
onde il Campidoglio non si scorgeva (6). Tutto ciò poi che vien
rimasto persuaso di doverne abbassare la data al 500 circa. Ma da 15 mila
maschi adulti (più allora in Roma non potevano esserne) van detratti un mi-
gliaio almeno per le centurie degl'inermi, 1800 pei cavalieri, un migliaio per
i seniores o per gl'invalidi che avevano servito a cavallo : non rimangono che
11.000 per la fanteria; dei quali i giovani e validi non potevano essere già
85 centinaia, bensì al più un 7000. Ma ammesso pure che fossero 8500, due le-
gioni non si potevano armare annualmente senza che si facesse sempre una
leva in massa di tutta la gioventù valida; e questo invece non poteva farsi,
com'è chiaro, che in via affatto eccezionale.
(1) MoMMSEN Rom. Forschungen II 179 segg.
(2) DioD. XV 35, .3: MdpKO(; MdvXiot; èTTiPaXóiaevo; Tupctwiòi koì KpaxriGeic;
àvr)pé0r|.
(3) VI 11, 1. 18, 1, cfr. 19, 1.
(4) Cass. Dio fr. 25, 2, cfr. Zonae. VII 24.
(5) Esso già appare in Claud. Quadrio, fr. 7 Peter ap. Gbll. n. A. XVll 2, 14.
(6) Cic. de domo 38, 101. Varrò e Corn. Nep. ap. A. Gell. n. A. XVII 21, 24.
Liv. VI 11-20. DioNYS. XIV 4. Plut. C'amili. 36. Val. Max. VI 8, 1. Auct. de
vir. ili. 24.
196 CAPO xvii - l"ordinamento centuriato
narrato innanzi alla condanna sul malessere del popolo oppresso
dai debiti e sui modi che Manlio teneva per lenire le sofferenze
dei debitori, preparandosi la via alla tirannide, non son clie au-
toscbediasmi d'annalisti, per quanto non sia dubbio che anche il
malessere economico debba essere stato assai grave negli anni che
seguirono immediatamente all'incendio gallico. Forse è pure indu-
zione o leggenda che più tardi sulle case di Manlio rase al suolo
s'innalzasse il tempio di Giunone Moneta (1) e che si vietasse per
legge ai patrizi d'abitare il Campidoglio (2); ed anche leggendaria
è forse la deliberazione della gente Manila di non adojìerare più
il prenome di Marco (3); che se questo prenome non fu più as-
sunto da nessun Manlio, può benissimo recarsene la cagione, senza
bisogno d'alcun decreto gentilizio, ai ricordi dolorosi che con esso
si collegavano. Ad ogni modo fra tante leggende e tante inven-
zioni si vede chiaramente che Manlio tentò di rinnovare lo Stato
con opera violenta e rivoluzionaria; e, sebbene la tradizione i)iù
antica ascrivesse il vanto di aver superato la sedizione manliana
non a Camillo, ma al dittatore A. Cornelio Cosso (4), in un punto
il contrapposto di Camillo e di Manlio risponde alla verità, che
cioè, a differenza di Manlio, Camillo si studiò, e con prospero suc-
cesso, di rinnovare lo Stato mediante pacifiche ed opportune ri-
forme. Infatti, per quanto le riforme che vengono dalla tradizione
attribuite a Camillo (5) sembrino in realtà assai posteriori, non
par dubbio che com'egli fu l'anima della difesa di Roma negli
anni che seguh'ono all' incendio gallico , cosi fosse 1' autore o uno
degli autori di quella riforma centuiiata che tanto contribuì al
pronto risorgere della potenza romana; e perciò a buon diritto fu
celebrato dalla leggenda come il secondo fondatore di Roma.
Secondo l' ordinamento centuriato, il popolo romano era di-
stinto in cinque classi e in 193 centurie (6). Di queste, 18, ossia
(1) Liv. VII 28. OviD. fasti VI 183 segg.
(2) Liv. VI 20, 13. Val. Max. 1. e. Plut. 1. e. e q. B. 91. Cass. Dio fr. 25, 1.
(3) I p. 230 n. 4.
(4) Infatti all'a. 385, sotto cui Diodoro riferisce la fine di Manlio, Livio narra
che fu fatto arrestare dal dittatore A. Cornelio Cosso; ma rimesso in libertà
non venne condannato che l'anno seguente. Sembra che la catastrofe sia stata
trasportata al 384 solo per potervi far avere una parte a Camillo, che in
quell'anno era tribuno militare.
(5) V. oltre p. 207 n. 4.
i6) Questo numero è dato da Cic. de re p. II 22, 39 e da Dionys. IV 18. 19. 20.
VII 59. X 17.
LE NUOVE CENTURIE 197
circa il decimo della forza militare massima che potevasi armare,
erano centurie di cavalieri; 80, cioè 40 di iuniori e 40 di seniori,
spettavano alla prima classe; 20, ossia 10 di imiiori e 10 di seniori,
alla seconda; altrettante alla terza ed alla quarta e 30 alla quinta,
anche queste divise per metà tra giovani e vecchi (1). Il limite di
età tra le centurie degli iuniori e dei seniori ossia tra il servizio
militare attivo e la riserva era il quarantacinquesinio anno com-
piuto (2), o, secondo alcune fonti, il quarantesimo sesto (3). Altre
cinque centm-ie potevano essere adoperate anche in guerra, ma
senz'armi, onde quelli che vi erano iscritti furono detti inermi: si
chiamarono anche, a quel che pare, capitecensi, perchè lo Stato
ne teneva registro, non pei loro beni che erano troppo insigniti-
canti, ma solo per la loro persona {caput) (4), e proletari, perchè
non servivano lo Stato pagandogli il tributo del denaro o del
sangue, ma contribuendo a dargli nuovi cittadini (5). Queste cinque
centurie erano quelle dei falegnami {fabri tignarii)^ dei fabbri
{fabri aerarli)^ dei sonatori di tromba (tubicines)^ dei sonatori di
corno (cornicines) e di coloro finalmente che, non avendo alcun
mestiere speciale, venivano registrati alla fine della lista dei cit-
tadini (accensi) e prestavano in guerra qualsiasi servizio secon-
dario a richiesta del comandante (6).
(1) Sulla disti-ibuzione delle centurie fra le classi concordano Liv. I 43 e
DioNYs. IV 16. 17. VII 59.
2) Così Varrò ap. Censor. de die ncit. 14, 2 seguito da Dionys. IV 16.
(3) Così TuBERONE ap. Geli,, n. A. X 28. Polyb. VI 19, 2. Cic. de senect. 17, 60.
Liv. XLIII 14, 6. Cfr. Mohmsen Staatsrecht I ^ p. 508 n. 1.
(4) Gell. n. A. XVI 10, 10: qui nullo aiit perquam parvo aere censebaniur
''capite censi ' vocahantur. Exuper. 2: illi quibiis nullae opes erant caput suum
qiiod solum possidehant censebantiir.
(5) La identità dei proletari e dei capitecensi è asserita esplicitamente da
Fest. p. 226 : ijroletarium capite censum dictum e implicitamente da Cic. de re p.
II 22, 40, secondo cui eo.s qui aut non plus mille quingentwn aeris aut omnino
nihil in suum censum praeter caput attuUssent proletarios nominavit (Servius).
Invece secondo Gellio i proletari possedevano almeno 1500 assi, i capite-
censi tra 1500 e 875. Queste notizie sono state interpretate variamente e va-
riamente accostate a quella data da Polibio che il servizio militare era obbli-
gatorio per chi possedeva sopra 4000 assi (VI 19, 2). Probabilmente in vari
tempi nel III e nel II sec. fu abbassato il censo richiesto per servire nel-
l'esercito ; e le notizie frammentarie che ne aveva raccolto qualche erudito
servirono ai filologi per differenziare artificialmente capitecensi e proletari.
(6) DioNYs. IV 17: TéxTapaq òè Xóxouq oùbèv ^Xovxaq òttXov àKoXou9elv èKéXeuae
Toì<; évÓTtXoi!; ■ rjjav bè tiIiv TeTxcipuuv toùtujv bùo ,uèv óttXottoiùjv xe xaì xe-
198 CAPO XYii - l'ordinamento centukiato
Le classi si distinguevano secondo il censo. Ci vien detto che
per essere iscritti nella prima si richiedeva un capitale di 125 mila
(più tardi 100 mila) assi (1), per la seconda 75 mila, per la terza
50 mila, per la quarta 25 mila, per la quinta 12.500 od anche
11 mila (2). Di questi assi, dieci vengono ridotti costantemente dagli
scrittori greci ad una dramma, ossia ad un. denaro (3). Ma questa
riduzione non si applica già all'asse originario, l'asse librale, ne
all'asse ridotto del tempo della seconda guerra punica, che fu
equiparato ad Vie di denaro, bensì all'asse del periodo intermedio
tra il 268 ed il 216 circa, che si ragguagliava ad Vio del denaro
d'argento (4). Ciò prova che le cifre del censo delle varie classi, come
ci furono tramandate, non solo non risalgono a Servio Tullio, ma non
son neppure anteriori all'età delle guerre puniche. Onde potrebbe
sorgere il dubbio che la tradizione, come anticipò dal IH al VI
secolo quelle cifre, cosi abbia errato ritenendo anteriore al ITE se-
colo tutto in genere l'ordinamento per classi e per centm-ie. Ma
è assai inverisimile che nuovi ordini introdotti non molti anni
prima della nascita dei i3Ìù antichi annalisti fossero riferiti all'età
regia dalla tradizione canonica che aj)punto a quegli annalisti
mette capo; mentre invece ben può spiegarsi che di qualche po-
steriore riforma dell' ordinamento centuriato , p. e. del ragguaglio
dei censi in assi del nuovo sistema monetario , si dimenticasse
1' origine j^iù tardi e si stimasse avvenuta nelF atto stesso in cui
KTÓvuuv Kai Tiùv tìXXujv Tòiv aK6ua2óvTUJv Tà elq tòv iróXeiuov €vxpr]aia, bùo òè
aaXmoTÒjv koì PuKaviaTuùv koì tùiv (SXXoiq tioì òpyóvok; ^TriarmaivóvTUJv tò irapa-
KXriTiKÒ ToG 7ToXé|uou. IV 18: xi^v ò'èirì -rrctoaiq TeTayiuévriv (au|U|Liopiav, cioè la
sesta classe) eie; Xóxoq (èirelxe) ó tùjv àuópiuv. La centuria degli accensi solo
da Dionisio è computata come sesta classe (anche VII 59). Altrove non si parla
che di cinque classi, Cic. de re p. II 22, 39. Liv. Ili 30. Gell. h. A. X 28 1.
AscoN. in Cornei, p. 26 Oeelli. Charis. inst. 1 p. 75 Keil. Liv. 1 43 computa
sei centurie d'inermi, alle cinque di Dionisio aggiungendone una di capite
censi. Per gli accensi v. Fest. ep. p. 18. 369. Varrò ap. Non. p. 520. Mommsen
Staatsrecht III 283. Delbrueck Kriegskunst I 233.
(1) 125 mila secondo Gell. n. A. VI 13; 120 mila secondo Plin. n. li. XXXIII
43 e Fest. ep. p. 113; 100 mila secondo Liv. I 43, 1 e Dionys. IV 16, 2. Lo stesso
censo è presupposto da Polyh. VI 23, 15 quando dice che portano la corazza
a maglia ol ùirèp ràc, nupiaq Ti|aiÌJMevoi òpoxiudq.
12) 12.500 secondo Dionys. IV 17, 1; 11.000 secondo Liv. I 43, 8.
(8) DioNYs. IV 16. 17. PoLYB. 1. cit. Cfr. anche Liv. XLV 15, 2, dove sembra
che due assi e mezzo del censo vengano equiparati a un sesterzio.
(4) Mommsen- Staatsr. Ili 249 n. 4. Per le riduzioni dell'asse v. al e. XXIIL
LE CINQUE CLASSI 199
s erano istituite classi e centurie. Inoltre l'ordinamento centuriato
entrò in vigore quando l'esercito romano saliva d'ordinario a due
leg'.oni. Invece dm-ante la prima punica, anzi dagli ultimi anni della
seconda g-uerra sannitica (v. e. XIX) la forza annua dell'esercito
era, \n tempo di guerra, di quattro legioni ; e per di j)iù nel sec. HI
le centurie della fanteria pesante in ciascuna legione non si di-
stinguevano secondo che appartenevano alla prima, alla seconda
o alla terza classe, ma, tenuto conto soltanto dell'età, erano di-
stinte in gruppi forniti d'armi diverse (1).
Questo ordinamento adunque dev'essere sol di poco posteriore
airincendio gallico. Pure è probabile che, a differenza di quel che
si fece in Atene al tempo di Solone, il censo richiesto per le sin-
gole classi fosse comxDutato anche in origine in metallo e non in
natura; poiché intorno al 400 già la libbra di rame era l'unità di
misura del valore, e in rame si imponevano ordinariamente le
multe fin dal tem^DO delle dodici tavole. Si aggiunga che solo per
mezzo della riduzione ad una comune unità secondo una tariffa
più o meno perfezionata poteva tenersi il debito conto del bestiame,
che pui' formava una parte non piccola della ricchezza dei conta-
dini romani (2). E lecito quindi ritenere che per avere i censi ori-
ginari delle varie classi convenga senz' altro ridurre gli assi di
dieci al denaro in assi librali che si consideravano come eguali
al sesterzio. Ma questa riduzione dei censi delle classi rispettiva-
mente a 50, 30, 20, 10 e 5 mila assi librali avrebbe importanza
solo se sapessimo con quale tariffa si ragg-uagliò in denaro il capo
di bestiame o lo iugero di terreno. Purtroppo, se per il bestiame
possiamo congettm'are che la tariffa fosse quella stessa fissata x)er
legge secondo cui la pecora veniva computata a dieci, il bue a
cento assi (sopra p. 55), ignoriamo affatto come venissero valutate
le case, i terreni e gli schiavi. Solo xoossiamo tenere con sicurezza
che del danaro, della suppellettile domestica e degli oggetti pre-
ziosi non si tenesse alcun conto prima d' A^Dpio Claudio Ceco e
che la misura minima di terreno distribuita fondando colonie di
cittadini dovesse essere sufficiente ad avere il censo richiesto per
(1) PoLYB. VI 21, cfr. Liv. Vili 8.
(2) Si è detto che l'ordinamento serviano non si preoccupava delle res nec
mancipi, com'erano appunto le greggie. In realtà sembra impossibile che per
scrupoli giuridici si omettesse nel computo del censo un elemento così impor-
tante, quando si aveva nella libbra di rame una comune misura che permet-
teva agevolmente di tenerne conto.
200 CAPO xYii - l'ordinamento centuriato
la quinta classe. Ora le notizie su antiche assegnazioni di dua
iugeri non sono in tutto degne di fede (1). Ma anche nel II secoio
si distribuirono talora a coloni romani solo 5 iugeri (2), e nel Z73
in un'assegnazione viritana in cui si tenne conto anche dei Latini
si distribuirono a questi tre iugeri per ciascuno (3). La tradisione
poi riguarda sette iugeri come la misura del campicello del citta-
dino del buon tempo antico, e parla di sette iugeri a pi'oposito di
Cincinnato, di Atilio Regolo e di Fabio il Temporeggiatore (4).
Che se qui si tratta di notizie leggendarie, in ispecie rispetto a
Fabio, difficilmente peraltro sarebbero sorte leggende simili se
non veniva di regola iscritto nella fanteria pesante, ossia nelle tre
prime classi, un proprietario di sette iugeri di terra (ett. 1,76),
quando disponesse, s'intende, di qualche altro piccolo capitale,
una casetta, qualche capo di bestiame, forse uno schiavo. Va
quindi ritenuto che il censo delle varie classi e persino quello
della prima era proporzionalmente bassissimo. Per la prima classe
può notarsi a conferma che il censo equestre doveva essere eguale
o superiore a quello per essa richiesto, obbligata com'era quella
classe solo al meno costoso servizio di fanteria. Ora se nel II se-
colo, fondando una colonia di diritto latino, ai cavalieri che vi
presero parte, trattati assai più liberalmente dei fanti, si distri-
buirono trenta iugeri (5), ciò par provare che con trenta iugeri di
terra si poteva essere iscritti alla prima classe, computati, s'intende,
quei piccoli capitali in schiavi o in bestiame che solevano accom-
pagnare una proprietà di siffatta ampiezza. Bisogna è vero tener
conto dell'agro pubblico, che però doveva avere intorno al 390 una
(1) Liv. IV 47, 6. VI 16, 6. Cfr. sopra p. 71. Potrebbe però essere storica
la notizia sui due iugeri dati ai coloni d'Anxur nel 329: Liv. Vili 21, 11.
AU'a. 340 Liv. Vili 11 ricorda assegnazioni di due iugeri e ^/.j e di tre iugeri.
(2) Così per Mutina (Liv. XXXIX 55, a. 183) e per Graviscae (Liv. XL 29,
a. 181).
(8) Liv. XLII 4, 4.
(4) Per Cincinnato e per Regolo v. Val. Max. IV 4, 6. 7. A Cincinnato si
attribuiscono anche quattro soli iugeri, v. Liv. Ili 26, 8. Plin. «. h. XVII I 20.
CoLUM. de re r. praef. 13. Eutrop. I 17. Per Fabio v. Val. Max. IV 8, 1. —
Plin. n. h. XVIIl \% : Mani quidein Curi... nota contio est: j^erniciosum intellegi
civem cui septem iugera non essent satis. Cfr. Val. Max. IV 3, 5. Colum. de re r.
praef. 14. I 3, 10. Frontin. strat. IV 3, 12. V. anche Val. Max. IV 4, 11: (nel
tempo antico) nullum aut admodum parvi ponderis argentum, paucos servos,
septem iugera aridae terrae cernimus.
(5) Per Vibo Valentia, nel 192, v. Liv. XXXV 40.
LE CINQUE CLASSI '201
estensione mediocre, dove poteva mandarsi a pascolare il proprio
bestiame, delle guerre continue clie iDermettevano al contadino
soldato di arricchire con quel che si carpiva al nemico la i)0-
vertà della sua azienda rurale, e in fine delle frequenti assegna-
zioni di territorio occupato che davano ai cadetti poveri il modo
di guadagnarsi la vita senza essere a carico della famiglia. Tutto
ciò può farci intendere come fosse si basso il limite del censo per
la terza classe e proporzionalmente quelli delle altre; ma non
resta men vero che in Atene una buona xoarte dei cittadini delle
qtiattro classi inferiori Solone l'avrebbe registrata nella sua ultima
classe, quella dei teti, che, libera dal tributo e dal servizio militare
nella fanteria pesante, era in compenso inferiore quanto ai diritti
politici alle altre classi. Il servizio militare veniva cosi a costituire
un peso gravissimo pel piccolo proprietario che, mentre col suo
campicello d una decina di iugeri riusciva ap]oena a sfamare la
famiglinola, costretto a trascurare spesso per la guerra i lavori
rm-ali, aveva inoltre a suo carico la compra e la manutenzione
delle armi. Sovveniva in parte a questi mali lo stipendio militare,
ignoto nell'età più antica, che fu introdotto, secondo gii annalisti,
nel 406 av. C, e in ogni caso non molto dopo che si mise in vigore
la costituzione serviana (1); ma più dello scarso stipendio mensile,
da cui si detraevano le sx^ese per il vitto e x)el rifornimento del
vestiario e delle armi (2), ai danni che soffrivano dal servizio mi-
litare i piccoli proprietari soccorreva innanzi alla iDrima guerra
punica la breve dm^ata delle camiDagne e le assegnazioni di terri-
torio tolto ai vinti.
E errata del resto 1" ox)inione comune che quando venne at-
tuata la costituzione serviana vi fosse grande disparità numerica
tra le centurie (3) e che esse abbracciassero^ di contro a qualche
centinaio apx)ena d'iscritti nelle x)rime classi, forse qualche migliaio
(1) Liv. IV 59, 11 : (decrevit) senatus ut stipendium miles de publico acciperet
Clini ante id tempus de suo quisque functus eo niunere esset. Y 4, 5. Flor. I 12.
DioD. XIV 16 5. Zos. VII 20. Lyd. de mag. I 45. Che in origine non vi fosse
stipendio militare e asserito anche da Dionvs. IV 19.
(2) Come dice pel suo tempo Polyb. VI 39: toI; òè "Pujjuaioi; xoO xe oixou
Kttì xfic èaSrjxo; k6.v xivoq òttXou upoobeiiGiuai, ttóvxujv xoóxuuv ó xomÌ"'; Tt^v x€-
xaYiaévrjv Ti)anv èK xuJv òipuuviuuv ÙTToXoYi^exai.
(3) Su ciò ha giudicato rettamente Delbrueck op. cit. I p. 224 seg. Le sole
centurie degli inermi erano verisimilmente parecchio più numerose delle altre.
202 CAPO XVII - l'ordinamento centuriato
nel popolo minuto delle ultime, di guisa die queste assai meno
a\Tebbero dovuto soffrire pel servizio militare e in proporzione
assai meno, anche quando tutte le centurie avessero dato il voto,
avrebbero contato nell'assemblea popolare centmnata. E certo invece
che se nelF assemblea centuiiata la prima classe, comx^resi i cava-
lieri, disponeva di 98 voti, mentre tutte le altre insieme non ne
avevano che 90, questa distribuzione dei voti doveva corrispondere
press'a poco alla forza numerica delle classi stesse. Infatti intorno
al 390 il territorio romano s'era raddoppiato per effetto delle con-
quiste, ma ancora la popolazione cittadina non s'era potuta accre-
scere in proporzione del paese annesso, sicché non doveva sujDerar
di molto le novantamila anime. Ora computando al minimo pos-
sibile l'effettivo di ciascuna centuria, ossia a cento quello delle
centurie dei cavalieri e dei seniori, a duecento quello degli iunior!
e degii inermi, si viene a poco meno di trentamila maschi adulti,
cioè appunto ad una popolazione cittadina di più che novanta-
mila anime e ad una popolazione totale di oltre centomila. Ma in
questo computo il numero degli iscritti alle centurie è senza dubbio
inferiore al vero. E quindi affatto impossibile che le centurie della
terza, quarta e quinta classe fossero molto più numerose di quelle
della prima: si dovrebbe altrimenti supporre nel territorio romano
una densità di xjopolazione superiore ad ogni verisimigiianza. E
però la costituzione cosi detta serviana, anziché politicamente gra-
vosa, era invece favorevole da questo punto di vista in sommo
grado alla classe dei minori j)roprietari i cui diritti essa pareg-
giava teoricamente appieno a quelli dei maggiori. La classe domi-
nante si rassegnò ad accettarla perchè si avvide che Roma aveva
d'uopo della tensione massima delle sue energie e non c'era altra
via di salvezza se non quella di abbassare all'estremo il limite
minimo del censo necessario per servire nella fanteria di linea.
Preparata a poco a poco durante il sec. V con l'accrescimento dei
reggimenti comandati dai tribuni militari e con la nuova circo-
scrizione territoriale destinata a facilitare la leva, l'ardita riforma
che tolse di colpo ogni residuo d'importanza politica e militare
alle ernie e alla loro assemblea si può insomma spiegare soltanto
con la necessità, resa evidente agii occhi di tutti dall' incendio
gallico, di riformare con opera pronta e coraggiosa lo Stato e di
accrescere definitivamente l'esercito, I novemila uomini che, com-
presa la fanteria leggera e la cavalleria, i Romani mettevano an-
nualmente in piede di guerra in virtù del nuovo ordinamento,
rai^presentavano il decimo circa della popolazione cittadina. Era
uno sfruttamento inaudito delle proprie energie, il quale non ha
LA FANTERIA 203
riscontro alcuno nella storia moderna (1). Ed ebbe due effetti
gravissimi: Fimo che Roma non solo ricuperò rapidamente il
terreno perduto per effetto del disastro del 390, ma iniziò presto
la serie gloriosa delle sue conquiste; l'altro che i piccoli proprie-
tari sfruttati a difesa dello Stato ne divennero senza indugio i
13adi'oni, emancipandosi politicamente ed economicamente dalla
tirannide aristocratica. Nessuno poteva prevedere allora che l'ef-
fetto finale del nuovo ordinamento sarebbe stato la conquista del
mondo per opera dei Romani e la distruzione di quella classe di
contadini proprietari che l'aveva conquistato.
Anche dopo che s'attuò l'ordinamento centuriato la fanteria pe-
sante di una legione costituiva una falange, una sola unità tattica
non divisa punto in unità tattiche minori (2), la cui forza per la
resistenza come per l'assalto consisteva nel tener fermo delle file
l'una dietro l'altra e dei soldati l'uno accanto all'altro nella fila.
Questa tattica, in uso fin dall'età arcaica presso i Grreci, fu adot-
tata dagli Italici tanto per l'esempio di quelli quanto per l'analogia
delle condizioni. Infatti accolto in Italia l'uso, che s'era introdotto
dapj)rima nel bacino orientale del Mediterraneo, dell'armatura de-
stinata a proteggere tutta la x^ersona (panoplia) e, col rendersi
sempre più commii i metalli ignobili, divenuto più facile ad ogni
uomo libero non tropp»o povero di prociu^arsela, doveva necessa-
riamente trovar buona accoglienza una tattica che permettesse di
trar profitto non più solo del valore individuale dei i^ochi forniti
di buone armi, ma anche del valore collettivo della schiera armata.
La riforma serviana avanza in questo gli altri ordinamenti simili,
che si vale anche di quanti non sono in grado di proemiarsi l'in-
tera panoplia, ma solo una parte, collocandoli nelle ultime file. Qui
essi servono sia materialmente con la loro pressione a spingere
innanzi le prime file, sia moralmente a incoraggiare quelli che
stanno sul fronte di battaglia con la sicurezza che dietro ad essi
sono altre milizie sufficientemente armate loer essere in grado di
(1) La Prussia nello sforzo immane che fece per la libertà nel 1813 mise in
assetto di guerra il 5 ^1^ p. cento della popolazione, nel 1870 solo il 3 ^/j.
(2) Cfr. Liv. Vili 8, 3 : et quod unteci phalanges similes Macedonicis, hoc postea
manipulatim structa acies coepit esse. Secondo Atiikn. VI p. 273 f e l' ined.
Vaticanum ' Hermes ' XXVII (1892) p. 121 i Romani avrebbero appreso a
disporsi in falange dai Tirreni ; e non è impossibile infatti che gli Etruschi
abbiano trasmesso ai Latini una tattica che essi stessi avevano appreso dai
Greci.
204 CAPO XVII - l'ordinamento centuriato
resistere nel caso che il nemico rompa qua e là la prima linea.
S'intende che questo ufficio non poteva spettare che ai fanti della
seconda e della terza classe: le quali, mentre la prima era armata
di elmo di bronzo, corazza, scudo rotondo di bronzo {clipeus) e
schinieri {ocreae}^ non portavano corazza, proteggendo invece il
petto col lungo scudo quadrangolare {scutuni), e si distinguevano
tra loro x^erchè la terza era dispensata dall'uso degli schinieri. La
quarta e la quinta classe invece, armate solo l'una di giavellotto,
Taltra di fionda, senza difesa di scudo né di corazza, non potevano
costituir punto le ultime linee della falange, dove non sarebbero
state d'alcun uso non avendo modo di servirsi colà delle proprie
armi uè tanta fiducia in sé p)otendo senth'e o ispirare agli altri
da incorare i fanti gravemente armati sia all'assalto sia alla difesa
o anche solo da sospingerli innanzi premendo su di essi (1). Si é
dubitato dell'aggiustatezza delle notizie tradizionali sul diverso
armamento delle classi, perchè pareva impossibile che lo Stato
primitivo si occupasse di particolari come la forma dello scudo
in un tempo in cui non si pagava stipendio e ciascuno si 'pro-
cacciava da sé r armatura. E certo tale obbiezione varrebbe se
le classi fossero state davvero istituite dal buon re Servio. Ma lo
Stato del sec. IV era progredito e conscio del suo ufficio abba-
stanza per imporre un regolamento sulle armatiu'e da usarsi in
guerra ; e che ciò non sia una invenzione annalistica si vede anche
dalla importanza che viene attribuita alla lancia, l'arme più ac-
concia per la falange, che fu sostituita, progredendo la tattica, col
pilo, e dalla menzione degli schinieri, che il legionario romano
dell'età storica non usava più di portare (2).
Da queste considerazioni si desume che la centuria della legione
nell'ordinamento serviano non era punto una miità tattica, anzi
(1) Cfr. Delbrueck op. cit. I p. 221 segg. Le milizie leggere delle ultime
due classi portavano allora il nome di rorarii, cfr. Non. p. 552: rorarii ap-
pellabantiir milites qui antequam congressae essent acies primo non niultis iaculis
inihant proelium: tractum qiiod ante muximas pliwìas caeluin rorare incipiat, e
i frammenti di Lucilio e di Vaurone ivi cit.
(2) Sull'armamento vario delle classi v. Liv. 1 43. Dionys. IV 16. 17. La quarta
elasse avrebbe fatto parte anch'essa della falange secondo Dionys. 1. e: òttAo
bè qp^peiv èraEev aÙTOÙi; GupeoCx; re koì Eiqpri koI òópaxa Kaì orctaiv l\e\.v èv toìc;
àyuJai T)*|v ùoTÓxriv : ma è da seguire piuttosto a tal proposito Liv. 1. e. Lo
scetticismo del Delbuueck op. cit. I p. 222 è giustificato soltanto se si accetti
l'opinione comune o anche quella del Delbriick stesso sull'antichità delle
classi.
LA CAVALLERIA 205
neppui'e una suddivisione che avesse importanza militare; perchè
in una falange possono aver militarmente importanza solo quelle
suddivisioni che dalla ]ìrima vanno all'ultima fila, mentre la cen-
tmia non abbraccia che soldati di una classe e quindi di una parte
soltanto delle file (1). E i^erò la centm'ia non poteva in campo
esser altro i^er allora che una unità amministrativa; ma essa aveva
importanza principalmente nella leva. I cittadini erano divisi nel
censimento in centurie, sicché era facile da ciascuna centuria di
iuniori registrati nel censo coscrivere un centinaio di soldati egual-
mente armati pei due eserciti consolari; onde la centuria del censo
era divenuta, come in origine era la ernia, il quadi^o di leva della
centui'ia dell'esercito.
Le centurie dei cavalieri erano nell' ordinamento serviano di-
ciotto (2). Né x30ssono dirsi molte in proporzione dei 600 cava-
lieri che si levavano annualmente insieme con le due legioni;
perchè un terzo di quelli che erano registrati nei quadri doveva
così prendere le armi ciascun anno: numero considerevole, se si
tien conto dei cavalieri che rimanevano abusivamente nelle cen-
turie equestri anche divenuti inabili al servizio attivo (3), di chi
aveva qualche ragione legittima per farsi dispensare in un dato
anno dal servizio, di quelli cui toccava d'accompagnar l'esercito
come tribuni militari o fors' anche con altri uffici , e infine dei-
Tessere i cavalieri obbligati a servire effettivamente per non più
di dieci campagne, mentre i fanti potevano essere coscritti i3er
sedici (4). Certo non si passò ad un tratto dai trecento cavalieri
dell'ordinamento antichissimo ai 1800 della costituzione serviana;
e gli annalisti narravano in vario modo gli incrementi successivi
della cavalleria (5), riferendoli naturalmente tutti all'età regia,
poiché Romolo aveva già, secondo la tradizione, arrolato trecento
cavalieri e già almeno da Servio in x^oi si erano scelti i cavalieri
nel numero rimasto poi fisso di 1800. Or mentre è evidente che
tanti non son divenuti i cavalieri se non da quando si son co-
scritte ogni anno due legioni, è pure evidente che già dal sec. V
(1) Delbuueck I 228 segg.
(2) Sui cavalieri romani in generale, v. Mommsen Staatsrccht III p. 476 segg.
Belot Histoire des chevaliers Romains I. II (Paris 1866. 1873). Kueuler in Pauly-
WissowA ' Real-Enciclopildie ' VI p. 272 segg.
(3) Liv. XXVI 86, 6. XXIX 37, 8.
(4) PoLYB. VI 19, 2. Plut. C. Gracch. 2. Liv. XXVII 11, 14.
(5) V. i testi presso Kueulkr p. 274 segg.
206 CAPO xYii - l'ordinamento centuriato
debbono essere stati insufficienti i trecento cavalieri deiretà regia.
E si cominciò a provvedere ai nuovi bisogni raddoppiando le tre
centurie dei Tiziensi, Ramnensi e Luceri nel modo clie vedemmo
altrove (I p. 249). Quando siffatta riforma avvenisse purtroppo non
sappiamo ; la tradizione l'ascrive a Tarquinio Prisco percliè doveva
essere anteriore alF ordinamento centuriato die s'attribuiva a re
Servio.
Con la istituzione delle diciotto centurie equestri si collega la
concessione ai cavalieri di prov\^edersi il cavallo a spese dello
Stato (eqiius publicus). Nell'atto cioè clie essi venivano iscritti in
quelle centurie, ricevevano una somma fìssa per comperarsi il ca-
vallo {aes equestre) (1), alla quale s'aggiungeva una indennità
annua pel suo mantenimento (aes hordiarium) (2). Questo stesso
conferma del resto ancora una volta che gli ordini attribuiti a
Servio non sono anteriori al 400 circa; perchè è assurdo che si
pagasse una indennità ai cavalieri, che erano scelti tra i più ricchi,
finché non avevano stipendio i fanti. La indennità dovette intro-
dursi quando si riconobbe che non bastavano più i patrizi delle
sei antiche centurie , e si cominciarono ad arrolare in copia pel
servizio nella cavalleria i plebei , ai quali non si i^oteva imporre
di provvedersi a proprie spese di cavalli da guerra, come avranno
fatto fino allora. per tradizione e per grandigia le famiglie pa-
trizie. Quale, fosse peraltro in origine la indennità assegnata ai
cavalieri, ignoriamo; perchè le somme di mille o persino di dieci-
mila assi per la compera e di duemila assi all'anno i)el manteni-
mento del cavallo che troviamo registrate nelle nostre fonti (3)
non solo sono assurde per l'età di Servio e pel V secolo, quando
un bue era stimato cento assi, ma è assai diffìcile che possano
anche risalire al 390 circa e forse non sono anteriori alla riforma
degli ordinamenti militari verso la fìne del secolo IV,
Lifatti con l'accrescersi dell'estensione e della popolazione dello
Stato romano si dovette poi aumentare di nuovo la forza effettiva
delle milizie cittadine; e sulla fìne della seconda guerra sannitica
si cominciarono a levare due eserciti consolari di due legioni per
ciascuno. Al tempo stesso alla divisione della falange in tre parti
diversamente armate secondo il censo si sostituì la divisione in
(1) Fest. epit. p. 81.
(2) Fest. p. 102.
(3) Liv. I 43, 9. Varrò de l. l. Vili 71: eguitm puhlician mille assarium esse.
NUOVE RIFORME MILITARI 207
ire parti secondo l'anzianità di servizio (1), benché rimanesse fino
al tempo delle guerre pmiiclie qualche vestigio del diverso arma-
mento originario delle varie classi (2). A questo punto l'ordinamento
militare si distaccò dall'ordinamento civile, che non i^oteva trasfor-
marsi ad ogni istante per seguirne tutti i progressi, e la centuria
come suddivisione della cittadinanza cessò d'essere in rapporto con
la centuria come suddivisione dell'esercito ; mentre le classi conser-
varono invece la loro importanza per la formazione delle legioni,
prescindendo da particolari di poco conto, nel punto capitale che
il limite tra la terza e la quarta classe rimase sempre quello stesso
tra il servizio nella fanteria pesante e nella fanteria leggera (3).
Intanto che aumentavano l'esercito nelle guerre sannitiche, i Ro-
mani cominciarono a sciogliere la falange in miità tattiche minori.
Presso i Grreci è bensì probabile che la falange non costituisse
una linea ininterrotta e vi fossero qua e là intervalli maggiori
tra i combattenti, ma la tattica greca non giunse mai a render
mobile la falange di fanteria pesante separandola in unità tattiche
minori e solo ne coordinò sax3Ìentemente i movimenti a quelli delle
armi siDeciaH. Sembra che primi i Sanniti dalla stessa natm-a mon-
tagnosa del loro territorio fossero indotti a far meno rigida la
falange, sostituendo nello stesso tempo il pilo alla lancia che si
adopera efficacemente dalla fanteria solo quando procede innanzi
a schiere ben serrate tra cui non può insinuarsi il nemico. Sul
loro esempio i Romani, sempre disposti ad accogliere quelle inno-
vazioni di cui era dimostrata la utilità pratica, armarono del pilo
le prime linee della falange, abolirono lo scudo rotondo sosti-
tuendolo con quello oblungo che rendeva meno indispensabile la
corazza e con dar sempre maggior mobilità alle suddivisioni della
falange crearono la tattica manipolare (4), Ma gli stadi dell'evo-
(1) Sopra p. 199 n. 1.
(2) PoLYB. VI 23, 14 (cfr. sopra p. 198 n. 1).
(3j Cfr. PoLYf!. VI 21, 7: biaXéYOuai tujv dvòpàiv toù<; [xèv v6ujt(Ìtou<; koì ire-
vixpoTÓTOix; el<; Toùq ypocjqpoiuàxouq.
(4) Ined. Vatic. 'Hermes' XXVII (1892) p. 121: oùk fjv ó Iouvitikò; j^iuTv
6upeò(; TTÓrpioq oùò' ùaaovc, eixo|U€v, àW àamaw è^axóiueea koì bópaaiv ... àXXà
Zauvixaiq KaTaaxàvTec, eì; iróXeinov Kai toI<; èKeivuuv 8up60ì(; koì ùaaolc, ótiXia-
Gévre; ...,. óXXotpiok; ònXoiq koI Zì]\di}ji.aa\v èòouXujactiueGa xoùq luéva ècp' éauTo!<;
7Teq)povnKÓTa<;. Cfr. Diod. XXIII 2 : èrreiTa TiàXiv fiXXujv è9viùv Bupeoìq xpi^M^viuv
ole; vOv Ixouoi Kal aTreipaiq |aaxo|aévujv, óiurpÓTepa |m|ur|aà,uevoi TrepieYévovTO
tOùv e\or]yr]aajjié\/iuv tò KaXà tujv irapaòeiYMàTuuv. Per anticipazione le riforme
nell'armamento erano almeno in parte attribuite a Camillo, v. Plut. Cam. 40.
208 CAPO XVII - l'ordinamento CENTURIATO
Itizione che fece adottar questa nuova tattica ci sono ignoti, e
convien quindi rimandarne lo studio all'età in cui raggiunse il suo
pieno sviluppo, quella delle guerre puniche.
Al trasformarsi della fanteria s' accompagnò quello della ca-
valleria; o per dù' meglio solo verso la fine del sec. IV, probabil-
mente anche qui sull' esempio dei Sanniti, il vecchio equitatus
romano, che era più che altro una fanteria montata (I p. 356), si
trasformò in una vera e propria cavalleria. Ma ora, arrolandosi
annualmente quattro legioni, le diciotto centurie di cavalieri di-
vennero insufficienti al bisogno; né si sarebbe potuto accrescerle
senza introdm-re altre modificazioni sostanziali nell' ordinamento
centuriato per ristabilire queirequilibrio tra le classi che s'era stu-
diato di serbare l'autore di esso. Inoltre era già grave abbastanza
la spesa che importavano le diciotto centurie equestri. Vero è che
la ricchezza pubblica s'era notevolmente aumentata nella seconda
metà del sec. IV; ma di iDari passo con l'accrescimento della cir-
colazione metallica procedeva allora il rinvilimento del denaro ;
onde appunto in quei tempi dovette forse cominciarsi a pagare non
meno di mille assi (librali) per la compera del cavallo. E perciò
convenne provvedere in altro modo alle esigenze del servizio mili-
tare. Secondo narra Livio già nel 403 av. C. durante l'assedio di
Vei furono ammessi a servire nella cavalleria volontari che si for-
nivano del cavallo a prox^rie spese (v. p. 141); ed altri perfino rife-
rivano le origini di quest'uso ai primordi stessi della repubblica,
ascrivendone l'introduzione al dittatore M'. Valerio del 494 (1). Ma
è difficile assai che sia cosi antico siffatto volontariato. E di fatto
X)er molto tem^jo il serxdre nella cavalleria fu x^rivilegio patrizio,
e più tardi dovettero a lungo bastare le diciotto centurie serviane;
sicché ai cavalieri volontari non convenne ricorrere, almeno normal-
mente, se non dalla fine del sec. IV. Né fu difficile trovarne. Da
molto temi30 doveva esser verisimilmente prescritto dalla legge o
almeno dall'uso che solo mediante un censo determinato, superiore
a quello della prima classe, si potesse avere adito alle centurie
equestri (2). Ma, cresciuta la popolazione, non tutti i giovani plebei
agiati riuscivano ad esservi ammessi, per quanto il ridursi del
patriziato rendesse i3robabilmente col tempo accessibili anche ai
(1) DioNYs. VI 44.
(2) Liv. V 7, 1 menziona il censo equestre già nel 400. Non v'è dubbio che
esso esistesse nel II sec. av. Cr.: Liv. XXXIV 31, 17. Polyh. VI 20, 9.
BIFORME NELLA CAYALLEEIA 209
plebei le sei centurie, in origine patrizie (1), dei Tiziensi, Ramnensi
e Luceri primi e posteriori. Ora i privilegi dei cavalieri, quali la
dispensa in campo di certi servizi più gravosi , Fuso del corto man-
tello con righe di porpora {trabea) in guerra (2) e in pace della
tunica con lunga lista purpurea (clcwus) (3), il diritto di portar
Fanello d'oro in luogo del comune anello di ferro (4), il soldo triplo
di quello della fanteria (5), la preferenza nelle distribuzioni del
bottino e nelle assegnazioni di terreni (6), facevano si che non
mancassero mai i volontari a cavallo. E cosi fini con introdursi
l'uso che i censori non solo stendessero le liste dei cavalieri delle
diciotto centurie, colmandone man mano i vuoti, ma anche redi-
gessero la lista di tutti quelli che per censo, per età, per nascita
ingenua, per fisico erano atti a servire a cavallo; lista che serviva
poi alla coscrizione dei volontari di cavalleria (7), o, quando i vo-
lontari non si presentavano, per effettuare forzatamente arrola-
menti di cavalieri obbligati a servire con cavallo proprio, il che si
fece almeno a partire dalla seconda guerra punica (8). Si preparò
così la formazione di quell'ordine equestre che, già ricordato per
anticipazione dagli annalisti per la metà del V secolo o ijersino
(1) Come prova il nome che ad esse rimase di centurie jrrocum patì'icium,
V. sopra I p. 248 n. 1.
(2) DioNYs. VI 13: iTOpcpupa<; cpoiviKo-rrapùopouc; d|UTr6xó|uevoi iri^évvac -ràc, ko-
Xouuéva^ Tpa3éa<;.
f3) V. MoMMSEN Staatsrecht III 513. La distinzione tra Vangustus clavtts dei
cavalieri e il latus clavtis dei senatori non pare anteriore alla metà del II se-
colo av. Cr. La notizia di Livio che dopo la rotta di Gaudio furono lati davi,
anuli aurei positi (IX 7, 8) non ha alcun valore. La prima menzione sicura del
latus clavus e del 205 (Liv. XXX 17, 13), ma senza che possa ricavarsene esser
quella già insegna senatoria. Sulla forma del clavus v. Marquardt Privatleben
der Romei- il ^ p. 345 segg.
(4) Plin. n. h. XXXIIl 29. Cass. Dio XLVIII 45, 8. Non sappiamo peraltro ne
quando s'introducesse l'uso dell'anello d'oro pei cavalieri ne quando divenisse
costante. Mario non cambiò l'anello di ferro con quello d'oro se non nel suo
terzo consolato : Plin. XXXIII 12.
(5) PoLYB. VI 39, 12.
(6j Liv. X 46, 16. XXXIII 23, 7. XXXIV 46, 3. 52, 11. XXXVI 40, 13 etc. —
XXXV 9, 8. XXXVII 57, 8. XL. 84, 2.
(7) Così nel 225 i Romani sarebbero stati secondo Onos. IV 13 in numero
di 26.600 cavalieri (ossia in possesso del censo equestre) e 348.200 fanti. Cfr,
Beloch Bevolkeruni/ p. 362 seg.
(8J Liv. XX VII 11.
G-. De Sanctis, Storia dei Romani, U. 14
210 CAPO xvn - l'ordinamento centumato
por l'età regia (1), acquistò poi in effetto importanza sullo scorcio
dell'età repubblicana.
Ma prima che i progressi dell'arte militare alterassero così
l'ordinamento serviano, esso era nello stesso tempo un ordinamento
militare e civile, in cui le classi erano gravate dal tributo esatta-
mente nella proporzione stessa che su di esse pesava il servizio
militare. Infatti il tributo, prima forse eguale per tutti quelli che
potevano ser\'ire in guerra con armatura pesante (I p. 346), ora
diviene proporzionale agli averi o, jDer dir meglio, al censo delle
classi. In età posteriore i censori registravano precisamente gli
averi di ciascuno, e quindi ciascuno era tassato in proiDorzione di
ciò che possedeva (2); ma in origine essi probabilmente si limita-
rono invece a distribuire i cittadini secondo le loro dichiarazioni
nelle varie classi ; talché quelli della prima classe a\a'anno dovuto
pagare in pro^jorzione dei loro 50 mila assi librali, quelli della
seconda in proporzione dei loro 20 mila e cosi via (3). Il tributo
non serviva che a sopperire alle spese delle spedizioni militari:
giacché i mezzi per provvedere alle non molte altre spese sia ordi-
narie sia straordinarie si ricavavano dai redditi dell'agro pubblico,
dai dazi, dalle multe, dalle confische, dal monopolio del sale, dalla
"tassa che nel 357 fu imposta sulla manumissione degli schiavi {vi-
cesima libeìiatis) (4). E può ritenersi che il tributo cominciasse a
riscuotersi in specie metalliche anziché in natui'a quando fu isti-
tuito lo stipendio militare, cioè circa il tempo in cui si adottarono
le riforme serviane (5).
n nuovo ordinamento determinò anche il trasformarsi di una
delle assemblee popolari romane, i comizi centuriati. Questa as-
semblea, che era in origine la effettiva riunione del popolo in
armi (I p. 355), aveva già cominciato a crescer d'importanza col
decimare della monarchia (I p. 428) e ne aveva acquistato sempre
più man mano che nel corso del sec. V si venne moltiplicando il
numero delle centurie e si spezzarono i legami tra esse e le curie.
Ora l'ordinamento centuriato fece d'una adunanza del popolo in
(1) Cass. Dio fr. 11, 4. Liv. IV 13, 1.
(2) Liv. I 42, 5. 43, 13. Dionys. IV 9. Varrò de l. 1. V 181.
(8) Cfr. E. Meyeu Geschichte des Altertums II 654 seg.
(4) Liv. VII 16, 7.
(5) Il tributo deirordinamento serviano suppone lo stipendio militare. In
questo senso è nel vero il Soltau quando ritiene il tributo non anteriore al
406 (AU)'om. Volksversammlungen p. 404 segg.).
I
I COMIZI CENTURIATI 211
Hi'ini un'altra assemblea di tutto il popolo diviso in centuiie. A
quel tempo tutto il popolo si congregava nei comizi curiati, e la
plebe, escluso il patriziato, si riuniva nell'assemblea tributa; ma
il predominio delle genti patrizie coi loro clienti scemava d'assai
l'autorità dei comizi curiati, ora che il popolo veniva acquistando
coscienza di sé, e l'esclusione dei patrizi, nonostante l'autorità che
davano ad essi di fatto nello Stato le loro ricchezze, l'opera che
prestavano alla difesa comune e la forza delle consuetudini, rendeva
incerta e vacillante l' autorità dell' assemblea tributa. Il trasfor-
m.arsi dell'adunanza per centm'ie fece sì che questa fosse di fatto
e di dii"itto l'assemblea predominante della repubblica ; poiché non
escludeva i patrizi, mentre non dava più ad essi una supremazia
che in pratica non erano più in grado di esercitare; e assicurava
il potere a quella classe che le circostanze chiamavano in effetto
ad assumerlo, la classe dei contadini proprietari, che appunto allora
col tributo del denaro e del sangue salvava la repubblica dalla
rovina. E cosi avvenne che la nuova assemblea trasse a sé quel
che rimaneva dei poteri legislativi ed elettorali dei comizi empiati
e potè tener testa x^er qualche temx)o all'assemblea tributa come
ai comizi delle curie, esautorati, non sarebbe riuscito.
Non v'ha errore più grave di quello che si commette da molti
riguardando i comizi centuriati , quali si raccolsero in virtù del-
l'ordinamento serviano, come la cittadella del patriziato, mentre
è evidente che anche nella prima classe, tra non meno di 12 mila
iscritti, i patrizi non potevano costituire che una minoranza. Da
ciò stesso si vede quanto sia errato considerare siffatti comizi
come l'assemblea principale dello Stato patrizio del V secolo. Ohe
anzi alle centurie convocate secondo questa riforma dopo l'incendio
gallico si deve se i patrizi furono costretti ad accordare ai plebei
piena parità di diritti. Non v'ha dubbio del resto che nei comizi
centuriati prima delle riforme democratiche del sec. HI aveva
assoluto predominio il ceto di quei proprietari a cui i loro beni
assicuravano la piena indipendenza economica. E bensì vero che
tutti griscritti nelle cinque classi avevano teoricamente pari diritto
di voto e che questa eguaglianza teorica era avvalorata dalla ap-
prossimativa parità numerica tra gl'iscritti alle centui-ie di ogni
classe (p. 202). Ma la prima classe insieme coi cavalieri non solo
disponeva di più della metà dei voti, si era anche chiamata a
votare innanzi alle altre; grande privilegio, perché è noto quanto
sempre nelle assemblee numerose influiscano i primi votanti, e
inoltre perchè la priorità cronologica del voto faceva non solo che
la prima classe, se era concorde, assicurasse la nomina d'un can-
212 (Al'O X\ Il - l\)J{1)ìXAMENT0 cexturiato
didato o Tapprovazione d'una legge, ma che le altre classi non s'in-
terrogassero del loro parere, usandosi sospendere la votazione non
appena una proposta avesse raccolto la maggioranza dei suffragi.
Così i cittadini della quarta e della quinta classe avranno eserci-
tato assai di rado il loro diritto di voto, e talvolta non saranno
stati chiamati a farne uso neppur quelli della terza e della se-
conda (1). Or questa inferiorità era compensata, almeno per la quarta
e la quinta classe, dai minori sacrifìci che se ne chiedevano a van-
taggio della repubblica; ma ad ogni modo con tale ordinamento
dei comizi la voce della minoranza meno abbiente e priva della
piena indipendenza economica era in sostanza soffocata affatto da
quella della maggioranza dei piccoli proprietari. Questo giovò
senza dubbio a quella concentrazione di energie di cui lo Stato
romano aveva allora tanto bisogno e che la minoranza meno
agiata avrebbe potuto turbare se avesse avuto facoltà di far
sentire la sua voce, per quanto fosse pericoloso per gl'interessi di
una classe della x^opolazione che, dopo di essere stata ])er molto
tempo in minoranza, doveva passo passo diventare maggioranza.
Ma i danni dei limiti illiberali posti alla manifestazione legale dei
desideri della classe meno abbiente non apparvero che assai più
tardi, quando appunto per effetto di quei limiti rimase diminuita
l'efficacia della resistenza che i comizi centuriati opponevano ai
concili tributi della plebe. Per allora della riforma dei comizi cen-
turiati non si videro che gli effetti benefici.
Primo fu l'ammissione dei plebei al consolato (2). Quando l'eser-
(1) Cfr. Cic. de re p. Il 22, 39.
(2) Si è asserito recentemente, partendo dall' esame dei fasti, che fin dalle
origini, checche dica la tradizione, il consolato fu accessibile ai plebei, cfr.
ScHAEFER ' N. Jahrbb. f. Phil. ' CXIII (1876) p. 574 segg. Infatti nei fasti più
antichi si trovano nomi che in età storica appartengono esclusivamente a fa-
miglie plebee : tali sono quelli di Bruto, di Sp. Cassio (cos. 502, 493, 489), di
P. Volumnio (461), dei Sempronì (497, 491, 423), dei Minueì (497, 492, 491, 458,
457) e dei Genucì (451, 445). Dopo il 366 invece non son registrati nei fasti che
lunì, Cassi, Volumnì, Sempronì, Minueì e Genucì plebei (rispettivamente dal
325, 171, 307, 304, 305, 365;. Ora, fatta eccezione pei soli Genucì, in tutti gli
altri casi tra i consoli plebei che portano questi nomi e i loro omonimi della
prima parte dei fasti vi ha sempre un intervallo di più d'un secolo. Questo
si spiega assai bene ammettendo che i Sempronì o Minuci più antichi appar-
tenessero a famiglie patrizie estinte, le quali con le famiglie plebee omonime
non avessero attinenze diverse da quelle che correvano in età storica tra i
Claudi patrizi e i plebei Claudi Marcelli, mentre non sarebbe facile a spiegare^
AMMISSIONE DEI PLEBEI AL CONSOLATO 213
cito romano si metteva insieme mediante la leva annua di due
legioni, la necessità, tanto più sentita quanto più le condizioni dello
Stato eran pericolose, di dare al comando tutta l'unità d'indirizzo
compatibile col principio repubblicano della collegialità doveva
ispirare ad ogni Romano ben pensante il proposito di ristabilire al
di sopra dei tribuni militari l'imperio dei consoli. Ma v'era una
duplice difficoltà : da un lato era affatto impossibile che i plebei,
dopo aver avuto posto per tanti anni fra i tribmii militari con po-
testà consolare, si adattassero a sottostare di nuovo ad una ma-
gistratura suprema esclusivamente patrizia ; dall' altra i patrizi
amavano meglio che il consolato andasse in disuso di quel che
dividerlo coi plebei.
E noto come la storia di questo grandioso cozzo di tradizioni
e d'interessi sia stata rimpicciolita nell' aneddoto delle figlie di
M. Fabio Ambusto, di cui l'una aveva sposato il patrizio Ser. Sul-
picio, l'altra il plebeo C. Licinio Stolone. Le due sorelle si trova-
vano insieme nell'abitazione di Sulpicio allorché, tornando costui a
casa col suo sèguito, un littore percosse, come èra uso, la porta con
la verga. Ne rimase atterrita la sorella minore, mentre la sorella
maggiore che, sposa d'un magistrato, era istruita di queste usanze,
dato l'ossequio che sempre i Romani ebbero per la nobiltà, se si fosse trat-
tato delle stesse famiglie tornate al potere dopo averlo lasciato da uno o più
secoli. Quindi i fasti non solo non contraddicono la tradizione unanime che il
consolato fosse in origine accessibile ai soli patrizi, ma anzi la confermano.
— Del resto A. Enmann Die àlteste Redaction der rom. Consularfasten nella
'' Zeitschrift fiir alte Geschichte ' I p. 93, cfr. ' Rhein. Museum ' LVII (1902)
p. 520 n. 1, ritiene che i Volumnì, Minucì, Semproni e Genucì che compari-
scono nei fasti consolari piìi antichi sieno stati interpolati a maggior onore
dei consoli L. Volumnio, Ti. Minucio, P. Sempronio e L. Genucio del 307-5 e
quindi che la nostra redazione dei fasti dipenda da quella che ne fu data da
un compilatore poco coscienzioso, forse Cn. Flavio, sulla fine del sec. IV. Ora
prescindendo qui da Flavio, par chiaro che un falsario di quella età avrebbe
introdotto nei fasti i nomi plebei più famosi della seconda metà del sec. IV,
Deci, Marcì, Poplili, piuttosto che gli oscuri Volumnì o Semproni. Inoltre al-
lora quali fossero le famiglie i cui avi erano stati consoli si doveva saper
bene da tutti ; e quindi inventare nuovi consolati di famiglie consolari forse
si poteva, ma inventarne di homines novi doveva essere impossibile. Sicché
la ipotesi dello Enmann come non è necessaria a spiegare i fatti, così non è
neppure sufficiente ; e però va respinta. Al metodo fallace dello Enmann ha
il torto di essersi attenuto anche G. Sigwabt ' Beitràge zur alten Geschichte '
VI a906) p. 278 segg.
21 4r CAPO XVII - l'ordixamento centuriato
se ne rise. Di ciò si sentì offesa l'altra; e, istigati da lei, il padre,
il marito e un tal L. Sestio deliberarono d'iniziare un' agitazione
che aprisse alla plebe la via degli onori (1). Livio riferendo questo
aneddoto non s'è dato la briga di riflettere che la figlia d'un Fabio,
nata in una famiglia dov'erano ereditarie le più alte magistrature^
doveva ben sapere come si riconducessero a casa i m.agistrati; che
i tribuni militari, patrizi o plebei, non mancavano di littori, che
Ser. Sulpicio non era stato console, ma tribuno militare; e che
nulla impediva al x^lebeo Licinio Stolone, se raccoglieva i neces-
sari suffragi, di divenire tribuno militare nel modo più legale e
di dar così alla moglie la soddisfazione di vederlo accompagnare
a casa da un littore. Onde l'aneddoto, privo di senso com'è, è in-
teressante solo in quanto mette in chiaro il risparmio di lavoro
intellettuale che si credevano lecito gli storici antichi.
La tradizione pertanto, motivando il racconto con l'aneddoto
or nan-ato, riferisce che C. Licinio e L. Sestio, tribuni della plebe,
presentarono nel 377 tre rogazioni, una per cui si doveva annual-
mente creare un console plebeo, una sui debiti e una sull'agro
pubblico. A vincere l'oiDposizione patrizia i plebei rielessero per-
tinacemente per dieci anni gli stessi tribuni, anzi i3er cinque anni
(375-371) impedirono che si nominassero magistrati forniti d'im-
perio. I patrizi ricorsero in questo frangente all'aiuto estremo-
delia dittatura, e per opera loro fu eletto dittatore la quarta volta
nel 368 Camillo; ma, costretto ad abdicare, fu sostituito da
P. Manlio, il quale, per compiacere la classe popolare, scelse a
maestro della cavalleria un C. Licinio, che secondo alcune fonti
era il tribuno stesso della plebe. Finalmente nel 367 Camillo creato
dittatore per la quinta volta e con lui il senato dovettero i^iegarsi
al volere della maggioranza; e, adottate le rogazioni Licinie, si
elesse pel 366 il primo console plebeo L. Sestio (2).
Vi hanno in questo racconto non pochi punti assai incerti. Cosi
par quasi impossibile che si rimanesse per cinque anni senza capi
forniti d'imperio in uno Stato guerriero come il romano e per di più
circondato allora da nemici; e già s'è visto che l'anarchia annua
registrata da qualche fonte più fededegna sembra siasi protratta
arbitrariamente a cinque anni nella redazione rimasta poi canonica
dei fasti (I p. 9). Poi il contrapposto tra Camillo e M. Manlio, i
(1) Liv. VI 34. Cass. Dio fr. 27. Zon. VII 24.
(2) Liv. VI 34-42. F. Capit. ad a. 368-366. Plut. Cam. 89. Dionys. XIV 12,
Ca88. Dio fr. 27, 5. Zon. VII 24.
ROGAZION'I LICINIE '215
leggendari salvatori del Campidoglio, sembra rivivere nel contrap-
posto dei due dittatori del 368; e questo e il nome stesso di Li-
cinio non ci fa troppo persuasi della realtà storica del primo
maestro dei cavalieri plebeo, die potrebbe anclie esser dovuto alla
fantasia dell' annalista Licinio Macro, colj)evole, a quanto pare, di
non poche invenzioni a maggior gloria dei Licini. E persino intorno
al racconto del vecchio Camillo che, rinunciando a difender idìù
oltre i privilegi dell'aristocrazia, salva per una seconda volta la
patria, già da lui salvata al tempo dell'incendio gallico, può sor-
gere il sospetto che questo secondo salvamento sia ricopiato sul
primo e quindi al pari di esso di scarso valore storico. E altresì
incerto se Camillo a commemorare la pacificazione fra patriziato
e plebe abbia eretto realmente alle falde del Cami3Ìdoglio il temx3Ìo
della Concordia (1), per quanto non sia dubbio che il santuario poi
riedificato dal console L. Opimio nel 121 (2) era abbastanza antico
e che non deve confondersi con l'edicola della Concordia innalzata^
sulla fine del sec. lY da Cu. Flavio (3).
Non v'è peraltro ragione sufficiente per negar fede p^^^r^ stessa
rogazione Licinia-Sestia sul consolato. Se anche per ^j^^ scrittore
che suol seguire una tradizione meno interpo^^^-jj^ ojà fin dal 449
fm^ono ammessi i plebei a quella ma2;Vstratura (4), questo è pro-
babilmente perchè la leggenda, non cm-ante di documenti né di
particolari, ascriveva ai due instauratori della libertà, L. V'alerio
e M. Orazio, gli ordinamenti posteriori dell'età repubblicana; e
(1) OviD. fast. I 641 seg. Plut. Cam. 42. Livio ne tace.
(2) Appian. b. e. 1 26. Plut. C. Gracch. 17.
(3) Che si trattasse d'una aedicula aerea è detto da Plin. n. h. XXX] II ly,
Liv. IX 46, 6 la riguarda come aedes e come templum, il che, se la parola'
temiiliim e presa nel suo senso rigoroso, non è in contraddizione con la notizia
di Plinio, la quale ad ogni modo non è da mettere in dubbio, confermata
com'era dalla iscrizione posta sulla aedicula da Flavio. Il Pais trattando con
una certa confusione del tempio della Concordia (Storia di Roma I 2 p 139 n )
sembra ritenere che il tempio edificato da Opimio sia stato attribuito per an-
ticipazione a Camillo od a Flavio; ma non è dubbio che un importante
edifizio dedicato alla Concordia, da non confondersi con la aedicula aerea di
Flavio, sorgesse già nel 217 nell'area Concordiae sul Poro quando se ne eresse
un altro in arce (Liv. XXII 33, 8). Onde, prescindendo da Camillo, se pur era
congettura e non tradizione che fosse stato costruito quando si chiuse nel 367
l'aspra lotta tra plebe e patriziato, era certo congettura assai felice.
(4) DioD. XII 25, 2. Delle dissensioni di questi anni Diodoro non fa che un
brevissimo cenno, XV^ 6J_, 1. 75, 1.
216 CAPO XVn - l/ORDIXAMEXTO CENTURIATO
quindi a quella notizia non è da attribuire più valore che alle altre
sulle istituzioni introdotte dal buon re Servio. Che se pure Licinio
Macro od un altro annalista, rilevando che dal 366 compaiono nei
fasti consoli plebei, avessero escogitato una legge del 367 diretta a
chiamare i plebei a parte di quella magistratiu'a, non sarebbe da
dir questa una congettura fuor di ragione; è difiicile infatti che
senza legge si potesse attuare una riforma cosi importante nella
^'ita costituzionale della città, quale era quella della elezione di
consoli plebei. E vero che anche dopo il 367, stando ai fasti, furono
eletti più d'una volta due patrizi a consoli (1); ma forse la spie-
gazione dell' anomalia sta in ciò che la legge rendeva soltanto
facoltativo, non obbligatorio, di nominare uno dei due consoli tra
i plebei. Insomma, se non certo, almeno probabile può dirsi che
una rogazione Licinia Sestia sul consolato sia stata in effetto votata
nel 367; e il fatto che la; legge agraria e fors' anche Taltra legge
di Sestio e di Licinio sui debiti son falsificazioni può addursi più
a favore che contro la storicità della rogazione sul consolato, la
quale sarebbe stata come il nucleo intorno a cui si vennero rac-
cogliendo le invenzioni dell'annalistica.
Vigeva noniinalmente, per quanto fosse caduta m disuso al
tempo di Tiberio Gracco, ima legge che ^detava di occu^jare più di
cinquecento iugeri di agro pubblico e di tenervi più di cento capi
di bestiame grosso e cinquecento di bestiame minuto (2). Or questa
legge, che è senza dubbio una sola cosa con la pretesa rogazione
Licinia di Livio, viene esplicitamente ritenuta da altri scrittori
come posteriore alla conquista romana dTtalia. E con ragione;
perchè essa mii-ava a limitare il moltiplicarsi dei latifondi e l'esten-
dersi dei pascoli a danno dell'agricoltiu-a, mentre, con una dispo-
sizione accessoria che obbligava ad impiegare un certo numero di
agricoltori liberi, cercava di proteggere questi contro la concor-
renza degli schiavi. La legge pertanto presupponeva un esteso
(1) Così negli anni 355, 354, 353, 351, 349, 345, 343.
(2) App. b. e. I 8. Plut. Ti. Gracch. 8, che attingono sia direttamente sia
indirettamente da Posidonio Rodio. Il più antico accenno a questa legge è in
Cato orig. fr. 95 e Peteb. Su tutto ciò v. Niese ' Hermes ' XXIII (1888)
p. 410 segg., il quale per primo ha chiarito questo punto capitale per la
storia di Roma. Ritener siffatta legge col Maschke Zur Theoiic und Geschichte
der r'òin. Agrargesetze (Tiibingen 1906) p. 50 sogg. una semplice falsificazione
ispirata alla legge Sempronia non è consentito dalla testimonianza di Catone,
che non può troppo leggermente mettersi da un canto. Cfr. sopra p. 7 n. 1
ROGAZIONI LICINIE 217
agro pubblico e abbondanza di scliiavi: il che corrisponde alle
condizioni d'Italia dopo la seconda gueiTa punica, non a quelle
della prìma metà del IV secolo, quando dei 2000 km' che abbrac-
ciava il territorio romano dopo la presa di Veì ben jjoco poteva
rimanere all'agro pubblico, escluso il suolo occupato dalla città e
dalle saline, i boschi sacri, il territorio di Ostia, i distretti delle
17 tribù rustiche più antiche e quelli delle quattro nuove fondate
nel territorio veiente. E se l'acquisto della regione pontina è an-
teriore al 367, anche qui le tribù Pomx)tina e Poplilia istituite
nel 358 (1) provano che in massima parte la si distribuì fra cit-
tadini. Del resto anche la relativa densità della popolazione cit-
tadina nel ristretto territorio romano e la scarsezza dogli schiavi
esclude che vi potessero esser centinaia di ricchi possessori di più
di cinquecento iugeri d'agro pubblico. Rimane così dimostrato
che la rogazione agraria Licinia Sestia anticipa mia legge assai
posteriore.
Allo stesso ordine di falsificazioni sembra appartenere anche
l'altra rogazione Licinia Sestia, secondo cui dovevano dedm'si dal
capitale d'ogni debito gl'interessi pagati e il resto liquidarsi dai
debitori in rate. Questo provvedimento pare infatti troppo rivolu-
zionario per un'età conservatrice e rispettosa dei diritti acquisiti
come il principio del sec. IV (2). Ma non sarebbe in forza soltanto
di tale considerazione da dubitar della realtà storica della legge,
se non ci apparisse collegata strettamente con altre sicure o pro-
babili falsificazioni di Licinio Macro.
Non s'arrestarono del rimanente, do^jo che fu ammessa al con-
solato, i trionfi della plebe. Già vedemmo che secondo la tradizione
quando si rese accessibile ai plebei il consolato si tolsero ai consoli
parte delle loro attribuzioni per conferirle ad un pretore creato
esclusivamente tra i patrizi. Vedemmo altresì come la ragione di
questa notizia, probabilmente errata, stia nell' essersi conservati
dal 366 i fasti dei pretori urbani (e. XI); ne deve stupù-e che i
fasti pretori cominciassero appunto nell'anno in cui fu instaurato
novamente il consolato ; poiché quell'anno dopo lungo intervallo si
dovette ricominciare ad eleggere il pretore ; non c'è dubbio infatti
che i comizi pretori erano stati sospesi al pari dei consolari quando
(1) Liv. VII 15.
(2) Più tardi invece si fecero in questa materia leggi anche più rivoluzio-
narie, p. es. la Valeria dell' 86; e può darsi che sull'esempio appunto di leggi
siffatte si sia inventata la rogazione Licinia.
218 CAPO XVII - l'ordinamento centukiato
in luogo dei consoli si eleggevano i tribuni dei militi. Ma la notizia
clie mentre si concedeva ai plebei d'essere eletti consoli non potesse
esser plebeo il pretore, collega dei consoli con imperio minore,
appare affatto inverisimile. E forse la legge Licinia Sestia, dichia-
rando clic uno dei pretori poteva esser plebeo, si riferiva tanto ai
pretori massimi quanto al pretore urbano. Non è men vero però
che fino a quando uno solo dei tre posti di pretore fu accessibile
ai xjlebei, aspirando essi naturalmente alla pretura massima, la
pretm'a ui'bana dovette rimanere in mano dei patrizi.
Ci vien riferito che un plebiscito Grenucio nel 342 diede facoltà
di nominare ambedue i consoli plebei (1). Di questo plebiscito
alciuii hanno negato la storicità o almeno hanno esitato ad am-
mettere che potesse aver forza di legge; e, in ogni modo, par
molto strano che la plebe lasciasse poi trascorrere più d'un secolo
prima di trar xjartito della facoltà che esso le accordava; dacché
nel 215 si elessero per la prima volta a consoli due plebei, senza
che si riuscisse però a farne entrare in carica più di uno (2), e solo
nel 172 due consoli plebei tennero in effetto la suprema autorità
nello Stato (3). Sembra quindi che il plebiscito Genucio permet-
tesse semplicemente ai plebei d'occupare due dei tre posti di pre-
tore; ed accettando questa interpretazione va ritenuto che non
molto dopo la sua promulgazione riuscissero infatti i plebei a gio-
varsene nei comizi, quando cioè nel 337 fu eletto il primo pretore
plebeo Q. Publilio Filone (4). Divenuto del resto accessibile ai plebei
il consolato non v'era bisogno di legge speciale perchè fossero
ammessi alla più importante magistratm-a straordinaria, la ditta-
tm^a, e alla più imiDortante magistratm-a ordinaria dopo il conso-
lato, la censura. C. Mario Rutilo fu nel 356 il primo dittatore e
nel 351 il primo censore plebeo (5). E finalmente nel 339 una delle
rogazioni Publilie stabili che uno dei censori dovesse e ambedue
potessero esser plebei (6); e per due secoli il collegio dei censori
fu sempre composto d'un patrizio e d'un plebeo (7).
Cosi nel lasso di trent'anni dopo la rogazione Licinia tutte le
(1) Liv. VII 42.
(2) Liv. XXIII 31, 13.
(3) F. Capii, ad a.: ambo primi de plebe.
(4) Liv. VIII 15, 9. X 8, 8.
(5) Liv. VII 17. 22. X 8, 8.
(6j Liv. Vili 12, 16.
(7) Ambedue i censori furono plebei per la prima volta nel 131 : Liv. epit. 59.
NUOVE YITTOKIE DELLA PLEBE 219
magistrature politiclie divennero accessibili alla plebe (clie alla
questura era già ammessa da prima), con una sola eccezione, di
pocliissimo conto del resto, quella della carica d'interré. Frat-
tanto nella Cmùa avevano cominciato ad entrare in misura sempre
più larga senatori plebei. Non è difficile che circa la metà del
sec. IV si stabilisse tra i senatori plebei ed i patrizi quel raj)porto
numerico die la tradizione ripete dai primi consoli (1). E mentre
il patriziato si vedeva costretto a rinunziare a poco a poco ai
suoi pri\'ilegi, la X3lebe cessava al tempo stesso di formare uno Stato
nello Stato. Un esem^^io caratteristico di questa evoluzione si ha
nel trasformarsi della edilità. Accanto agli edili plebei, ehe con-
tinuavano ad esser nominati nelle assemblee tribute della plebe,
dal 367 due altri edili forniti delle medesime attribuzioni di quelli
si presero ad eleggere non nei concili plebei o nei comizi centu-
riati, si neir assemblea di tutti i cittadini riuniti per tribù, che
allora si convocò per la prima volta, ossia designandoli al moda
stesso degli edili plebei con la sola differenza, capitale del resto
dal x)nnto di vista giuridico, qualunque fosse poi la sua importanza
pratica, che al voto prendevano parte anche i x)atrizi. Questi edili,
detti curuli per distinguerli dagli altri, si stabili secondo la tradi-
zione fin dal 366, mentre erano in carica i due primi edili cmnili
patrizi, che dovessero essere scelti un anno fra i patrizi ed uno tra
i plebei (2) ; e siffatto tmiio fu mantenuto sin verso il termine della
repubblica. Gli edili curuli si occupavano al xDari dei loro colleghi
plebei soprattutto della polizia urbana e della j)olizia del mercato,
due uffici la cui importanza col trasformarsi di Roma in grande
città diveniva sempre maggiore; sorvegliavano insieme con quelli
Tarcliivio j)ubblico nell' erario di Saturno (sembra che da allora
perdesse d'importanza l'archivio plebeo del tempio di Cerere) e
dividevano coi colleghi plebei la gimisdizione criminale di grado
inferiore. Divenuti di fatto, se non di diritto, colleghi di due ma-
gistrati dello Stato, gli edili della plebe, sebbene alla loro elezione
non partecipassero tutti i cittadini, finirono col cessare effettiva-
mente d'esser magistrati rivoluzionari e quindi al pari degli altri
pubblici ufficiali si ridussero a sottostare ai consoli, mentre si di-
menticò volentieri che la loro potestà era sacrosanta dal momento
(1) Fkst. p. 254 s. V. qui patres: P. Valerius cos. propter inopiam patriciorum
ex plebe adleyit in numerum C et LX et IIII ut expleret numerum senutorum
trecentorum. Plut. Popi. 11. Cfr. Liv. Il 1, 10. Diokvs. V 13. V. sopra p. 61 seg.
(2) Liv. VII 1, 6, cfr. VI 42, 13 e dig. I 2, 2, 26. V. anche sopra I p. 4 n. 2.
220 CAPO xvTi - l'ordinamento centuriato
che era divenuta una potestà legittima. Al tempo stesso che i pa-
trizi entravano a parte delle edilità, cessavano d'essere esclusiva-
mente plebei i giudici decemviri e divenivano in tutto pari agli
altri magistrati dello Stato (1).
Intorno a questo tempo i tribmii della plebe, che stavano sino
allora alla porta del senato per prender cognizione dei senatus-
consulti e potervi immediatamente opporre il veto (2), debbono
aver cominciato ad introdursi nella Curia e a prendervi la parola ;
poi acquistarono il diritto di riferire al senato e di convocarlo
come i magistrati maggiori. Il primo passo si fece almeno da
quando i plebisciti divennero leggi dello Stato aventi però bisogno
della ratifica senatoria, poiché è natm^ale che dovessero difenderli
innanzi al senato quelli stessi che li avevano proposti all'assem-
blea della plebe ; il secondo era pure inevitabile, data la indipen-
denza dei tribuni dai consoli, da quando si dimenticò la loro ori-
gine rivoluzionaria e si presero a considerare al pari dei consoli
come magistrati ordinari dello Stato (3).
Il riconoscimento della validità dei plebisciti, che trasformò
l'assemblea della plebe in un organo dello Stato, fu graduale. La
tradizione lo ascrive di già ai consoli Valerio e Orazio del 449 (4),
perchè ad essi o ai loro i^redecessori omonimi del 509 si attribuirono
gii elementi essenziali delle posteriori istituzioni repubblicane. Ma
(1) Il pi-imo esempio a noi noto d"un patrizio che sia stato decemvi)- stUtihus
iudicdndis è quello di Cn. Cornelio Scipione Ispano, il pretore del 139 av. C.
{CIL. V 38).
(2) Val. Max. Il 2,7: tribunis plebis intrare curiam non licebat ; unte valvas
autem posifia subselliis decreta patrum attenti ss^ima cura examinabant. Zon. VII
15: TÒ |uèv ouv irpObrov oùk eta^eaav eU tò PouXeurripiov, Ka0ri|uevoi bè èirì Tf\c,
elaóbou TÒ TTOioO|ueva Traperripouv koì et ti |lui aÙToT<; fipeoKe iTapaxp)ì|Lio àv0i-
OTavro • eira koì eìaeKaXoOvTo évxóq. eiaéTreixa iiiévToi Kaì lueT^Xa^ov Tfjq PouX6Ìa<;
ot bri)iapxnoavT6(; koì TéXo; KàK tùjv PouXeuTUJv Tiveq r)Eid)6riaav òriMctPX^ìv el \xr\
Tiq €ÙTTaTpiòr|(; èTÙTxavev.
(3j Cic. de leg. Ili 4, 10 : tribunis quos sibi j)lebes rogassit ììis esto ciim pa-
tribus agendi. Varrò ap. Gell. n. A. XIV 8, 2 : nam et tribunis plebis senatus
habendi ius erut quamquam senatores non essent, ante Atinium plebiscitum. Zon.
VII 15: ToO xpóvou òè npo'ióvTOc; Kai ti*)v yepouaiav óGpoiSeiv èTrerpàirriaav
f^ éauTOiq ènéxpevpav. Il primo esempio sicuro è del 216 (Liv. XXII 61). Mommsen
Staatsrecht II •' p. 813 segg. e p. X n. 2.
(4) Liv. Ili 55. La terza legge Valeria Grazia stabiliva ut quod tributim
plebs iussisset populum tenerci. Cfr. Dionys. XI 45 : Toùq ùttò toO òriiuou TeGevTaq
èv Tol; rpuXexiKaìc; èKKXriaiaiq vó)aou<; Siraoi KeìaSai 'Puj|ua(oi(; èS ìffou, xt'iv aÙTi'iv
^xovrai; bùvaiaiv toìq èv xaìq XoxiTioiv èKKXricfian; Te9r|ao|aévoiq.
I PLEBISCITI 221
è assui"do che i concili tributi, i quali riuscivano appena a vivere,
potessero far leggi valide per tutti nello Stato aristocratico della
metà del sec. V. Tutta la storia delle lotte tra patrizi e plebei
mostra chiaro che alle rogazioni tribunizie, fino' almeno a quelle
di Sestio e di Licinio, per acquistar valore di leggi dello Stato non
bastava il consenso della plebe. Cominciò a mutar questa condi-
eione di cose il dittatore Q. Publilio Filone (339) riuscendo ad ot-
tenere che i plebisciti fossero d'allora in poi considerati come leggi
dello Stato (1). Era xjeraltro stabilito esplicitamente od ini]Dlicita-
mente nelle rogazioni Publilie che per divenir leggi dovessero esser
convalidati, dojx) la loro axjprovazione,- dai senatori patrizi per
mezzo dell'autorità dei iDadri (I p. 352), come sino a quell'anno s'era
fatto con le deliberazioni dei comizi centuiiati. Era senza dubbio un
gran passo, e i tribuni dovevano prenderne ansa a portar dinanzi
ai plebei raccolti per tribù proijoste intorno ad ogni maniera di
pubblici interessi. Ma la necessità della convalidazione susseguente
conservava la inferiorità di prima dei comizi tributi a fronte dei
comizi centuriati; poiché diffìcilmente Publilio sarebbe riuscito a
far votare dalle centurie la sua legge sui plebisciti se non avesse
provveduto a salvaguardare la superiorità dell'assemblea centmiata
obbligando i senatori patrizi a convalidarne le deliberazioni prima
che fossero prese, ossia riducendo l'autorità dei padri per rispetto
alle leggi centuriate ad un ufficio pm-amente formale. Ma la con-
cessione fatta da Publilio all'assemblea tributa era di quelle che
ne portano con sé, prima o dopo, altre; la plebe, superba dei tanti
trionfi riportati, riconosciuto ai j)lebisciti il carattere di leggi
dello Stato, alla prima occasione d'un rifiuto opposto dai senatori
alla convalidazione d'un plebiscito che le fosse a cuore non poteva
mancare di togliere al senato per via rivoluzionaria la facoltà di
cassare i x^lebisciti. Cosi poco andò che fu dovuta approvare circa
il 287 la legge Ortensia, la quale equiparava interamente i plebi-
sciti alle deliberazioni dei comizi centm-iati, e, obbligando il senato
a ratificare la votazione della plebe prima che avesse luogo, ridu-
ceva anche qui l'autorità dei padri ad un ufficio pm-amente for-
male (2).
(1) Liv. Vili 12: ut plebiscita omnes Quirites tenerent.
(2) Plin. n. h. XVI 37: Q. Hortensiiis dictator, cum plebes secessisset in la-
niculiim, legem in aesculeto tulit ut quod ea iussisset omnes Quirites tenerci. Gkll.
n. A. XV 27, 4: ut eo iure quod plebes statuisset omnes Quirites tenerentur. Gai.
1 2 : lex Hortensia lata est qua cautum est ut plebiscita universum populum te-
nerent: itaque eo modo legibus exaequata sunt. Pompon, dig. I 2, 2, 8.
222 ■ CAPO XVII - l'ordinamento centuriato
Ma la piena eguaglianza politica non era raggiunta se, oltre
alle magistratui^e civili, la plebe non aveva accesso anche alle
magistrature sacre, perchè il valore che lo Stato attribuiva alla
pace con gli dèi (I p. 283) faceva sì che i pareri richiesti o dati
sjpontaneamente dai pontefici, dagli auguri o dai sacrificatori
(sacris fachindis) sui mezzi atti a conservarla avessero spesso
grande importanza j)olitica. Cosi non solo un segno celeste os-
servato dagli auguri poteva far sospendere una dehberazione dei
comizi e fors'anche dei concili della plebe (1), ma pur un "'vizio .,
da essi riconosciuto nella nomina d'un magistrato rispetto alle for-
malità che si collegavano con l'auspicazione o anche pel mancato
riguardo al j)i"esentarsi di auspici oblativi poteva mettere quel
magistrato, fosse pm^e un tribuno della plebe, nella necessità di
abdicare (2). Di questi collegi sacerdotali prima di tutto i i^lebei
presero di mira il più recente, quello dei sacrificatori, cui con-
feriva non piccola imjportanza la facoltà che avevano di interpre-
tare i libri sibillini e di trarne quei suggerimenti che ritenessero
salutari alla città (3). A Sestio ed a Licinio la nostra tradizione
attribuisce la x)roposta di eleggere i sacrificatori per metà pa-
trizi e per metà plebei portandone il numero da due a dieci (4);
proposta che sarebbe stata accolta nel 367, mi anno prima delle
tre rogazioni Licinie-Sestie ; né sembra che la sostanza della cosa
possa revocarsi in dubbio, prescindendo dalla notizia sul numero
dei sacrificatori iDrima del 367, se anche non sia prudente accogliere
ciecamente e Tanno preciso e il nome dei proponenti. Più di mezzo
secolo trascorse innanzi che la plebe osasse toccare istituzioni con-
(1) AscoN. in Pison. p. 9: ohnuntiatio enim qua perniciosis legibus resistebatur,
quam Aelia lex confirmaverat, erat sublata (nel 58 da Clodio). Cic. in Vat. 7, 17 :
num quem post urbem conditam scius tribunum plebis egisse ciim plebe cum con-
starei seriatum esse de coelo ? Per l'ultimo caso però mancano esempì sicuri.
Cfr. MoMMSEN Staatsrecht I' 113 seg.
(2) Gli esempì son presso Mommsen Staatsrecht III 364 seg. Pei tribuni della
plebe abbiamo il solo esempio in Liv. X 47, 1 (a. 293).
(3) Di consigli politici non abbiamo per altro sicuro esempio prima del 187
(Liv. XXXVIIl 45, 3) in cui i carmi della Sibilla furono adoperati per impe-
dire a Cn. Manlio Vulsone di passare il Tauro.
(4) Livio veramente nel riassumere la legge si esprime con un po' d'inde-
terminatezza, VI 37, 12 : novam rogationem promulgant ut prò duumviris sacris
faciuiidis decemviri creentur ita ut pars ex plebe pars ex patribus fìat: parlando
però dell'approvazione di questa proposta (VI 42, 2) aggiunge subito : creati
quinque patriim quinque plebis.
LA PLEBE E I SACERDOZI 223
sacrate dalla veneranda anticliità com'erano i due altri collegi sa-
cerdotali dei pontefici e degli augui-i composti ciascuno di cinque
membri patrizi. E fu gran ventura die la plebe si risolvesse infine
a tal passo, poiché i patrizi, mentre politicamente venivano sover-
chiati dalla nobiltà plebea, se fossero rimasti in possesso di quei due
collegi che esercitavano uffici così importanti senza che lo Stato
si ingerisse della loro composizione (cfr. I 296), avrebbero potuto
trasformarsi in una casta sacerdotale. I tribuni cui si deve dare il
merito di aver riaffermata l'autorità dello Stato sui supremi collegi
sacerdotali fm^ono Q. e Cn. Ogulnio. IsTel 300, essendo rimasto vacante
un posto nel collegio degli auguri, gii Ogulni proposero che il nu-
mero degli auguri si portasse a nove cooptando nel collegio cinque
plebei e che si cooptassero al tempo stesso quattro x^lebei tra i
pontefici portandone il numero parimente a nove. La proposta che
toglieva ai patrizi uno solo dei posti che avevano nei due collegi
e che, mentre li faceva rimanere in minoranza tra gii augmi,
conservava loro però la maggioranza nel collegio maggiore, quello
dei pontefici, potè essere approvata e continuò poi a regolare la com-
posizione dei due collegi. Una sola modificazione, gravissima del
resto, vi si fece, non sappiamo quando, fra il 292 e il 218, dando
per legge o per abuso mi altro posto nel collegio pontificio ai
plebei, che vi ebbero cosi la maggioranza (1) : la quale innovazione
si collega forse con la legge che in questo periodo appunto- attribuì,
ai comizi di scegliere tra i pontefici il pontefice massimo (2). I plebei
peraltro se mutarono gli ordinamenti sacerdotali quanto era ne-
cessario perchè il sacerdozio non si trasformasse in casta, pel resto
evitarono di por%à mano lasciando così ai patrizi il privilegio di
(1) Liv. X 6, %: rogationem ergo promulgar unt ut cum quattuor augiwes q^uattuor
pontifices ea temjyestate essent placeretque augeri sacerdotmn numerum, quattuor
pontifices quinque augures de plebe omnes adlegerentur. È da ritenere con Cice-
rone de re x>. II 14, 26 che gli auguri e i pontefici fossero prima del 300 cinque
(che poi in origine gli auguri fossero tre non è se non una congettura fondata
sul numero delle tre tribù). I collegi di pontefici e d'auguri che ci sono co-
nosciuti per mezzo di Livio a partire dal 220 sono tutti composti di quattro
patrizi e cinque plebei (C. Baedt Die Priester der vier grossen Collegien,
Berlin 1871). Nel testo ho cercato di conciliare questi dati in apparenza con-
traddittori. Potrebbe supporsi altresì che la legge Ogulnia stabilisse la coop-
tazione immediata di quattro plebei tra i pontefici e quella d'un quinto non
appena vi fosse un posto vacante.
(2) Sul modo di nomina v. Mom.m8en Staatsrecht II ^ 27 segg.
224: CAPO xvji - l'ordinamento centuriato
rivestire gli uffici di re dei sacrifizi, di sali e di flamini delle tre
maggiori divinità (1).
Questi furono dunque sugli ordini costituzionali gli effetti della
lotta tra patrizi e plebei. Dei momenti della contesa dopo la roga-
zione Licinia siamo poco informati. Uno dei più importanti par
fosse segnato dalla cosi detta terza secessione della X3lebe nel 342.
Le narrazioni contraddittorie degli finalisti, che in parte la tene-
vano per una sommossa cittadina, in parte per una sedizione mi-
litare, e non convenivano neppure nel nome del personaggio die
era stato a capo dei sediziosi, mostrano che ogni tentativo di ri-
costruire il fatto è vano (2); ma che si trattasse d'una ribellione
militare o strettamente collegata con gli ordini militari sembra
indubitato; poiché ci vien detto che in conseguenza di essa s'ap-
provò una legge sacrata militare. Come non v'era motivo suffi-
ciente per inventare una legge il cui significato doveva riuscir
poco chiaro agli stessi annalisti romani che la riferivano, va rite-
nuto che quella legge è autentica : tanto più che la sua approva-
zione è insufficientemente motivata dal racconto tradizionale della
sommossa, di maniera che questo potrebbe fors' anche esser stato
inventato per spiegare alla meglio la legge, ma non viceversa la
legge all'occasione di quello. Ad ogni modo la legge sacrata del
342, che, come le altre leggi simili, traeva la sua validità dal
giuramento di farla osservare ad ogni costo pronunciato dai sedi-
ziosi che l'avevano approvata (sopra p. 23), determinando che non
si potesse licenziare un soldato (in servizio effettivo negli eserciti
consolari) se non quando egli desiderasse il congedo e vietando di
degradare a centiuione clii era stato tribuno militare (3), mirava
evidentemente a porre un limite all'imperio militare del magistrato
supremo, come già tanti limiti s'eran posti all'imperio civile per
(1) Cic. de domo 14, 38: ita (tolto il patriziato) populus Romanus ncque
regem sacrorum neque flamines nec salios hahehit nec ex parte dimidia reliquos
sacerdotes. Per maggiori particolari v. Wissowa Religion der Romer p. 422 n. 1.
(2) Liv. VII 38 segg. Cfr. Dionys. XV 8. App. Samn. 1. Zon. VII 25. Auct.
de vir. illiistrib. 29, 3.
(8) Liv. VII 41, 4: lex quoque sacrata militar is lata est ne cuius militis scripti
nomen nisi ipso volente deleretur: additumqiie legi ne quis qui tribunus militum
fuisset, postea ordinum ductor esset. Livio aggiunge che l'ultimo comma fu ag-
giunto perchè i soldati volevano vendicarsi di un tale P. Salonio che un anno
era tribuno militare, un altro centurione. Dal che si vede quanto gli anna-
listi capirono poco la natura e il significato della legge: poiché essa ajizi sa-
rebbe tornata, pare, a vantaggio di Salonio impedendo che fosse degradato.
LA SEDIZIONE DEL 342 225
mezzo della intercessione tribunizia. Ma fortunatamente per Roma
troppo chiara si mostrò in tutte le guerre posteriori la necessità
d'una severissima disciplina militare per la salvezza dello Stato,
perchè questo primo tentativo di esautorare il comandante di faccia
ai soldati fosse seguito da altri simili.
Era naturale che la plebe profittasse della sedizione, qualunque
ne fosse la natura, per accrescere la somma dei propri diritti e
migliorare le sue condizioni economiche. E non par che sia da
mettere in dubbio la storicità dei tre plebisciti fatti approvare
.quell'anno dal tribuno L, Grenucio (1). Di questi l'uno (su cui v. al
e. XXTTT) vietava il prestito ad interesse; gli altri permettendo
di nominare tra i plebei due dei tre pretori (p. 218) e vietando di
rivestire la medesima magistratura se non dopo un intervallo di
dieci anni, erano diretti anche a far posto agli uomini nuovi della
plebe; al tempo stesso l'ultimo mii'ava a non render troppo auto-
revole un generale coL lasciargli in mano per più anni il comando.
Questo plebiscito, che sembra collegarsi con la citata legge sacrata
militare, fu ijeraltro trasgredito fin dagli anni seguenti 341 e 40;
onde s'è dubitato della sua data (2), ma forse la soluzione della
difficoltà sta in ciò che i plebisciti non essendo ancora leggi dello
Stato non vincolavano ancora in modo assoluto il popolo votante
nei comizi centuriati.
Non fu pertanto di poca conseguenza la sedizione del 342. Dopo
di essa un altro momento notevole nella contesa tra patrizi e plebei
fu quando il dittatore plebeo Q. Pubblio Filone nel 339 riusci a
far approvare nei comizi centmiati le sue tre rogazioni, due ten-
denti ad affermare sempre più la sovi'anità popolare (sopra p. 221),
l'altra ad assicm'are per sempre la partecipazione dei plebei alle
operazioni del censimento (sopra p. 218). Le gravi condizioni dello
Stato dm'ante la guerra latina e le benemerenze acquistate dal
popolo sul campo di battaglia resero possibile questo nuovo trionfo
della causa popolare.
Poi il moto contro il patriziato pei diritti della plebe parve
(1) Liv. VII 42: praeter haec inverno apud quosdam (il silenzio di qualche
fonte qui non vuol dir nulla contro la storicità del fatto) L. Genucium trihuniim
plebis tulisse ad plehem, ne faenerare liceret, item cdiis plebiscitis caututn ne
quis emidem magistratum intra decem annosi caperei neii duo magistratus %mo
anno gereret idique liceret consules ambo plebeios creavi.
(2) Cfr. MoMMSEN Staatsrecht I ^ 519 n. 5, dove si enumerano i casi d'osser-
vanza e d'inosservanza della legge.
G. De Sasctis, Storia dei Romani, U. 15
226 CAPO XVII - l'okdixamexto centueiato
posare. La catastrofe gallica aveva esautorato l'oligarchia patrizia.
Invece le maggiori catastrofi die dopo d'allora fino a Pirro ebbe
a soffrire Roma, quelle di Gaudio e di Lautule, non sembra ab-
biano avuto alcun contraccolpo a vantaggio della plebe. E la ragione
è che ne dovevano rispondere almeno in buona parte i popolari ;
onde l'effetto di esse fu anzi di rinvigorire l'imperio militare e di
far richiamare frequentemente al comando supremo, nonostante il
X^lebiscito Genucio, i duci più celebrati fra i patrizi o fra la nobiltà
plebea, come L, Papirio Cm'sore, Q. Publilio Filone e Q. Fabio
Rulliano.
Il movimento democratico riprese vigore man mano che nella
seconda samiitica la vittoria cominciò a dichiararsi pei Romani.
Così intorno al 310 fu nominato a censore col plebeo L. Plauzio
il democratico patrizio Appio Claudio (1). Tosto i due censori nella
loro revisione delle liste dei cittadini presero arditamente di mirn
una delle maggiori ingiustizie sociali sancite dalle istituzioni vi-
genti. Per essere inscritti tra i cittadini forniti dei diritti politici
conveniva fino allora possedere fondi rustici nel distretto di una
delle tribù, con la sola eccezione delle cinque centurie dei capi-
tecensi; e quindi chi non x)0ssedeva terreni non aveva voto nei
comizi tributi e lo aveva j)iù nominalmente che effettivamente
nei comizi centmiati. Or questo stato di cose non offriva grandi
inconvenienti finché ebbe scarsa imx)ortanza l'industria e moltissima
la proprietà fondiaria, ma divenne intollerabile allorché Roma co-
minciò a divenire mi grande centro di popolazione e, coli' aumentare
della circolazione metallica e con l'incremento dell'industria, crebbe
l'importanza della proprietà mobile e aumentò il numero di quelli
che vivevano soltanto del loro lavoro, mentre moltiplicandosi gli
scliiavi si accrebbe anche la proporzione dei liberti, che spesso,
senza beni stabili, traevano sostentamento dalle piccole industrie.
(1) Livio discorre della censura di Appio al 312 (IX 29) e di nuovo al 310
(IX 33-34\ anzi accenna come in quihusdam annalibus si riferisse che Appio
conservò la censura fino al 308, quando chiese il consolato pel 307 (IX 42, 3).
DioDORo ne parla al 310 (XX 36). La divergenza può provenire da un diverso
ragguaglio dei fasti consolari coi censori. L'opera di Ap. Claudio Ceco è stata
per la prima volta degnamente apprezzata dal Mommsen Rom. Forschungen I
30 segg. Cfr. Siebert Ueber Appius Claudius Caecus (Kassel 1863). Sieke Appius
Claudiìis Caecus censor iMarburg 1890). Non par da approvare la critica della
censura di Appio Claudio presso Pais I 2 p. 546 segg. ed anche meno quella
di G. SiGWABT ' Beitrage zur alten Gesehichte ' VI (1906) p. 369 segg.
LA CENSURA DI APPIO CLAUDIO CECO 227
L'inconveniente era tanto più grave in quanto si sentiva più. viva-
mente la necessità di accrescere, per superare i Sanniti, le forze
militari e di non esentare per scru]Doli costituzionali nessuna classe
di cittadini dal tributo. Appio Claudio sparti tutta questa " turba
forense „ fra le tribù e la iscrisse in proporzione de' suoi averi
nelle centurie (1). Cosi ebbe x^rincipio quella evoluzione diu^ata fino
alla guerra sociale clie svincolò a x30co a xdoco la tribù personale
dalla tribù locale. E frattanto i figli di liberti arricchitisi con
qualche industria, anche se non avevano beni stabili, cominciarono
a prender parte ai comizi nelle centurie della prima classe accanto
ai membri della nobiltà patrizia e plebea e pagarono al tempo
stesso in egual proporzione il tributo del danaro e del sangue.
L'albo dei senatori fu compilato da ApiDio e dal collega coi criteri
stessi secondo cui avevano steso le liste dei cittadini. Era uso che
i censori x^er vera o x^retesa indegnità cancellassero dal senato un
certo numero di membri. Appio, per non intralciare le sue riforme
con inutili inimicizie x^ersonali, non si valse di questo diritto, che
assai sx)esso doveva essere x^i'etesto a soddisfare meschine bizze
(1) DioD. XX 36, 3 : ^òuuk€ òè toìi; TroXitai^ Kaì ir\v èEouaiav Òttoi irpoaipotvTO
Ti^riffaa6ai. Ciò può voler dire soltanto che coloro che erano privi di beni
fondiari furono lasciati iscriversi nella ti-ibù che vollero. E con Diodoro è d'ac-
cordo Livio IX 46, 1 : urbanis humilihiis per omnes tribus divisis forum et
campum corrupit. Questi passi sono stati rettamente intesi per la prima volta
dal MoMMSEN Rom. Forschungen I 305. Cfr. Staatsrecht II ^ 402 segg. Infondata
affatto è l'opposizione del Pais I 2, 551 n. 2. Non mi accordo peraltro col
Mommsen nel ritenere che tutti costoro fossero prima di Claudio aerarii vale
a dire {Staatsrecht II ^ 392 seg.) avessero tutti i doveri, ma in piccolissima
parte i diritti di coloro che godevano della piena cittadinanza romana. Aerarii
erano detti i Ceriti e quei cittadini romani optimo iure che per punizione cen-
soria venivano cancellati dalle liste delle tribù ossia privati dei diritti politici
(e poi anche impropriamente quelli che venivano soltanto degradati da una
tribù ad un'altra meno apprezzata); ma tutti gli altri che non possedevano
terre pare dovessero essere registrati tra i capitecensi e in particolare,
quando non erano artigiani, tra gli accensi. Che i libertinorum filii di cui
parlavano le fonti a proposito delle riforme di Ap. Claudio fossero i figli, non
i nipoti dei liberti, dimostra il caso di Cn. Flavio, che in virtù appunto di
quelle riforme riuscì edile Ttarpòc; ùùv òeòouXeuKÓToe;, e la testimonianza di un
erudito discendente da Appio, a torto notato d'errore da Soeton. Claud. 24 :
latum clavum... libertini filio tribuit... et Appium C'aecuin censorem... libertinorum
filios in senatum adleyisse docuit ignarus temporibus Appi et deinceps aliquandiu
libertinos dictos tion ipsos, sed ingenuos ex Jiis procreatos. V. Mommsén Staatsrecht
III p. 422 seg.
228 CAPO XVII - I.'OKDINAMENTO CENTURIATO
private ; al tempo stesso colmò i vuoti clie s'erano fatti nel senato
dalla compilazione dell'ultimo albo (318) non solo, secondo l'uso,
con coloro che negli anni j)recedenti avevano rivestito magistra-
ture, ma con un certo numero di ricchi industriali, anche se figli
soltanto di liberti (1). La nobiltà plebea, al pari del patriziato, gridò
allo scandalo, e i nuovi consoli che avrebbero dovuto convocare il
senato secondo l'albo di Ap. Claudio e L. Plauzio si guardarono
bene dal far ciò e si attennero invece all'albo dei censori del 318.
Senonchè i disprezzati figli di liberti che ormai si erano assicurato
il pieno esercizio dei diritti politici, cacciati a questo modo dal
senato, seppero rientrarvi facendosi eleggere, ora che avevano voce
effettiva nei comizi, alle magistrature curali, come fece appunto
Cn. Flavio figlio del liberto Annio, che, spalleggiato da Ap. Claudio,
divenne edile nel 304.
Non si contenne in questo solo del resto l'attività di Ap. Claudio ;
che, valendosi del diritto censorio di usare entro certi limiti per
costruzioni di pubblica utilità delle somme disponibili nell'erario,
divisò per primo di fornire la città di acqua che fosse più salubre
di quella del Tevere o dei pozzi costruendo il primo dei molti
acquedotti romani, quello che partendo da sette od otto miglia di
distanza da Roma portava alla città l'acqua detta dal nome del cen-
sore Appia (2). Ma l'opera sua più famosa fu l'apertura della ]3rima
tra le grandi strade militari romane, che conserva ancora il nome
di Appia, tra Roma e Capua. Se pure essa profittava in parte di
tronchi già esistenti di vie, se non era ancora lastricata con grossi
quadri di silice, ma soltanto coperta di ghiaia, nondimeno, sia per
la facilitazione che portava nelle comunicazioni tra Roma e la
Campania sia perchè trattavasi d'opera senza precedenti tra gli an-
tichi popoli occidentali, rese meritamente glorioso chi la costruì (3).
(1) Questo punto è peralti-o alquanto incerto. Diodoro, cui mi sono attenuto,
dice che Appio non cancellò nessun senatore àWà iroXXoùq koI tAv óxreXeuGépujv
uioù^ àvéjLiiEev, nel che è qualche esagerazione. Secondo Livio invece furono
praeteriti ossia cancellati dalla lista jjotiores aliquot lectis. Plutarco parla di
ttXouoiouc; Tivàq è£ dtTreXeuBépajv Y^TOvÓTac; Kaì KaxaXeXeYiuévouq eì<; ti'iv aOyKXriTOv
{l'omp. 13).
(2) DioD. XX 36, 1. Liv. IX 29, 6. Frontin. de aquis ii. B. 5. Lanciani / coin-
mentarii di Frontino negli ' Atti dell'Acc. dei Lincei ' 1880 p. 34 segg. Secondo
LiTiNi ' Bull. Archeol. Comun. ' XXXI (1903) p. 243 segg. XXXII (1904) p. 215 segg.
il testo di Frontino sulle scaturigini dell'acqua Appia è correttissimo e FAppia
non è altro che l'acqua Vergine allacciata ad altezza alquanto maggiore.
(3) DioD. XX 36, 2. Liv. IX 29, 6. Cfr. Strab. V 282 seg. Procop. h. Goth.
I 14 e le osservazioni del Huelsen in P. W. ' RE ' II 238 segg. È logico il Pais
LA CENSURA DI APPIO CLAUDIO CECO 229
L'autore d'innovazioni cosi geniali e ardite, che lasciarono traccio
anche nel campo della coltui'a, spicca come la prima personalità
viva in cui ci incontriamo nella storia romana, mentre prima di
lui, sfrondate le leggende, non rimangono che meri nomi. Che le
audacie di Appio gli attirassero odi era inevitabile; e non man-
cano tradizioni che li rispecchino. Cosi la sua cecità che, se vera,
fu certo molto più tarda, ossia posteriore al suo secondo conso-
lato (296), venne attribuita all'ira di Ercole per le riforme introdotte
al suo culto sull'ara massima (e. XXV) (1), e cosi j)ure si narrò
che, avendo abdicato il collega per non aver parte all' odiosità
acquistatasi da Appio, egli tenesse la censura da solo (2), ovvero
che la protraesse oltre il termine dei diciotto mesi concessi dalla
legge. Queste ultime notizie son da tenere per congetture fondate
sull'avversione alla memoria di Appio e dirette a spiegare sia le
diverse determinazioni cronologiche che si davano della sua cen-
sura (3), sia come la tradizione attribuisse tutto a lui ciò che i due
censori avevano operato di conserva e in particolare come Apx^io
avesse dato il suo nome alla via ed all'acquedotto costruiti insieme
col collega, dei quali fatti la spiegazione è piuttosto che la iDcrso-
(I 2 p. 559 seg.) ritenendo che la via Appia eia posteriore (tra Sinuessa e
Capua) alla guerra annibalica, poiché secondo lui Capua non divenne terri-
torio soggetto ai Romani prima di Annibale. Ma chi non voglia sostituir sempre
l'arbitrio alla tradizione troverà piuttosto nella costruzione dell'Appia una
conferma che Capua appartenne ai Romani prima della censura di Appio. Che
i Romani fossero i primi a costruire in Italia (in misura notevole, s'intende)
strade ampie e diritte di proprietà pubblica dipende anche dall' aver essi
costituito il primo Stato civile d' estensione considerevole in Italia (prescin-
dendo dai Sanniti che certo non furono grandi costruttori di strade). Quanta
alla pretesa via tra Spina e Pisa (Ps. Sctl. 17, dove del resto il nome di Pisa
è stato inserito nel testo mediante una congettura assai discutibile), è affatto
erroneo il ritenere che trattisi di una via jniblica o anche soltanto d'una via
costruita nel suo insieme artificialmente da uno Stato o da una federazione
di Stati. 11 geografo ha voluto dire semplicemente che le due città distano
tre giorni di viaggio.
(1) Liv. IX 29, 11.
(2) Così Liv. IX 29, 7. Ma dagli altri accenni all'abusivo rimanere in carica
di Appio (33, 4. 34, 10. 15. 22) sembra risultare che, secondo le sue fonti, il
collega rinunciasse solo allo scadere dei diciotto mesi, come appunto asserisce
Feontino de aquis m. R. 5. Contraddice implicitamente all'una ed all'altra
tradizione Diodoro dicendo che Appio ebbe ùtti'jkoov il collega e non alludendo
punto alla pretesa usurpazione.
(3) V. sopra p. 226 n. 1.
230 CAPO XVII - l'oRDIK AMENTO CENTURIATO
nalità di Plauzio rimase oscurata da quella ben superiore del suo
collega patrizio.
Le riforme di Appio, salutari per molti lati, ebbero ijerò alcuni
effetti ch'egli non era in grado di prevedere. La " turba forense „,
non guari pericolosa nei comizi centuriati dove contavano assai
maggiormente le centm'ie dei più ricclii, poteva divenir tale nei
comizi tributi, che acquistavano del continuo autorità. La popo-
lazione rurale infatti non sempre poteva accorrere alle assemblee
popolari sufficientemente numerosa per contraj)porsi in modo effi-
cace al xDroletariato urbano diviso oramai fra tutte le tribù; onde
il predominio dell'assemblea tributa rischiava di cadere in mano
della plebaglia cittadina cui a^Dpunto il crescere di Roma a grande
città e la maggiore frequenza delle manumissioni contribuiva ad
infettare d'elementi torbidi. Fortunatamente la popolazione cam-
pagnuola aveva ancora la superiorità del numero, oltre quella del
vigore morale, e non era venuto ]3er essa il momento di lasciarsi
])assivamente sopraffare dal poi3olaccio. D'altra parte tornare alla
condizione di prima la turba forense che Appio aveva iscritto
nelle tribù non era né prudente né giusto. Il temperamento oppor-
tuno fu trovato dai censori del 304. Q. Fabio RuUiano e P. Decio
Mure, che istituirono, forse giovandosi di antichi ricordi d'una di-
visione della città in regioni, quattro tribù urbane destinate a quelli
che non ^possedevano stabili nel territorio delle tribù rustiche (1).
Cosi delle ventun tribù che allora esistevano quattro sole rimasero
al proletariato urbano, e nelle altre, anche se i buoni contadini in-
tervenivano in pochi, non rischiavano d'essere sopraffatti dalla turba
di quelli che in qualsiasi tumulto non avevano nulla da perdere.
Frattanto un altro passo per l'elevamento del popolo aveva
fatto Cn. Fla\'io pubblicando le " azioni „, ossia divulgando i for-
mulari consacrati dall'uso per introdiuTe i processi e dando la ta-
bella dei giorni fasti, cioè di quelli in cui potevasi agire legalmente
innanzi ai magistrati romani. Il '' diritto flaviano „ non propa-
lava in realtà nessun segreto di Stato (p. 64). Quelle formule, pro-
babilmente non fissate prima d'allora per mezzo della scrittm-a se
non in quanto ne facevano cenno le dodici tavole, non erano tenute
l)unto nascoste, ma si udivano ogni giorno al tribunale del pre-
(1) Liv. IX 46, 14: Fabius simul concordiac causa simul ne huniìllimorum in
manti comitia essent omnem forensem turbani excretam in quattuor tribus coniecit
urbanusque eas appellavit. Val. Max. II 2, 9. Auct. de vir. ili. 32. Cfr. Plut.
Pomp. 13.
i
CN. FLAVIO, l'ultima SECESSIONE 231
tore; e molto meno erano un segreto i giorni fasti, da quando ne
avevano dato la lista le dodici tavole; onde se anche ignorava
queste cose la infima plebe, n'erano istruiti i suoi tribuni; quindi
non v'ha dubbio che l'importanza dell'opera di Flavio fu esagerata
per questo rispetto da antichi e da moderni. Flavio non fece co-
noscere cose che si volessero tenere ignote, bensì divulgò soltanto
cose note. E certo tuttavia che la sua divulgazione giovò alla plebe
per salvaguardare i propri diritti civili e rese più difficile al xJi'e-
tore d'abusare della ignoranza deiruomo del popolo.
Poco stante, nel 300, furono approvate due altre leggi popolari,
la Ogulnia, (p. 223) e la Valeria suU' appello al poxjolo. A dir
vero, r uso che le condanne a morte fossero pronunziate nei
comizi vigeva ab antico e gli avevano dato forza di legge le
dodici tavole (1). Ma la legge Valeria, quella che ha dato origine
alle anticipazioni sulle leggi Valerle del 509 e del -449, precisava
anche meglio che chiunque si appellasse al popolo non poteva
esser percosso con verghe né messo a morte prima del verdetto
popolare (2). Si riconfermava cosi il limite ijosto dalla legge all'au-
torità giudiziaria e coercitiva dei magistrati in città; solo assai
più tardi del resto si posero restrizioni corrispondenti all'esercizio
dell'imperio militare.
L'ultimo atto della lotta due volte secolare tra patriziato e
plebe fu la secessione del 287 circa. Il popolo, esasperato' ancora
per le sofferenze dovute ai debiti ed all'usura e perchè proposte,
non sappiamo precisamente di qual sorta, tendenti a lenirle non
potevano divenir leggi per 1' opposizione del senato , si ritirò di
nuovo sul Gianicolo. Fu creato allora dittatore Q. Ortensio, il
([uale apparteneva a una famiglia che prima di lui, stando alle
notizie che ci son pervenute^ era stata illustrata solo da un tri-
buno della plebe (422 av. C.) (3), la cui storicità è del resto di-
scutibile. Si richiedeva appunto un uomo nuovo a rinnovare la
concordia, mentre la nobiltà plebea si era ormai tropico allontanata
dalla classe onde aveva avuto origine. E Ortensio potè riuscir
(1) I p. 349. 411. II p. 23.
(2) Liv. X 9, 3-5 : M. Valerius consul de 2>t'ovocatione legem tulit diligentins
sanctain Valeria lex cicm eum qui provocaf^set virgis cuedi securiqne necari
vefuisset, si quìs adversiis ea fecisset nihil ultra qiiam improbe factum adiecit.
(3) Liv. IV 42. Val. Max. VI 5, 2. S'intende che è aft'atto arbitrano prendere
di qui argomento per dubitare della storicità della dittatura d'Ortensio (Pais
I 2, 573).
232 CAPO xvn - l'ordinamento centuriato
neirintento facendo approvare una legge che sanciva la validità
dei plebisciti per tutto il popolo. Come già s'è accennato, il non
esservi stata ]3Ìù d'allora in poi contestazione alcuna sulla validità
dei plebisciti, prova die la legge Ortensia, a differenza della Pu-
blilia, obbligava il senato a convalidarli anche prima che fossero
votati (lì. La xjiena sovranità dei comizi anche rispetto alle nomine
dei magistrati fu riconosciuta probabilmente intorno a questo
tempo stesso per mezzo della legge Menia che obbligava il senato
a convalidare anche le elezioni prima che fossero avvenute (2).
Mentre a poco a poco diminuivano d'intensità le vecchie con-
tese civili, s'iniziava il periodo più splendido della storia di Roma,
che durò circa due secoli, periodo in cui alla prosperità esterna
fece riscontro l'ordine all'interno e la saviezza di coloro che ave-
vano il governo della cosa pubblica. Ora i felici successi delle
guerre non si sarebbero certo ottenuti senza la pace civile e senza
i nuovi ordinamenti che proporzionavano i diritti ai gravi sacri-
fizi che si chiedevano nell'interesse del paese ; ma reciprocamente
]ion si sarebbe per due secoli serbato così prosperoso, senz'alcun
mutamento sostanziale, il regime senatorio ove non fosse stato
consolidato da una serie inaudita di trionfi sui nemici esterni in
mezzo ai quali i disastri da Gaudio a Canne non fui'ono che mo-
mentanei arresti dopo cui l'aquila romana riprendeva con novello
vigore il suo slancio. Questi felici successi diedero al governo la sta-
bilità e al popolo la fede inconcussa perchè potesse superare senza
rovinose convulsioni i momenti diffìcili; che se i nemici avessero
avuto la forza o la fortuna di dettar leggi presso il Campidoglio,
come più volte presso l'Acropoli dettarono legge ad Aten egli in-
(1) Liv. 2^e?'. 11: plebs propter aes alienum post graves et longas seditiones ad
ultimum secessit in lanicidum, linde a Q. Hortensio dictatore deducta est, isque
in magistratu decessit. Cass. Dio fr. 37 (purtroppo molto lacunoso, cf'r. Zon.
Vili 2 init.). Sulla legge stessa v. sopra p. 221 n. 2. La data della dittatura
di Ortensio non può precisarsi : cade però tra il 290 e il 286.
(2) Cic. Brut. 14, 55: possumus.... suspicari disertuin.... M'. Curium, quqd is
tribunus plehis, interreye Appio Caeco diserto homine comitia contra leges ha-
bente, cuiu de plebe consulem non accipiebat, patres ante auctores fieri coegerit:
qnod fuit permagnum, nonduin lege Maenia lata. L'aneddoto è forse inventato,
ma ci dà un terminus post qiiem per la legge Menia, termine anch'esso incerto,
perche possiamo dire soltanto che il tribunato di Curio è anteriore, non di
molto, al suo consolato del 290.
IL SENATO 233
vasori, si sarebbe dimostrato che alla vigoria degli ordinamenti
romani conferivano assai le condizioni esterne tra cui si attua-
rono.
Secondo questi ordinamenti Fautorità sovrana risiedeva nel po-
polo. Al popolo spettava infatti la pienezza del potere legislativo
e la nomina di coloro cui era affidato il potere esecutivo ; le ultime
restrizioni clie menomavano la integrità di questi poteri legisla-
tivo ed elettorale furono abrogate con le leggi Publilia, Ortensia
e Menia. Tuttavia questa sovranità era in buona parte solo nomi-
nale : ad impedii'e che l'assemblea popolare divenisse mai in Roma,
com'era p. e. in Atene, il sovrano effettivo dello Stato, contribuì
certamente la mancanza della libertà di discussione nei comizi e più
ancora quella del diritto d'iniziativa per parte di chi non era ma-
gistrato ; ma queste pastoie della sovranità popolare sarebbero cer-
tamente cadute nella età in cui la intera cittadinanza divenne
nominalmente sovi'ana dello Stato se apjpunto in quella età essa
non fosse anche divenuta inabile ad esercitare di fatto la sua sovra-
nità. Conia guerra latina fin sulla destra del Voltm-no s'estese il terri-
torio popolato di cittadini romani forniti dei pieni diritti politici. Ora
si capisce di leggieri che il piccolo proprietario della tribù Fa-
lema se poteva recarsi in Roma un paio di volte all'anno pei co-
mizi elettorali e per le votazioni di maggiore momento, non poteva
esercitare in permanenza i poteri sovi^ani come il popolo ateniese
che, abitando in proporzione considerevolissima nella città e pel
resto a poche miglia di distanza nei villaggi dell'Attica, era sempre
pronto ad esser convocato e ad usare de' suoi diritti. Cosi di fatto
il popolo era obbligato a tollerare che in suo nome 1' autorità so-
\Tana fosse esercitata da altri. Né altri poteva governare che il
senato. Pròprio allora che le leggi esautoravano in apparenza, il
senato a fronte dei comizi, l'impossibilità che il popolo si racco-
gliesse in tal numero e con tale frequenza da poter in effetto di-
rigere lo Stato rafforzava più che mai F autorità senatoria. 11
senato non era più ormai un consiglio del magistrato di cui il ma-
gistrato stesso potesse variare arbitrariamente la composizione. Non
sappiamo precisamente quando, ma, come pare, verso la metà del
sec. IV, ai censori, in sostituzione dei consoli, su proposta del tri-
buno Ovinio passò Fufficio di redigere l'albo senatorio. L'esser
delegata questa facoltà a due magistrati privi d'imperio contribuì
non poco a rendere il senato indipendente dal potere esecutivo ;
ed ancor più Fuso già per certo vigente e che col plebiscito Ovinio
acquistò vigore di legge, che i censori nel costituire il senato do-
vessero avere speciale riguardo a quanti avessero rivestito magi-
234 ' CAPO XVII - l'ordinamento centukiato
stratiire ciiriili (1). A poco a ijoco questi divennero, al posto dei
patrizi, l'elemento preponderante nel senato, e a coloro che senza
esser stati magistrati vi venivano iscritti per compiere il numero
legale dei senatori, perduta persino la facoltà d'esporre la loro sen-
tenza, non rimase clie quella sola di dare tacitamente il voto (2).
Cosi il senato per la parte più importante era ormai nominato,
sia pure indirettamente, dai comizi. E ciò da una parte rendeva
il popolo meno riluttante a lasciarsi governare da un consesso die
era l'emanazione del suo voto ; dall'altra faceva si che il senato
fosse meglio edotto dei bisogni del popolo ed alieno dal far poca
stima di coloro dal cui voto sorgeva. Fondato sul suffragio popo-
lare, ne traeva autorità il senato per imporre con sempre maggior
efficacia la sua autorità a quei magistrati cui il suffragio aveva
affidato il potere esecutivo. Questo poteva riuscirgli tanto più age-
volmente in quanto la. continuità dell'azione di governo, che è
Fesigenza suprema di uno Stato bene ordinato, non aveva altra
guarentia che per l'appunto nel senato, mentre l'assemblea popo-
lare non poteva riunirsi che a larghi intervalli e i singoli magi-
strati non duravano in carica oltre un anno. E la grande autorità
che acquistò nel IV e conservò nel ni secolo il senato fu preci-
samente quella che preservò lo Stato romano dalla dispersione di
energie e dalla jjolitica contraddittoria e a scatti che sono pur-
(1) Fest. p. 246 (I p. 351 n. 1 e 6). Secondo il Mommsen l'attribuzione della
lectio senatus ai censori si collega con la censura di Ap. Claudio ed avvenne
nel 312 o poco prima [Staatsrecht II" p. 418 n. 3). Probabilmente si accosta
più al vero il Lange [R. A. Il ^ p. 356) ritenendola di parecchio anteriore ; se
quella fosse stata la prima lectio censoria non ne tacerebbe la tradizione in-
torno ad essa così diffusa, la quale al contrario suppone che Appio avesse
usato nella lectio un metodo nuovo, disforme dagli usi tramandati da' suoi
predecessori, prendendone occasione per introdurre nel senato i figli dei liberti.
(2) Sui pedarii nel senato romano v. A. Gell. n. A. Ili 18. Fest. p. 210 M.
Cic. ad Att. I 19, 9. 20, 4. Dissentono intorno ad essi i critici, v. p. es. Mommsen
Staatsrecht III p. 962 segg. Willems Sénat de la Eépubl. Romaine I p. 137 segg.
Cantarelli ' Riv. ital. per le scienze giuridiche ' I (1886j p. 353 segg. L'opi-
nione del Mommsen difesa dal Cantarelli secondo cui i pedarii erano i senatori
che non avevano rivestita alcuna magistratura, detti così perchè, privi del ius
sententiae dicendae, avevano quello solo di pedibus ire in senteniiam alicuius par
preferibile, prescindendo dalla congettura accolta pur dal Mommsen, ma non
confortata d'alcuna prova, che in origine i senatori plebei fossero tutti pedarii
(sopra p. 62 n. 1).
IL SENATO. I MAGISTRATI 235
troppo l'effetto più usuale della sovranità popolare. Atti così a
serbar la tradizione del governo, i senatori, tra cui quelli di no-
mina recente erano sempre l'infima minoranza, non erano altret-
tanto atti a tener il debito conto delle variazioni dell'opinione
pubblica e del modiiicarsi degl'interessi popolari. Per lungo tempo,
fincliè gii ordinamenti politici ed economici in vigore furono ri-
spondenti agl'interessi del popolo, il conservativismo del senato
non riuscì dannoso. E solo molto più tardi, allorcliè la condizione
delle cose mutò, mancò al senato l'abilità a pensare e a sperimen-
tare i rimedi arditi e pronti, e gli amici del popolo furono costretti
a cercare per via rivoluzionaria il riparo ai mali sociali.
In uno Stato in cui i funzionari non lianno stipendio, gli uf-
fici pubblici sono naturalmente in mano della classe abbiente;
tanto più die col corpo elettorale disperso in un vasto territorio,
una efficace pro^Daganda elettorale, anche se non accomi)agnata
da vera e propria corruzione^ richiede tempo e denaro. Due o tre
discorsi demagogici nell'assemblea popolare, sempre iDronta a rac-
cogliersi, potevano essere ad Atene sufficiente propaganda eletto-
rale per un candidato povero cui l'ingegno e l'ambizione istigassero
a farsi innanzi. Ed appunto perciò il magistrato supremo che
per non andare a iDÌedi nudi è costretto a mettere in conto al po-
polo qualche obolo i^er le sue scarpe è una figura caratteristica
di Atene; non però di Roma, dove questo modo di aprirsi una
via non poteva adoi3erarsi presso i tardigradi e silenziosi comizi.
Or se la compirà del voto i^uò dentro certi limiti imi^edù-si finche
i costumi politici non sien troppo corrotti in una grande città,
dove la sorveglianza è facile, essa è stata sempre usuale, do-
vunque hanno avuto luogo elezioni , nei xdìccoIì collegi rurali
distanti dalle città. E tale inconveniente non tardò a manifestarsi
anche in Roma, mano mano che s'accresceva il suo territorio. Chi
poteva infatti sorvegliare i candidati quando si recavano ad ac-
caparrar voti nella tribù Ufentina e nella Falerna? Perciò si ri-
corse assai presto a leggi contro l'ambito. Quella del 432, che se
aveva un senso, non poteva avere che l'intento di vietare ai candi-
dati l'uso della toga candida con cui appunto segnalavano sé stessi
al popolo e onde hanno preso il nome, non è probabilmente che
una invenzione ridicola di qualche annalista (1); ma è certamente
storica la rogazione Petelia del 358 sull'ambito, che tendeva ap-
(1) Liv. IV 25, 13: ne cui album in vestimentum addere petitionisliceret causa.
236 CAPO XVII - l'ordinamento centuriato
punto a regolare la propaganda elettorale fuori di Roma (1). Meno
sicura è la notizia sull' inchiesta del dittatore C. Menio del 314
intorno alle associazioni elettorali (2). Ma che associazioni di quel
genere si formassero per manipolare le elezioni quando gii elet-
tori iscritti cominciarono ad accostarsi al centinaio di migliaia era
inevitabile. Ad ogni modo, più o meno repressi dalla legge gii
abusi elettorali, la conseguenza necessaria di quello stato di cose
fu il formarsi di una nobiltà in cui erano ereditarie le cariche più
alte, costituita appunto in generale dai più ricchi possidenti fon-
diari, patrizi e i^lebei. Non era una casta chiusa, e ciò la rendeva
assai più vitale dell'antico patriziato. Una famiglia che riusciva a
prender posto tra i grandi possidenti fondiari aveva non solo il
diritto teorico, ma anche la possibilità pratica di asjjirare alle ca-
riche più alte, e guardata prima di traverso dalle altre famiglie
meglio fornite d'antenati, finiva poi col farsi trattare da quelle
da pari a pari, mentre cominciava a guardare dall'alto la classe
popolare che forse appunto in odio alla superbia dei nobili le aveva
aperto col suo suffragio la via agli onori. Ija stabilità delle con-
dizioni che è propria degli ordinamenti sociali a base agricola
com'era il romano del IV e del III secolo faceva si che la prosperità
economica d'una famiglia si trasmettesse di generazione in gene-
razione e che la circolazione della ricchezza fosse lenta; la qual
condizione di cose doveva bensì in x^arte modificarsi con l'incre-
mento del traffico, ma frattanto contribuì a rendere incontrastato
il xDotere della nobiltà insieme col disprezzo che il -piccolo pro-
prietario nutriva assai spesso pel commerciante arricchito, che di-
sx3oneva bensì di mezzi molto maggiori dei suoi, ma non poteva
mostrare sulla mensa la saliera d'argento già adoperata dal bis-
avolo; onde all'uomo nuovo era preferito, anche se x^ersonal-
mente valesse assai meno, uno che fosse provenuto dai magnanimi
lombi dei Claudi o dei Cornell. Del resto anche questo non era in
tutto dannoso allo Stato; poiché se non s'eredita la vigoria del-
(1) Liv. VII 15, 12 seg. : et de amhitii ab C. Poetelio tribuno plebis auctorìhuH
patribns tum jtrhnum ad jjopulum latmn est eaque rogatione novorum maxime
hominum ambitionem qui nuiidinas et conciUabiila obire soliti erant compressam
credehant : dove altro valore ha la notizia sulla legge, altro naturalmente il
commentario aggiuntovi almeno due secoli dopo da qualche annalista, che essa
cioè fosse diretta contro i novi homines. Non era dieci anni dopo l'ammissione
della plebe al consolato che i plebei potessero agitarsi contro i novi homines.
(2) Liv. IX 26 : coitiones honorum adipiscetidorum causa.
I MAGISTRATI 237
r ingegno e del carattere, le tradizioni di famiglia e il consiglio au-
torevole dei parenti più vecchi che avevano rivestito magistrature
curali impedivano al giovane nobile che sedeva al timone di fare
una rotta pericolosa. E d'altra parte i giovani nobili che potevano
asph'are alle magistratui'e erano ben conosciuti dai maggiorenti
del senato anche perchè si preparavano alla loro carriera cercando
di farsi iscrivere dai censori nell'albo senatorio; e cosi si poteva
opportunamente provvedere, data anche la non x^iccola influenza
che la nobiltà aveva ne' comizi per mezzo dei magistrati che li diri-
gevano, a chiudere la via degli onori a quelli che si dimostrassero
inetti o pericolosi. Tutto ciò contribuiva con la perenne sorve-
glianza del senato a far si che il potere esecutivo agisse in Roma
con una continuità, con una coerenza, con una logica di cui non
vi è forse altro esempio nelle repubbliche antiche. E si spiega
anche per tal modo come in questo periodo il console romano
fosse, in media, un brav'uomo, fedele custode degl'interessi della
patria, discreto comandante sul campo di battaglia e al tempo
stesso sufficiente diplomatico, superiore spessissimo personalmente
ai supremi magistrati delle rei^ubbliche greche; ma al tempo stesso
ciò spiega il difetto j)i"edominante degli uomini più eminenti di
Roma del IV e m secolo, la mancanza assoluta di genialità. In
mezzo a intriganti, bricconi ed inetti, tra gli strateghi ateniesi
troviamo figure geniali e vive; i consoli romani son come quella
serie di figTQ'e rigide, eguali, che stancano l'occhio nei monumenti
orientali, in confronto col moto libero e vario che ci fa apparire
viventi gli efebi ateniesi del fregio del Partenone.
Frattanto, man mano che il teatro delle guerre dei Romani
cresceva d'ampiezza, l'autorità di questi comandanti militari in
campo, nonostante qualche tentativo di poco conto per limitarla
(solerà pag. 224j, s'accresceva ancora. Era impossibile da Roma
dirigere le guerre che si combattevano nel Sannio o nell'Apulia;
e il senato che prima poteva facilmente mandar consiglieri a ge-
nerali che campeggiavano a Tivoli o ad Anzio doveva tenersi
pago ora ad intei"venire co' suoi pareri dopo partito il console da
Roma quando gli pareva che ve ne fosse assoluto bisogno; e il
destinatario, il quale del resto per ciò che concerne la condotta
della guerra non era punto tenuto ad eseguire le istruzioni del
senato, aveva anche, per cansare la nota d'indocilità, il facile ri-
piego di dichiarare che gli erano giunte troppo tardi. Inoltre dava
maggiore autorità ai comandanti l'essersi di molto aumentate le
forze di cui disponevano, sicché dal termine della seconda sanni-
tica ogni console comandava normalmente in guerra due legioni,
238 CAPO XVII - l'ordinamento centueiato
ciascuna col proprio contingente d'alleati, ossia allora forse un quin-
dicimila uomini in tutto. Con questi era spesso dato ai duci ro-
mani di riportare vittorie al cui confronto non reggevano certo le
scaramuccie con qualche centinaio o migliaio di Volsci o d'Equi
che riempiono la storia del sec. V. Con tutto ciò nessun console
tentò mai fino al tempo di Siila di valersi del potere acquistato
sui soldati da lui condotti alla vittoria per ambire un'autorità che
la legge non consentiva. Grli è che un generale vincitore divien
pericoloso in una repubblica solo quando i suoi soldati, l'opinione
Xjubblica e lui stesso possono darsi a credere che la vittoria non
debba ascriversi a merito del governo ch'egli serve, anzi che siasi
vinto a malgrado del governo per virtù del duce. La convinzione
invece di tutti i Romani, a cominciare dagli stessi comandanti
vittoriosi, fino almeno ai tempi di Scipione Emiliano, doveva es-
sere generalmente l'op^josta: che la vittoria cioè si doveva alla
bontà degli ordinamenti civili e militari, al valore dei soldati,
ai savi consigli del senato, e che qualsiasi capitano non troppo
inetto né trascurato, si chiamasse Claudio o Fabrizio, aveva perciò
il modo di vincere. Questo conteneva in limiti molto moderati la
devozione degli eserciti pei generali vincitori; e inoltre, quando
si cambiava di comandante ogni anno, non era a temere che l'af-
fetto per un duce mettesse radici troppo salde nel cuore delle
milizie ; tanto più che nelle guerre d'allora si richiedevano in ge-
nerale molte e molte di queste campagne d'un anno a raggiun-
gere la vittoria definitiva. Tuttavia il primo germe del male che
trasformò la repubblica alcuni secoli dopo in monarchia militcìre,
si vide a]3punto in questa età; e fu la prima proroga all'imperio
annuo di un magistrato militare; poiché appunto l'abuso delle pro-
roghe nell'ultimo secolo della repubblica rese possibile ai generali
ambiziosi di formarsi quegli eserciti fedeli con cui mossero poi ad
opprimere la libertà. D'altra parte da che Roma iniziò guerre di
una certa mole, la proroga dell'imperio era spesso affatto indi-
sx)ensabile, ed appariva anzi un male minore che non fosse la rie-
lezione immediata d'un assente al potere supremo.
Se si paragona la magistratm-a romana con l'ateniese del se-
colo IV si nota subito come fossero relativamente scarsi i funzio-
nari in Roma, sebbene alla fine del secolo l'estensione dello Stato
romano superasse di non poco quella dello Stato ateniese. Questa
scarsezza procede da ciò che lo Stato in Roma non aveva assunto,
né assunse fin nell'età imperiale tutti quegli uffici di cui s'inca-
ricava in Atene. Due consoli pel comando delle milizie, un pre-
tore poT hi gimisdizione, due questori per custodii-*^ il tesoro pub-
I MAGISTRATI 239
blico in città e due per accompag-nare come ragionieri i consoli
al campo, due edili curali e due plebei per la polizia della città
e del mercato, dieci tribuni per prendere la difesa dei plebei e
sorvegliare nell'interesse della plebe l'azione dello Stato, dieci
giudici delle cause liberali {decemviri stlitibus iudicandis, v. s.
p. 33); eran questi trentuno magistrati che dovevano provvedere
annualmente alla guerra, alla gimis dizione, alla polizia, alla fi-
nanza pubblica; a intervalli x)OÌ i due censori redigevano le liste
dei cittadini, dei cavalieri e dei senatori, e provvedevano ad af-
fittare o appaltare i beni o i redditi dello Stato. Reca meravi-
glia elle si pochi pubblici ufficiali bastassero allo Stato romano.
E vero che i loiù importanti tra questi magistrati erano normal-
mente assistiti da consiglieri di grado senatorio e avevano nume-
rosi subordinati, parte servi pubblici, j)arte inservienti liberi, come
littori, viatori, scribi, accensi, i)arte ufficiali nominati da loro stessi
o anche di nomina popolare, come prima sei e poi sedici dei tribuni
militari pei consoli. Altri pubblici ufficiali poi, in parte almeno
di nomina iDopolare, si vennero istituendo sulla fine del IV o nella
prima metà del III secolo, come i quatuorviri che i pretori, a par-
tii-e dal 318, delegarono iDcr l'amministrazione della giustizia in
Camj)ania (1), e i triumviri capitali cui era attribuita la cura delle
esecuzioni e il provvedere alla difesa contro i malfattori, istituiti
nel 290 circa (2).
Ad ogni modo, se il cittadino, non circondato da tanti epime-
leti, agoranomi, astinomi, metronomi e così via, doveva x)ensar di
più da se stesso ai casi propri, in compenso l'organismo dello Stato,
più semplice, agiva anche meglio; la gerarcliia poi tra la mag-
giore e la minore potestà dei magistrati contribuiva all'unità del-
l'indirizzo di governo e facilitava al senato il suo compito di ac-
(1) Liv. IX 20: eodem anno primum praefecti Ca2)uain creavi coepti legihus
ah L. Furio praetore datis. È incerto quando cominciassero ad essere eletti
dal popolo. Cfr. e. XXII.
(2) Liv. ep. 11: triumviri capitales tunc primum creati sunt. Fest. p. 347 s. v.
sacramento : qua de re lege L. Papiri tr. pi. sanctum est his verbis: qiiicumque
praetor liosthac factus erit qui inter civis ius dicet, tres viros capitales j)opulu>n
rogato hique tres viri [capitales] quicumque \_2)0sthac faceti erunt sacramenta
exiigunto] iudicuntoque eodemque iure sunto uti ex legihus i)lebeique scitis exigere
iudicareque esseque oportet. Di qui parrebbe che non fossero divenuti di no-
mina popolare se non dopo la istituzione del ])raetor peregrimis (Mosimskn
Staatsrecht ir* 595 n. 2).
240 CAPO XVII - l'ordinamento centuriato
centrare la direzione della cosa pubblica. Anclie il tribunato della
plebe, nonostante la sua origine rivoluzionaria, era divenuto dopo
le leggi Publilia ed Ortensia piuttosto un istrumento di governo
pel senato, essendo facile a questo per mezzo del veto di un tri-
buno impedire atti cbe non avessero la sua approvazione, sia degli
altri magistrati sia degli stessi tribuni della plebe. Ed era quasi
impossibile che non si trovasse almeno un tribuno disposto ad
ascoltare i consigli del senato quando una buona parte dei tribuni
doveva appartenere alle stesse famiglie della nobiltà plebea che
erano più largamente rappresentate in quel consesso. Onde appare
chiaro che i tribuni, dopo aver proceduto compatti alla demolizione
dei privilegi del patriziato quando nell' interesse del popolo e più
nel proprio si erano proposte questo intendimento tutte le mag-
giori famiglie plebee, divennero inetti a promuovere efficacemente
qualsiasi riforma a vantaggio del popolo minuto quando si era
formato uno stato di cose che soddisfaceva le aspirazioni della
nobiltà plebea; di che Ti. e C. Grracco dovettero avvedersi più
tardi con proprio danno. Ma anche per questo rispetto il danno
della trasformazione non venne alla luce che assai più tardi; per
allora l'addomesticamento del tribunato conferi a quella meravi-
gliosa coerenza d'indirizzo governativo che ebbe tanta parte nei
trionfi di Roma.
.g\S\SNS\S\S^N©\S'.S\§r<S\S\S\S"^SN.S'.^\S\S\®>>§\S^.SN^>,§\S"sS^
CAPO xvni
La dissoluzione della lega latina.
Xja lega a piena parità di dii'itti clie Roma aveva concluso coi
Latini sul principio del sec. V si era lentamente trasformata nella
egemonia di Roma sul Lazio. Mentre i Latini si erano assuefatti
a fornire i loro contingenti agli eserciti romani, è dubbio se sulla
fine del V sec, avessero più luogo le riunioni federali alla fonte
dell'acqua Ferentina e se venisse più nominato il dittatore latino.
Quando Roma fu presa dai Gralli, la lega si trovò di fatto di-
sciolta. Non vi fu per parte dei Latini una esplicita dicliiarazione
di guerra, né i Romani si ritennero in stato di guerra coi loro an-
tichi alleati; soltanto le città latine o per lo meno molte di esse
sospesero V invio degli aiuti federali ai Romani (1). Sicché i Ro-
mani si trovarono di dovere da soli o quasi combattere coi loro
nemici ; ed anzi talvolta alcune delle città latine che non avevano
più legame con Roma, si strinsero in amicizia con gli avversari
dei Romani. Non che Roma in questo periodo avesse a sostenere una
guerra latina, come quella in cui si era combattuto al Regillo o
{ì) Liv. VI 2, 3 (all'a. 389): novus quoque terror accesserat defectionis Lati-
norum Hernicorumque qui post pugnam ad lacum Re</illum factum per annon
prope centutìi numquam ambigua fide in amicitia jwpuli Romani fuerant. Questa
notizia non è in Diodoro; ma tutta la storia degli anni seguenti induce a
ritenerla autentica.
Gr. De Sanctis, Storia dei Roìnani, II. 16
242 CAPO XYHT - LA DISSOLUZIONE DELLA LEGA LATINA
come fu poi quella del 340, bensì dovette combattere molte gueiTe,
i] cui esito fu vario, con una o più città latine. Date le condizioni
della nostra tradizione sulla prima metà del sec. TV, s' intende di
leggieri che essa non fornisca alcuna idea chiara di queste intral-
ciate guerricciuole che s'aprono col racconto leggendario su quella
Tutela cui è pur dato il nome greco di Philotis (1). Profittando
della umiliazione di Roma, i vicini e in particolare i Fidenati
sotto la guida del dittatore Postumio Li-vao si presentano in armi
presso la città, e intimano ai Romani di ceder loro vergini e ma-
trone o, secondo una versione più onesta, di riammetterli effetti-
vamente al connubio, dando loro in matrimonio donne romane.
Impotenti a resistere con la forza, i Romani inviano loro, vestite
signorilmente, un certo numero d'ancelle. Ed una di queste, Tu-
tela, nel cuor della notte salita su d'un caprifico, fa un segnale
convenuto, avvertito il quale i cittadini piombano sui nemici e li
oi3primono, immersi nel sonno e nella crapula. Questa storiella,
narrata con parecchie varianti, è per la maggior parte un mito
etiologico diretto a spiegare le ceremonie della festa di Giunone
Caprotina, che aveva luogo il 7 luglio (none caprotine) e teneva
dietro all'altra dei poplifugi (5 luglio) che la leggenda collegava
pure con questi fatti. Ma i poplifugi, che non possono separarsi
dal regifugio, hanno un'origine i3uramente religiosa senza rela-
zione con fatti storici determinati; e la solennità delle none ca-
protine non era soltanto romana, ma comune a tutto il Lazio (2),
e quindi non i)oteva aver nulla a fare con un mito specificamente
romano ; nel quale del resto, oltre l'elemento etiologico, deve rico-
noscersi un elemento novellistico che ha riscontro nella leggenda
ebraica di Griuditta ed Oloferne. Di storico v'è al più il languido
ricordo di quei giorni in cui Roma giaceva accasciata dopo il di-
sastro gallico, esposta agli insulti di ogni nemico. Ma del suo lento
risorgere guerreggiando senza posa la tradizione non serba netta
memoria, sicché quasi inaspettata ci giunge la notizia del rinno-
vamento del trattato cassiano, un trentennio cn-ca dopo l'invasione
gallica. Come si venisse a codesto rinnovamento potremo intendere
soltanto studiando le relazioni dei Romani con le singole città la-
tine in questo periodo: ricerca spinosa, ma indispensabile.
(1) I testi son raccolti nel voi. I p. 400.
(2) Varrò de l. l. Yl 18: Nonae Caprotinae quod eo die in Latto lunoni Ca-
protinae mulieres sacrifìcantur . Cic. de deor. fiat. I 29, 82. Sul significato della
festa V. RoscnER nel ' Mythol. Lexikon 'Hip. 598 segg.
J
LA LEGGENDA DI PHILOTIS. TUSCOLO 243
Nel 390, mentre fuori della lega si teneva ancora un potente
Stato latino, Preneste, le antiche città della lega si dividevano in
gruppi separati tra loro da territorio romano (p, 153). Seguivano
più a sud città di nazionalità volsca che allora facevano parte
della confederazione latina, Anzio, Satrico, probabilmente anche
Velletri ed Anxui-, e città latine in paese volsco, Cora, Norba, Si-
gnia, Circei, a cui poco dopo, colmando la lacuna tra le due ul-
time, si aggiunse Sezia (1).
Dopo la catastrofe gallica, tra le prime a rompere le relazioni
con Roma fu probabilmente Tivoli, la più importante, dopo Roma,
delle città alleate (v. s. e. XV), con cui non è difficile che abbiano
proceduto d'accordo le due città vicine di Nomento e di Pedo.
Tuttavia a guerra aperta coi Tiburtini non si venne se non pa-
recchi anni dopo, intorno al 360, quando i Romani, tentando di
ricostituire a loro profitto l'antica lega latina, si disposero a co-
stringere ad entrarne a parte con la forza delle armi i Tibm'tini.
Assai diverse furono le relazioni con la vicina Tuscolo. Tuscolo,
fin da quando i Romani nella lotta con gli Equi ebbero acquistato
Labico e Boia, era circondata da territorio romano. Essendo quindi
ansiosa della propria indipendenza, dopo l'incendio gallico credette
venuto il momento di staccarsi interamente da Roma. Ora Roma
non aveva potuto annettere Tuscolo al proprio territorio finché
sussisteva la lega latina. Rotti i vincoli di questa lega,' dato il
pronto risorgere della potenza romana dopo la catastrofe del 390,
era naturale che a Tuscolo prima d'ogni altra città latina toccasse
d'essere incorporata allo Stato romano. Dovremmo legittimamente
congetturar ciò se anche non fosse riferito dalla tradizione, che è
qui sostanzialmente fededegna. Ed è pur notevole che essa ci con-
serva memoria altresì, sia pure in veste leggendaria, della nes-
suna resistenza che i Tuscolani poterono opiDorre alle forze pre-
ponderanti di Roma. Quando, deliberata la guerra, Camillo muove
con l'esercito contro Tuscolo, trova aperte le porte della città,
mentre tutti in città e in campagna attendono pacificamente ai
loro uffici e perfino si sentono dalle scuole le voci dei fanciulli che
studiano; di guisa che i Romani accordano senz'altro la pace e
poco dopo la piena cittadinanza ai Tuscolani (2). Premesso ciò, è
(1, Fondata secondo Vell. I 14,2 nel 382; secondo Liv. VI 30, 9 arricchita
nel 379 di nuovi coloni.
(2) Liv. VI 26, 8 : pacem in praesentia nec ita multo post civitatem etiam ini-
petraverunt. Plut. Cam. 38 : Kal TrapaiTou|uévoi<; auv^iTpa?€v aCiTÒc; óqpeGfìvai te
244 CAPO xvni - la dissoluzione della lega latina
questione secondaria se l'incorporazione di Tuscolo nello Stato
romano sia avvenuta nel 381, nel 377 o anche nel 370 (1), e solo
importa stabilire che, quando si ricostituì la lega latina, Tuscolo
faceva già parte del territorio di Roma. S'è voluto negare che in-
torno al 380 Tuscolo abbia potuto conseguire la cittadinanza ro-
mana perchè nel 340 prese parte alla guerra latina (2). Ma la cit-
tadinanza romana nella x^rima metà del sec. IV non era tal
beneficio da compensare la perdita dell' autonomia , anzi il suo
effetto in un periodo in cui i Romani conducevano con la più
disperata energia la guerra per l'esistenza coi vicini era soprat-
tutto quello di lasciarsi sfruttare a tal uopo al pari dello stesso
popolo romano più direttamente interessato (3).
Triv TTÓXiv aÌTiaq àiTdar|(; koì )ui6TaXa$eìv ìooiroXiTeiai;. Dionys. XIV 6. Val. Max.
VII 3 ext. 9. Cass. Dio fr. 28. Cfr. Cic. prò Piane. 8, 19: tu es ex municipio
antiquissimo Tusculano.
(1) Al 377 Liv. VI 33 narra che i Latini, irritati perchè Tuscolo ha abban-
donato la loro causa, assalgono i Tuscolani e s' impadroniscono di Tuscolo,
salvo la rocca. I Romani muovono al soccorso e liberano la città sotto
L. Quinzio e Ser. Sulpicio. Può sorgere il dubbio che questa fosse adunque
un'alti-a forma del racconto della incorporazione di Tuscolo allo Stato romano,
in cui le cose erano rappresentate in modo più favorevole pei Tuscolani. E
un dubbio analogo può nascere a proposito del racconto (Liv. VI 36) che nel
370 di nuovo i Velliterni furono respinti dalle mura di Tuscolo.
(2) Pais I 2, 120.
(3) Il Pais giunge al punto di dire che non prima del 323 può parlarsi di
cittadinanza accordata singolarmente a qualcuna delle genti di Tuscolo. La
tradizione assevera invece concordemente che a molte città latine fu accordata
la cittadinanza nel 338 ed a Tuscolo fu allora riconfermata. II Pais si fonda
sul passo di Liv. VIII 37, secondo cui nel 323 il tribur.o della plebe M. Flavio
propose per punire i Tuscolani dell'aiuto dato ai Velliterni e ai Privernati di
uccidere, dopo averli vergheggiati, tutti gli adulti di Tuscolo e di vendere
schiave le donne e i bambini. La j^roposta fu respinta da tutte le tribìi fuoi'chè
dalla tribù Pollia. Di qui un odio mortale fra questa e la tribù Papiria, in
cui votavano i Tuscolani. Ma si tratta qui probabilmente d'un semplice mito
etiologico destinato a spiegare la ruggine che v'era tra la tribù Pollia e la
tribù Papiria, la quale si spiega invece sufficientemente da beghe di cattivo
vicinato; mito etiologico senza cronologia come tutti i miti, riferito a que-
.st'anno arbitrariamente forse perchè si trovava nei fasti dei tribuni della
plebe il nome del presunto autore della crudele proposta. Infatti di guerra
con Velletri e Priverno non c'è traccia negli anni precedenti alla catastrofe
di Gaudio e nulla c'induce a inserire una simile guerra nelle lacune della tra-
dizione, poiché Velletri, dopo aver preso parte alla guerra latina del 340-338^
LE CITTÀ LATINE DEL MEZZOGIORNO. I VOLSCI 245
Invece dopo il 390 rimase fedele a Roma il gruppo meridio-
nale delle città latine, quello clie più era stato minacciato dai
Volsci e più aveva sperimentato nella lotta contro di essi il valido
aiuto di Roma, cioè Aricia, Ardea, Lavinio, Lanuvio (1). Fedeli
furono altresì le città latine in i^aese volsco, F antichissima Cora,
Norba, Signia e Sezia (2). Assai diversamente, com'è naturale, si
comportarono le città volsche. Il paese volsco, con la confisca dei
territori dove si fondarono le colonie di Sezia e di Circei (393), era
stato separato in due parti : da un lato i Volsci Anziati con Sa-
trico, che appare strettamente a loro unita, i quali davano la mano
ai Velliterni, dall'altra i Pri vernati coi Volsci della valle del Sacco
« del Liri. I volsci Ecetrani, che erano stati, insieme con gli An-
ziati, i maggiori avversari dei Romani nel sec. V, scompaiono
nella tradizione (3j, e al loro posto subentrano i Privernati, di cui
però si fa parola per la prima volta nel 358 (4). Grli è che nella
prima metà del sec. IV i Romani, lasciando da parte i Volsci che
abitavano al di là della linea Cora, Sezia, Cii'cei, diressero il loro
sforzo di guerra contro i Volsci più occidentali, che quelle colonie
gravemente punita, era rimasta in pace; Priverno poi s'era sollevata prima
della guerra latina o secondo un'altra tradizione nel 329 (v. p. 273). Di guerra
isolata con Tuscolo non pare in quel momento possa parlarsi. E vero che
l'anno seguente (322) fu console L. Fulvio e che di questo Fulvio Flin. n. h.
VII 136 dice che fu Tusculanortvn rebellantium consul eodemque honore cum
iransisset exornatus confestim a popolo Romano qui soltis eodem anno quo fuerat
hostis Romae triumphavit ex iis quorum consul fuerat. Ma qui son varie inesat-
tezze. Prima di tutto i magistrati supremi di Tuscolo non si chiamavano con-
soli; poi Fulvio non trionfò dei T uscolani : il silenzio dei fasti trionfali è
argomento sufficiente, perchè per questa età possono registrare trionfi falsi,
ma assai difficilmente omettere trionfi veri. È probabile quindi che si tratti
■di una leggenda municipale diretta ad infamare il trasferirsi dei Fulvi da
Tuscolo a Roma, leggenda che potrebbe aver qualche fondamento di vero se
i Fulvi si erano stabiliti a Roma nel 381 o nel 888 e che poi, esagerando
•sempre più i fatti, si collegò col primo consolato d'un Fulvio.
(1) Ciò è provato precisamente dal silenzio della tradizione. Un solo accenno
ad ostilità con Lanuvio è in Liv. VI 21, 2 (a. 383): Lanuvini etiam, quae fide-
lissima urbs fuerat, subito exorti. Anche le lotte dei Romani coi Volsci sup-
pongono che fosse fedele ai Romani questo gruppo di città.
(2) Di Cora e Norba la tradizione per questi anni non fa il più piccolo
cenno. Dei Signini ricorda soltanto che nel 362 (Liv. VII 8, 6) avrebbero di-
sperso i fuggiaschi Ernici.
(8j Tolta una menzione insignificante al 378 (Liv. VI 31).
(4) Liv. VII 15, 11. Cfr. sopra p. 107.
246 CAPO xvni - la dissoluzione della lega latina
latine separavano dai loro connazionali in modo da poterne diffi-
cilmente ricevere soccorsi. Di fatto gli Anziati e i Satricani, che
solo forzatamente avevano acceduto alla lega latina, se ne erano
distaccati tosto dopo la catastrofe gallica; e al pari di essi i Vel-
literni, se pure la loro ribellione del 393 era stata domata prima
di quella catastrofe. Tra tutti costoro i più potenti erano gli An-
ziati, per modo clie ad essi dobbiamo ritenere che si alluda quando
nella nostra tradizione in questo periodo si parla senz'altro di
Volsci. In mezzo a siffatte ribellioni vien ricordata ripetutamente
la malfida alleanza di Circei (1). A differenza delle altre colonie
latine, questa, ch'era stata dedotta nel 393, vacillò nella fede forse
perchè, costretti allora molti dei Volsci ad entrare nella lega la-
tina, ne avevano apx3rofittato per prendere una parte preponde-
rante alla colonizzazione d'una città posta nel loro i^roprio territorio.
Non ci è dato di conoscere i particolari di questa nuova guerra
tra Romani e Volsci che ebbe termine con la distruzione di Sa-
trico e con 1' ascriversi novamente di Anzio e di Velletri nella
lega. Ad essa le nostre fonti, compresa la più fededegna, sono
d'accordo nel riferire una battaglia decisiva contro i Volsci com-
battuta sotto la guida del dittatore Camillo immediatamente dopo
la invasione gallica, a un venticinque miglia da Roma, presso
una terra non lontana da Lanuvio detta Mecio o Marcio (2). Le
notizie che abbiamo su questo combattimento sono insufficienti e
di valore incerto. Forse un'antica tradizione riportava l'incendio del
campo volsco narrato concordemente dagli scrittori; meno atten-
dibile è il racconto diffuso che troviamo in una delle fonti sui tri-
buni militari assediati dai Volsci e salvati dallintervento del dit-
tatore (3), che sembra una variazione sopra un ben noto motivo (4).
Più importante del resto è notare che tutti riguardano la vittoria
come definitiva (5), sebbene la tradizione registri poco dopo nuove
vittorie sui Volsci. In sostanza, se j^ur quella battaglia non ebbe
(1) Liv. VI 12. 13. 17. 21.
(2) DiOD. XIV 117: èv tiù Ka\ou|névuj MopKiip. Plut. Cam. 33: Trepi tò MdpKiov
òpo^. Liv. VI 2, 8 ad Mecium (al. codd. Mestinm, Metiuni). Forse il nome è da
collegare con quello della tribù Maecia.
(3) Plut. 1. e.
(4) Cfr. sopra p. 117 seg. 121.
(5) DioD. 1. e: òióirep tòv IfiirpoaBev xpóvov iaxvJpoì ÒOKOuvrec; elvai òià tì^v
ou^qpopàv ToÙTnv àaSevéaroTOi tiIjv uepioiKoùvxujv èGvuùv èyevrieriaav. Liv. 1. e:
ad deditionem Volscos septuagesimo demum anno subegit. Plut. 1. e. : TTpoaaY<3|H€vo^
Toù? OùoXovjaKoui;.
1 VOLSCI. DISTKUZIONE DI SATKICO 247
effetti di tanto momento, par clie a riconoscere la sua realtà
storica e la sua importanza si possa tanto poco esitare quanto per
rispetto ai combattimenti del Regillo, del Cremerà e dell'Allia o
alla vittoria di Postumio Tuberto sull' Algido ; poiché essa è uno
dei fatti clie si rispeccliiano più nettamente nella tradizione sul
sec. rV distinguendosi dalle notizie contraddittorie o non ciliare
die la cii'condano. E si potrà discutere se spetti per l'appunto
al 389, ma è diffìcile negare che debba riputarsi realmente po-
steriore all'invasione gallica. Quanto jjoi alla sorte delle sin-
gole città volsche, non ne mancano notizie nella tradizione.
Cosi nel 382 essa parla di una vittoria riportata presso Vel-
letri sui Venitemi aiutati dai Prenestini (1) e nel 380 della con-
quista di Velletri per opera di T. Quinzio (2). Ma questa è pro-
babilmente un'anticipazione, tanto più che nella epigrafe ricordante
le sue conquiste sembra che Quinzio non ciarlasse punto di Velletri,
bensì di terre del paese prenestino ; e di fatto si torna a discorrere
nel 370, nel 369 e nel 367 dell'assedio di Velletri (3) e finalmente
ancora nel 358 d'una incm-sione ostile di Velliterni (4). Checche ne
sia, non sappiamo con precisione quando, ma certo poco dopo che si
fu ricostituita la lega latina, i Velliterni debbono avervi fatto indu-
bitatamente adesione, circondati com'essi erano allora da territorio
latino. D'un'altra città volsca, Satrico, la jDresa è narrata non
meno di quattro volte (5), e, per quanto possa in realtà essersi
disputata tra i contendenti, le condizioni della nostra tradizione
danno a pensare che quei racconti facciano tutti capo ad una
stessa notizia sulla caduta della città ; tanto ciò è vero che per
due volte, nel 377 e nel 346, si dice che Satrico fu distrutta salvo
il tempio della Madre Matuta, in occasione di una spedizione ro-
mana condotta da un Valerio, una volta per opera dei Romani,
l'altra per opera dei Latini. Par dunque che si tratti dello stesso
fatto il cui vanto veniva ascritto ora ai Romani, ora ai loro al-
leati. Gli annalisti tardi, che non si facevano un'idea chiara delie
relazioni tra Romani e Latini, non riuscivano ad intendere come,
se i Latini qui combattevano da alleati coi Romani, l'onore della
conquista dalla tradizione fosse ascritto ai Latini. E così si appi-
(1) Liv. VI 22.
(2) Liv. VI 29, 6.
(3) Liv. VI 86, 5. .37, 12. 38, 1. 42, 4.
(4) Liv. VII 15, 11.
(5) Liv. VI 8 (a. 386). 22 (a. 382). 32 (a. 377). VII 29 (a. 346).
24:8 CAPO XVIII - LA DISSOLUZIONE DELLA LEGA LATINA
gliarono alla congettura insensata die, dopo una battaglia com-
battuta da Volsci e Latini contro Roma, i Latini, irritati perchè
i Yolsci si erano arresi ai Romani, tornando in patria avessero
dato Satrico alle fiamme. Anche la passeggera colonizzazione ro-
mana di Satrico merita poca fede: colonie di cittadini con vero
diritto comunale non ne fondarono i Romani che dopo la guerra
latina del 340-338, e di regola sul mare. Del resto fra tutte le
date attribuite alla distruzione di Satrico la meno lontana dal vero
non è quella più recente del 346, sebbene abbia il suffragio dei
fasti trionfali che registrano al 1° febbraio di quell'anno il trionfo
di M. Valerio Corvo sui Volsci Anziati e sui Satricani. Allora infatti
da qualche tempo gii Anziati avevano compito la loro sottomissione
ed erano rientrati nella lega latina, rinunciando a una parte del
loro territorio, com'è provato dalla istituzione delle tribù Pomptina
e Poplilia nel 358 e dal trattato romano-cartaginese del 348, ove
son ricordati tra gli alleati latini di Roma. E da notare del resto
che mentre nelle precedenti guerre volsche il paese conquistato era
stato incorporato per intero alla lega latina, in questa, di cui i
Romani avevano portato quasi soli il peso, tennero per sé anche
buona parte del guadagno, tanto più che per qualche decennio una
lega latina cui donarlo non esisteva, e distribuirono in lotti il ter-
ritorio confiscato tra cittadini, di cui poi costituirono nel 358 le
due tribù sopra menzionate.
Mentre per tutta la prima metà del sec. IV dm^ò la guerra coi
Volsci, la tradizione fa apx3ena un cenno dell'altro nemico seco-
lare, gli Equi. Nel 389 gli Equi, secondo le nostre fonti (1), pro-
fittarono dell'indebolimento di Roma per un nuovo assalto, ma
furono rotti da Camillo presso Boia, e Boia ricuperata o liberata
dai Romani. L'anno appresso abbiamo notizia (2) d'una spedizione
contro gii Equi per domarli a pieno, che può anche essere una
semplice reduplicazione della precedente. E da allora degli Equi
non occorre più menzione fino al 304, al termine della seconda
g:uerra sannitica (3). Questo vuol dire che, convintisi gii Equi con
proprio danno subito dopo la catastrofe gallica della impossibilità,
di prendere una rivincita sui Romani, si rimasero tranquilli fra i
loro monti, dove i Romani non avevano per allora alcun motivo
di andarli a cercare, mentre i loro antichi campi di battaglia
(1) Liv. VI 2, 14. DiOD. XIV 117, 4.
(2) Da Liv. VI 4, 8.
(3) V. e. XIX.
C4LI EQUI. PKEXESTE 249
erano contesi tra Eomani e Prenestini. Preneste, la quale proba-
bilmente nel sec. Y non aveva fatto parte della lega latina, non
è ricordata punto nella nostra tradizione prima dell'invasione gal-
lica (1), sia che si tenesse neutrale tra Romani ed Equi, sia che,
,pui- favorendo, come par più probabile, gli Equi, le sue lotte con
Roma in quel periodo, poco importanti o poco onorevoli pei Ro-
mani, sieno cadute in dimenticanza (2). Ad ogni modo ora la tra-
dizione ricorda che i Prenestini sostituendosi agii Equi diedero la
mano ai Volsci ribelli e che i Romani impresero contro Preneste
una lotta che si chiuse solo dopo un trent' anni (3). Pm'troppo i
particolari di questa guerra sono, secondo il consueto di questo
periodo, poco degni di fede. Ci si parla p. es. dell" avanzarsi elei
Prenestini sino alla porta Collina (4), che per se non ha nulla di
impossibile , ma è da aver sospetto perchè il medesimo si narra
altrove dei Tibm'tini. Anche meno credibile è la battaglia ijresso
TAllia in cui i Prenestini sarebbero stati sconfitti dal dittatore
T. Quinzio Cincinnato (5) ; è molto difficile infatti che i Prene-
stini, traversando il territorio di parecchie altre città latine, siano
andati a battersi in un luogo cosi distante dalla via tra Roma e
Preneste ; ma è invece molto facile che un annalista mediante
un'invenzione oziosa abbia voluto contrapporre alla clade Alliense
una grande vittoria romana suU'Allia. Tuttavia non par dubbio
che intorno al 380 i Romani abbiano ottenuto sui Prenestini suc-
cessi vittoriosi rilevanti sebbene non definitivi (6), dopo i quali le
(1) Eccetto il passo di Livio citato sopra a p. 92 n. 3.
(2) V. sopra p. 120.
(3) La prima menzione di Preneste dopo la battaglia al Regillo è in Liv. VI
21, 9 : de PraenesHnorum quoque defectione eo anno prinium fama exorta (a. 383);
poi all' anno seguente Livio ricorda che i Prenestini aiutarono i Velliterni e
che insieme coi Volsci presero parte alla occupazione di Satrico (VI 22).
(4) Liv. VI 28 (a. 380).
(5) Liv. VI 29.
(6) Ciò par provato dalla testimonianza di Diod. XV 47 (a. 382): 'Puj,uaìoi
TTpòc; TTpaiveoTivouq TTapaTaE<i,Lievoi koì viKnaavxe; toùc; irXeiOTOue; tOùv àvrixato-
Ijéviijv KOTéKov|jav. e dalla iscrizione del dittatore T. Quinzio Cincinnato (a. 880).
Questa era secondo Livio Ms ferme incisa litteì'ia (VI 29, 9) sulla base della
statua di Giove Imperatore da lui dedicata nel Campidoglio: lupiter utque ditn
omnes hoc dederunt ut T. Quinctius dictator oppida novem caperei. Fest. p. 363
M ne dà un testo alquanto diverso: trientem tertium pondo (due libbre e
quattro oncie) coronam atiream dedisse se lovi donum scripsit T. Quinctius di-
ctator quoni per novein dies totidem urbes et decimavi Praeneste cepisset. Per con-
250 CAPO XYIII - LA DISSOLUZIONE DELLA LEGA LATINA
ostilità" dei Prenestini contro Roma o cessarono del tutto, ovvero
perdettero ogni importanza, lincile intorno al 354 essi furono co-
stretti ad entrare nella lega latina ricostituita (1).
Le città meridionali dei Prisci Latini e le colonie latine in
paese volsco fui'ono il nucleo della lega clie Roma prese a rico-
stituire intorno al 358 (2), dopo aver affermato novamente nella
lotta coi Volsci e coi Prenestini la superiorità delle proprie armi.
S'intende che, se allora il trattato cassiano venne formalmente
rinnovato, in effetto la nuova lega non fu che l'istrumento per
fondere maggiormente i critici, in un passo delle Verrine {ad. sec. IV 58, 129)
Cicerone parla del simulacro di Giove Imperatore quod ex Macedonia captum
in Capitolio posuerat Flamininus. Anche Flaminino chiamandosi T. Quinzio,
non c'è dubbio che Cicerone ha inteso parlare della stessa statua che fu se-
condo Livio dedicata da Cincinnato. Però molti ritengono che statua e iscri-
zione siano state riferite erroneamente al dittatore T. Quinzio (Burger Sechzig
Jahre p. 176. Pais I 2, 109). Ma Festo e Livio, i quali da fonti diverse attin-
gono le loro notizie sulla iscrizione, convengono nel dire che essa ricordava
Quinzio come dictator e gli attribuiva la conquista di nove oppida. Ora Flami-
nino non fu punto dittatore e ricevette la sottomissione di ben più che nove
terre. E quindi da ritenere che Cicerone, ricordando che sulla base della statua
era il nome di Quinzio, prendesse abbaglio riferendo la iscrizione a Flaminino.
Quanto poi alle divergenze tra Livio e Festo, in parte si conciliano facilmente.
La notizia della corona poteva benissimo stare nella epigrafe sulla base della
statua. Del resto una corona di 2 libbre e 4 oncie, che era un dono votivo stra-
ordinario pel principio del IV secolo, sarebbe stata una miseria per Flaminino
il quale portò nel suo trionfo 3714 libbre d'oro (Liv. XXXIV 42). —Importe-
rebbe- sapere se nell'iscrizione era realmente et decimavi Praeneste. Se vi era,
non poteva essere senz'altro citata tra gli oppida capta, ma piuttosto nel senso
stesso in cui parla della cosa Livio nelle frasi che precedono il ricordo della
iscrizione : novem oppidis vi captis , Praeneste in deditionem accepto. Purtroppo
dobbiamo lasciare nell'incertezza questo punto che sarebbe di capitale impor-
tanza. Ad ogni modo se sottomissione di Preneste vi fu, fu di breve durata,
cfr. Liv. VI 30, 8: Praenestini concitatis Latinorum populis rehellarunt.
(1) La data della pace si ricava da Diod. XVI 40 (ad a. 354): 'Puj|uaioi -npòi;
Mèv TTpaiveoTivouc; àvoxà; ènoiriaavio, ed è confermata dall'accordo che
nello stesso anno secondo Livio e la cronaca di Oxyrhynchos (v. oltre) si fece
coi Tiburtini.
(2) Liv. VII 12, 7 (ad a. 358): sed inter multos teì-rores solacio fiiit pax La-
tinis petentibus data et magna vis militam ah iis ex foedere vetusto, quod multis
intermiserant annis, accepta. Cfr. Polyb. II 18, 5 (dove parla del periodo tra la
catastrofe gallica e la nuova invasione di Galli avvenuta |ueTà Tt^v xf)^ itó-
Xeuj^ KatdXrmJiv éxei xpiaKoaTÓj): év Jj Kaipuj 'Puj]naioi Triv re ocpetépav bóva|uiv
óvéXapov Koi rà kotò toù^ Aarivóuq aOBic; irpaYMaxa ouveaxnaavTo.
LA NUOVA LEGA LATINA 251
cui i Romani poterono riunire di nuovo le forze latine sotto la
propria egemonia come nei decenni precedenti alla invasione gal-
lica. Di dare ai Latini per turno il comando degli eserciti fede-
rali naturalmente non si parlò più: la lega ricostituita ebbe come
supremo magistrato non più secondo Fuso antico un dittatore, ma
a somiglianza di Roma due pretori (1), i quali peraltro negli eser-
citi federali non fm^ono clie subordinati dei comandanti romani.
Nella lega fm'ono costrette a rientrare le città volsclie clie già ne
avevano fatto parte, dalla distrutta Satrico in fuori, cioè Velletri,
Anzio e Terracina (2). E per costringere Tivoli a tornarvi, i Ro-
mani le mossero guerra (3) ; e secondo la tradizione, fatta due
volte battaglia coi Tiburtini alla porte di Roma (360 e 359) (4),
obbligarono nel 354 quella città a sottomettersi (5). Contempora-
neamente entrava nella lega anche Preneste ; insieme con la quale,
se non x)rima, vi accedettero Nomento e Pedo.
Un documento importantissimo delle condizioni del Lazio circa
la metà del sec. R^ è il j)i'inio trattato romano-cartaginese. In
questo trattato concluso tanto dai Romani quanto dai Cartaginesi
a nome anclie dei rispettivi alleati (6) i Romani s'impegnano a
(1) Liv. Vili 3, 9 (ad a. 340/ : praetores ttim duos Latiiim habebat, L. Annium
Setinum et L. Numisium Cerceiensem. Per anticipazione la fonte di Dionisio
riporta i due pretori all'età regia, III 34: aipoOvxai òuo o-rparriYoù^ aÙTo-
KpÓTopai; eìprivr]- t€ koI TrùXéjuou 'Aykov TToutTXiKiov èk TTÓXeujq Kópac; Kai ZTroO-
aiov OÙ6KÌXiov ÈK Aaouiviou. Cfr. anche V 61. VI 4. Sul dictator Latinus v. I
p. 422 seg.
(2) Terracina è ricordata tra le città latine nel trattato romano cartaginese
del 348.
(3) La tradizione ignora al solito l'occasione vera delle ostilità. Livio (VII 9)
al 361 riferisce che i Tiburtini chiusero le porte ad un esercito romano che
tornava dal paese degli Ernici e che perciò fu loro dichiarata la guerra. Ma
la via per cui dal paese degli Ernici si torna a Roma non passa punto per
Tivoli.
(4) A. 360: Liv. VII 11, cfr. f. triumph.: [C. Poetelius...] ...cos. de Galleis et Ti-
hurtibm. Ad alleanza dei Tiburtini coi Galli accenna anche Livio, sia qui sia
per l'anno precedente, ma la sua cronologia di queste pretese invasioni gal-
liche non s'accorda bene con le notizie di Polibio. A. 359 : Liv. VII 12.
(5) Dopo l'occupazione nel territorio tiburtino di Empulum (Ampiglione)
nel 355 (Liv. VII 18) e di Sassula nel 354 (Liv. VII 19). Anche la cronaca di
Oxyrhynchos (Grenfell e Hunt The Oxijrhyncìnis l'apyri 1 25 segg.), che rap-
presenta una tradizione meno guasta della liviana, registra alla ol. 106, 3 =
354/3: TijioupTeivoi ùirò L'Puuiaaiiuv] KaTaTToX€)un6é[vTec; éauToJù^ Ttapéòoaav.
(6) PoLYB. Ili 22: èni TOìaòe cpiXiav elvai 'Puj)uaioi(; Kai toì^ 'Pujuaiuuv au|ii-
ILidxoi^ Kol Kapxn^ovioK; xai toìc; Kapxn^oviuuv au,U|uaxoi(;.
252 CAPO xvni - la dissoluzione della lega latina
non navigare sulla costa ad occidente del capo Farina, tenendosi
paghi a esercitare il commercio nel territorio cartaginese ad oriente
di quel capo e nei possedimenti di Sardegna e di Sicilia, in Africa
e Sardegna con certe restrizioni, in Sicilia con piena libertà. In
cambio i Cartaginesi si obbligano a non recare alcun danno agli
Ardeati, agli Anziati, ai Laurentini, a quei di Circei e di Terra-
cina e agli altri Latini soggetti a Roma, e a non occupare alcuna
fortezza sulla costa del Lazio ; e se vengano ad ostilità con città
latine clie non siano soggette a Roma, si impegnano a non ese-
guire che brevi sbarchi nel territorio, tornando prima di notte alle
loro navi e non assalendo le città ; se pur tuttavia accada che se
ne impadroniscano, sono tenuti a rimetterle intatte ai Romani (1).
Se anche lo scrittore greco che ci ha tramandato questo docu-
mento ha commesso una lieve inesattezza di versione allorché ci
parla di Latini sudditi à Roma, il testo mostra chiaramente che
Roma esercita una supremazia che non esclude la possibilità di
qualche ribellione su tutta la costa latina da Laurento a Circei.
S'è discusso a lungo sulla data di questa convenzione, perchè
lo storico onde ne abbiamo contezza la riporta al consolato di
Bruto e di Orazio ossia al x)rimo anno della repubblica (509 av.
Cristo secondo il computo tradizionale) (2), mentre, se pure Bruto
è mi personaggio reale, il suo cognome difficilmente poteva tro-
varsi in un documento. E del resto il Lazio intorno al 500 era in
ribellione contro Roma e non comprendeva certo Terracina, che
fu sempre tenuta come fuori del Lazio antico (3), ne, a quanto
j)are, Circei, dove la colonia dedotta da Tarquinio Superbo (4)
sembra solo un'anticipazione della storica colonia del 393 ; all'in-
contro faceva parte della lega latina Pomezia, che fu poi distrutta
dai Volsci e la cui assenza nel trattato stupirebbe se questo spet-
(1) PoLYB. 1. c: Kapxn^óvioi he pif] àbiKeiroiaav òn|utov 'Apòeaxujv 'AvriarOùv
AopevTivuuv KipKauTUJv TappaKiviriliv, |urib' àXXov |ir)béva AaTivuuv, òaoi Sv òtth-
Kooi . èdv òé Tiv€<; |Lii^ (laiv ÙTtt'iKOOi, TÙJv iTÓXeujv àTr6xé00ujffav . civ bè Xa^ujoi,
'Pu)|uaioi(; ÒTTobiòÓTUjaav ÓK^paiov. qppoùpiov ^■f] èvoiKoòo|U6ÌTUjaav èv xrj Aarivri .
èàv ùjc, iToXé)uioi elq ti^v x<Jupav eìaéXBuuaiv, èv Trj x^P'^ M^*! èvvuKxepeuéTujaav.
(2) PoLYB. 1. e: Yivovtai TOiYOpoOv avJvOnKai'PujiaaioK; koì Kapxrjòovion; irpiÙTai
Karò AeuKiov 'loùviov BpoOrov kuì MdpKov Qpdxiov toùc, irpubrouq KaToara-
eévToi; ÙTTÓTOui; jaerà tì^v tujv pacriXéujv KardXuaiv, ùqp' u»v avvé^t] KaGiepujSfìvai
Kal TÒ ToO Aiòq iepòv toO KaireTujXiou. Cfr. 1 p. 412 seg.
(3) [SoYLAx] 8: TÒ ToO 'EXiTt'ivopoi; luvriiaà éari Aativujv. Strah. V 231. Plin.
n. h. Ili 56. 70.
(4) Liv. I 56.
TRATTATO CON CARTAGINE 253
tasse realmente al 509 (1). Ma poi il testo della convenzione mostra
Roma nel possesso della egemonia sul Lazio, mentre sul principio
della repubblica tale predominio non pare esistesse. Ed anclie per
ciò che concerne i Cartaginesi il testo sembra dimostrare che i Car-
taginesi non possedevano in Sicilia due o tre porti, come intorno
al 500 (2), ma una vera provincia, come nel sec. IV. Se a ciò si
aggiunga che la tradizione annalistica attribuisce concordemente
al 348 il primo trattato tra Roma e Cartagine (3), è da indurne
che a quell'anno spetta sicuramente il nostro documento (4).
Insieme con quella dei Latini la tradizione ricorda tosto dopo
la invasione gallica la defezione degli altri antichi e fedeli alleati
dei Romani, gii Ernici (5). Nonostante la defezione però e gli
aiuti che avrebbero fornito ai Volsci ribelli (6) , non s' accenna
prima del 362 a guerra aperta dei Romani contro di essi. Questo
sembra dimostrare che non prima d'aver iniziato la ricostituzione
(1) V. sopra p. 100. 104.
(2) Cfr. I p. 332. II p. 85 segg.
(3) Dioi). XVI 69: éirì òè toùtuuv (i consoli del 848) 'Piu|uaioi(; |uèv irpòc; Kap-
Xr|bov(ou(; irpÙJTOv auv9fJKai èfévovTO. Liv. VII 27, 2 (ad a. 348): et cum Car-
thaginiensihus legatis Romae foediis ictum, cuni, amicitiam ac societatem petentes ve-
nissent. Livio, sebbene non dica esplicitamente che fu quello il primo trattato,
ne discorre però come di cosa affatto nuova, onde sembra averlo interpretato a
dovere Orosio III 7, 1 che riguarda questo trattato del 348 come il primo tra
Romani e Cartaginesi; ne importa che egli lo attribuisca all'a. u. e. 402, poiché
si tratta certo o d'un errore di cifra o d'un errore di calcolo. Confrontisi poco
sopra (III 6, 1) dove al 388 di R. attribuisce la vittoria del dittatore Quinzio
sui Galli, che secondo i fasti spetta al 360 av. Cr. È vero che, senza aver men-
zionato esplicitamente il secondo trattato, Livio parla poi al 306 (IX 43) del
terzo e al 278 {ep. 13) del quarto. Ma i trattati conclusi prima delle guerre
puniche stando a Polibio son tre, non quattro. Forse Livio numera per una
svista come secondo fra essi l'invio per parte dei Cartaginesi d' una corona
aurea e d'una ambasciata gratulatoria nel 343 (VII 38); ma può anche darsi
che i trattati siano stati realmente quattro. Par difficile che dopo l'unione
dei Campani a Roma non si sia modificata la convenzione precedente, che non
corrispondeva più allo stato delle cose.
(4) La letteratura su questo trattato è amplissima. Vedi le citazioni presso
R. von Scala. Die Staat-svertràge des Altertums I (Leipzig 1898) p. 30. Una me-
moria riassuntiva è quella di A. Pikro II primo trattato fra Roma e Cartagine
(Pisa 1892) p. 30 segg.
(5) Liv. VI 7. 8 (a. 386). 12. 13 (a. 385).
(6) Liv. VII 6.
254: CAPO xvin - la dissoluzione della lega latina
della lega latina i Romani presero l'offensiva contro gli Ernici.
Dal 362 al 358 la tradizione enumera vari trionfi su questo popolo (1).
Si parla di un console I-.. Genucio caduto in un agguato, ripetendo
troppo davvicino Favventm'a del tribuno militare Cn. Grenucio in-
cappato in mia imboscata nelFultima guerra coi Veienti (2j, che sa-
rebbe stato vendicato da un dittatore Ap. Claudio, poi della presa
di Ferentino, che però i Romani in ogni caso non debbono aver
conservata, ma restituita ancora agli Ernici, e infine della cam-
pagna vittoriosa condotta contro gli Ernici nel 358 da C. Plauzio (3).
Coi Latini jjertanto anche gii Ernici rientrarono nell'alleanza ro-
mana, e formalmente si rinnovò forse anche con essi l'antico trat-
tato. S'intende che il patto d'alleanza secondo cui il bottino fatto
in comune dai tre popoli alleati doveva dividersi nella mism^a di
un terzo per ciascuno era destinato a rimanere lettera morta ora
che il territorio e le forze romane e latine superavano immensa-
mente quelle degli Ernici. Con gli Ernici o poco dopo debbono
anche aver fatto la loro forzata accessione alla lega i A^olsci di
Priverno, che si trovavano stretti fra gli Ernici, i Latini di Sezia
e i Volsci pacificati di Anxm\ Non si allontana quindi dal vero la
tradizione che ci narra la xjrima loro sottomissione nel 357 (4).
Mentre i Romani combattevano in questo modo sulla sinistra
del Tevere, sulla destra i Tarquiniesi ed i Falisci cercavano di
profittare della catastrofe gallica per ricuperare il territorio ove i
Romani avevano i loro avamposti di Sutri e di Nepi. Ma questo
assalto (5) fu ributtato, e Sutri e Nepi vennero rinforzate ordi-
nandole a colonie latine (6). Infatti i Romani erano esausti, e solo
chiamando i Latini a popolare quelle città e assicurando loro a tal
uopo r autonomia spettante secondo V uso alle colonie di diritto
latino si poteva sperare di costituire colà due baluardi che potes-
sero stabilmente resistere agli Etruschi. Poi per quasi trent'anni la
nostra tradizione non parla più di guerre oltre il Tevere. Gli
Etruschi, fallito il tentativo di riconquistar con la opportunità del-
(1) Liv. VII 7. 8. 15. F. triumph. ad a. 359 e 358.
(2) Liv. V 18. V. sopra p. 142.
(3) Lrv. VII 15, 9 : Hernici devicti suhactique snnt; espressione certo esagerata,
perchè essi compaiono poi come alleati autonomi.
(4) Liv. VII 16, cfr. Dionys. XIV 13. F. triumph. ad a. 357.
(5) Ricordato una volta sola in Diodoko XIV 117, 4, due volte, per una re-
duplicazione, in Livio al 389 ed al 386 (VI 3. 9).
(6) V. sopra p. 149 n. 3.
GLI ERNICI. SOTTOMISSIONE DI CERE 255
l'incendio di Roma qualche lembo del territorio tolto ad essi poco
prima, si rimasero dalle offese, non parendo loro d' aver a te-
mere dai Romani ; dacché in generale dopo la rotta di Aricia non
s'impegnarono nell'offensiva se non quando credettero di correre
manifesto pericolo. Impugnarono poi di nuovo le armi allorché,
ricostituitasi la lega latina, la cresciuta potenza romano-latina pa-
reva formidabile per l'Etruria (1). La tradizione registra così tra
il 358 e il 351 una guerra coi Tarquiniesi, Falisci e Ceriti, i cui
particolari peraltro son poco degni di fede. Vien detto, ad esempio,
che nel 358 il console C. Fabio ebbe la peggio combattendo coi Tar-
quiniesi e questi trucidarono 307 prigionieri romani (2) ; ma il fatto
ricorda trox3po davvicino la strage dei 306 Fabì al Cremerà per
non apparirne un duplicato. Anche al 356 si registra un momen-
taneo successo felice dei Tarquiniesi e dei FaKsci sui Romani dovuto
allo spavento che incutono i sacerdoti etruschi armati di serpenti e
di faci accese, cui segue la immancabile rivincita romana (3) ; ma
come un caso simile si racconta anche pel 426 a proposito della
guerra con Fidene (4), è lecito dubitare che si tratti della ripeti-
zione di uno stesso motivo leggendario. Né molto fededegna è la
vittoria del dittatoi'e C. Marcio Rutilo sui Tarquiniesi ricordata allo
stesso anno (5) ; perché la migliore delle nostre fonti, che appunto
sotto quell'anno dà notizia della guerra etrusca, non ne fa alcun
cenno. E sospetta perfino la battaglia del 354, dove furono uccisi
molti Tarquiniesi e 358 scelti per essere scannati nel Foro ; giacché
potrebbe anche essere stata inventata per contrapporla all'altra
dopo cui i Tarquiniesi avevano trucidato 307 prigionieri romani (6).
Tuttavia quel che ai Romani succedette d'ottenere nella guerra,
ossia la sottomissione dell'antica città etrusca di Cere, é espresso
chiaramente nella tradizione. Dal 351 al 311 poi gli Etruschi si
astennero da qualsiasi ostilità contro Roma, e questa lunga pace
(1) Liv. VII 12, 6 (ad a. 358): iis [Tarquiniemihiis) C. Fabius et C. Plautha:
iussu populi hellutn indixere. Diod. XVI 31 (ad a. 357): 'Pu)|Liaioi<; òè irpò^ <t>a-
XiaKOu; auvéOTTi TióXeiaoq koI |uéTa \xkv oòòèv oùò' fiEiov |uvr))uri^ èTeXéoGr), koto-
bpoiaaì òè Kai -rropGriaei^ rvf, X'JÙpa; tùjv OaXiaKujv éyévovTO.
(2) Liv. VII 15, 10.
(3) Liv. VII 17.
(4) Liv. IV 33.
(5) Liv. 1. e. Fasti triiunph. ad a. 356. Diod. XVI 36,4: Tupprivol òè òiaiio-
A€)no0vT6(; 'Piu|iaioi(; èiTÓpGrioav ttoXXi>iv tiìc; iroXenioq x^paz, koì néxpi toO Tipépeuuq
KaTaòpa|aóvT€(; èuavfiXeov eie; t^m olKeiav.
(6) Liv. VII 19, 2. Dioo. XVI 45, 8. Cfr. I p. 360 n. 4.
256 CAPO' XVIII - LA DISSOLUZIONE DELLA LEGA LATINA
che permise ai Romani di svihipxjare meravigliosamente la loro po-
tenza nel centro d'Italia è l'effetto della guerra sfortunata impresa
contro Roma dai Tarquiniesi e Falisci; né v'è difficoltà alcuna a
credere che la guerra terminasse appunto, come dice la tradizione,
con una jjace di quarant' anni che poi i Falisci cambiarono in
un trattato di alleanza (1). Quanto a Cere, è, a dir vero, assai
difficile che la lotta coi Ceriti cominciasse e finisse nel 353; ma
è indubitato invece che in conseguenza del procedere \dttorioso
dei Romani contro gii alleati di Cere, i Tarquiniesi e i Falisci, i
Ceriti furono costretti a sottomettersi (2). Privati della loro indi-
pendenza, non si potevano, per essere etnicamente troppo diversi
dai Latini, né incorporare allo Stato romano coi pieni diritti di
cittadinanza come i Tuscolani, né, come Anzio, ascrivere alla lega
latina. A distragger Cere come Veì i Romani non si risolvettero,
sia i3er timore della resistenza disj)erata che avrebbero potuto op-
porre i Ceriti, sia per riguardo alle antiche tradizioni d'amicizia
che legavano Cere con Roma (3). E cosi costrinsero i Ceriti a ri-
nunciare al diritto sovrano di pace e di guerra e al supremo po-
tere legislativo e giudiziario, sottomettendosi airautorità legislativa
dei comizi, alla giurisdizione del pretore, all'imperio militare dei
magistrati romani, alla coscrizione ed al tributo secondo liste re-
datte dai censori. Pur conservando certe effettive franchigie co-
munali e un'ultima ajDparenza d'autonomia per cui giurarono di
rimaner fedeli a questi patti a Roma per cento anni (4), i Ceriti
erano stimati ormai cittadini romani privi dei diritti politici, e
nelle tavole in cui i censori tenevano il loro registro e che si di-
cevano tavole dei Ceriti, si registravano anche tutti quegli altri
(1) Liv. VII 22: Tarqiiinienses...indutias... in quadraginta annos impetraverunt.
La data della pace si è calcolata probabilmente partendo da quella dell'inizio
di nuove ostilità nel 310. — Dei Falisci vien detto (VII 38, 1) che nel 343
avrebbero cambiato le loro indutiae con un foedus. Se il Pais (I 2, 240 n.)
crede che qui Livio ' presenti (ed in ciò in fondo le sue fonti paiono meritar
fede) i Falisci in atto ostile verso i Romani ', sembra che egli fraintenda il
passo liviano.
(2) Liv. VI 20, 8 : Itaque pax populo Caeriti data indutiasqne in centum annos
factas in aes referri placiiit.
(3) Cfr. CIL. I 1 ■' p. 191 el. VI. Liv. V 40, 10, cfr. 50, 3. Val. Max. I 1, 10.
Strab. V 220. V. sopra p.
(4) Cfr. il simulacro di foedus che si conservò coi Laurentini quando vennero
nel 338 incorporati nello Stato romano, v. p. 282. Pei municipi federati vedi
oltre e. XXII.
SOTTOMISSIONE DI CERE 257
cittadini che, per demerito o per qualsiasi altra ragione, erano de-
stituiti della facoltà di votare nei comizi (1). Non v'ha dubbio,
per quanto sia stato negato recentemente, che i Ceriti furono ri-
dotti in questa condizione sin dal 353 e non dal 273 quando
ebbero confiscata una parte del territorio (2), poiché il nome di
tavole dei Ceriti dato alle liste dei cittadini senza suffragio si
spiega soltanto se i Ceriti per primi avevano ricevuto questa cit-
tadinanza con minori diritti, che poi, a tacere dei Campani, ebbero
Fondi e Formie nel 338 ed Anagni nel 306 (3). Con ciò del resto
s'accorda il fatto che di Cere, reputata al pari d'Ostia. parte in-
tegrante dello Stato romano, non fa esplicita menzione il trattato
romano-cartaginese del 348, il quale enumera invece le città alleate
della sponda laziale da Laurento fino a Terracina (4).
Coi nuovi acquisti di Cere, di Tuscolo e dell'agro pontino il ter-
ritorio romano abbracciava ormai un 3100 km^ (5). Non molto
inferiore era il territorio della lega latina (6), mentre solo un mi-
fi) Strab. V 220: troXiTeiav yàp bóvjec, oùk àvéypa^jav eie, roùq -rroAiTac; àWà
Koì Toùq fiX\ou<; TOù^ |ui^ lueTéxovToq Tfì<; taovo|uia<; etq jàc, òéXxouq èEuOpiZiov Tà<;
KaipeTavuJv. Gell. n. A. XVI 13, 7: Primos autem municipes sine suff'rugii iure
Caerites esse factos accepinius concessumque illis ut civitatis Romanae honorem
quidem caperent sed neyotiis tamen atqiie oneribtis vacarent prò sacris bello Gal-
lico receptis cnstoditisque. Jiinc tabulae Caerites apptellatae, versa vice, 'in qiias
censores referri iubebant. V. sopra p. 237 ii. 1 e oltre e. XXII.
(2) Cass. Dio fr. 33 (I p. 138 Boiss.ì, su cui v. e. XXI.
(3) Si può aggiungere che ai Ceriti s'allude forse col nome di Romani nel
passo di Teofrasto hist. jylant. V 8, 2 (I p. 455 n. 5). Alla concessione della
cittadinanza nel 353 allude evidentemente [Acro] ad Hor. epist. I 6, 62 : Cae-
ritibus civitas Romana sic data ut non liceret iis suffragium ferre quia post
datum (353) ausi sunt rebellare (273). Naturalmente che i Ceriti abbiano goduto
i pieni diritti tra il 353 e il 273 è un autoschediasma senza valore.
(4) Anche il trattato concluso ai tempi di Pirro non stipulava nulla intorno
a Cere; e questo dimostra all'evidenza che prima del 273 già quella città fa-
ceva parte integrante del territorio romano : altrimenti non poteva non esservi
menzionata come alleata dipendente.
(5) Estensione precedente km^ 2220. Cere 380. Tuscolo 100. Agro pon-
tino 400. Totale km^ 3100.
(6) Estensione precedente km- 2940 (sopra p. 153 n. 2). Da sottrarre Tu-
scolo km^ 100; agro pontino 400. Rimanenza 2440. Da aggiungere Preneste 325;
Pri verno 245 (V). Totale 3010. Queste cifre sono in generale desunte dall'/if.
Bund del Beloch o (in qualche raro caso) sono calcolate con lo stesso metodo
seguito in quel libro. C'è appena bisogno di dire che sono ben lontane dalla
precisione e che farebbe cosa assai utile chi valendosi di tutti i sussidi che
oggi si hanno ve ne sostituisse di migliori.
Gr. Dk Sanctis, Storia dei Romani, II. 17
258 CAPO XYIII - LA DISSOLUZIONE DELLA LEGA LATINA
gliaio di chilometri quadi'ati o poco più comprendeva pm- sempre
il territorio degli Ernici. Adunque Latini ed Ernici insieme supe-
ravano alquanto in estensione di territorio Roma, ma Roma aveva
per se a fronte dei suoi alleati il vantaggio di costituire uno Stato
unitario, densamente popolato e senza discontinuità nel territorio,
che aveva per centro una fra le città più importanti dell' Italia
non greca.
Cosi era risorto, più potente di prima, dalle ruine dell'incendio
gallico, lo Stato romano. Né pare che nuove invasioni barbariche
fossero d'impedimento al suo risorgere (1). La pseudostoria del
sec. IV narra, è vero, non poche di queste invasioni. Una sarebbe
avvenuta nel 367, e in quell'anno, secondo alcuni, i Romani avreb-
bero vinto una battaglia al ponte dell'Aniene, e T. Manlio, superando
in singolare tenzone un guerriero gallo, avrebbe guadagnato il co-
gnome di Torquato (2). Nel 366 poi si sarebbe sparsa la voce che
un esercito di Galli si raccoglieva nell'Apulia, senza che il senato
volesse darvi credito perchè l'esercito romano non fosse coman-
dato da un console plebeo (3). Nel 361, essendo dittatore T. Quinzio,
secondo alcmii sarebbe avvenuto il duello che rese celebre Tito
Manlio Torquato, seguito dalla fuga dei Gralli rimastine atter-
riti (4). Nel 360 il console C. Petelio avrebbe sconfitto innanzi alla
porta Collina i Galli collegati coi Tibm'tini (5) ; infine nel 358 dal
dittatore C. Sulpicio sarebbero stati vinti i Galli nelle vicinanze
di Pedo (6). Ma tutte queste notizie sono assai sospette. La fonte
meno impura che s'abbia intorno alle guerre galliche non conosce
nessuna vittoria romana del sec. TV e nessmia invasione gallica
fra il 390 e il rinnovamento dell'alleanza coi Latini. La vittoria
del 367 fu inventata forse perchè in quell' anno cadeva l'.ultima
dittatura di Camillo; e il combattimento di Manlio col guerriero
(1) Il racconto più degno di fede sulle guerre galliche dei Romani è in
PoLYB. Il 18 segg. Esso è illustrato soprattutto dal Mommsen Edm. Forschungen
II p. 352 segg. V. anche Niese ' Hermes ' XIll (1878) p. 401 segg. Unger
' Sitzungsber. der miinchen. Akad. ' 1876 I p. 531 segg. ' Hermes ' XIV (1879)
p. 77 segg.
(2) Clàud. fr. 10 a ap. Liv. VI 42, 5 (cfr. Gell. ti. A. IX 13). Plvt. Cam. 41.
Cass. Dio ap. Zon. VII 24. Dionys. XIV 8-9.
(3) Liv. vn 1.
(4) Liv. vn 9-11.
{5) Liv. VII 11. 11 trionfo di Petelio de Galleis et Tiburtibus e registrato
anche nei f. triumph.
(6) Liv. VII 12-15. F. triinnph. ad a.
INVASIONI GALLICHE 259
gallo si riferi a quell'anno forse per la tendenza a contrapporre
o ad accoppiare un Manlio con Camillo, il leggendario vincitore
dei Galli. In quel duello del resto è forse da vedere uno dei pochi
frammenti d'antica e genuina poesia popolare che ci siano perve-
nuti intorno alle invasioni galliche posteriori al 390; ma appunto
per ciò non può darsene una cronologia sicura. Quanto ai timori
del 366, essi non sono, altro che invenzioni d'annalisti, perchè na-
turalmente delle voci che correvano nel 366 av. Cr. e dei segreti
propositi del senato non poteva conservarsi alcun ricordo. E in-
fine sulle pretese vittorie degli anni seguenti il silenzio della tra-
dizione più attendibile permette di pronunciare una generica con-
danna. Certo, che incursioni nel Lazio facessero i Galli fra il 390
e il 358 non può ne affermarsi né negarsi ; ma se ne fecero, furono
di poco momento, perchè senza che i Romani riportassero vittorie
e senza che pur affrontassero in camj30 il nemico, esse non impe-
dirono il rassodarsi delia potenza romana. Non sax^piamo con si-
curezza perchè s'arrestò per molti anni dopo l'incendio di Roma
rimpeto della invasione gallica. Non fu certo per la leggendaria
vittoria di Camillo, né solo forse per le discordie tra i barbari o le
lotte con gli Italici e gli Illirici dell'Italia settentrionale (1). Ma
ampio era il territorio occux)ato dai Celti e sufficiente agli inva-
sori, e probabilmente senza imxjellente necessità essi, ignari del-
l'aite degli assedi, non erano disposti a sottostare ai disagi e ai
rischi d'assediare senza m.olta speranza di vittoria le forti città
etrusche, umbre e latine dell'Italia centrale. E per di più la cor-
rente migratoria dei Celti in quegli anni non j)iù pei valichi alpini
si riversava nella pianura padana, ma cominciava a trovare uno
sbocco appunto allora nel settentrione della penisola balcanica,
ove assai xdìù facile era sujjerare gli indigeni, bellicosi bensì, ma
inesperti dell'arte e dell'architettm^a militare (2).
Checché ne sia, la ijrima incursione gallica nel Lazio storica-
mente accertata dopo il 390 avvenne nel 357 (3). I barbari non si
(1) Cfr. PoLYB. II 18.
(2) Cfr. sopra p. 159 n. 5.
(3) A questo anno ci riporta Polyiì. II 18 secondo cui accadde TpiaKOOTiù èxei
dopo la presa di Roma, ossia, riducendo ad uno i cinque anni tradizionali
d'anarchia (375-71. v. sopra p. 214), appunto nel 857. Vero è che Livio non
registra al 357 nessuna invasione gallica; ma egli stesso, accennando nel 367
secondo Claudio al duello di T. Manlio col Gallo, aggiunge (VI 42, 6) : 2>^"-
ribus auctoribus magis adducor ut credain decerti haud tninus post annos ea
acta, sebbene poi dimenticandosi di ciò lo narri al 361 (sopra p. 258 n. 4).
260 CAPO XVIII - LA DISSOLUZIONE DELLA LEGA LATINA
arrischiarono sotto Roma né assalirono alcuna delle città latine,
ma s'avanzarono per saccheggiare nella jjarte più fertile del Lazio,
la regione attorno alle sponde del lago Albano. Ne i Romani, che
non avevano avuto spazio di chiamare a raccolta i contingenti
della ricostituita lega latina, osarono provocarli a battaglia. Ma la
procella si dissipò senza aver avuto altro effetto che una di quelle
devastazioni dei camici cui, fra le guerre interminabili, dovevano
essere ormai assuefatti i xjazienti agricoltori latini. Se non che, non
potendo registrar vittorie autentiche, la tradizione più interpolata ne
riferisce di immaginarie. Tale quella del 350 che il console plebeo
M. Popilio Lenate avrebbe riportato sui Galli che occupavano il
monte Albano (1); e tale parimente quella guadagnata nel 349 nel-
l'agro pontino da L. Furio Camillo, il fìgho del vincitore dei Ve-
ienti (2), con la quale vien collegato il racconto, attinto anch'esso
alla poesia popolare, del duello tra un guerriero gallo e M. Valerio
che ebbe allora il soprannome di Corvo o Corvino per l'aiuto da-
togli da uno di questi uccelli (3). La tradizione più genuina rife-
risce invece soltanto d'una invasione fatta dai Galli nel Lazio il
dodicesimo anno dopo la precedente, ossia nel 346 o 45 (4). Questa
volta i Romani, rinforzati dagli alleati, mossero contro i barbari,
desiderosi di mism^arsi in battaglia. Ma i Galli atterriti e discordi
tra loro x^rofittarono della notte per ritirarsi o meglio per fuggire ;
e dopo di ciò non osarono mai più invadere il Lazio. E poiché la
tradizione interpolata non conosce neppure essa altra invasione
(1) Liv. VII 2.3-24. Anche i f. triumph. registrano il trionfo di M. Popillio
de Galleis.
(2j Liv. VII 25-26. (Flor. I 8, 20. Oros. Ili 6, 4. Val. Max. Ili 2, 6). Cfr. Claud.
fr. 12 ap. Gell. n. A. IX 11. Dionys. XV 1. Di questa vittoria non c'è traccia
nei f. triumph. Non può desumersi da Zon. VII 25 la cronologia di Cassio
Dione, il quale peraltro faceva riportare la vittoria da L, Camillo come dittatore.
(3) V. su M. Valerio Corvo Muenzer De gente Valeria p. 25 segg.
(4) Che la fonte di Polibio intendesse collocare questa ultima invasione
nell'a. consolare 346 si può stabilire anche così. La battaglia di Sentino (295)
fu combattuta nel 4" anno dopo una invasione gallica che tenne dietro ad una
pace di trent'anni (Polyb. II 19). Quella invasione spetta dunque al 298, e la
pace durata trent'anni si concluse non nel 328, ma, se, com'è da credere, la
fonte di Polibio ometteva i tre anni dittatoriali che cadono in questo lasso
di tempo, nel 331. La pace tenne dietro ad una tregua di fatto che era du-
rata 13 anni, ossia era cominciata, tenendo conto dell'anno dittatoriale 333,
non nel 344, ma nel 345. Al 345 o al 346 si riferisce quindi l'ultima inva-
sione gallica nel Lazio.
INVASIONI GALLICHE. SFACELO DELL'iMPERO DI DIONISIO 261
dopo quella fronteggiata da L. Furio Camillo, è da ritenere clie
ambedue le tradizioni rispecchino uno stesso fatto: sol che all'una
di esse non bastando la fuga, vi aggiunse anche una rotta gallica.
Quanto alla lieve divergenza cronologica, la ragione sta probabil-
m.ente in ciò che Funa di esse riferiva il fatto al consolato (349)
di L. Fmno Camillo, l'altra alla sua dittatm-a (345) (1).
Ad ogni modo la ritirata dei Gralli circa la metà del sec. IV
segna pel Lazio la fine del pericolo gallico. Senza mai aver ten-
tato un assedio, riconosciutisi ora inferiori anche in campo aperto,
i Galli non xjoterono riprendere le offese contro Roma che assai
più tardi e in condizioni affatto diverse. Per allora non solo ri-
nunciarono a nuove incm^sioni, ma essi, o per dir meglio i più
meridionali tra essi, cioè i Senoni, strinsero con Roma alcuni anni
dopo (331) un trattato di pace per cui Roma si trovò libera da
ogni pericolo dei Gralli negli anni diffìcili della seconda guerra
sannitica (2). Frattanto la fuga dei Gralli fu riguardata come un
rilevantissimo successo di Roma: né mancò forse d'influire sul-
l'animo dei Campani quando poco dopo invocarono la protezione
romana.
Contemporaneamente era dileguato ogni pericolo per parte dei
Grreci di Sicilia. La monarchia militare ripugnava troppo ad un
popolo assetato di libertà come i Greci, perchè jDotessero a lungo
tollerarla; e la sicm^ezza stessa dai nemici esterni che essa gua-
rentiva, faceva si che si credesse di non averne più bisogno. Tut-
tavia finché visse il vecchio Dionisio nulla faceva prevedere il
prossimo sfacelo. Il tiranno del resto non dimenticava mai che la
giustificazione dell'opera sua era solo nella difesa degli interessi
ellenici contro i barbari. C^osi nel 383 egli riprese la guerra con
Cartagine (3), e combattè a lungo e con varia fortuna non solo
in Sicilia, ma anche nell'Italia meridionale, ove i Cartaginesi
avevano guadagnato l'alleanza della lega italiota mal disposta
verso Dionisio che l'aveva combattuta aspramente e ne aveva di-
(1) Su cui V. Liv. VII 28, 2. L'auticipaziono è fors' anche determinata dal
primo consolato di M. Valerio Corvo, che cade nel 348.
(2) Livio non menziona questo trattato, ma un vano timore di guerra gal-
lica nel 332 (333) e tra la tìne del 330 e il principio del 329 (Vili 17. 20).
A torto a quest'ultimo tumultus Gallicus il Pais I 2 p. 363 n. 2 propone di
riferire il fr. 21 di Cassio Emina.
(,3) Questa guerra è narrata da Diod. XV 15-17 sotto il solo anno 383/2,
ma non v'è dubbio che ebbe durata assai più lunga.
262 CAPO XVIII - LA DISSOLUZIONE DELLA LEOA LATINA
strutto una città , Eeoio (sopra p. 190). A questa guerra si col-
lega la [)rima notizia che abbiamo di un intervento dei Cartaginesi
nella penisola, ov'essi ricostituirono la colonia greca d'Ipponio ri-
conducendovi gli antichi abitanti (379) (1), mentre Dionisio s' im-
padroniva della seconda città della lega italiota, Crotone (2). La
rotta sanguinosa che il tiranno toccò a Kronion, forse presso Pa-
lermo, dopo la sua vittoria presso Kabala, lo costrinse a smettere
anche questa volta il pensiero di cacciare i Cartaginesi dall'isola;
e nella pace che seguì, egli, pur conservando sostanzialmente in-
tatto il suo impero in Sicilia, e assicui"andosi il possesso delle sue
nuove conquiste in Italia, dovette rilasciare ai Cartaginesi un
lembo di territorio confinante alla loro provincia con le città
greche di Selinunte, d' Eraclea Minoa e di Terme , accettando i
confini delFAlico (Platani) nel suo corso medio e dell' Imera set-
tentrionale (Fiume G-raride). Ma queste paci non erano nei pro-
positi del perdurante tiranno altro che tregue; che ancora una
volta (368) egli riprese la guerra col nemico della nazione, con
miglior speranza di felice successo, perchè, pago degli acquisti
fatti in Italia, eragli riuscito finalmente di stringere buone rela-
zioni con la lega italiota, e quindi non aveva a temere che questa
s'alleasse di nuovo ai Fenici con poco riguardo agli interessi na-
zionali ellenici (3),
La morte tolse al signore di Siracusa di colorire i suoi disegni
di conquista (367); e il suo successore ed erede, Dionisio il gio-
vane, j)ensò che bastava quel che contro il nemico della nazione
aveva o^jerato il padre, e che si potevano conservare tranquilla-
mente gli acquisti da lui fatti senza esporsi alle sorti incerte di
altre guerre, cercando il pubblico favore, se non con la gloria
delle vittorie, col rimettere alquanto della severità usata fino
allora all'interno (4). Non trascm-ò i)eraltro il tiranno di promuovere
gli interessi greci e l'onore della monarchia, quanto si poteva senza
rischi troppo gravi, come mostrò con la fondazione di due colonie
sulle sponde della lapigia (5), col ricostruire la distrutta Eegio (6),
a) DioD. XV 24.
(2) Liv. XXIV 3, 8. DioNYs. XX 7, 3.
(3j DioD. XV 78. IcsTiN. XX 5.
(4) Per la pace da lui fatta coi Cartaginesi v. Diod. XVI 5. Plut. Dio 6. 14.
(5) DioD. XVI 5. Una, secondo il Bkloch Gr. G. II 179 n. 4, sarebbe Nea-
pulis nella Peucezia.
(6) Sthau. vi p. 258.
SFACELO dell'impero DI DIONISIO 263
guerreggiando i Lucani (1) e inviando ancli'egii soccorsi in Grecia
alla vecchia alleata del padre suo, Sparta (2). Ma presto si vide
quanto avesse torto il giovane Dionisio d'adagiarsi in una fallace
sicurezza e di disconoscere che solo modo di dar stabilità alla
monarchia era quello di tener desto perennemente il sentimento
nazionale dei Greci lottando contro Cartagine e che solo sul
campo di battaglia egli poteva dimostrare il suo buon diritto. E
cosi un esule siracusano, Dione, figlio di Ipparino, partendo dalla
Grecia con poche forze, ma accompagnato dal favore dell'o]3Ìnione
pubblica e in particolare della scuola di Platone che lo salutava
restauratore di libertà (356), dopo il suo sbarco ad Eraclea Minoa,
ove fu accolto amichevolmente dai Cartaginesi, ben lieti che si
l)reparasse la rovina della monarchia militare siceliota, ebbe pron-
tamente rovesciato l'impero di Dionisio in Sicilia. Ma se distrug-
gere fu facile, ricostruire non riusci ne a Dione , ne a quelli che
presero il suo posto; e l'effetto della liberazione fu una orribile
anarchia, in cui si combatteva accanitamente tra città e città e
nella stessa città, e, mentre invece di un solo si contendevano il
potere molti tiranni , i Cartaginesi profittavano della impotenza
vergognosa in cui la riscossa repubblicana aveva ridotto la Sicilia
greca per riprendere le loro conquiste sulla sponda meridionale
dell'isola.
Al tempo stesso ricominciavano nella penisola i progressi degli
Italici a danno dei Greci; e gl'Italioti, stremati dalla lunga lotta
(•on Dionisio il Vecchio, non fm-ono più in grado di porvi un ri-
paro. Un nuovo nemico essi ebbero a combattere, i fieri e selvaggi
abitanti della Sila settentrionale che, staccatisi dalla lega lucana
e costituitisi in federazione indipendente col nome di Bruzì, circa
la metà del secolo IV s' impadronirono di Sibari sul Traente, di
Terina e d'Ipponio (3). Ormai ai Greci d'Italia non restava che
l'estrema penisola della Sila con Caulonia, Locri e Regio, l'angolo
settentrionale del golfo tarentino con Eraclea, Metapontio e Ta-
li) DioD. 1. e. Cfr. lusTiN. XXI 3, 3.
(2) Nel 366, Xenoph. Hell. VII 4, 12.
(3) DioD. XVI 15. lusTiN XXI 1. Stkau. VI p. 255. La più antica allusione
sicura ai Bruzi è in un fr. di Aristofane (629 Kock): juéXaiva òeivi") -fX&aaa
BpeTTÌa iraprìv, citato da Steph. Byz. s. v. Bperria. Il frammento di Antioco,
citato pure da Stefano ibid., sembra alterato. — Terina era città greca ancora
nel 356, v. la lista dei GeapoòÓKoi d'Epidauro presso Michel Recueil d'inscr.
grecques 862 = /. Gr. Pelo/j. I 1504.
264 CAPo'xviir - LA dissoluzioxe della lega latina
ranto e, affatto isolate, Crotone e Turi sul mar Ionio, Napoli e
Velia sul TiiTeno, Ancona sull'Adriatico.
In tal condizione di cose, lungi dal potere con forze pioprie re-
sistere agritalici ed ai Fenici, i Grreci d'Italia e di Sicilia furono
costretti a rivolgersi per aiuto alla madrepatria. Poco prima clie
i Tarentini s'appigliassero al partito d'invitare in Italia il re di
Sparta Arcliidamo, i Siracusani chiesero ai Corinzi d' intervenire
in Sicilia per ristabilirvi ordine e pace (3-15/4). E il corinzio Ti-
moleonte riuscì nell'ardua impresa di provvedere alla tutela degli
interessi ellenici nell'isola, ponendo termine all' anarchia e obbli-
gando i Cartaginesi a rientrare nei confini stabiliti doi)o la terza
guerra con Dionisio il Vecchio, senza che perciò i Greci di Sicilia
dovessero rinunciare ne alla libertà repubblicana, ne all'autonomia
delle varie città. Ma l'ordine che Timoleonte era riuscito a creare
col suo disinteresse a tutta prova, con le sue attitudini poco comuni
d'uomo politico, col suo straordinario genio militare che gli fece
vincere la battaglia del Crimiso, la maggiore vittoria che dopo
Imera i Sicelioti guadagnassero sui Cartaginesi (1), non poteva avere
stabilità alcuna: troppo grande era il concorso di circostanze fa-
vorevoli che si richiedeva i^er conservarlo; e ad ogni modo esso
non i^ermetteva di riprendere offensivamente la guerra col Fenicio,
la sola via di salvezza con un nemico tenacissimo che, convinto
a ragione essere ormai impossibile la pacifica coesistenza delle due
nazioni in Sicilia, spiava sempre l' opportunità d' opprimere Y el-
lenismo.
Mentre il particolarismo e le aspirazioni repubblicane riduce-
vano all'impotenza la Sicilia greca, non senza meraviglia leggiamo
in Livio sotto 1' anno 349 di armate greche che infestavano le
spiaggie laziali, e di predoni greci che, scesi a terra s'azzuffarono
coi Galli provenienti dai monti Albani, senza che poi ai Romani
riuscisse di reprimere in alcun modo le loro ph-aterie (2). Del fatto
non i)ar che sia da dubitare: gli annalisti romani potevano in-
ventare vittorie dei loro avi, ma non uno sbarco nel Lazio di
Greci che non si sapeva onde venissero e su cui ai Romani non
venne fatto di riportare alcuna vittoria; mentre invece non è
punto singolare che della cosa si conservasse ricordo per mezzo
delle annotazioni dei pontefici. Non facile è determinare donde
(1) Plut. Timol. 25-29. Diod. XVI 77-80. Beloch Gì: G. II 584.
(2) Liv. Ili 25, 4. 26, 13. Pais La flotta greca che nel 349 av. C. comparve
davanti alle coste del Lazio in ' St. storici ' II (1893) p. 429 segg.
PIRATI GRECI NEL LAZIO. ROMA E GLI AURUNCI 205
provenissero quei Cireci; e forse i critici inoderni avrebbero dovuto
prendere esempio di prudenza da Livio, che pur proponendo una
ipotesi, si guarda dall' asserire alcuncliè con sicurezza intorno a
quei predoni. Glie si trattasse di navi mandate da Timoleonte o
da Archidamo, mentre combatteva in Italia, non par facile (1),
l'uno e r altro avendo cui^e assai più gravi. Ma avventmieri greci
che pirateggiassero nei mari occidentali , non potevano mancare
allora, dopoché s'era disgregato l'impero di Dionisio ed era de-
clinata la potenza marittima etrusca; e in specie quando il chiu-
dersi della guerra sacra aveva lasciato senza stabile occupazione
tanti dei mercenari che in quella guerra avevano fatto le loro
prove. Pii'aterie simili peraltro non erano prova della potenza
dei Grreci, si della mancanza d'una marina da guerra romana, di
che una prova evidente è pur nel trattato romano-cartaginese
del 348 (sopra p. 251), il cui presupposto è che i Cartaginesi si
tengono come padroni del mare e che solo nel proprio interesse si
impegnano a non infestare, come liberamente potrebbero, le coste
laziali.
La lega romano-latina, con un'estensione di 7000 km"" e una
relativamente densa popolazione, era ormai una delle maggiori
potenze della penisola italiana. Da ogni parte la fronteggiavano
vicini assai più deboli: a settentrione gii Etruschi che Roma da
molto tempo aveva imparato a vincere; ad oriente varie bellicose,
ma piccole e povere tribù montanare. Sebbene peraltro la conquista
fosse agevole con tali \'icini, lo Stato romano cercò invece di dilatare
i suoi termini verso mezzogiorno lungo le coste del Tirreno; perchè
era facile vedere che nessun rischio serio minacciava Roma per
parte degli Etruschi e delle piccole tribù montanare; ma occor-
reva provvedere aftinché non divenissero troppo pericolosi i fio-
renti Stati oschi del mezzogiorno. A sud del Lazio presso il Tir-
reno al di là della colonia latina di Ch-cei e della volsca Anxui-,
che faceva parte della lega, si trovavano le due città di Fondi e
di Formie, volsche o miste d'elementi volsci ed am^unci (2), che en-
trarono a far parte anch'esse, non sappiamo quando, della lega la-
tina, e più oltre il popolo degli Amumci od Ausoni che costituiva
una piccola federazione con le tre città di Minturne, Aurunca e
(1) Va ricordato che l'anno 349 (di Roma 40ó) secondo Varrone corrisponde
in realtà al 343 circa av. C.
(2) Ad affinità tra la lingua dei Volsci tì quella di Formie pare alludere
Fest. p. 293.
266 CAPO XVIll - LA DISSOLUZIONE DELLA LEGA LATINA
Vescia (1). Degli Aiirimci gli annali romani dopo nn accenno al
503 e al 495 (2), dove si tratta probabilmente di una semplice con-
fusione dovuta allo scambio tra Suessa Aurunca e Suessa Pomezia,
tacciono per un secolo e mezzo. Ma i posteriori contatti tra Ro-
mani e Campani suppongono che intorno alla metà del sec. IV i
Romani si fossero già messi in relazione con gli Aurunci. E appunto
al 345 la tradizione riferisce clie furono debellati gli Aurunci e
che nello stesso anno fu presa Sora ai Volsci (3). Sora veramente
è nell'alta valle del Liri, e non pare che i Romani si siano inol-
trati in questa direzione se non verso i tempi della seconda guerra
sannitica; e però non è da stupire che al 314, essendo console come
nel 345 un Sulpicio, registri la tradizione novamente con la sotto-
missione degli Aurunci anche la presa di Sora (4). Par quindi in-
dubitato che si tratti nel primo caso di una reduplicazione degli
stessi avvenimenti; ma è del pari sicuro che già intorno al 345,
prima cioè deirintervento romano in Campania, si erano stabilite
relazioni di amicizia tra Romani ed Aurunci.
Frattanto il moto unitario che aveva costituito a danno dei
Greci la potente confederazione lucana (v. sopra p. 189) si era pro-
pagato nei monti del Sannio, onde i Lucani erano discesi. Ci è
ignota la storia del formarsi della lega sannitica. Sappiamo sol-
tanto che alla metà circa del secolo IV i Sanniti, ossia le tre tribù
confederate dei Pentri, Caudini ed Irpini (cfr. I p. 103 seg.) ave-
vano dominio non soltanto nel Sannio x^ropriamente detto, ma
anche sulla costa del golfo di Salerno da Amalfi al Silaro e su
quella dell'Adriatico da Ortona al Grargano (5), che era abitata
dalla popolazione affine dei Frentani. Era per estensione con 18
o 20 mila km'^ di superficie, prescindendo dalla lega etrusca, lo
Stato maggiore della penisola, ma certo per popolazione relativa
era inferiore alla meno estesa confederazione romano-latina a cui
divenne probabilmente inferiore anche per popolazione assoluta
non appena vi furono incorporati i Campani. La forza e la debo-
(1) V. I p. 107. Liv. Ili 25, 3.
(2) Liv. II 16. 17. 26. DioNYs. VI 32. 37. Cfr. sopra p. 105.
(3) Liv. VII 28.
(4) È degno di nota che anche nel 837, essendo console pure un C. Sulpicio,
si parla di disastri degli Aurunci, cagionati però non dai Romani, ma dai Si-
dicini, Liv. VIII 15, 4: fama adfertur Auruncos inetu oppidum deseruisse...
moenia antiqua eorum iirbemque ab Sidicinis deletam,
(5) Ciò risulta dalla testimonianza del Ps. Scyl. 11. 15.
IL SANNIO 267
lezza dello Stato sannita consisteva in ciò clie non vi era nel
Sannio distinzione di dominatori e dominati: eguali le tribù, in
ciascuna tribù pari i diritti di ogni uomo atto alle armi, tutti gli
abitanti soldati, agricoltori e pastori, scarsi i x^roletarì e gli schiavi.
Solo fuori dei confini di quelle tre tribù vi erano alleati più o
meno dipendenti: tale era il caso dei Frentani, che fecero fin
dalla seconda sannitica una politica per conto proprio e con grande
facilità si distaccarono dai connazionali per accostarsi a Roma.
Invece i Pentri, i Caudini e gli Ii^pini erano cosi strettamente uniti,
che i nomi dei due ultimi popoli non compaiono mai nella storia
delle guerre sannitiche e apx3ena un j)aio di volte quello dei
Pentri (1); eppure questi, la cui capitale Boviano (Boiano) era la
più importante città del Sannio, eran la principale, a quanto pare,
delle tribù sannitiche, e posteriormente conservarono soli, o quasi,
la denominazione di Sanniti. Ma appunto la X3arità tra le tribù do-
veva rendere più debole il potere centrale, rappresentato dall'annuo
■' meddix tuticus „ della lega (2), che non sappiamo se fosse assi-
stito da mi consiglio federale e che ad ogni modo non avrà po-
tuto convocare se non con difficoltà l'assemblea sovi'ana dei liberi
Sanniti. E in difetto di un potere centrale stabilito solidamente
come in Roma, quanto riusciva facile raccogliere forze per difen-
dere con eroico valore la j)atria in pericolo o imprendere scorrerie
che x^rocm^assero lauto bottino, altrettanto era difficile sostenere
con un piano prestabilito una lunga guerra, e specialmente con-
dm're con costanza di propositi un'offensiva aspra e promettente
più fatiche e pericoli che bottino. Questa è una delle ragioni per
cui i Sanniti dopo fiera lotta soggiacquero ai Romani; e cosi an-
zitutto si spiega come i Romani riuscissero tanto facilmente nella
prima sannitica a cacciare il nemico fuori del territorio campano.
La Campania nel IV secolo era politicamente dominata da
tribù d'origine sannitica, sebbene qua e là restassero vestigia della
nazionalità etrusca, che poi sparirono a poco a poco (3). Faceva
(1) Liv. IX 31. DioNYs. XVII-XVIir 4, 4.
(2) Il meddix tuticus è ricordato in iscrizioni di Pittrabbondante d' età ro-
mana. Ma che questo magistrato federale debba essere anteriore alle lotte con
Roma non ha bisogno di dimostrazione. Sulla distinzione del meddix (su-
premo magistrato comunale) dal meddix tuticus (supremo magistrato federale)
cfr. Bklocu ' Arch. stor. napol. ' II 293.
(3) Sulla Campania un'utilissima raccolta di materiali è in Beloch Cuin-
panien (Breslau 1879, con appendici aggiunte nel 1890); inoltre v. Nissen Ital.
Lnndeskunde II 2 p. 680 segg.
268 PAPO xvm - la dissoluzione della lega latina
eccezione la greca Napoli; ma anche a Napoli s'era formata una
colonia camiDana, a cui i Grreci avevano dovuto accordare la cit-
tadinanza (1). I Sanniti della Campania però non s'ordinarono in
uno Stato solo, e ciò fu per essi cagione di debolezza a fronte dei
loro connazionali del Sannio stretti in unità politica. Prima a set-
tentrione fra le tribù sanniticlie di questa regione era quella dei
Sidicini, il cui centro era Teano. Veniva poi, sotto l'egemonia di
Capua, la lega campana (2) comprendente Calazia, Atella, Casi-
lino e Puteoli, al cui territorio apparteneva sulla destra del Vol-
turno l'agro Falerno e Stellate, e sulla costa quella regione ove
poi i Romani fondarono Volturno e Literno. Seguivano a sud
Cuma, Suessula ed Acerre, clie, sebbene non partecipassero, a quel
elle sembra, alla lega campana, ne divisero per lungo tempo le
sorti. Più oltre era Nola, forse collegata colla vicina Abella, e
sulla sponda meridionale del golfo i Nucerini, costituenti una con-
federazione che aveva per centro nelV interno Nuceria Alf aterna
e possedeva sul mare Ercolano, Pompei, Stabia e Sorrento (3>.
Oltre il capo Campanella, sul golfo di Salerno cominciava il terri-
torio appartenente alla confederazione sannitica. Di questi Stati
il più considerevole per estensione e popolazione ' era indubitata-
mente la lega campana che j)ossedeva un territorio fertilissimo di
1100 km^ nel quale sorgeva una delle prime città d'Italia, Capua,
che forse in questo momento non era seconda per popolazione e
(1) Strab. V p. 246 : {larepov òè Kaiuiraviùv Tivac; èòéEavTO ouvoìkouc; òixoaxa-
Tf\aavTec, ■ koì rivayKÓaGrioav toT^ ^x^ìcJtok; ùjq oÌKeioTàxoK; xP^'JcoBai eireiòì') Toùt;
oÌKeiouc; óXXoTpiouc; èoxov • |utìvu6i he tò tùjv bruadtpxtuv òvóiuara tò |uèv irpùira
'EXXriviKÒ óvxa, tò ò' uOTepa toIi; EXXrjviKoTi; àva.ulE tò KaiurraviKa. Osco è p. es.
il nome di quel Nipsio napoletano che si segnalò come ufficiale di Dionisio
il giovane (Diod. XVI 18). E confermano le asserzioni di Strabone tanto l'epi-
grafia quanto la numismatica, v. Sambon Monnaies de l'Italie 1 177 seg.
(2) L' esistenza della lega campana è dimostrata da j^rove numismatiche e
da molte altre considerazioni tra cui quella che un Atellano fungeva nel 214
da meddix titticus a Capua (Liv. XXIV 19), v. Mommsen Riìm. Munzwesen p. 335.
BfeLOCH Campanien 314 segg.
(3) La mancanza di storia e di monete di questa città messa a confronto
col passo di Polibio che attribuisce ai Nucerini la sponda meridionale del
golfo di Napoli (PoLYB. Ili 91 : 'vf]v |uèv napaXiav oùtuùv — dei Campani —
Zevo\)€aaavoi koì Kuinaìoi koì AiKaiapx'ìTai véiiovrai, izpòc, bè. toOtok; NeairoXìTOi,
TeXeuraìov bè xò xùjv NouKepivuuv ?0vo<;) e con quello liviano che parla di ope-
razioni dell'armata romana contro i Nucerini (IX 38) dimostra sufficientemente
l'esistenza di questa confederazione, v. Belocu Campanien p. 240 seg.
LA CAMPANIA. PKIMA GUERRA SANNITICA 269
liccliezza iieppiu-e a Roma. Assai inferiore, ma pui" non priva cVim-
portanza era la confederazione nucerina, il cui territorio, con una
estensione di 670 km^ era eguale press' a poco a quelli di Nola e
di Abella miiti.
Secondo la tradizione, causa occasionale della guerra tra il
Sannio e Roma furono le ostilità mosse dai Sanniti ai Sidicini di
Teano. I Sidicini chiesero soccorso ai vicini Campani; ma Capua
non valse da sola a resistere alle forze dei Sanniti, clie riuscirono
ad occupare con un presidio il monte Tifata, donde potevano
scendere a devastare la pianura campana. Allora i Campani si ri-
volsero per aiuto a Roma. Ma i Romani, legati fin dal 354 da un
trattato di amicizia coi Sanniti (Ij, esitavano a violarlo senza mo-
tivo. Se non clie avendo i Campani fatto i^iena dedizione di se e
della loro città ai Romani, si credettero questi ormai in diritto di
difendere mi poi^olo ed un territorio divenuto romano. I consoli
M. Valerio Corvo ed A. Cornelio Cosso condussero le loro legioni
in Camj)ania, dove l'uno si accampò alle falde del monte Gaui'o,
l'altro procedette fino a Saticula. Valerio vinse con facilità i San-
niti in battaglia, mentre Cornelio, lasciatosi imprudentemente rin-
cliiudere in una gola, riusci a liberarsi solo per la vii'tù del tribuno
militare P. Decio, dopo di che sbaragliò anch' egli il nemico, che
fu per una terza volta battuto presso Suessula dal console Va-
lerio. Dopo una sedizione militare (342) i Romani ripresero e con-
dussero a termine la guerra nel 341. I Sanniti, stanchi dalle de-
vastazioni del loro paese fatte dal console L. Emilio, chiesero ed
ottennero pace promettendo di lasciar tranquilli i Campani e ri-
servandosi soltanto di combattere i Sidicini, che non avevano fatto,
al pari di Capua, dedizione di sé ai Romani (2).
Questo racconto è si ricco d'inverisimigiianze che ha indotto vari
critici a negar fede alla realtà storica della stessa prima guerra
(1) Liv. VII 19, 4.
(2) Liv. VII 29. Vili 2. Di questa guerra tace Diodoro, il che naturalmente
non vviol dire che la guerra non fosse menzionata nella sua fonte. Diodoro
stesso mostra apertamente che la sua fonte romana conteneva assai più di quel
che egli non credesse opportuno di riferire al lettore, cominciando, com' egli
confessa (XIX 10), la storia della seconda guerra sannitica nel suo nono anno.
Ne fa menzione però la cronaca di Oxyrhynchos (sopra p. 251 n. 5) alla
ol. 110,1 = 340/39: [ZaJuveiTai ['Puj|Lia]i[oi]<; Tt[ap]e[T(i]EovTO, e i fasti trionfali
che registrano al 343 il trionfo dei due consoli de Samnitibus. V. anche
Cic. de diviii. I 24, 51. Dionys. XV 3, 2. App. Sainn. 1. Frontin. strat. 1 5, 14.
IV 5, 9. AucT. de vir. ili. 26.
270 CAVO XVIII - LA DISSOLUZIONE DELLA LEGA LATINA
sannitica. Pure non v'è dubbio die un accordo coi Campani (di
qualunque natui'a si fosse) precedette tanto F assedio di Napoli
quanto ancbe la guerra latina ; e la supi^osizione clie i Sanniti ab-
biano senza guerra lasciato i3or piede ai Romani nella Campania
è più inverisimile dello stesso racconto tradizionale. Clie x)oi prima
della guerra i Romani avessero un trattato di amicizia coi Sanniti,
l'altra grande potenza del mezzogiorno d'Italia, a^Dpar tanto natu-.
rale clie dovremmo supporlo ancorché non fosse asserito esplicita-
mente dalla tradizione. La quale del resto è su questo punto fede-
degna anche perchè la confessione che le guerre sannitiche comin-
ciarono per parte dei Romani con la palese rottura d'un trattato
vi appar velata appena; or quale annalista si sarebbe permesso
una invenzione così odiosa per la patria? Quel che non può in-
vece accettarsi in alcun modo è che fin d'allora uno Stato ricco
e i^otente come la lega campana facesse senza guerra piena dedi-
zione a Roma. La tradizione tenta spiegare ciò dipingendo a vivi
colori là mollezza di Capua. Ma i Ca^juani, se pare che amassero
talvolta quegli eccessi sfrenati di lusso e di godimento che con-
traddistinguono specialmente i periodi di transizione tra barbarie
e civiltà, sa]3evano però battersi da prodi e per poca moneta si
lasciavano arrolare nelle truppe dei Sicelioti; anzi non andò guari
che in Sicilia soldati campani col nome di Mamertini sparsero il
terrore tanto fra i Grreci quanto fra i Fenici che si contendevano
l'isola. In condizione di dediticì i Campani non si vennero a tro-
vare che per effetto della guerra annibalica dal 211 in poi. Pare
chiaro quindi che, con un procedimento usuale, la tradizione an-
nalistica anticipi e duplichi la dedizione dei Campani riferendola
sin dal 343 e attribuendo a magnanimità romana se, per quanto
dediticì, i Camx)ani non fm-ono trattati troppo male, mentre con
questa anticipata dedizione si trovava anche un pretesto per giu-
stificare in qualche modo la rottm^a del trattato coi Sanniti. In
tale condizione di cose, dobbiamo ammettere che i Campani si
unissero a Roma non per dedizione, né ricevendo subito il poco
ambito favore della cittadinanza senza suffragio, ma con un trat-
tato d'alleanza del quale qualche ricordo sembra conservare anche
la tradizione (1), E impossibile infatti che prima d'aver debellato
i Sanniti i Romani facessero a Capua condizioni assai peggiori
(1) Ijiv. XXIII 5, 9: (in un discoriso di Terenzio Varrone ai Campani) adi-
cite ad haec qtiod foedus aequuni deditis, quod leges vestras (dal 343 al 340), quod
ad extremum, id quod ante Cannensem certe cladem maxumnm fuit, civitatem
PRIMA GUERRA SANNITICA 271
di quelle che presumibilmente avrebbe potuto ottenere entrando
in lega co' suoi connazionali.
Adunque quando i Romani, rompendo il trattato da loro con-
cluso poco prima coi Sanniti, intervennero a favore dei Campani
non avevano punto il misero pretesto della dedizione; e, quel che
più importa, non avevano neppm-e alcun interesse immediato ad
impedire che i Campani fossero obbligati ad ascriversi alla lega
dei loro connazionali del Sannio. Nel Lazio Roma aveva finito di
combattere coi vicini una lotta per l'esistenza che l'aveva con-
dotta fatalmente ad assumere l'egemonia. Ora si trattava d'inter-
venute senza apiJarente necessità in una regione dove non s'era
estesa sino allora la sua attività politica. E tuttavia fa onore al
senno degli uomini dirigenti di Roma d'avere visto chiaramente lo
stato delle cose e afferrato l'opportunità. Crii è che l'Italia non era
giunta a quel grado d' incivilimento che permette la coesistenza
pacifica di più Stati indipendenti, e tra Stati vicini indipendenti
non si facevano che tregue più o meno lunghe, quando l'uno non
si sentiva in forze bastanti jDsr soggiogare l'altro. Se il Sannio si
annetteva la Campania sarebbe senz' altro divenuto la maggiore
IDotenza d'Italia, né era punto da sxDerare che pensasse a coesistere
pacificamente con la vicina lega romano-latina; sicché quella lotta
che sarebbe stata inevitabile lasciando ai Sanniti conquistare la
Campania era assai meglio iniziarla ora con la opportunità dell'al-
leanza campana. E poco importa cercare come i Romani rassicu-
rassero la loro coscienza per la rottm-a del trattato; i30Ìché é evi-
dente che non vi ha trattato il quale possa obbligare un popolo a
trascm-are tutti quei provvedimenti che ritiene indispensabili ad
assicm-are la propria esistenza. La fedeltà con cui osservarono i
loro trattati con le città etrusche del mezzogiorno, sebbene rom-
pendoli avessero poco da temere e molto da sperare, mostra a ogni
modo che gli uomini politici romani non si lasciavano guidare
nostrani magnae parti vestrum dedimus communicavimusque vohiscum (allude
alla concessione dei pieni diritti di cittadinanza — che questo intende quasi
sempre Livio parlando semplicemente di civitas — agli eqnites Campani I v. sotto
p. 287 n. 4). XXXI 31, 10: ctim ipsos (Campanos) foedere primum (343),
deinde conubio atque cognationibus (forse il ius conubii fu per i Campani come
per i Latini compreso nel foedus, cfr. sopra p. 102, ma naturalmente non se
ne usò in pratica se non qualche tempo dopo la conclusione di esso), postremo
civitate (338) nobis coniuiixìssemus ad Hannibàlem defecerunt.
27*2 CAPO XVITI - l.A DISSOLUZIONE DELLA LEGA LATINA
tlalla brama di conquiste e di guadagni, ma da intendimenti assai
più alti e più saggi.
Quanto ai particolari sulle campagne del 31:3 e del 341, par
chiaro clie i Romani non ebbero i3unto la temerità di prendere
quella offensiva nel Sannio che tentarono poi, e sulle prime con
sì mediocre successo, venti anni più tardi ; quindi il loro avanzarsi
a Saticula e la loro sorpresa nelle gole sembra una ripetizione
anticipata della battaglia di Gaudio, il cui poco scrupoloso autore
ha colto l'occasione per sbizzarriate la sua fantasia strategica ed
insegnare come i Romani avrebbero potuto a Gaudio cavarsi dal
mal ijasso prendendo ispirazione da quel che era tramandato
sull'eroismo d\in tribuno militare dell'età della prima guerra iju-
nica (1). Invece le battaglie di Suessula e del Grauro corrispondono
benissimo alla reale condizione delle cose, né si possono in alcun
modo spiegare come duplicati di altre battaglie ; e una critica tem-
perata dovrà quindi ritenere che realmente ebbero luogo. Erano
appunto due le vie per cui i Sanniti potevano cercare di avanzarsi
nella Gam^jania, l'una da Benevento verso Gapua, l'altra sulla costa
da Napoli, che allora, come nel 327, doveva essere loro alleata, verso
Cuma, che senza dubbio al pari di Gapua aveva fatto alleanza
con Roma. Sull'una e sull'altra via presso Suessula e sotto il Gauro
si scontrarono con gli eserciti consolari pronti alla difesa e raf-
forzati natm-almente dalla leva campana. Fm-ono quelli i primi
scontri tra Romani e Sanniti, e in essi, come in quasi tutte le bat-
taglie campali delle guerre sannitiche, la superiorità della disci-
plina e l'esercizio continuo delle armi diedero la vittoria ai Romani.
Dopo ciò i Sanniti s'indussero facilmente a rinunciare per allora
ad mia guerra offensiva, rischiosa e poco profìcua. E fu ventura
pei Romani, i)erchè l'accessione della Gampania alla lega romano-
latina alterò l'equilibrio di forze tra i contraenti e ne spezzò la
compagine.
Quanto fosse pericolosa la sedizione del 342 non sappiamo,
perchè tutti i particolari contraddittori con cui vien narrata non
sembrano altro che invenzioni degli annalisti fondate sulla nuda
notizia d'una sedizione registrata negli annali dei pontefici (2).
Più esattamente siamo informati sulla lotta con Priverno che
(1) Cato orig. fr. 83, cfr. Liv. ep. 17.
(2) Liv. VII 42, 7: adeo nihil praeterquam seditiotiein fuisse eamqiie compo-
s-ifani inter antiquos rerum auctores constai. Cfr. sopra p. 224 seg.
GUERRA LATINA 273
scoppiò, secondo la tradizione, nel 341 fi). A dir vero anche al 829
('- ricordata la sottomissione dei Privernati ribelli (2), e Tuna e
l'altra volta son consoli C. Plauzio e L. Emilio Mamercino. Onde
paT chiaro che si tratta d'un fatto medesimo tramandato sotto il
nome dei consoli Planzio ed Emilio ed ascritto da annalisti diversi
all'uno o all'altro degli anni in cui ambedue quei nomi apparivano
nei fasti consolari. Viene in generale preferita dai critici la data
del 329. perchè più recente; ma sembra assai più accettabile quella
del 341. E di fatto una sollevazione dei Privernati s'intende assai
1 iene quando perdurava tuttora la guerra tra Romani e Sanniti e
tra i popoli latini si a\^^ertivano già i segni della x^rossima ribel-
lione; assai meno invece si intenderebbe quando il Lazio era in-
tieramente sottomesso e jjosavano le armi tra Sanniti e Romani.
Avevano avuto appena il tempo i Romani di soggiogare Pri-
verno che già nell'anno seguente (340) s'iniziò la guerra latina.
I Sidicini, secondo il racconto liviano, erano stati dai Romani ab-
bandonati nel trattato di pace ai Sanniti. Per salvarsi essi offri-
rono al pari dei Campani la propria dedizione a Roma. Respinta
dai Romani questa dedizione perchè tarda, venne invece accettata
dai Latini, che si prepararono per proi3rio conto alla guerra coi
Sanniti, spalleggiati dai Campani, dimentichi della dedizione poco
prima fatta a Roma. Anzi giungono i Latini a tanto di tracotanza
che si apparecchiano ormai apertamente alla lotta con Roma. In-
\itati a Roma per dare spiegazioni i capi della confederazione, vi
si recano personalmente i due pretori latini di quell'anno, L. Annio
di Sezia e L. Numisio di Cu-cei; e là, alla richiesta del console
T. Manlio d'astenersi dalla guerra coi Sanniti, rispondono riven-
dicando a sé stessi piena parità di diritti coi Romani, e chie-
dendo che uno dei consoli e metà dei senatori siano d'ora innanzi
scelti tra i Latini. Dopo ciò non restava che risolvere la questione
con le armi (3).
E però evidente che in tutto questo racconto abbiamo soltanto
i] riflesso della speculazione degli annalisti sul semplice fatto tra-
(1) Liv. Vili 1.
(2) Liv. Vili 19-20. Anche i f. trionfali registrano il trionfo dei due consoli
il 1° di marzo de Privernaiihus. La presa di Priverno per opera di C. Ipseo (è
il cognome che porta il Plauzio console nel 841, non quello del 329) è glo-
rificata anche nelle monete battute da P. Plauzio Ipseo edile curule nel 58
av. Cr.. V. Bahelon Monnaifin de la rrp. rom. II p. 322 setf.
(3) Liv. Vili 2-6.
G. De Sanctis, Storia dei Romani, IT. 18
274 CAPO XVITI - LA DISSOLUZIONE DELLA LEO A LATINA
mandato della guerra romano-latina iniziatasi nel 340. Che i Eo-
mani avessero lasciato braccio libero ai Sanniti contro i Sidicini
appare affatto impossibile, mentre l'occupazione di Teano all'ebbe
dato ai Sanniti un posto dominante nel settentrione della Cam-
j)ania e menomato gli effetti delle fattorie del Grauro e di Snessula
che avevano chiuso ad essi gli aditi della regione campana; del
resto dopo la guerra latina, A-inta dai Romani, alleati come si
pretende coi Sanniti, non solo non ebbe alcun effetto la pretesa
facoltà lasciata ai Sanniti di impadronirsi di Teano, ma anzi
proprio a guardia del paese dei Sidicini venne dedotta la colonia
di Cales. Parimente infondata è l'altra motivazione della guerra,
indipendente affatto dalla inima e non bene fusa con essa, che
cioè i Latini chiedessero in sostanza d'essere ammessi con xileni
diritti alla cittadinanza romana. Era questa una richiesta che i
Latini facevano istantemente nel 100 circa av. C, quando si i^re-
parava la guerra sociale; e un annalista di quella età può Ijene
avere immaginato che tale fosse stato anche il motivo della guerra
latina del 340 av. C. Cosi aveva anzi un'occasione opportuna l'ignoto
annalista per esprimere col discorso di T. Manlio, che Livio non
inventa, ma riassume, il suo orrore per una simile pretesa, e per
mostrare che essa era in odio anche al protettore divino di Roma,
Giove Ottimo Massimo, mediante l'aneddoto di Annio che dopo
aver fatto una richiesta sì sacrilega, sdrucciola e s\àene o muore
sui gradini del tempio. Ma nel 340 non si combatteva per avere
la cittadinanza romana, bensì per salvaguardare l'autonomia mi-
nacciata dalla egemonia di Roma, come prova anche l'aver preso
parte alla lotta i Tuscolani cui quella cittadinanza era stata già
concessa. Il momento non poteva dai Latini essere meglio scelto.
L'accessione di Capua alla lega romano-latina pareva dovesse di-
struggere l'equilibrio tra Romani e Latini facendo pendere la bi-
lancia dall'uno o dall'altro lato secondo che i Campani avessero
[)referito Roma od il Lazio. Ora i Campani, che dovevano la propria
salvezza dai Sanniti alle armi romano-latine, nello spezzarsi della
lega tra ì loro confederati si trovarono in condizione di poter sce-
gliere liberamente tra l'uno e l'altro; e preferirono i Latini. Questa
scelta s'intende di leggieri. I Latini erano più deboli, e nessuna
delle loro città poteva mism-arsi anche lontanamente con Capua.
Alleata coi Latini Capua poteva aver piena fiducia che nulla
avrebbe messo a pericolo la sua indipendenza; collegata con Roma
essa dipendeva di fatto dalla alleata più potente. Senonchè stava
ora ai Romani il mostrare se l'unità di comando, la continuità del
territorio, la consuetudine di sfruttare nella lotta per l'esistenza
GUERRA LATINA 275
tutte le forze fino al limite estremo senza alcuna comj)assione di
se, erano tali elementi di vittoria da controbilanciare la maggiore
estensione e popolazione della lega latino-campana, a cui, come
riferisce la tradizione, si erano accostati e Sidicini ed Aurunci.
I due consoli T. Manlio Torquato e P. Decio Mm^e (340) inizia-
rono la guerra conducendo le legioni attraverso al paese dei Marsi
e dei Peligni presso Capua, e di là alle falde del Vesuvio presso
il Veseri (1). La battaglia che colà ebbe luogo fu memorabile per
la severità di Manlio, che poco prima aveva condannato a morte
il figlio reo d'essere uscito dalle file contro gli ordini a combat-
tere vittoriosamente in duello col tuscolano Cremino Mecio; ed
anche più pel sacrifizio del console Decio che, ammonito da un
sogno e dagli aruspici essere indispensabile alla vittoria la morte
d'uno dei duci, non apxDena vide piegare le sue truppe, consacratosi
agli dèi infernali si precipitò fra le schiere nemiche e vi trovò la
morte. La vittoria, sebbene pagata a caro prezzo, fu dei Romani,
nonostante che il soccorso dei Sanniti giungesse loro come il soc-
corso di Pisa dopo terminato il combattimento. I Latini fuggiaschi
si raccolsero a Vescia od a Minturne (2), dove misero insieme un
altro esercito. Segui tra Sinuessa e Minturne una nuova battaglia,
dopo la quale Latini e Campani si arresero a Roma e furono pu-
niti con la confìsca d'una parte del territorio (3). Irritati per questa
confisca i Latini si ribellarono novamente l'anno appresso (339), e
dai consoli Ti. Emilio Mamercino e Q. Publilio Filone furono bat-
(1) La battaglia avvenne ad Veserim secondo Liv. Vili 8, 19. X 28, 15. Cic.
de fin. I 7, 23. de off. Ili 31, 112. Val. Max. VI 4, 1; secondo I'Auct. de vii:
Ulustrih. 26, 4. 28, 4 apud Veserim fluvium. Veseris non è menzionato altrove.
Che si trattasse d'un fiume potrebbe essere anche un autoschediasma del ps.
Aur. Vittore ; si combattè alle falde del Vesuvio secondo Liv. 1. e. e secondo
Val. Max. I 7, 2, che qui dipende da Livio. Fonte di Livio pare Valerio Anziate
a giudicare dalla menzione, al tutto indegna di fede, del pontefice M. Valerio
che avrebbe prescritto a Decio il rito della devotio. Secondo Dionys. XV 4 la
battaglia avvenne sì in Campania, ma àirò TCTTapÓKovra araòiuiv KaTTiir|(;,
dunque non alle falde del Vesuvio. Forse questa ultima notizia deriva da una
confusione tra Suessa e Suessula (v. oltre).
(2) Livio riferisce (Vili 10, 9): Latini ex fuga se Minturnas contuleriint, e
poco dopo (VII! 11, 5) dimentica il già detto, probabilmente attingendo ad
un'altra fonte: qui Latinorum pugnae superfuerunt multis itinerihus dissipati
4^um se in unum conglohassent, Vescia urhs eis receptaculum fuit.
(3) I fasti trionfali registrano il trionfo di T. Manlio Torquato de Latincis
Cnmpaneis Sidicineis Aurunceis XV k. iunias.
276 CAPO XVITI - LA DISSOLUZIONE DELLA LEGA LATINA
tuti ai campi Fenectani. Dopo ciò i Romani cominciarono a rice-
vere separatamente la sottomissione dei singoli popoli latini. Non
cedette però all'intimazione di resa Pedo, clie ebbe soccorsi da
Tivoli, Preneste, Lavinio ed Anzio. L'assedio di Pedo fn iniziato
Tanno dopo (338) da L. Furio Camillo, che, sconfìtto presso Pedo
l'esercito dei Tibm-tini venuti al soccorso, espugnò la città, mentre
il collega C. Menio sbaragliava con un assalto improvviso i con-
tingenti degli Aricini, Lanuvini, Velliterni ed Anziati clie si con-
gi'egavano presso il fiume Astura. Con ciò eblDe termine la guerra
latina.
Questo racconto dimostra quante falsificazioni e quanti errori
anche per una età relativamente recente si siano insinuati nella
tradizione. E prima di tutto la marcia delle legioni romane attra-
verso il paese dei Marsi e dei Peligni per giungere a Capua indica
che Livio si faceva un'idea assai singolare della topografìa. Ed è
facile congetturare che a quel tempo il territorio dei Peligni si
estendesse verso il Liri in direzione di Fregelle e di Arpino; ma
di ciò uè Livio fa alcun cenno, né v'ha traccia nella tradizione (1).
Pare quindi che sia stata qui erroneamente anticipata la marcia
attraverso il x^aese dei Marsi, Peligni, Marrucini e Frentani, con cui
una ventina d'anni dopo i Romani si aprirono la via della Puglia,
dove sulle prime tentarono invano di giungere per mezzo il Sannio.
Ed è inoltre impossibile che la battaglia più fiera avvenisse presso
il Yesu^do, ossia a sud del territorio romano, latino e campano, in
una regione in cui le armi romane non cominciarono a penetrare
che dalla seconda guerra sannitica. Livio, attingendo a due scrit-
tori diversi, dà alternativamente Minturne e Vescia come i luoghi
ove si raccolsero i Latini sconfìtti ; onde pare evidente che non lon-
tano da Minturne e da Vescia ponevano (]uegli scrittori il campo di
battaglia. Ora come la migliore delle nostre fonti (2) parla appunto
d'una sola battaglia presso Suessa, in cui le sorti della giornata
furono salvate dal console Manlio, dobbiamo ricavarne che la sto-
rica battaglia in cui Manlio vinse i I^atini è precisamente quella
(1) La guerra dei Latini coi Peligni cui accenna Liv. VII 38, 1 (ad a. 343)
è un malinteso o una invenzione. Forse questi Peligni vicini al Lazio sono
un'anticipazione di quelli che intorno al 177 (Liv. XLI 8i emigravano realmente
a Fregelle.
(2) DiOD. XVI 90: 'PiJLi)uaioi bè Trpòc; Aarivouc; xaì Ka.uTravoù; TrapaTaEdiuevoi
Tiepl TTÓXiv Zoùeaaav èviKriaav koI tuùv l'jTTriOévTUJv .uépoq tv)^ KiJ^Pc*; dinpeiXovTO-
ó ^è KaTiupftLUKÙx; T^v urtxnv MdXXioq ó ÙTraroc; èSpidupcuaev.
BATTAGLIA DI TKIFANO 277
clie Livio racconta per seconda e quasi senza particolari, combat-
tuta a Trifano nel paese degli Am-unci, alle falde del monte Ve-
scino, fra Suessa, Sinuessa e Mintm-ne, e clie una confusione tra
il monte Vescino e il monte Vesuvio ve ne ha fatto accoxDpiare
un'altra presso il Vesuvio.
Il luogo del combattimento permette alcune congetture. Come
Trifano è press'a poco al confine tra la lega latina e la Campania,
i Romani debbono aver scelto quella posizione per impedire ai
Latini di congiungersi coi Campani. Ma è difficile clie vi siano
pervenuti traversando il territorio nemico nella direzione della
posteriore via Appia. Pare invece probabile che pel paese degli
Ernici, i quali erano rimasti fedeli, come prova il silenzio della
tradizione e le relazioni immutate fino al 306, e pel territorio delle
tribù volsclie del Liii, più clie ai Romani, ostili alle vicine colonie
latine, siano scesi poi lungo il basso Liri nel paese degli Aurunci.
Qui i Romani, se trovavano sgombro il terreno, potevano muovere
dii'ett amente su Capua, tentando subito, secondo la loro consueta
strategia, di distruggere il nucleo principale delle forze nemiche.
Ma, non sappiamo se antivenendo i Romani ovvero riuscendo ad
effettuare la loro congiunzione in presenza del nemico. Latini e
Campani si fecero a Trifano incontro alle legioni. La leggenda
ebbe ragione d'abbellire de' suoi colori la vittoria romana, perchè
fu vittoria decisiva, che rassodò definitivamente la supremazia di
Roma sul Lazio e sulla Campania. Forse se la cavalleria campana
avesse sostenuto vigorosamente la fanteria, la giornata poteva es-
sere come quella di Canne fatale pei Romani, che erano in quel-
l'arma assai inferiori al nemico ; ma i cavalieri campani ci sono
rappresentati fin d'allora, probabilmente non a torto, quali parti-
giani di Roma, come poi a tempo della guerra annibalica. Del resto
quasi tutti i Campani avrebbero certo preferito la vittoria latina,
ma poca voglia dovevano avere di imj)egnarsi a fondo in una
guerra che non li interessava in modo diretto come i Latini, pei
quali trattavasi, politicamente, di vita o di morte. E cosi la scon-
fitta di Trifano determinò le sorti della guerra, perchè Capua, la
cui via era ormai aperta alle legioni vincitrici, si ritii'ò dalla lega
accordandosi, come vedremo, a condizioni discrete, con Roma.
Ma è affatto inverisimile che i Latini facessero la loro sotto-
missione nel 339 per sollevarsi di nuovo l'anno dopo. La guerra
doveva continuare, perchè è evidente che i Romani, assicurata
ormai la loro superiorità dopo l'accordo con Capua, non avrebbero
fatto pace coi Latini se non riducendoli in condizione di non poter
mai più collegarsi contro Roma. Il racconto sommario di qualche
278 CAi'o xvjn - la dissoluzione della leoa latina
annalista che riferiva la pace conclusa coi Latini dopo la principale
battaglia, deve aver dato origine alla storiella della doppia sotto-
missione. Purtroppo i particolari ulteriori della lotta son molto
oscuri né possiamo farne con sicurezza la critica, dacché non ci è
dato correggere il racconto liviano per mezzo d'altre fonti (1).
Quanto al secondo anno della guerra, ignoriamo persino la posi-
zione dei campi Fenectani ove sarebbero stati rotti i Latini, che
ormai combattevano senza l'aiuto campano. Nel terzo anno, se
dobbiamo accettare nelle linee generali la tradizione, pare che
mentre assediando Pedo i Romani minacciavano le due ijiù ])o-
tenti città latine Tivoli e Preneste, abbiano mandato al tempo
stesso un esercito verso Anzio per impedire che i contingenti delle
città meridionali del Lazio e delle città volsche si congiunges-
sero coi Tibiu'tini e Prenestini alla difesa di Pedo. Se questo era
il fine delle mosse dei Romani, sembra che fosse conseguito, poiché
i Latini meridionali e settentrionali furono vinti (stando alla tra-
dizione) separatamente, e Pedo cadde in mano del vincitore. Ma
checché ne sia dei particolari di questa campagna, è certo che^
stremati di forze e sfiduciati, i Latini fecero nel 338, non collet-
tivamente, ma città per città, la loro sottomissione.
Di questa guerra si credeva in Roma d'avere nel Foro due
monumenti: i rostri delle navi degli Anziati confìtti come orna-
mento al muro del suggesto onde parlavano gli oratori nel Co-
mizio (2j e la colonna Menia. Anche sull' antichità dei rostri s'è
proposto qualche dubbio, perchè le piraterie degli Anziati, non
ostante la riferita distruzione della loro marina da guen^a, conti-
li) Poca luce danno infatti i fasti trionfali, i quali registrano al 339 la vit-
toria di Q. Publilio Filone de Latineis e al 338 quelle di L. Furio Camillo
de Pedaneis et Tiburtibus e di C. Menio de Antiatibus Lainnieis Veliterneis. Può
solo osservarsi che secondo i fasti trionfali Lavinio resistè fino all'ultimo,
mentre Livio parla qui invece di Lanuvio e dà come colpa dei Laurentini
quella sola d'essersi messi in via per soccorrere i Latini al Vesei'i, il che
avrebbe fatto dire al loro pretore Milionio prò panluln via magnam mercedem
esse Romanis solvendam (Liv. VIH 11, 4). Ma è probabile che anche nei fasti
jAivinieis vada corretto in Lanivineis, cfr. Dessau CIL. XIV p. 187. La cro-
naca di Oxyrhynchos registra alla ol. 110,2 = 389/8: AaTeì[voi éul toù]?
■Ptjuf Lijaiou!; auv[0TàvTe^ i]-KÌ.^r\aav , ed alla ci. 110,3-338/7: 'PujiiiaToi èiri Aa-
TÌvouq èaxpdreuoav.
(2) Vabro de l. l. V 155. Pmn. n. h. XXXIV 20. Liv. Vili 14, 12: naves An-
tiatum partiin in narulia Romae subductae jjcirtim incensae rostrisque earum siig-
gestum in foro exstructum adornari 2}l(icutt Rostraque id tevtplum appellatum.
SOTTOMISSIOXK DKL LATINI 279
nuarono anche dopo il 338 (1). Ciò importa die un divieto agli
Anziati di tener navi da guerra (2) o non si fece o non fu osser-
vato troppo rigorosamente o non si riferì ai coloni romani che vi
furono dedotti i^oco dopo; ma come allori navali i Romani non
ne raccolsero fino al consolato di Duilio, par verisimile che, con-
forme alla tradizione, i rostri del Foro ricordassero che Anzio,
nonostante la sua marina da guerra, aveva dovuto piegare il capo
a Roma.
Terminata la guerra ebbero i Romani ad avvisare alla maniera
da tenere coi vinti. Conveniva innanzi tutto togliere per l'avve-
nire ai Latini qualsiasi opportunità di una nuova ribellione col-
lettiva, che, se scoppiava quando lo Stato romano fosse impegnato
con tutte le forze in una guerra pericolosa, poteva esser cagione
di romàna. Ma al tempo stesso era indispensabile giovarsi come e
più di prima delle energie inesamibili della stir^je latina nelle
lotte che era facile prevedere con Sanniti, Etruschi e Gralli. Or qui
stava la difficoltà: perchè non si possono aspreggiare senza x^eri-
colo coloro cui si chiede, e in larga misura, il tributo del sangue.
(1) Plin. 1. e: antiquior columnarum (celebratio) sicuH C. Maenio qui devi-
cerat priscos Latinos .. eodeniqne in consulatu in suggestu vostra devictis Aniia-
tihus fixerat anno urbis CCCCLXVI. Ma sembra che la colonna avesse tutt'altra
origine. Pare infatti più degno di fede il Ps. Ascon. ad Cic. divinai, in Caec.
16, 50 p. 120 Orelli : Maenius cum domum suam venderei Caiani ei Fiacco cen-
soribus (a. 184) ui ibi basilica aedificaretur exceperat ius sibi unius columnae
super quam tectum proiiceret ex provolaniibus tabulatis, cfr. Non. s. v. Maenius
p. 65 M. PoRPHYR. in HoRAT. semi. I 3, 28. Un passo di Pesto p. 134 M colle-
gherebbe la colonna con la censura di Menio nel 818, ma non col suo conso-
lato ne con la vittoria sui Latini. Livio Vili 13, 9 non parla di colonna, ma
di due statue equestri innalzate ai due consoli nel Foro. Eutkop. II 7 le dice
poste in rostris. Ma le statue dei Rostri pare fossero piccole e non equestri.
D'altra parte Eutropio sembra avere ragione per ciò che concerne la colloca-
zione, giacché nei Rostri esisteva una statua di Camillo (Ascon. in Scaur. p. 29
Baitkr. Plin. n. h. XXXIV 23) senza tunica. Questa statua attribuita (proba-
bilmente a torto) al console del 338 diede'forse origine al malinteso delle
statue dei due consoli, che poi divennero per un altro malinteso equestri come
quella di Marcio Tremulo di cui parla Plin. 1. e. La questione, più compli-
cata che importante, della statua e della colonna Menia, è discussa più di
quel che meriti da Osann Commentatio de columna Maenia (Giessen 1844 progr.)
e da Clason Rom. G. II 245 segg.
(2) Liv. Vili 14, 8 : nuves inde lonyae abactae interdictuinque mari Aniiati
populo est et civitas data.
280 CAPO xvin - la dissoluzione della lega latina
Questo dà ]a ragione della relativa mitezza che 1 Romani usarono
verso il Lazio, ben diversa dalla sistematica crudeltà con cui oj)-
pressero quei nemici onde il tributo del sangue non si pretese. Ma
con la sola mitezza è pericoloso governare. Il tentativo che i Ro-
mani avevano fatto nel 358 di risuscitare, come istrumento di do-
minio, la morta lega latina era interamente fallito ; una ricostitu-
zione della lega sarebbe stata grave errore politico perchè avrebbe
reso inutili i sacrifizi fatti sui campi di battaglia dal 340 al 338.
Perciò i Romani disciolsero definitivamente la confederazione, e tol-
sero anche, per eliminare ogni comunanza d'interesse fra le città
latine cui lasciarono F indipendenza, ogni scambievole diritto di
connubio e commercio (1). Questo provvedimento, che del resto ri-
mase forse obliterato non molto di poi, non era tanto grave come
potrebbe sembrare, poiché lasciava a tutti i Latini il diritto di
connubio e commercio coi cittadini romani, che costituivano ormai
una buona metà della stù-pe latina (2). Rimasero però nella con-
dizione di Stati indipendenti, alleati ciascuno per proprio conto
con Roma, delle città dei Prisci Latini solo Tivoli, Preneste e Cora,
città che a queste condizioni accettarono la pace, ma alle quali
difficilmente si sarebbe potuto imporre una piena sottomissione
senza assedi per l'arte militare d'allora di somma difficoltà. Inoltre
si lasciarono immutate, con le restrizioni di cui s'è fatto cenno,
le condizioni di tutte le colonie latine dedotte dal j)rincipio del
V secolo, cioè Signia, Norba, Ardea, Circei, Sutrio, Nepi e Sezia.
Queste città, prive tutte, eccetto Ardea, di antiche tradizioni di
piena indipendenza, use a contare da lungo tempo sull'aiuto ro-
mano nelle lotte contro i loro vicini, rimaste in generale fedeli
nelle precedenti contese coi Latini tranne l'ultima guerra e in
qualche caso anche in questa, poiché Sutrio e Nepi non vi pre-
sero probabilmente alcuna parte, potevano senza pericolo per Roma,
disciolta ogni lega tra loro, conservare, riconoscendo come avevan
fatto fin qui la egemonia militare romana, la piena autonomia.
Rimanevano le altre città minori dei Prisci Latini, Aricia, Lanuvio,
Lavinio, Nomento, Pedo, Tuscolo, già occupate, com'è da credere,
dai Romani sul termine della guerra. Ora distruggere queste città
vendendone schiava o esiliandone la popolazione ripugnava ai Ro-
mani che tante volte avevano combattuto a fianco degli Arici ni <•
(Ij Liv. Vili 14, 10: ceteria Latinin populis conuhia commerciuque et concilia
inter se ademerunt.
(2) V. sopra p. 257.
SOTTOMISSIONE DEI LATINI 281
dei Tuiscolaiii e die avevano nelle loro file stesse molti nativi cV Alicia
e di Tuscolo e molti imparentati con gli abitanti di quelle città.
Senza dii'e che qualsiasi tentativo di quel genere a\'Tebbe potuto
eccitare i Latini, che del loro valore avevano fatte tante prove
sui campi di battaglia, a iniziare una nuova lotta disperata e mor-
tale. Oltre di che si sarebbe così privato lo Stato romano del va-
lido aiuto che era atto a dargli il fiore della gioventù latina.
Sarebbe stato indubitatamente in facoltà dei Romani di ridurre
quelle città alla condizione di suddite rendendole tributarie, pri-
vandole del potere legislativo, sottoponendole per la leva come
per la giurisdizione a magistrati inviati da Roma. Il desiderio di
vendetta, la superbia della vittoria, la tendenza egoistica a sfrut-
tare il vinto sospingeva i Romani per questa via rovinosa, come
mdusse ad apijigiiarvisi tanti Stati greci. Ma il retto apprezza-
mento della condizione delle cose li consigliò a procedere diver-
samente. Se a quel modo avessero umiliato i vinti, i Romani
avi'ebbero potuto disporre dei loro contingenti finché fosse du-
rato lo sgomento della sconfitta; ma attenuato appena questo ri-
cordo dal tempo, alla prima occasione i Latini sarebbero insorti
chiamando alla riscossa i loro fratelli trattati con minor diu'ezza;
e al tempo stesso la cittadinanza romana, decimata del continuo
sul campo e non rinsanguata d'elementi nuovi e vitali, si sarebbe
assottigliata lentamente, ma senza rimedio, come la cittadinanza
spartana. Fu questo il momento critico della storia di Roma. E
della superbia umana trionfò la logica ferrea della necessità. Nella
lotta disperata per l'esistenza che i Romani avevano sostenuto dopo
l'invasione gallica contro tutti i vicini congiurati ai loro danni,
il patriziato le cui file s'erano diradate nella lotta aveva dovuto
fare appello a tutte le energie della cittadinanza e pagare i sa-
crifizi che chiedeva accordando alla plebe piena parità di diritti.
La concessione della cittadinanza a Tuscolo nel 381 dimostra che
i governanti romani avevano già avvertito la necessità di non fer-
marsi su questa via. Ma era un fatto isolato e per sé solo di poca
conseguenza. Ora la concessione dei pieni diritti di cittadinanza
a quell'intero grupj)0 di città latine (1) da un lato costituiva un
(1) Liv. Vili 14, 2-3: Lanuvinis civitas data sai'raque .sua reddita cion eo ut
aedes lucusque Sospitae lunonis cominunis Lanuvinis mìinicipibnn cuin popido
Romano esset. Aricini Nonientanique et Pedani eodem iure quo Lanuvini in ci-
vitatein accepti, Tusculanif: servata civitas quain habebant. Yell. I 14,2: Aricini
in civitatem recepii. L'accordo delle due fonti nel tacere di qualsiasi limitazione
282 CAPO XYIII - LA DISSOLUZIONE DELLA LEGA LATINA
legame cV interessi tra i loro abitanti ed i Romani che non era
facile spezzare, legame a cui presto si sarebbero uniti ogni sorta
di vincoli morali; dall'altro, creando fra gran parte dei Prisci La-
tini e i Latini delle colonie una profonda disparità di condizione,
ne spezzava la solidarietà ; mentre rinvigoriva la cittadinanza ro-
mana colmando i vuoti che vi avevano aperto le battaglie coi
Sanniti e con gli stessi Latini (1).
Non potevasi certo procedere in egnal modo rispetto ai Volsci,
secolari nem.ici che, nonostante le sconfitte e la forzata accessione
alla lega latina, conservavano ancora tenacemente la propria nazio-
nalità. I Roinani fecero ora deliberazione di provvedere con tutta
r energia a latinizzarli. A Velletri la massima parte dell' aristo-
crazia ribelle fu espulsa, e i beni confiscati si assegnarono a cit-
tadini romani (2) ; lo stesso si fece, come pare, con Priverno,
che, occupata dai Romani poco prima (sopra p. 273), non aveva
probabilmente preso parte alla guerra latina. (3) Ad Anzio (338) e
a Terracina (329) (4) il territorio confiscato si distribuì fra i coloni
mostra che si tratta dei pieni diritti di cittadinanza. 11 trattato che annual-
mente si rinnovava tra Roma e Laurento vien datato in Liv. Vili 11, 15 da
questa guerra. Ma la data non pare ammissibile, sia per l'arcaicità d'un simile
rinnovamento, sia perchè ora i^er l'appunto ebbe fine la indipendenza dei Lau-
rentina Onde è probabile che si tratti d' un uso assai più antico conservato
prò forma in vigore anche dopo che i Laurentini ebbero la cittadinanza. E
quindi si accosta assai piìi al vero Livio stesso quando par riportarne le ori-
gini ai tempi di Romolo (1 14). Altri invece le ascrivevano ai libri sibillini,
CIL. X 797 : Sp. Turranius in urbe Lavinia pater patratus popiili Laurentis
foederis ex libris Sibullinis perait ioidi rum p(o})ido) R(oȓano). Cfr. Dessau CIL.
XIV p. 187.
(1) Cfr. Cic. prò Balbo 13, 31: illud vero sine alla duhitatione maxime nostrum
fundavit imperium et populi Romani nomen aitxit quod princeps ilìe creator
huius urbis, Romulus, foedere Sabino docuit etiam hostibus recipiendis augeri hanc
civitatem oportere; cuius auctoritate et exemplo ntimquam est intermissa a ma-
ioribus nostris largitio et comunicatio civitatis; ifaque ex Latio multi ut Tuscu-
lani et Lanuvini et ex ceteris regìonibus gentes universae in civitatem sunt receptae
ut Sabinorum Volscorum Hernicorum. DioNrs. II 17. XIV 6.
(2) Liv. Vili 14, 5-7.
'3) Per Priverno si parla della espulsione dei senatori trcms Tiberini
(VITI 20, 9) come per Velletri, ma non della confisca e distribuzione dei loro
boni. L'una cosa però suppone l'altra.
(4) Liv. VITI 21, 11. Anche Vell. I 14 concorda nella data registrando la
colonia di Terracina post triennium dal consolato di Publilio Filone e Sp. Po-
stumio (332).
LE CITTÀ VOLSCHE 283
romani, permettendosi però l'iscrizione nella colonia agli indigeni (1)
0 per meglio dire a quelli tra essi clie non erano mal veduti dal
governo romano. Così in queste quattro città, accanto ad un numero
limitato di cittadini romani con pienezza di diritti, si trovava una
abbondante popolazione suddita a cui, accordando quel che si chia-
mava cittadinanza romana senza suffragio, s'era con ciò stesso tolto
ogni diritto sovi-ano e che per la giurisdizione e la leva dipendeva
esclusivamente da Roma. Che questo stato di cose potesse esser
soltanto transitorio, i primi ad avvedersene dovettero essere quelli
stessi che lo fondarono. Presto la reciprocità del connubio e del
commercio doveva stringere insieme i pochi nuovi venuti coi molti
indigeni in un solo popolo e rendere impossibile tanta diversità
di trattamento. Ma allora lo scopo era raggiunto, perchè l'unione
non poteva sorgere che sulla base delle leggi e delle istituzioni
romane; e cosi gl'indigeni di Veli etri, Priverno, Anzio e Terra-
cina ottennero, non sappiamo con precisione quando, ma certo prima
e probabilmente molto prima della guerra annibalica, la pienezza
dei diritti (2). Frattanto le due città marittime d'Anzio e di Terra-
cina fui'ono ordinate a comuni di coloni romani (3), mentre lo stesso
ordinamento si dava ad Ostia, aumentata di popolazione (4).
Fino a Terracina, i Romani assegnarono ai vinti la piena cit-
tadinanza o li posero in una condizione transitoria che doveva
presto metterli in grado di ottenerla. Più a mezzogiorno essi non
largheggiarono a questo modo, perchè la differenza di nazionalità
(1) È detto esplicitamente degli Anziati (Liv. Vili 14, 8), e a maggiore ra-
gione deve supporsi di quelli di Terracina.
(2) Il tenninus ante quem e la concessione del diritto di suffragio alle più
lontane Arpino, Fondi e Formie nel 188 (Liv. XXXVIH 36). Dacché notizie
l^articolareggiate sulle cose romane ci son date nella terza deca di Livio dal
principio della guerra annibalica, è chiaro che la concessione dei pieni diritti
a Velletri e Priverno dev'essere anteriore. È bene notare che gli Ottavi, fa-
miglia velliterna, compaiono circa il 230 nei fasti (v. Suet. Aug. 1), e che un
frammento di Lucilio (799 Baiohrens) mostra i Privernati iscritti nella tribù
Ufentina.
(3) Non subito dopo l'invio dei coloni. La difficoltà di determinare in Anzio,
prima che avesse un regolare ordinamento comunale, i rapporti tra i coloni
e gl'indigeni è rappresentata chiaramente dalla tradizione, v. Liv. ad a. 317
(IX 20, 10) : Antiatibus quoque qui se sine legibuft certis sine magistratibus agere
querebantur dati ab senatu ad tura statuenda ipsius coloniae patroni. Cfr. anche
al e. xxn.
(4) Cfr. l p. 388.
I^yi CAPO X\IU - LA DISSOLUZIONE DELLA LEGA J.ATLN'A
si face\'a as^sai più sensibile e poi percliè credevano di aver rinvi-
4>orito abbastanza lo Stato romano pei compiti nuovi che l'avve-
nire prossimo gli presentava. Non v'era bisogno, per ora almeno,
di altri cittadini con parità di diritti, né tanti ad una volta se ne
potevano creare senza mettere a pericolo gli ordinamenti e la coe-
sione dello Stato; e così le popolazioni a sud di Terracina e di
Priverno fm'ono per allora o riconosciute come alleate o ascritte
alla cittadinanza, ma senza diritto di suffragio. Era quest'ultima,
senza dubbio, mia condizione gravosa ; ma era un trattamento mite
in confronto dell'uso clie facevano allora del diritto di conquista
anche popolazioni più civili; perchè non comportava pesi mag-
giori di (pielli che gravavano sui cittadini romani stessi forniti dei
pieni diritti. La cittadinanza senza suffragio fu data pertanto a
Fondi e Formie nel 338 o pochi anni dopo (1). Incerta è invece la
condizione cui si ridussero allora gli Aurunci, che avevano preso
parte anch'essi alla guerra latina; ma fosse o no analoga a quella
di Fondi e Formie, certo fu tale che non soddisfece questo piccolo
popolo, il quale peri interamente pochi anni dopo nel tentativo di
ricuperare la liberta con le armi (2). Livio narra, con patente con-
traddizione, di cui al solito non s'avvede, che gli Aurunci chiesero
nel 337 il soccorso dei Romani contro i Sidicini di Teano che li
avevano obbligati ad abbandonare la loro città (non è detto quale)
per fondare Suessa Aui'unca (3j e che nel 335 i Romani fecero
guerra agli Ausoni alleati dei Sidicini (4j. Per cui non è chiaro
se Cales, che cadde allora in mano dei Romani e fu ordinata a co-
lonia latina, fosse tolta ai Sidicini o agli Aurunci (5). Checché ne
sia, questa città, ove si dice fossero inscritti non meno di 2500 co-
loni, costituì un importante baluardo della latinità al confine tra
i Cami)ani, i Sidicini e gli Aurunci. Quanto ai Sidicini, la tradi-
zione li mostra in armi contro Roma fino al 334 (6), poi li dimen-
ti'M d"l tutto. Ciò prova che la città di Teano fu fin da allora
(1) Liv. Vili 14, 10 (a. 338). Vell. 1 14, 4 (a. 333). Una ribellione dei Fon-
dani e Forniiani al 329 è menzionata da Liv. Vili 20, ma in connessione con
la pretesa ribellione dei Privernati (sopra p. 273 n. 2).
(2) Liv. Vili 2.D.
13) Vili 15, 16.
(4) 1 fasti trionfali all' a. 335 registrano il trionfo di M. Valerio Corvo de
Cdlenein idibus Murt.
(5) La colonia di Cales è notata tanto da Livio quanto da Velleio al 334.
'6) Liv. Vili 16, 12. 17, 2.
AUKUNCI E SIDICINI. LA CITTADINANZA DATA AI CAMPANI 285
imita a Roma: se fosse stata mi avamposto del Samiio (1), diffì-
cilmente la tradizione ne avi^ebbe taciuto; poiché essa trascura i
soccorsi prestati dagli amici, non le vittorie ri])ortate sui nemici.
Tal silenzio è del resto un indizio che i Sidicini non ebbero la
cittadinanza né piena né senza suffragio, dacché delle città ridotte
in questi anni a tal condizione abbiamo piena contezza. E però
va ritenuto che fin d'allora ottennero quel trattato d'alleanza con
Roma che conservarono fino alla guerra scoiale (2).
Regolando la condizione dei vinti dal Tevere al confine cam-
pano, i Romani non avevano avuto a consultare che i propri in-
teressi. Più oltre dovevano tener conto dei riguardi dovuti alla
ricca e non imbelle popolazione campana, solo di recente entrata
in relazione con Roma e che un trattamento troppo severo poteva
far propendere verso i Sanniti. Tuttavia i Romani si sentirono
abbastanza forti per obbligarla ad abbandonar loro il fertile agro
Falerno tra il Savone ed il Volturno (3), per modo che oltre il
Volturno rimase ai Cami^ani solo l'agro Stellate ad oriente di
Casi lino, che conservarono fino alla seconda guerra punica (4). Non
può del resto revocarsi in dubbio che questa annessione di terri-
torio campano avesse luogo i^er effetto della guerra latina ; perchè
chiunque non voglia sostituire il proprio arbitrio alla tradizione
dovrà accettare la data del 318 come quella sotto cui s'istituì la
tribù Falerna. Or la istituzione di questa tribù, che ebbe luogo
sotto la censiu'a di L. Papii'io e C. Menio (5), presuppone che da
(1) Così MoMMSEN R. G. \* 360, il quale del resto ritira implicitamente al-
trove questa sua asserzione.
(2) Che Teano fosse città alleata è provato dalle sue monete in argento e
bronzo con la iscrizione osca Teianud o Teianud Sidikinud e dalle monete in
bronzo con la iscrizione latina Tiano Nessun altro municipio romano battè
moneta, fatta eccezione per Capua e alcune alti-e città minori della lega cam-
pana che si trovavano in una condizione particolarissima (v. e. XXII). Inoltre
vedasi il frammento di C. Gracco presso Gell. «. ^. X 3 il quale cita i mal-
trattamenti inflitti a un magistrato sidicino evidentemente allo scopo di di-
mostrare la prepotenza dei Romani verso i loro alleati. Su ciò giudicano
rettamente Buboer Neue Forschiingen 1 23 segg. e Pais St. di Roma I 2, 247
n. 4, come già (prescindendo dalla pretesa latinità di Teano) Mommskn Riim.
Munzwesen p. 323. È invece senza dubbio in errore Mommsen CIL. X p. 471.
(3) Liv. Vili 11, 13.
(4) Beloch Canipanien 369 seg.
(5) Liv. IX 20.
286 CAPO XVIII - LA DISSOLUZIONE DP^LLA LEGA LATINA
qualche tempo si fosse cominciato ad assegnare individualmente
quei terreni a cittadini romani; e però non si può in alcun modo
collegare con la ribellione di Capua, che avvenne qualche anno
dopo il disastro di Gaudio.
Ma non si limitarono i Romani a pretender territorio. La tra-
dizione afferma esplicitamente che i Capuani ricevettero la citta-
dinanza romana senza suffragio (1), e due scrittori registrano questa
concessione l'uno al 338 e l'altro al 334, confermandosi a vicenda
tanto più in quanto la lieve divergenza di data mostra che attin-
gono a fonti diverse (3). Una prova se ne ha pm-e in ciò che am-
bedue gli scrittori notano al 332, essendo censori Publilio Filone e
Postumio Albino, la concessione della cittadinanza senza suffragio
ad Acerre (3); or come sarebbe contro la buona critica revocare in
dubbio quest'ultima data, così non pare che i Romani possano
aver incorporato nel loro Stato Acerre se prima non lo avevano
esteso nel più vicino territorio campano. Vi ha del resto un argo-
mento che par vinca ogni obbiezione. I Campani, al tempo del
tumulto gallico del 225, erano senza dubbio censiti fra i cittadini
romani (4). Ma non i^ossono aver mutato la lor condizione di al-
(1) Sulla questione c'è una vasta letteratura. Le varie opinioni son bene
riassunte da Rudert De iure municipum Romanonim belli Latini tempore Cam-
panis dato ' Leipziger Studien ' II (1879) p. 73 segg. Cfr. Pais I 2 p. 229 segg.
(2) Liv. VIII 14, 10: Campanis equitum honoris causa quia cum Latinis re-
bellare noluissent.... civitas sine suffragio data. Cumanos Suessulanosque eiusdem
iiiris condicionisque cuius Capuani esse placuit. Vell. I 14, 3: Sp. Postumio,
Veturio Calvino consulibus Campanis data est civitas partique Samnitiuni sine
suffragio. Che devesi intendere per questa pars Saninitium ? Il Mommsen ha
pensato ai Sidicini, che son però da escludere, v. sopra p. 285 n. 2. Forse
si hanno da intendere i Cumani e Suessulani, che erano, come del resto i
Campani, di stirpe sannitica. Cfr. anche il fr. di Ennio (118 Baehrkns): cit^es
Roìiiani tane facli sunt Campani, che è però d'incerta collocazione. Anche nella
cronaca di Oxyrhynchos all'ol. 111,4 = 33.3/2 par debba leggersi: 'P[iwJ|uaToi
[KaiuTTaJvoùc; ènoinaavTO ■rT[oXiTaq] ktX.
(3) Liv. Vili 17, 12: Romani facti Acerrani lege ah L. Papirio praetore lata.
Vki.l. 1 14, 4 : « Sp. Postumio, Philone Publilio censoribus Acerranis data ci-
vitas.
(4) Ciò risulta dallo specchio delle forze militari dei Romani e degli alleati
che Polibio (II 24) dà per quell'anno attingendolo a Fabio Pittore, cfr. Oros.
IV 13, 6-7. Del resto anche la procedura seguita dopo la presa di Capua nella
guerra annibalica mostra che i Campani erano cittadini : Liv. XXVI 33. 10
(ad a. 210): per semitum mii de Campanis, qui cives Romani sunt, iniussu pò-
2)uli non video poss,
LA CITTADINANZA DATA AI CAMPANI 287
leati con quella di cittadini senza .suffragio se non jjer effetto di
qualche loro ribellione a Roma. Capua peraltro non si sollevò
più dal 314 in poi iìno alla battaglia di Canne. Supporre la pos-
sibilità che Capua sia insorta nella guerra di Pirro (1) può solo
chi non intenda come quella guerra avrebbe avuto tutt' altro corso
se Pirro come Annibale avesse potuto por piede nella seconda
città d'Italia. Quindi il conferimento della cittadinanza senza suf-
fragio ai CaiDuani non può spettare che al 314 al più tardi (2). Ma
il pieno silenzio della tradizione al 314 (3) e le notizie concordi
dopo «la guerra latina, per quanto la nostra tradizione sull'età della
seconda guerra sannitica sia relativamente abbondante e fededegna,
mostrano che la data da preferire è quella tramandataci del 338-34.
Senonchè la condizione fatta allora ai Camp)ani in confronto di
quella degli altri municipi che allora o poi ebbero la cittadinanza
senza suffragio fu per molti rispetti privilegiata. La tradizione
dice anzitutto, e non c'è ragione per metterlo in dubbio, che a parte
dell'aristocrazia campana vennero concessi i pieni diritti di cittadi-
nanza (4). Inoltre, non pochi dù-itti sovrani conservò Capua, tra
cui quello di batter moneta sia pure iscrivendovi il nome di Roma ;
poi rimase la confederazione campana col suo senato e col suo capo
(1) Come sembra faccia il Pais I 2 p. 233 d.
(2) Ciò è confermato dal censimento sul quale v. sotto p. 290 n. 1, le cui
cifre, che paiono certamente autentiche, costringerebbero ad attribuire al ter-
ritorio romano una popolazione oltre ogni credere esuberante, se non v'erano
compresi i Campani.
(3) Anche Diodoro a quell'anno nota (XIX 76, 5): ai òè ttóXcic; (tlùv Kaiuiravuiv)
TUxoOaai ouyyvujilht; ek ^riv irpouTTapxouaav au|Li|uaxiav àiroKaTéOTriaav, dove
naturalmente au)U|uaxict non va preso in senso troppo stretto. Lo scrittore si-
celiota può aver tradotto così un " eadem condicione ' della sua fonte.
(4) Liv. Vili 11, 16: equitibus Campanis civitas Romana data, monumentoque
ut esset aeneam tabulam in aede Castoris Romae fecerunt , vectigal quoque eis
Campanus j^opulus iiissus i^endere in singulos quotannis — fuere aiitein mille et
sexcenti — denarios nummos quadringenos et quingenos. Probabilmente è l'avola
che all'intervento romano dovessero i cavalieri Campani l'indennità loro con-
tribuita dal popolo. E può anche esser falso che a tutti venisse concessa la
cittadinanza con pieni diritti. Potrebbe' trattarsi d'un'anticipazione della con-
cessione realmente fatta nel 215 a 300 cavalieri Campani rimasti fedeli, Liv.
XXllI 80, 10. Peraltro che parziali concessioni in questo senso avvenissero sin
d'allora tra i Campani è credibilissimo e confermato anche da Liv. XXlll 5, 9
(sopra 270 p. n. 1).
2SS (AI'O XVTTl - T,\ DISSOLUZIONE DELLA LEGA LATINA
annuo (uìeddix tiificits) (1). incaricato delja direzione amministra-
tiva. Perdette naturalmente Capua il diritto di fare per ]iroprio conto
pace e guerra, ma conservò il potere legislativo per ciò che si ri-
feriva alle cose interne; e sembra persino che l'adozione del diritto
civile romano fosse soltanto graduale, e che i magistrati indigeni
avessero una estesa giurisdizione (2). Col tempo (secondo Livio
nel 318) furono istituiti quattro magistrati incaricati, in rappresen-
tanza del pretore urbano, della giurisdizione nel territorio della
lega campana e nelle città vicine (3), ma è da credere che, almeno
fino alla seconda punica, la giurisdizione non spettasse integral-
mente a (piesti quatuorviri, bensì soltanto nelle cause di massima
importanza o in quelle attinenti alle relazioni tra i Campani e Roma.
S'è affermato che questi quatuorviri siano stati creati posterioi'-
mente alla ribellione di Capua nella guerra annibalica; ma è un
grave errore, perchè in questo caso nella loro titolatura ufficiale
Capua, privata d'ogni autonomia locale, non avrebbe preceduto
Cuma; al più può discutersi se l'istituzione di essi si^etti al 318
o al 314, o in altri termini se sia stata causa od effetto della ri-
bellione di Capua in quegli anni.
Roma dall'invasione gallica era stata condotta pressoché a ro-
vina. Dopo cinquant'anni, mediante un intenso e quasi illimitato
sfruttamento delle proprie forze, senza precedenti nella storia, era
divenuta una grande potenza. Il paese in cui dominava si esten-
deva dai monti Ciminì alle falde del Vesuvio. Di esso, 6000 km^
almeno aiipartenevano allo Stato romano, il quale dal 340 era rad-
do[)piato ormai d'estensione e poco men che triplicato dal 390, parte
per le concessioni dei diritti cittadini ai vinti, parte pei territori
ad essi tolti, onde si istituirono in questi anni le tribù Mecia e
Scapzia nel Lazio (332) e non molto dopo (318) la Ufentin a presso
Pri verno e la Falerna in Campania. Questa regione era divisa
in due parti, di cui alquanto maggiore la prima, occupate Funa
dai cittadini forniti dei pieni diritti, l'altra da quelli che ne eran
(1) Ricordato frequentemente da Livio nella storia della guerra annibalica:
XXIT 3. XXm 7. 35. XXIV 19. XXVI 6.
i2) Vedasi quel che Livjo (XXIIT 4) dice dei senatori di Capua (217) ante-
riormente alla ribellione : c«s crt»srt,s suscipere, et semper parti adesse, secundum
fftm [literti] ìndiccs dare, quae magis popularis aiytiorqìie in rolgiis favori conci-
liando esset.
:!> 11 loro titolo era praeferti Capn.am Ciimas. CIL. XI 3717. V. anche al
'^ '^■" " MoMMSKN Sfiinfsrrchf IP 608 segg.
CONCLUSIONE 289
])rivi (1). Inoltre sopra un gran numero di città alleate e di co-
lonie cui s'erano accordati diritti sovrani pari press'a poco a
{juelli delle città alleate esercitavano i Romani il loro dominio.
Questi alleati e coloni legati solo con Roma, ma non più costi-
tuenti poderose leghe tra loro ad eccezione della lega ernica, il
cui territorio superava x)erò di poco un migliaio di km^, ormai,
data r immensa sproporzione delle loro forze con Roma, erano di
fatto dipendenti quando anche i loro trattati d'alleanza nominal-
mente guarentissero la piena egualità; e non avevano modo di fare
Lina politica estera per conto projjrio quand'anche ciò fosse stato
permesso dai trattati d'alleanza. I Romani del resto ne esigevano
il solo tributo del sangue e probabilmente in misura minore di
quel che non lo prestassero essi stessi. Così oltre quei legami che
risultavano dal militare a lungo sotto le stesse insegne vittoriose,
non mancavano tra alleati e Romani vincoli d' interesse, perchè
le frequenti vittorie comuni recavano anche agli alleati guadagno,
e sia pure non nella misura stessa che ai Romani (2). Del resto
non esisteva ancora, come fu poi, una vera muraglia di separa-
zione tra Romani ed alleati ; perchè gli alleati eran per la mas-
sima parte di diritto latino e potevano sotto certe condizioni ac-
quistare con relativa facilità, se vi aspiravano, la cittadinanza
romana, mentre i Romani poco favoriti dalla fortuna che pren-
devano una parte preponderante alla deduzione delle colonie la-
tine passavano in una condizione analoga a quella degli alleati,
n territorio degli alleati, comprese le colonie latine, era inferiore,
ma non di molto, a quello dello Stato romano "propriamente detto,
e saliva forse ad un 5000 km^ (3) ; era i3erò assai meno densa-
mente popolato, perchè lo Stato romano comprendeva due delle
città più popolose dell'Italia d'allora, Roma e Capua, e una buona
parte della fertile Terra di Lavoro, mentre gii alleati abitavano
in generale nell'interno, dove la scarsezza d'industrie e di coni-
ci) Circa di .3500 km' la prima, di 2500 la seconda.
(2) Sulla distribuzione del bottino e dei territori confiscati tra cittadini e
soci, V. al e. XXII.
(3) Questa cifra è incerta poiché non sappiamo bene in quale misura fos-
sero entrati nell'alleanza romana i popoli che abitavano verso l'Appennino.
È da supporre che vi avessero acceduto gli Equi che la nostra tradizione non
ricorda più dal 389 al 804; avevano inoltre chiesto l'alleanza romana nel 330
i Fabraterni, e nel 328 era stata fondata la colonia latina di Fregelle (v. cap.
seguente).
G. De San(;tis, storia dei Romani, II. 19
290 CAPO xvni - la dissoluzione della lega latina
merci impediva il formarsi d'una densa popolazione. Un censimento
appartenenente a questa età fa salire a 150 mila il numero dei
cittadini romani atti alle armi (1), il che presuppone una popola-
zione cittadina totale di quasi mezzo milione. Sommativi i pochi
schiavi e stranieri e gli alleati, non ci allontaneremo dal vero de-
terminando a sette od ottocento mila abitanti la intera popola-
zione del territorio dominato direttamente o indii-ettamente dai
Romani. Lo Stato romano era cosi divenuto per estensione uno
dei primi e per popolazione il primo tra gli Stati italiani ; talché
si appressava il momento in cui Roma non avrebbe avuto più in
mano i fati soltanto dell'Italia centrale, ma quelli di tutta Italia.
(l) Lrv. IX 19 (a proposito della età di Alessandro Magno): censehantur eius
aetatis lustris ducena quinquagena millia capittim. Plut. de fortìina Eomanormn
13 parlando dei Romani della stessa età : irXtìeoq |nèv yàp fjaav outoi xpiaKOibeKa
inupidòujv oÙK è\aTTOu^. Cfr. Oeos. V 22, 2, il quale dice che nella guerra so-
ciale e nella prima civile perirono più di 150 mila Romani, quanti ne regi-
strava il censo al tempo di Alessandro Magno. Sembra che i tre scrittori si
riferiscano ad uno stesso censimento. Vi è però nei loro testi o vi era in
quelli delle loro fonti qualche errore di cifra. La cifra vera delle centinaia
è assicurata dalla concordia di Orosio e Plutarco, quella delle decine dalla
concordia di Orosio e Livio (in Plutarco IT è da correggere in lE). Il numero
non appar punto esagerato. Questo è il primo censimento romano su cui ab»
bÌRmo dati degni di fede, cfr. Beloch Bevolkerung I 341 seg.
» «♦* — —
CAPO XIX.
La lotta tra Oschi e Latini per l'egemonia (1).
Frattanto sui Greci dell'Italia meridionale continuavano a gra-
vare le vicine stirpi italiche e iapigie: tanto più liberamente in
quanto l' anarchia, in cui dopo lo sbarco di Dione erano caduti i
(1) La seconda guerra sannitica è narrata con molti particolari da Liv.
Vili 22 - IX; col 318 cominciano i cenni sommari di Diodoro lib. XIX e XX.
Poco si trova nei frammenti di Dionisio lib. XV e XVI, di Appiano Samn. 4
e di Cassio Dione (fr. 36, cfr. Zon. VII 26 - Vili 1). Relativamente scevro di
falsificazioni annalistiche è il racconto di Diodoro; abbondano queste invece
in Livio, il quale, pur riferendo tal quale ciò che legge, o anzi rivestendolo
coi lenocinì dell'arte, non se ne nasconde il poco valore storico, v. Vili 40 •
nec facile est aut rem rei aut auctorem auctori praeferre. vitiatam memoriam fune-
bribus landibus reor falsisque imaginum titulis dum familiae ad se qiiaeque famam
rerum gestarum honorumque fallenti mendacio trahunf. inde certe et singuloriim
gesta et piiblica monumenta rerum confusa : nec quisquam aequnlis temporibus
illis scriptor extat quo satis certo auctore stetur. Dei moderni è sempre da con-
sultare NiEBUHR III 214 segg. V. anche Burger De bello cum Samnitibus secando
(Harlemi 1884 diss.). Der Kampf zwischen Rom und Samnium bis zum vollstan-
digen Siege Roms (Amsterdam 1898). Binneboessel Untersuchungen iiber Quellen
und Geschichte des zweiten Samniterkrieges (Halle a. S. 1893 diss.). Kaerst Krit.
Untersuchungen zur Geschichte des zw. Samniterkrieges negli ' Jahrbb. f. Phil. '
Supplbd. XII (1884) p. 725 segg. Utile come riassunto è Pirro La seconda guerra
sannitica (I. II. III. Salerno 1898). Qualche buona osservazione si trova qua e
là in Pais II 2, 375 segg.
292 CAPO XIX - LA LOTTA TRA OSCHI E LATINI PER L EGEMONIA
Sicelioti, impedì che per molti anni potessero recare qualsiasi aiuto
ai loro connazionali oltre il Faro. Onde i Tarentini stretti dai
Lucani e dai Messapì si rivolsero per soccorsi a Sparta, poco tempo
dopo che Tintervento corinzio per %drtù di Timoleonte (345/4) aveva
salvato Siracusa dalla rovina. E Sparta inviò re Archidamo, il
figlio d'Agesilao, alla cui attività e airesi^erienza di guerra scarso
campo offriva la Grecia, distrutta senza speranza di risorgimento,
regemonia spartana. Ma dopo un cinque anni di lotte, Archidamo,
che aveva raccolto un corpo di mercenari tra i reduci della guerra
sacra, cadde combattendo a Manduria nella penisola sallentina,
Tanno o persino, come si pretese, il giorno stesso in cui Filippo
\nnse gli Ateniesi a Cheronea (338) (1). Dei successi da lui otte-
nuti non abbiamo idea cliiara ne ci è dato sapere se le sue im-
prese abbiano a^alto un contraccolpo nell'Italia centrale, per quanto
possa darsi che, solo dopo liberati dal timore delle sue armi, i
Sanniti abbiano i3ensato ad intervenire in Campania (2).
Senonchè presto sorse per gli Italici del mezzogiorno un ne-
mico assai x>iù terribile di Archidamo. Dopo la morte del re spar-
tano i Tarentini non eran più riusciti ad arrestai-e i progressi dei
Lucani, tanto che la stessa Eraclea, la sede del congresso delle
città italiote, era caduta nelle mani degl'indigeni (3). Cosi Taranto,
ridotta ad invocare novamente soccorso, si rivolse al re Ales-
sandro d'Epiro, lo zio materno d'Alessandro Magno. Per tal modo
mentre il re di Macedonia si apparecchiava a fondare un impero
ellenico nell'Oriente, il re d'Epii-o con non minori speranze sbarcava
a Taranto (4). Era Alessandro un valente guerriero della scuola
(1) DioD. XVI 82, 4. 88, 3. Theop. fr. 259-260. Pj.ut. Acpsd: 'ApxiòaiLio.; ó uepl
Mavòóviov xf\e^ 'iTaXiaq ùtrò MeaaaTriiuv ànoSaviiv. La correzione in Mavbùpiov
(o forse meglio Mavòópiov) è giustificata appunto da quel passo di Plinio n. h.
Ili 98 con cui Beloch Gr. G. Il 593 vorrebbe combatterla: Mardoniam {con:
Mnndoriam) Lucanorum iirhem fuìsse Theopompus (auctor est) in qua Alexander
Kpirotes occubuerit, dove Plinio cita Teopompo a memoria confondendo Archi-
damo con Alessandro , e pei'ciò appunto parlando erroneamente dei Lucani.
Cfr. Pais 1 2 p. 490 n.
(2) L'intervento sannitico in Campania, che provocò alla sua volta l'inter-
vento romano, spetta, secondo i fasti, al 343 av. Cr. Ma le date dei fasti anti-
cipano per questo periodo di circa cinque anni (cfr. I p. 14). Verremmo dunque
approssimativamente al 338.
(3) Ciò risulta dal passo di Livio citato a p. 293 n. 3.
:4i Sulla .sua spedizione v. soprattutto Liv. 1. e. e Iustin. Xll 2.
SPEDIZIONI DI ARCHIDAMO E DI ALESSANDRO IL MOLOSSO 293
di Filippo il Macedone, alla cui corte era stato educato; e aveva
su Arcliidamo il vantaggio che il suo regno, assai più vicino alla
penisola, ijoteva fornirlo con maggior copia e più agevolmente di
soldati e di mezzi. E gli effetti parvero corrispondere all'asi^etta-
zione: perchè, iniziata la guerra con una campagna vittoriosa contro
gli Iapigi, si avanzò Alessandi'O fin presso Arpi e riusci ad occu-
parne persino il porto, Siponto. Dopo di che egli s' accordò con
gli Iapigi, anzi con parte di essi, i Pediculi o Peucezì, strinse al-
leanza contro il comune nemico, le stirpi sabelliche (1). Infatti dal
nord nel paese dei Daunì erano penetrati forse non molto prima
i Sanniti, e mentre i Danni continuavano, da Arpi, a dominare
la parte maggiore del Tavoliere di Puglia, avevano occupato
Teano e la regione delle Murgie a nord dell'Aufido fino ad Ascoli
Apulo (2). Ed ora contro i Grreci sostenuti dagli Iapigi fecero
causa comune le tribù sabelliche, dimentiche delle loro rivalità,
dalla Sila al Sangro. Tuttavia Alessandi'O riusci a strappare ai
Lucani Eraclea, ai Bruzì Terina, e persino la loro capitale fede-
rale Consenzia (3), e forse nella speranza d'instaui-are Tellenismo
a Posidonia, inoltratosi fino al Silaro, ruppe colà in battaglia Lu-
cani e Sanniti. Erano gli anni in cui i Romani, vinti i Latini e
(1) lusTix. XII 2, i-i: Priinton UH hellum ciiin Apulis fuif... brevi post tem-
pore pacem et amicitiam cum rege eorum fecit. Cfr. 2, 12: ciim Mefapontinis et
Poediculis et Romanis foedus amicitiamque fecit.
(2) Cfr. MoMMSEN Die unteritaliscJten Dialekte p. 103. Sui Daunì e sulla loro
nazionalità iapigia v. I p. 163 segg. S'intende che non si può escludere che
anche ad Arpi si fossero infiltrati elementi oschi, ma non abbiamo diritto di
farne una città sannitica col Pais (Storia della Sicilia I 374), il quale fraintende
nel modo più singolare Liv. IX 13.
(3) Liv. Vili 24, 4 : cum saepe Bruttias Lucanasqae legiones fudisset, Heracleam
Tarentinorum coloniam Consentiam ex Lucanis Siponttimque Bruttiorum ac Te-
rinatn, alias inde Messapioriim ac Lucanoriim cepisset tirbes etc. Questo passo,
che è stato tormentato variamente dai critici, può sanarsi con due semplici
trasposizioni : Heracleam Tarentinorum coloniam ex Lucanis, Consentiam Sipon-
tumque ac Terinam, alias inde Bruttiorum M. ac L. cepisset urhes. Beloch Gr. G.
II 595 crede che Alessandro abbia conquistato Eraclea sui Tai'entini ; ma è
ipotesi arbitraria : prima perchè non sappiamo che egli abbia fatto guerra con
Taranto, anzi ciò sembra escluso da Stkab. VI p. 280, poi perchè se avesse
posseduto Eraclea (che invece tolse ai Lucani solo per restituirla ai coloni
Tarentini) non avrebbe punto pensato a trasferire altrove il congresso federale
delle città italiche.
294 CAPO XIX - LA LOTTA TKA OSCHI E LATINI PER l'eGEMONIA
i Campani a Trifano (1), consolidavano novamente la loro antorità
nella Campania; ed era perciò natm^ale che Romani e Greci, av-
versi del pari ai Sanniti, stringessero alleanza. Ma quest'alleanza
non giovò in realtà che ai Romani, i qnali poterono indisturbati
pro\^edere all' assetto dei territori occupati nella guerra latina,
mentre Alessandi'O teneva a bada i Sanniti nell'Italia meridionale.
Ad ogni modo i G-reci non eran mai penetrati vittoriosamente
cosi innanzi come a lui riusci nell'interno della penisola. Senonchè
(juesto appunto ridestò nei Tarentini, che cominciavano a temere
neiralleato di oggi il padrone di domani, l'indomabile sentimento
particolaristico ch'era il cancro della nazione ellenica. Allora il re
cominciò a trovarsi in condizioni difficili, poiché l'alleanza fedele
di Turi e di Metapontio e gli aiuti del re dei Peucezì e degli
esuli lucani non erano in realtà di gTande miomento, e sui Romani,
distanti e usi ad occultarsi dei propri interessi più che dei casi
altrui, era poco da contare. Restavano i suoi Epiroti; ma le rela-
zioni incerte coi Tarentini fecero che, non più assistito da essi
di navi e di denaro, gli tornasse assai meno agevole trasportare
in Italia altre milizie. Il tentativo che fece allora Alessandro per
meglio assicm-arsi Taiuto degli Italioti, di trasferire il centro della
loro lega da Eraclea, dove i delegati rischiavano di subir troj)po
rinfluenza tarentina, nel territorio della fedele Turi (2), non valse
che ad alienargli maggiormente i Tarentini. Di che ripresero
animo Lucani e Bruzì, e, riguadagnato terreno, sulla fine del 331
o al princix3Ìo del 330 sorpresero il re che, probabilmente per im-
pedù"e che i due xDopoli potessero congiungere le loro forze, pren-
deva i suoi quartieri d'inverno a Pandosia nella valle del Crati.
Le pioggie invernali avevano fatto gonfiare i rigagnoli che sej)a-
ravano i vari accampamenti delle sue truppe, sicché venne fatto
agli indigeni di assalire e di opprimere separatamente i diversi
riparti epiroti. Cadde anche Alessandro nella ritirata, e gli alleati
lioterono soltanto riscattarne il corpo, che fu sepolto in Epiro (3).
(1) La battaglia di Trifano spetta, secondo i fasti, al 340 av. Cr. Va quindi
riferita al 334 circa (questa riduzione è data secondo la tabella del Holzapfei.
Rdm. Chronol. p. 106, v. I p. 16 n. 1). La battaglia di Posidonia non può esser
molto posteriore.
(2) Stiuiì. vi 280.
1,3) Livio (Vili 3, 6. 17, 9. 24) ricorda lo sbarco di Alessandro in Italia al 341
( 335), la battaglia di Posidonia nel 332 (= 328/7). la morte di Alessandro al
:;28 0 al 327, secondo il senso che si dà a eodem anno Vili 24, 1 (= 324 '3 o 323/2).
Che queste date siano contraddittorie tra loro e attinte a diverse fonti non è
SPEDIZIONI DI ARCHIDAMO E DI ALESSANDRO IL MOLOSSO 295
Cosi nel momento che si apriva tra Romani e Sanniti quella
guerra da cui doveva dipendere l'avvenire d'Italia, il particola-
rismo greco aveva fatto fallire una impresa clie avi'ebbe potuto
metter gli Italioti in grado d'intervenire efficacemente in una lotta
alle cui sorti era legata la loro. Ma non del tutto inutile rimase
l'opera di Alessandro: per qualclie anno cessò infatti il regresso
dell'ellenismo in Italia, anzi i Tarentini, alleati con gli Iapigi che
si erano reso ragione della conformità dei loro interessi con quelli
dei Grreci, lottarono efficacemente contro i Lucani a difesa di
Eraclea (1).
Ad occidente dello spartiacque tra il Tirreno e l'Adriatico,
dov'esso separa i bacini del Sangro e del Liri, i Sanniti si erano
avanzati a poco a poco in quella regione che dovette essere la
culla del popolo volsco, occupando Atina (2) nel bacino del Melpi,
Casino più a sud (3), probabilmente anche ad ovest Sora sul
Liri (4) ed Arpino a sinistra (5), Satrico a destra (6) di quel fiume;
ohi non veda; perchè Alessandro venne in Italia nel 336-333 e morì nell'in-
verno 331/0 (come si ricava da Aesch. c. Ctesiph. 242). Tra esse la sola da
non trascurarsi è la prima. Purtroppo non ci è dato sapere se il sincronismo
tra lo sbarco d'Alessandro e la fine della prima sannitica sia dovuto a fonte
greca. La cronica di Oxyrhynchos, che però per la precisione delle date lascia
alquanto a desiderare, nota alla ol. Ili, 3 (334/3): tòte KJal 'AXéSavbpJo; ó
MoXoffoòt; [eie; 'iTaXiav bijépri 3orieri(Jat[v to\c, èKet] "EXXrjOi. — Sulla sua morte
v. Idstin. Liv, 1. e. Strab. vi 256.
(1) Qui sembra da riferire Strab. VI 281 : irpòi; òè MeoaaTriout; (nominati per
equivoco in 'cambio dei Lucani) i-no\i\xr\aav Ttepl 'HpaKXeiaq Èxovxec; auvepYOÙc;
TÓv xe TUJv Aauviujv koI tòv tùiv TTeuKeTituv PaaiXéa. Cfr. il passo di Giustino
citato s. p. 293 n. 1 sul rex Apuìorum.
(2) Occupata dai Romani nel 313 secondo Liv. IX 28 (v. olti-e); faceva parte
del Sannio nel 293 (Liv. X 39, 5).
(3) Posseduta dai Sanniti secondo Varr. de l. l. VII 29.
(4) La presa di Sora nel 345 è una favola (sopra p. 266 n. 3). Essa non
cadde in mano dei Romani che nel 314 ijer essere tosto dopo riperduta e
ripresa.
(5) Nella tradizione Arpino passava come originariamente volsca, il che per-
mise agli ammiratori di Cicerone di dargli per progenitori i re volsci (Plut.
Cic. 1. SiL. It. Pun. Vili 404 etc). Ma nel 305 fu conquistata sui Sanniti
(DioD. XX 90. Liv. IX 44, 16).
(6) Fu occupata dai Romani durante la guerra latina. È possibile che i Sa-
tricani siano la pars Samnitium che secondo Velleio I 14 ricevette la cittadi-
nanza nel 334 (v. sopra p. 286 n. 2).
296 CAPO XIX - LA LOTTA TKA OSCHI E LATINI PER l'eGEMONIA
finalmente avevano distrutto la volsca Fregelle che dominava il
confluente del Liri e del Sacco (1). Ma ora aiiclie i Romani do-
vevano provvedere ad aprirsi lungo il corso del Sacco e del Liri
una \àa verso il paese degli Aui'unci e il salto Vescino, che assi-
cm"asse le comunicazioni con la Campania quando per qualsiasi
ragione non si potesse seguire la direzione della posteriore via
Appia, togliendo ad un tempo ai Sanniti la opportunità di penetrare
da quella parte nel Lazio. E cosi dopo esser riusciti già durante
la guerra latina con trattati o con minacele a far ijassare da quella
parte le legioni, negli anni seguenti incorporarono nel loro teri'i-
torio Satrico (2), strinsero alleanza coi Fabraterni (3), riedificarono
come colonia Fregelle (4), la eguale divenne insieme con Cales uno
degli estremi avamposti dello Stato romano.
(1) Liv. Vili 23, 6 : ceterum non posse dissimulare aegre pati civitatem Sani-
tiitium quod Fregellas ex Volscis captas diridasque ab se restitiierit Romanus
populus coloniamque in Samnitium agro im])Osuerint quam coloni eorum Fregellas
appellent. Dionys. XV 8, 5.
(2) Cfr. n. 6 a pag. prec. I Satricani defezionarono ai Sanniti dopo la rotta
di Gaudio (Liv. IX 12, 5 ad a. 320) e furono risottomessi poco dopo (IX 16
ad a. 319) e severamente puniti (XXVI 33, 10). Si conservava persino la rota-
zione del tribuno Antistio che dava al senato facoltà di determinare la loro
sorte. Questa città di Satrico, da non confondersi con la omonima presso
Anzio, sussisteva tuttora come villagio al tempo di Cicerone {ad Q. fr. Ili 1, 4).
V. NissEN Landesktinde II 674.
(3) Liv. VIII 19, 1 (a. 330): legati ex Volscis Fabraterni et Lucani Romani
venerimi orantes ut in fidem reciperentur. Che non possano essersi alleati a
Roma allora i Lucani d'oltre il Silaro è evidente. Al 326 è detto, ed anche
qui la cosa non merita in tutto fede : Lucani atque Apuli quibus gentìbus
nihil ad eam diem cuni Romano populo fuerat in fidem venerunt (VIII 25, 8).
Nel primo caso, meglio che prendere i Lucani per gli abitanti di una obli-
terata Luca nella valle del Liri, convien ritenere che si tratti di una di quelle
reduplicazioni a distanza di pochi anni di cui abbiamo veduto abbondare gli
esempì.
(4) Cfr. sopra n. 1. Liv. Vili 22, 1 ad a. 328: Fregellas (Segninorum ager,
deinde Volscorum fuerat) colonia deducta. La lezione Segninorum, che è proba-
bilmente una congettura antica, dacché il cod. mediceo ha S...normn, non
pare accettabile. Signia non ci è nota che come colonia latina ed è impossi-
bile che il suo territorio si sia esteso fin là. La congettura Sidicinorum difesa
dal Pais, che la prendo a torto per una lezione dei codici {l 2, 211), è da
respingersi; troppo arbitraria l'altra Hernicoruni. Pare evidente che debba
leggersi Soranorum. Cfr. Sxkimi. Byz. s. v. Op^YC^^a ' iróXii; 'iTaXiaq y\ tò juèv
f'tpxaiov f^v "OiTiKiùv, ?iTeiTa OùoXouokujv tyéveTO.
ASSEDIO DI NAPOLI 297
Stabilitisi saldamente sul Liri, i Romani divisarono di proce-
dere innanzi nella Campania, dove prima di tutto importava as-
sicui'arsi di Napoli, remporio del commercio greco nell'Italia cen-
trale. Pretesti per assalirla ai Romani non potevano mancare ; ma
clie i Napoletani, come asserisce la nostra tradizione, si arrischias-
sero a far depredazioni nell'agro campano, consci come dovevano
essere della propria debolezza, par molto difficile ad ammettersi.
Piuttosto è da credere che i Napoletani pensassero in quel mezzo
di prox^edere alla propria sicurezza stringendo alleanza coi San-
niti o rinnovandola se già l'avevano conclusa; perchè l'esempio
di Capua ridotta in pochi anni a comune dello Stato romano non
era tale da affidarli troppo dell'avvenire. Ma probabilmente questa
alleanza per l'ajDpunto provocò l'intervento dei Romani, che vi-
dero per essa riaperte le porte della Campania ai Sanniti e messi
in pericolo i loro acquisti recenti. Ad ogni modo nel 327 al
console Q. Pubblio Filone fu commesso l'assedio di Napoli. Di
quest'assedio rimangono, tra le consuete invenzioni o false indu-
zioni deir annalistica romana, alcuni particolari che hanno ogni
apparenza di veridicità, derivanti da fonti greche (1). Cosi non
è da revocare in dubbio che i vicini Nolani inviassero duemila
soldati in aiuto dei Napoletani (2), e che inoltre fossero stix)en-
diati dai (.Ireci quattromila mercenari sanniti: dove la stessa mo-
derazione delle cifre ne guarentisce l'autenticità. Ad ogni modo
l'ingegneria militare dei Romani non era tanto progredita da met-
terli in grado di battere efficacemente le mura d'una città forte
come Na^joli, che sconsigliarono anche Annibale da un assalto (3;.
L'assedio andava in lungo, e convenne prorogare il comando a
Pubblio Filone che l'aveva iniziato, per non danneggiare con un
cambiamento di capitano non tanto forse i progressi dell' azione
militare, quanto quelli delle trattative segrete da lui condotte coi
Greci ; e per la prima volta un console conservò il potere in qua-
(1) L'efficacia di fonti greche appare innegabile. E del resto conviene o
ammetter queste fonti o negare ogni fede alla esistenza di Carilao e di Ninfio,
ai 2000 Nolani e 4000 Sanniti venuti in aiuto, perchè di tutto ciò non si
poteva conservare alcuna memoria nei documenti romani. Stupisce che ciò
non abbia veduto p. es. Beloch Campanie» p. 32 seg.
(2j Le relazioni tra Napoli e Nola nel IV secolo sono confermate dalle mo-
nete, cfr. Sambon Monnaies de l'Italie I 176 seg.
(8) Liv. XXllI 1, 10: ab urbe oppiignanda Foenitin abaterrnere conspecta moenia
haudquaquam proiiipta oppiiynanti.
298 CAPO XIX - LA LOTTA TRA OSCHI E LATINI PER l'eGEMONIA
lità di proconsole oltre i [termini del suo anno di carica (1). Im-
l^adronirsi senza navi d'una città marittima è impresa non facile ;
onde non v'ha dubbio che i Napoletani a\a^ebbero potuto resistere
indefinitamente. Senonchè dopo un anno cominciarono a essere
stanchi. Forzare per terra le linee degli assedianti era impossi-
bile; e per quanto il blocco potesse essere imperfetto (Pubblio
Filone difficilmente avrà avuto a' suoi ordini più di una legione
romana con l'usuale contingente d'alleati ossia otto o nove mila
uomini), bastava però a chiudere ogni via al commercio di Napoli
coll'interno del paese. Rischiava cosi d'inaridire la fonte della ric-
chezza dei commercianti napoletani; né lieve era per essi frat-
tanto il xDeso della guerra, pur limitata alle sole difese: giacché
prescindendo dalla milizia cittadina, che non sarà restata inope-
rosa, conveniva stipendiare e nutrire a spese pubbliche gli alleati
nolani e i mercenari sanniti; né ridurre il i)residio era prudente:
perchè ammesso pm- che Nolani e' Sanniti si fossero. lasciati licen-
ziare senza difficoltà, si correva il pericolo di qualche spiacevole
sorpresa per parte del vigile nemico sempre pronto a profittare
della negligenza o della stanchezza dei difensori. Taranto, secondo
si narra, aveva fatto sperare soccorsi ai Napoletani (2) ; ma, se
anche é vero, i soccorsi tarentini sarebbero stati inutili. Qualche cen-
tinaio di soldati in più non poteva mettere i Napoletani in grado
di cimentarsi in [campo aperto con la legione di Pubblio; mentre
per tenersi sulla difensiva, il presidio che si trovava in Napoli si
era col fatto dimostrato sufficiente. Se xDur con l'aiuto di un paio di
triremi tarentine si poteva esercitar meglio la pii'ateria sulle coste
laziali, non era da sperarsi che mutassero perciò le sorti della
guerra. Del resto è molto dubbio se i Tarentini pensarono mai di
mandare a Napoli milizie o navi ausiliarie" che avrebbero avuto
tutto il tempo di spedire; perchè Napoli era solidale coi Sanniti
(1) Liv. Vili 23, 12. 26, 7, cfr. f. tr. ad a. 326. Pel P.us, il quale però non
dà alcuna ragione, la proroga àeWimperium ed il primo proconsolato di Pu-
blilio Filone ' rispecchiano condizioni storiche di età assai posteriore ' (I 2,
p. 490 seg.). Ora è certo che nel 280 il proconsolato già esisteva avendo in
quell'anno L. Emilio Barbula trionfato come proconsole de Tarentineia Sam-
nitibus et Sallentineis VI idiifi Qiiint. (Fasti trionfali; sulla attendibilità della
data V. oltre e. XXI). È quindi da ritenere che il proconsolato sia stato isti-
tuito appunto nella prima grande gueri-a che i Romani avevano avuto da so-
.stenere lungi da casa propria, ossia nella seconda sannitica.
(•2) DioNvs. XV 5, 2. Liv. Vili 25, 7.
ASSEDIO DI NAPOLI 299
mentre non era ancora venuto il momento che Sanniti e Tarentini,
dimentielii delle loro rivalità, si disponessero a stringersi insieme
contro Roma per la salvezza comnne, e gli accenni ad avversione
dei Tarentini contro Roma in questi anni non son forse che auto-
schediasmi di qualche annalista il quale anticipa la posteriore osti-
lità tra Roma e Taranto.
I Sanniti frattanto avevano preso le armi e non nascondevano
il loro proposito di recare aiuto ai Napoletani (1) ; ma una legione
romana accampata tra Atella e Suessula era sufficiente per chiu-
dere loro la via della Campania , dacché essi non s' inducevano
ad affrontare in campo aperto i Romani dopo le prove di Sues-
sula e del Graiu-o. Del resto una guerra dei Romani con una città
alleata dei Sanniti e da essi presidiata non implicava necessaria-
mente dal punto di vista giuridico una guerra tra Romani e San-
niti. Ma Ieraticamente imjDortava troppo ai Sanniti di conservarsi
Talleanza di ISTai^oli e ai Romani d'acquistarsela, perchè non si
venisse tra i due popoli a guerra i^alese, come di fatto accadde
Tainio seguente; tanto più che pretesti o motivi di guerra, anche
IDrescindendo da Napoli, non mancavano; e jdoco rileva di sapere
quale dei due popoli cominciasse per primo apertamente le osti-
lità. Certo non fm^ono i Sanniti, bensì i Romani che presero l'of-
fensiva, da Fregelle senza toccare probabilmente le due legioni
che stanziavano in Campania movendo con un'altra legione lungo
la posteriore via Latina. Qui assicurate con roccuj)azione di Rufre
le commiicazioni tra Fregelle e Teano, avanzando x^iù ad oriente
s'impadronii'ono di Allife, importante testa di ponte al di là del
medio Volturno (2).
(1) Liv. Vili 2-3, 13: L. Cornelio (cos. 327), quia ne eitm qttidem in Samnitun
iam ingression revocari ab impetx belli jìlacebat, litterae niissae etc. Poco dopo
in piena contraddizione (25, 2): novi deinde consules (,a. 326) iussu popidi cum
misissent qui indicerent Samnitfbus hellum. Vuol dire che gli annali dei pontefici
davano la notizia della dichiarazione di guerra al 326 : l'assenza di L. Cornelio
è stata indotta dal dictator creato comitiorum causa e dagli inierreges ; e l'in-
duzione e fondata, pur dovendosi accogliere con la riserva fatta nel testo.
(2) Liv. Vili 25, 4: tria oppida in potesfatein venerunt, Allifae Callifae Rufrium.
Rufrium o Rufrae va cercata presso la chiesa di S. Felice a Rufo (Presenzano)
al 103" miglio della via Latina (Nissen li 2, 797). Alife conserva tuttora il
nome d' Allifae. Callifae, il cui nome è forse corrotto, non è menzionata che qui.
Può sorgere il dubbio che questa presa di Allife sia una anticipazione di
quella che avvenne nel 310 (v. oltre p. 330 n. 1); ma forse a questo dubbio
non e da dar troppo peso.
300 CAPO XrX - LA LOTTA TRA OSCHI E LATINI PER L EGEMONIA
L'offensiva dei Romani sui confini del Saiinio determinò le
sorti di Napoli. I Sanniti avevano avuto tutto il tempo di speri-
mentare le loro forze contro l'esercito assediante; se non s'erano
arriscliiati a battaglia avevano con ciò stesso riconosciuto di tenersi
inferiori in campo ai Romani. In tali condizioni di cose i Greci
di Napoli avevano ragione di pensare clie un accordo con Roma
valeva meglio della continuazione indeiìnita di uno stato di guerra
rovinoso pei loro interessi commerciali; tanto più che la pace si
sarebbe potuta avere a buone condizioni, sapendo bene i Romani
che se a Napoli si faceva bene la guardia alle mui'a, essi non
avrebbero mai potuto prender la città con la forza. Forse alla
colonia osca di Napoli non andava a grado di venire a x^atti coi
Romani, ma questo alla maggioranza greca non importava gran
fatto; anzi può darsi benissimo che ai Greci di Napoli garbasse
di più l'egemonia di Roma che l'intervento dei vicini Nolani nelle
cose loro. E quando i due demarchi napoletani Carilao e Ninfio (1)
cominciarono a trattare segretamente con Pubblio Filone, sape-
vano di agire nell'interesse e secondo il desiderio dei loro concit-
tadini. Ma la difficoltà delle trattative stava nel presidio nolano
e nei mercenari sanniti, i quali non dovevano vedere di buon
occhio un accordo; e d'altra parte se si aprivano le porte agli
assedianti e si lasciava che occupassero una parte della città, sia
pure in via provvisoria, conveniva guarentirsi bene dal pericolo
(1) L'autenticità di questi nomi è provata dalle monete napoletane col nome
XapiXeuu {Sambon I nr. 469), sia che spettino al nostro o ad un altro Carilao, e
da nomi come quelli del generale napoletano Nuvi^ioq di Dionisio II, del Nu|uvj;ioc
ricordato nella iscrizione di Ischia, K aibei. IGS et I. 894 e dell'altro che è in
un titolo napoletano, Kaibel 726. Da Livio vengono chiamati principes civitatis.
Non può trattarsi però di privati, perchè se un tradimento privato avesse dato
Napoli in mano dei Romani, la città non avrebbe davvero ottenuto il vantato
foedtts. Si ti-atta dunque di magistrati militari. Ora appunto due magistrati
avevano in Napoli il comando dell'esercito come mostra la citata iscrizione
d'Ischia: rTÓKioq NumjJiou Mdio<; TTaKÙXXou fipEavxec; (ìvé6r|Kav tò toixìov kqì
ot OTpaTiuùxai. Ed è da ritenere che questi duoviri fossero precisamente i de-
marchi, che, come sappiamo, erano i supremi magistrati di Napoli. Le consi-
derazioni precedenti dimostrano che conviene del resto attenerci per la resa
di Napoli alla versione preterita da Livio, il quale ne conosce anche -un'altra
(26, 6): haiid ignavus opinionis alterins qua haec proditio ah SamnUibus facta
traditar, ciiin uuctoribus hoc dedi quibus dignius credi est, tiiin foedus Neapoli-
tuniim — co eniin deinde sninma rei Graecoruin venit — similius vero facit ipsos
in tiinicitiatn redisse.
NAPOLI E PALEPOLI 301
che, dimenticando i patti segreti, trattassero Napoli come paese di
conquista, Eran certo queste difficoltà assai gravi; ma la buona
volontà dei Romani e elei Greci, che vedevano troppo chiara la
convenienza d'un accordo, riusci a superarle. E, licenziati Nolani e
Sanniti e accolto promissoriamente un presidio romano, i Napole-
tani conclusero con Roma un trattato di pace assai favorevole che
assicui^ava loro la piena autonomia (1), l'integrità del territorio (2),
il diritto di batter moneta e di accogliere gli esuli romani (3), e
li obbligava soltanto a sovvenire in data misura i Romani di navi
da guerra (4), rimanendo essi liberi da tributo e da presidio (5).
A questo trattato, che senza imporre quasi alcun peso guarentiva
i Napoletani da ogni nemico indigeno e ria^Driva al loro com-
mercio l'interno d'Italia in quanto era posseduto dai Romani, i
Greci di Napoli rimasero fedeli per più di due secoli, e solo con
grande esitazione si risolvettero poi a scambiare con la cittadi-
nanza romana i diritti che esso guarentiva (6).
Agii annalisti romani del II secolo pareva impossibile che la
fedelissima Napoli (7) avesse osato nel 327. sfidare Roma. Ora nei
fasti trionfali era registrato il trionfo di Pubblio Filone come
riportato sui Sanniti e sui PaleojDolitani (8). Interpretando con quel
preconcetto questa frase s'immaginò che i Napoletani si fossero'
(1) Strab. V 246 : (persino dopo che i Napoletani ebbero la cittadinanza ro-
mana) irXtTaTa b' Txvr, Tfj; ' EXXr)viKf)(; àYuuYfj*; èvraOGa auLiSeTai, yuMvdoid re koì
èqpnPe^a Koì qppaxpiai koI òvó|uaTa 'EXXr|viKà Kaitrep òvtujv 'P(ju|uaiujv. Ciò è con-
fermato dalle iscrizioni.
(2) Si opinava senza nessun argomento che Ischia fosse stata tolta allora
dai Romani ai Napoletani; par da ritenere che non sia stata tolta se non da
Siila: Beloch Campanien' app. p. 447. Pais Per la storia di Napoli e d'Ischia
nell'età sillana negli ' Atti dell' Accad. di Arch. Leti, e B. Arti di Napoli ' XXI
(1900-1 p. 145 segg.) osserva con ragione che se Ischia fosse divenuta terri-
torio romano dal 326, nel 313 i Romani avrebbero fondato colà e non nel-
l'isola di Ponza la loro colonia marittima.
(3) POLYB. VI 14, 8.
(4) Cfr. PoLYB. I 20. Che dovessero anche aiuti per terra è possibile, ma
non certo. L'esistenza di un corpo di cavalleria a Napoli al tempo della guerra
annibalica (Liv. XXIII 1) non è prova sufficiente (contro Beloch Ital. Band
V 207).
(5) Fuori del caso che ne facessero richiesta, Liv. XXIII 15, 2.
(6) Cic. prò Balbo 8, 21.
(7j Vell. I 4: exiinia seinper in Romanos fide.
(8) De Samnitibus Palaeajmlitaneis, dove non vi ha alcuna difficoltà di sot-
tintendere et. Cfr. ad a. 295: de Samnitibus et Etrusceis Gallds; a. 259: de
302 CAPO XIX - LA LOTTA TRA OSCHI E LATINI PER L EGEMONIA
lasciati trascinare alla guerra con Roma dai Paleopolitani ; e che
costoro fossero gli abitanti di una città vicina a Napoli unita con
Napoli in uno Stato solo (1) ; d'invenzione in invenzione, secondo
l'uso degli annalisti romani, si giunse persino a parlare del campo
posto da Publilio tra 1' una e 1' altra città (2). Ma una città di
Palepoli vicina a Napoli e persino avente l'egemonia su Napoli,
non è mai esistita, come mostra l'assenza di storia e di monete e
più considerazioni topograficlie di piena evidenza ; non può infatti
collocarsi ne ad oriente di Napoli nella regione paludosa verso il
Sebeto, perchè qui non v'è posto affatto per un centro abitato, né
ad occidente dell'antica città verso il Castello dell'Uovo, perchè
mancherebbe in questo caso la posizione intermedia dominante che,
secondo Livio, aveva permesso a Publilio d'isolare le due città (3).
Né più accettabile è l'ipotesi moderna che, in piena contraddi-
zione col racconto liviano, che essa cerca in parte di salvare, im-
medesima Palepoli con Cuma. E vero che ai^iaunto in contrapposto
con l'antica Cuma, Napoli ebbe il suo nome di città nuova ; ma
Cuma non si cliiamò mai Palepoli, e per di più non era in questa
età una città greca unita a Napoli, si una città osca, che seguiva
le sorti di Capua e doveva aver ottenuto fin dal 334 insieme con
Capua (sopra p. 286) la cittadinanza romana senza suffragio. Onde
non dovrebbe esser dubbio, chi giudichi senza preconcetti, che la
frase dei fasti designi semplicemente la colonia osca e gli antichi
abitanti greci (ci irdXai iroXiTai) di Napoli (4).
Poeneis et Sardin(ia) Corsica. La interpretazione del Burger Der Knmpf etc.
p. 15 che ì Sanniti Paleopolitani fossero il presidio sannitico di Cuma sarebbe
da respingere quand'anche si ammettesse l'identità di Cuma con Palepoli.
(1) Di questa città di Palepoli (il nome è formato arbitrariamente da iróXai
TTcXÌTai; dovrebbe essere Paleapoli) parla soltanto Livio, tace Dionisio il quale
pur seguendo la stessa fonte sostituisce sempre a PalaepoUtani NeairoXiTai.
(2) Liv. Vili 23,3: iam Publilius inter Palaepolim Neapoìitnque loco opportune
capto diremerat hostibus societatem auxiliì mutui.
(3) Questo vale anche contro la ipotesi del De Petra, il benemerito editore
del libro postumo del Capasso Napoli greco-romana, secondo cui Palepoli sorgeva
.sul colle di S. Giovanni Maggiore. Egli si fonda specialmente sulle due linee
parallele di mura che correvano ad oriente e ad occidente della via di Mez-
zocannone, nelle quali egli riconosce le mura di due città vicine, ma indi-
pendenti. Questo è assai inverisimile; ed è ad ogni modo da tener presente
intorno a ciò l'ipotesi di A. Pirro Le origini di Napoli I (Salerno 1905) p. 28 segg.
che siano invece le lunghe mura che congiungevano Napoli alla sua marina.
(4) La maniera di risolvere il problema era stata additata dal Beloch Cam-
paniijii p. 60 segg. Il Mommsen ha osservato con ragione {CIL. X p. 170) che
I LUCANI E (ìli apuli 308
Allo stesso anno 326 sotto cui registra la presa di Napoli, la
nostra tradizione nota anche l'alleanza di Eoma coi Lucani e con
gli Apuli. L'alleanza coi Lucani, se anclie fu conclusa allora, do-
vette essere immediatamente rescissa, giacche tutto l'andamento
della seconda guerra sannitica presuppone che quel popolo fosse
in lega coi Sanniti, e che i Romani non potessero neppui'e pen-
sare a commiicare con l'Apulia lungo le coste del golfo di Salerno
e poi attraverso al paese dei Lucani, quale sarebbe stata la più
facile via di comunicazione se i Lucani non erano avversi a Roma.
Tanto ciò è chiaro che la tradizione stessa annalistica all'anno 336
narra che non solo fu conclusa, ma fu anche violata l'alleanza
romano-lucana. I Tarentini, si dice, seminarono la discordia tra i
contraenti per mezzo di alcuni nobili Lucani da loro comperati,
che presentandosi ai concittadini dopo essersi feriti con verghe,
dichiararono d'essere stati vergheggiati a quel modo e per poco
non decapitati con la scure dai Romani per essere penetrati nel
loro accampamento; onde esasperati i Lucani cambiarono l'al-
leanza romana con la sannitica dando persino ostaggi e ricevendo
nei luoglii muniti presidi sannitici. Ma tutto in questo racconto è
assai sosiDetto: sospetto oltre i particolari aneddotici (1) lo zelo
con cui i Tarentini favoriscono l'alleanza tra Lucani e Sanniti, i
due potenti e pericolosi loro vicini; anche più sospetta la facilità
con cui riescono a intervenire nelle deliberazioni lucane; due cose
che sembrano rispecchiare le condizioni di tempi ben più recenti ,
e quanto ai Lucani, dopo la loro alleanza coi Sanniti contro Ales-
sandro d'Epiro, non deve farci meraviglia di trovarli strettamente
uniti con la confederazione sannitica, mentre non si saprebbe dav-
la Paleapoli di Napoli non può essere stata che Cuma, pur ritenendo a torto
che i Paleopolitani dei fasti trionfali siano i Cumani residenti in Napoli,
quasiché dopo un secolo i fuggiaschi greci di Cuma stabilitisi in Napoli po-
tessero esser distinti dai loro coloni. Ma è inammissibile affatto la ipotesi del
BcEGER De bello cntn Sumnitibus secando p. 18 segg., accettata poi a torto dal
Beloch nelle appendici al suo libro p. 441 segg., che la Palepoli di Livio sia
Cuma e che con questa eflfettivamente abbiano fatto guerra i Romani. In tal
caso induce logicamente il Burger che dovrebbero considerarsi come inventati
i nomi di Carilao e Ninfio: ma appunto l'esser questi nomi fededegni è un
grave argomento contro la sua teoria. Ed è del pari grave argomento contro
la teoria di A. Pirro Le origini di Napoli li (Salerno 1906) che i Romani ab-
biano fatto guerra non a Napoli, ma solo ai Sanniti di Palepoli (Pizzofalcone).
(1) I quali ricordano in parte l'artifizio di Zopiro, in parte quello di Pisi-
strato. È probabilmente uno dei casi non troppo frequenti in cui gli annalisti
elaborarono su esemplari greci le loro invenzioni, cfr. I p. 28.
HO-i CAPO XIX - LA LOTTA TUA OSCIII E LATIXI PKR l'eGEMONIA
vero i^er qiial ragione, modificando a nn tratto il loro atteggia-
mento politico, avi'ebbero acceduto all'alleanza romana. E però la
.spiegazione più probabile di questo racconto è che si tratti di
invenzione di qualche annalista, il quale riportò anche al primo
anno della secoiida guerra sannitica l' alleanza che si strinse in
effetto coi Lucani al principio della terza (298), cercando di spie-
garsi con la defezione provocata dai Tarentini perchè in questa
guerra i più lontani Apuli e non i più vicini Lucani compaiano
tra gli alleati di Roma. Quanto poi alla congettiu'a moderna che
qui per Lucani debbano intendersi i Lucerini, mentre anch'essa è
in piena contraddizione col racconto liviano che cerca x^arzialmente
salvare, urta contro la difficoltà che come non si son mai chia-
mati Palepoliti i dimani, cosi non si è mai dato il nome di Lu-
cani ai Lucerini.
E invece assai facile s^jiegare il contegno diverso che tennero
rispetto a Roma i Lucani e gli Apuli. Grli Apuli, dopo avere a
limgo combattuto contro Taranto, eran diventati consapevoli della
solidarietà dei loro interessi coi Greci contro gli invasori oschi.
Ma ebbero pm- presto a convincersi che non bastava l'alleanza ta-
rentina per salvare il Tavoliere dall'espandersi degli Abruzzesi
che avevano bisogno di quella regione per condurre al pascolo dai
monti lungo i tratturi le loro greggie nella stagione invernale (1) ;
e perciò gli Arpani — che questi son gli Apuli di cui qui si tratta
— si rivolsero per aiuto efficace ai nemici dei Sanniti, i Roniani.
Rovine di poco conto segnano ora il luogo ove sorgeva, cinque
miglia a settentrione di Foggia, la potente città dei Danni (2).
Ma le sue ampie miu-a ne dimostravano ancora al tempo di Stra-
bene l'antica grandezza (3), e la dimostrano per noi le abbondanti
monete, le menzioni frequenti nella tradizione, il numero, sia pure
esagerato;, di 4000 fanti e 400 cavalli con cui si dice che gli Ar-
pani partecipassero alla vittoria romana di Ascoli di Apulia. La
difesa di questi lontani alleati con cui per il momento non era
neppiu" possibile di comunicare né x)er terra nò per mare, costò ai
Romani molto sangue; ma la loro alleanza con Roma determinò
l'esito della lotta tra Oschi e Latini pel primato d'Italia.
(1) Cato (le r. r. II 1, 16. 2, 9. Cfr. Nissen II 2, 839 segg. A. Gbenier La
trunshumance des troupeaux en Italie nei ' Mélanges cl'arch. et d'hist. ' XXV
(1905) p. 157 SQgg.
(2) Nissen Landeskunde II 2, 845 segg.
(3) VI 283: bùo iróXei, laéYUTai tiùv ' iTaXiiWTi&iJUv -feYOvuìai TTpórepov, ùx;
^K Tójv TrepipóXiuv bf|Xov, tó re KavOaiov koI i\ 'ApYupinTra.
I PRTin ANNI DELLA SECONDA SANNITICA 305
I Romani, con la tenacità clie distingue la loro politica, si pro-
posero immediatamente di stabilire con l'Apulia comunicazioni
regolari. Aprii'si la via attraverso il Sannio o attraverso la Lu-
cania parve pel momento, com' era, troppo pericoloso. Si cercò
dunque Talleanza delle piccole tribù sabelliclie indipendenti del-
l'Apennino centrale, per poi potere lungo l'Adriatico raggiungere
la Puglia. I Marsi, i Peligni e i Marrucini accettarono volentieri
l'amicizia romana, che li guarentiva dai prepotenti vicini, i quali
non avrebbero desiderato che d'incorporarli nella loro lega. Però,
distanti dai Sanniti e non alieni dal contare sul costoro aiuto contro
le tre piccole e bellicose tribù che li separavano dal Sannio, i
Vestini non videro di buon occhio l'intervento romano in quelle
regioni. Ma bastò una campagna (325) perchè si ritraessero dalla
lotta (1), sia che facessero pace coi Romani, sia che si persuades-
sero soltanto esser troppo pericoloso avventurarsi a molestare le
tribù vicine dopo che si erano alleate con Roma. Questo era suc-
ceduto ai Romani d' ottenere con una legione, che col resto delle
forze che mettevano annualmente in campo, cioè un'altra legione,
dovevano tenere a bada i Sanniti e proteggere la Campania. Anche
negli anni seguenti questa stessa dovette essere la distribuzione
delle forze romane : e ciò spiega perchè di prosi)eri successi dei
Romani contro i Sanniti in questi anni non si abbia nessuna .notizia
fededegna.
Invece molte notizie ci vengono date su vittorie che sono o
dubbie o palesemente fantastiche. Si narra cosi con molti parti-
colari assai generici una vittoria riportata dal maestro dei cava-
lieri Q. Fabio RuUiano* presso la ignota Imbrinio in assenza del
dittatore L. Papirio Cursore e disobbedendo a' suoi ordini, poi
un'altra vittoria guadagnata dallo stesso dittatore (324), dopo la
quale i Sanniti si sarebbero dichiarati pronti alla pace, senza però
accordarsi intorno alle condizioni. La battaglia vinta dal maestro
dei cavalieri Fabio, che alcuni scrittori raddoppiavano ed altri
tacevano del tutto (2), è più che sospetta; quella del dittatore po-
ti) Liv. Vili 29. I Vestini non sono più ricordati fino al 303, quando con-
clusero un foedus con Roma, v. oltre.
(2) Liv. Vili 30, 7 : auctores haheo bis cum hoste signa coniata dictatore absente,
bis rem egregie gestain; apud antiquissimos scriptores una haec pugna invenitur:
in quibusdam annalibus tota res praetermissa est. Ciò non gl'impedisce di fare
un larghissimo racconto di questi avvenimenti, e. 30-36, cfr. Cass. Uio fr. 36,
1-7. ZoN. VÌI 26. Val. Max. II 7, 8. IH 2, 9. Frontin. strat. IV 1, 89. Ahct.
de vir. illustrib. 31.
G. De Saxctis, Storia (lei Romani, II. 20
306 CAPO XIX - LA LOTTA TRA OSCHI E LATINI PER l'eGEMGNIA
Irebbe essere stata inventata per contrapporla all'altra (Ij ; e fu
forse la occupazione di qualche villaggio presso AUife die diede
origine a tutte queste favole. Singolare è poi che i Sanniti si risol-
vessero alla pace col loro territorio sostanzialmente intatto, quasi
appena cominciata la guerra, e non si vede inoltre come potrebbe
essersi conservata la notizia di questa pace desiderata e non con-
clusa. Ne più fededegna è la tregua di un anno (2), subito violata
del resto, non per intrinseca incredibilità, ma per la poca atten-
dibilità delle fonti: può darsi che qualche annalista abbia voluto
spiegare a questo modo il silenzio della tradizione su imprese
contro i Sanniti nel 323, che altri spiegava con le consuete deva-
stazioni di territorio compiute senza che il nemico avesse il co-
raggio di mostrarsi. Si narra ancora di una sconfìtta dei Sanniti
nell'anno seguente (322), sconfìtta di cui non ci vien detto il luogo
e che non si sapeva se dovuta ad un dittatore o ai consoli (3),
dopo la quale i Sanniti si piegano a chiedere pace e a soddisfare
i Romani per la violazione - del trattato che aveva posto termine
alla prima sannitica. I Romani non accettano la offerta soddisfa-
zione e rifiutano il corpo di Bruttilo Papio , il consigliere della
guerra, che per non essere consegnato vivo al nemico si era dato
la morte. Essi vogliono piena sottomissione dai Sanniti (4) ; e però
la guerra riarde; ma ora i Sanniti, espiato il loro fedifrago pro-
cedere, avranno per sé gli dèi. Senonchè tutto questo racconto pare
inventato semplicemente allo scopo di spiegare la rotta caudina
come giusta punizione degli dèi per la tracotanza dei Romani
vincitori.
La tradizione sorvola invece su altri prosperi successi riportati
(1) Sebbene il trionfo del dittatore de Samnitibus sia ricordato anche nei
f. trionfali.
(2) Liv. Vili 37. ZoN. VII 26: TTaireipioq i^ixTriaaq aùxoìx; lìvÓYKaaev èuì
ouvenKai<; au^Pnvai al^ èKeìvot; èPoùXero • àTroGeiaévou bè ti'iv r^Ye^oviav aìixoù
ènavéOTrioav auSK;.
(8) Liv. Vili 38, 16 dopo aver narrato la vittoria e il trionfo del dittatore
A. Cornelio Arvina : hoc bellum a consulibus bellatum quidam aiictores simt eosque
de Samnitibus triumphasse : Fabiiim etiam in Apuliam processisse atque inde
magnas praedas egisse. I fasti trionfali registrano la vittoria di L. Fulvio Curvo
de Samnitibus e di Q. Fabio Rulliano de Samnitibus et Apuleis. Il trionfo di
Fulvio è ricordato anche da Plinio , ma diversamente, v. sopra p. 244 n. 3.
Anche I'Auctok de vir. illustrib. 32 menziona il trionfo di Q. Fabio de Apulis
et Nucerinis (Lucerinis).
(4) Liv. Vili 39. Cass. Dio Ir. 36, 8. Zon. VII 26. App. Samn. 4, 1-2.
I PRIMI ANNI DELLA SECONDA SANNITICA 307
effettivamente in questi anni dai Romani; perchè non v'ha dubbio
che essi, pervenuti in Puglia mediante accordi coi Frentani, diedero
la mano a quelli di Arpi e si afforzarono in Lnceria (1). Ma è facile
riconoscere per qual ragione si accenni appena a questi successi
che fvu'ono per la più parte annullati dal disastro di Gaudio. La
tradizione, di solito cosi parolaia, è a questo proposito tanto concisa
che non riusciamo neppure a determinare se Lucerla fosse fin d'al-
lora ridotta a colonia o soltanto occupata temporaneamente dai
Homani.
Ad ogni modo, benché non fosse poco quel che s'era ottenuto,
non s'era ancora iniziata l'azione risolutiva; né era possibile, perché
la legione che si inviava annualmente in Camj)ania e quella che
si spediva verso l'Apulia non erano in grado di combattere sepa-
ratamente battaglie di grande momento. Ed ormai da cinque anni
si pugnava, né x3rocedendo innanzi a questo modo poteva preve-
dersi quando la guerra avrebbe avuto termine. Il popolo, che aveva
visto in pochi anni chiudersi la prima sannitica e la guerra latma,
cominciava a pensare che era tempo di por fine alla lotta con una
offensiva vigorosa. IsTessuno pensava allora, s'intende, alla con-
quista del Sannio, ma si voleva soltanto obbligare i Sanniti a ri-
conoscere l'occupazione romana di Fregelle e di Lucerla e le nuove
alleanze concluse da Roma in questi anni.
Probabilmente col programma d'una vigorosa offensiva nel
Sannio, presentarono la loro candidatura ai comizi Sp. Postumio
Albino e T. Veturio Calvino. Consoli insieme già un' altra volta
nel 334, Postumio e Vetuiio avevano preso essi appunto, sembra,
l'ardita determinazione di fermar per sempre le relazioni di Capua
con lo Stato romano, dando ai Capuani la cittadinanza senza suf-
fragio. Ora il popolo che li elesse pel 321 attendeva che rompendola
(1) V. i testi cit. sopra n. 7 e App. 4, 1 : lauvìrm è; ti^v <t>p€.je\\av(ì)v è,u3a-
XóvTe<; èiTÓp9r|aav, 'PiJU|uaìoi he lauviTÙJv koì Aauviuuv ÒYboriKovTO Kiij,ua<; koì |uiav
«iXov Kttl òioinupiou^ àveXóvrec; ànavéarriaav aÙTOÙi; ànò (JJpeféXXric;. Livio nel
suo racconto della clades Caudina e delle sue conseguenze presuppone l'ami-
cizia coi Frentani e le altre popolazioni dell' Apennino, v. specialmente IX 2, 6.
13, 6. La colonia di Lucerla sembra presupposta dalle condizioni della pace
caudina quali sono da lui accennate : si agro Samnitium decederetur, coloniae
abducerentiir. Anche Velleio I 14, se però non v'fe nel suo testo errore di cifre,
come non e improbabile (v. oltre p. 327 n. 3), riferisce la fondazione di Lu-
cerla al 32.5. La critica che delle lotte dei Romani nell' Apennino e in Puglia
prima della battaglia di Gaudio fa il Bukoer De bello etc. p. 17 segg. sembra
del tutto infondata.
308 CAPO XTX - LA LOTTA TRA OSCHI E LATINI PER L EGEMONIA
non meno pienamente e arditamente coi metodi di guerra fino allora
seguiti, uniti i due eserciti consolari, come non si era mai più fatto
da quando Manlio e Decio avevano affrontato Campani e Latini
a Trifano, finissero di colpo la guerra. Di fatto Postumio e Ve-
tm'io si proposero di aprii^si la via direttamente attraverso il Sannio
alla volta di Luceria e d'Arpi. I Sanniti, i quali non avevano voluto
venire a battaglia regolare in Campania, sarebbero stati costretti
a combattere se volevano chiudere la strada alle legioni romane ; e
se senza combattimento le lasciavano passare avrebbero dimostrato
all'evidenza dinanzi a tutti gli alleati la superiorità delle armi ro-
mane. Eisolvendosi a combattere, certamente i Sanniti avevano la
scelta del campo di battaglia; ma questo vantaggio era compen-
sato dair armamento e dalla disciplina dei soldati romani ; né della
superiorità numerica dei nemici conveniva darsi troppo pensiero,
perchè non si era mai riunito in campo fino allora un esercito ro-
mano maggiore di questo. Erano due legioni coi loro contingenti
d'alleati, con le forze effettive in \àsta dell'offensiva che voleva
prendersi pari oppur superiori a quelle segnate nei quadri, ossia non
meno di diciotto mila uomini (1). E la partenza fu senza dubbio
salutata dai Romani con la più viva speranza di \'ittoria. Quel
che duci valenti seppero compire con due legioni romane mostra
che la speranza non era infondata. Soltanto penetrare nel Sannio
e avanzarsi nel cuore del paese nemico rinunciando a qualsiasi
comunicazione con la base d'operazione era impresa non facile,
che richiedeva pari ardire e prudenza. Roma allora non mancava
di capitani sperimentati e che avevan tenuto a lungo il comando
in presenza del nemico, innanzi tutto Q. Publilio Filone e L. Pa-
pirio Cursore ; ma appunto la prudenza e cautela di questi due fece
che si mettessero da un canto per l'azione risolutiva, scegliendo
due uomini ardimentosi, che però non avevano mai comandato in
faccia al nemico.
(1) Livio suppone evidentemente che si trattasse eli quattro legioni, la forza
normale, in età posteriore, di due eserciti consolari riuniti. Anche il falsario
che fabbricò il documento della sponsio era dello stesso avviso poiché credette
necessario d'inventare i nomi dei quattro legati legiomim (App. Samn. 6: qui
sta del resto la prova piìa sicura che questo documento è falso; perchè il co-
mando unitario della legione, che non esiste a tempo della seconda punica,
non è anteriore al II secolo, v. Mommskn Staafsrecht II ^ 700 seg.). Tuttavia
il racconto della battaglia presuppone che le legioni fossero due sole; e la
storia della seconda guerra sannitica è inesplicabile se non si suppone che
solo dal 311 i Romani cominciassero a levare annualmente quattro legioni.
IL DISASTRO DI GAUDIO 309
Dopo essersi fermato a Calazia, Tesercito romano si avanzò
verso Benevento lungo la posteriore via Appia. A partire dal sesto
miglio da Calazia la via segue da Arienzo ad Arpaia uno stretto
passo lungo tre miglia circa, sormontato da alture die si elevano da
cinquecento a settecento metri sulla strada. Questo passo, presso
il quale il villaggio di Forcliia ricorda tuttora il nome delle Forche
Caudine, sbocca nella valle ove all'estremità opx30sta accanto al-
Todierna Montesarchio era anticamente Gaudio. La valle di Gaudio,
lunga da nord a sud da sette ad otto miglia e larga da oriente
ad occidente nella direzione dell' Appia circa cinque, lia due altre
uscite, prescindendo da un sentiero montuoso che da Cervara -css^
conduce nella valle del Sabato : l'una ad est, x^er cui la via Appia
da Gaudio si dirige verso Benevento attraverso il colle di Sferra-
cavallo ; l'altra a settentrione, che si chiama comunemente dal
nome del villaggio di Molano o da quello di Airola, bagnata dal
torrente Isolerò, affluente del Volturno (1). L'esercito romano con
le munizioni e coi viveri in nna colonna che non sarà stata lunga
m.eno di dieci o dodici chilometri s'incamminò pel x^asso d'Arjìaia
verso la valle Gaudina. Ma quando la testa della lunga colonna,
traversata la valle, giunse a Sferracavallo, trovò chiusa la via dal
nemico che aveva occupato e fortificato con trincee improvvisate
le x)osizioni dominanti il xjassaggio. Onde. le legioni si attendarono
(1) Daxiele Le Forche Caudine illustrate (Napoli 1811) ha sostenuto per primo
che la resa dei Romani sia avvenuta nella gola tra Arienzo ed Arpaia. È
strano che una tale opinione sia seguita da alcuni anche oggi, mentre si do-
vrebbe pur sapere che un esercito di 18 mila uomini (o peggio uno di 36.000)
occupa ben piìi di tre miglia sfilando lungo una sola via. Infatti ora un corpo
di truppe di 30 mila uomini, senza il treno, prende se non può marciare in co-
lonne parallele, non meno di 20 km. Prescindendo dall'artiglieria, ma tenendo
conto delle provvigioni e munizioni necessarie per una campagna in paese
nemico , possiamo ritenere che le due legioni abbisognassero di un minimum
di 12 km. Questo mostra che l'esercito romano si trovò chiuso nella valle
caudina, tra Arienzo e Montesarchio. Che i Romani, i quali non avevano
conquistato Saticula e probabilmente neppure Caiazia, sieno peneti-ati nella
valle dalla parte di Calazia ossia seguendo la posteriore via Appia do-
vremmo inferirlo quand'anche non fosse tramandato. Cadono perciò le vaghe
considerazioni critiche del Pais 1 2 p. 509 n. 2. È del resto da respingere per
le ragioni dette anche la ipotesi del Cluverio It. antiqua p. 1196 che le Forche
Caudine vadano cercate tra S. Agata e Moiano , alla quale ha troppo conce-
duto il NissE.N nella sua del resto eccellente memoria Der caudinische Friede
' Rh. Mus. ' XXV (1870) p. 1 segg.
310 CAPO XIX - LA LOTTA TRA OSCHI E LATINI PER l'eGEMONIA
nella valle di Gaudio, cercando invano di aprirsi un varco ^'ers(>
Benevento. E per colmo di sventura, allorcliè i consoli, riuscito
inutile ogni tentativo di procedere oltre, visti scemare i viveri, si
sentirono costretti a retrocedere riconoscendo fallito il loro piano,
trovarono che il passo d'Arpaia, per cui erano entrati nella valle
Caudina, era stato frattanto occupato e fortificato dal nemico , il
quale aveva asserragliato anche la terza uscita della valle, quella
che lungo l'Isclero conduce verso Saticula. I Sanniti avevano il
vantaggio della posizione e della conoscenza esatta dei luoghi e
probabilmente anche quello del numero, iDerchè quelle bellicose
popolazioni, non sempre disposte ad arrischiarsi a battaglia nella
pianura, si saran raccolte senza esitare alla difesa dei propri monti.
Essi però si trovarono nella necessità di dividere le loro truppe,
per custodire i tre passi, in tre corpi tra cui non era possibile ne
unità di direzione, ne simultaneità d'azione, a prescindere dai di-
staccamenti minori che dovevano occupare qua e là le altui-e cir-
costanti ; e cosi, pur essendo più numerosi, x3otevano a ciascuno
dei passi venire assaliti con grande superiorità di forze dai Ro-
mani, i quali neir ampia valle di Gaudio non erano in condizioni
così disx)erate come li rappresenta la tradizione, poiché potevano
entro gli accampamenti riposare sicuri e riordinarsi prima di tentare
novaniente Toffensiva. Ma l'esercito romano stanco e rinvilito dagli
ass"alti vani alle trincee /li SfeiTacavallo, mancante di viveri, sfidu-
ciato ne' suoi due comandanti, si trovava dinanzi a difficoltà che
sarebbero state gravi jjer un esercito fresco ed intatto, che appa-
rivano, nelle condizioni in cui esso era ridotto, insuperabili. Non
saranno mancati certo tentativi per forzare i due passi come s'era
cercato di superare quello di Sferracavallo : milizie agguerrite e
use a vincere come le romane sanno persino talvolta rimediare in
parte agli errori dei propri generali. Ma i Sanniti animati dai primi
successi, infiammati dalla speranza di vendicare tutti i torti ricevuti
e terminare in un tratto la guerra, mantennero tenacemente le loro
posizioni. E con ciò venne meno ogni possibilità di salute per
l'esercito romano, talché, consumati oimai i viveri, esaurita ogni
energia delle truppe, convenne ai consoli di rassegnarsi airinevi-
tabile, e capitolare. I Sanniti vittoriosi non intendevano per altro
di concedere ai Romani vita e libertà se essi non fermavano col
Sannio un trattato di pace, pur appagandosi di condizioni che,
commisurate all' importanza della vittoria che poneva alla loro
mercè due interi eserciti consolari , erano miti. Lasciando infatti
ai Romani i loro possedimenti nella Campania e non ingerendosi
nelle relazioni tra Roma e Napoli, essi domandavano semplice-
IL DISASTRO DI GAUDIO 311
mente clie i Romani abbandonassero loro le piazze forti di Fre-
gelle e di Luceria troppo pericolose \}er l'indipendenza sannitica.
Quanto alle legioni romane, la condizione che i Sanniti posero al
loro rilascio, quella cioè di passare sotto il giogo e di conse-
gnare la armi, potè sembrare ignominiosa agli annalisti, che vi-
vevano quando Roma aveva il dominio del mondo conosciuto, e
ai soldati stessi che capitolavano, avvezzi a condurre incatenati
i nemici nelle pomxje trionfali e a vederli scannare ai piedi del
Campidoglio, ma non era, tenuto conto del barbaro diritto di
guerra d'allora, né inusitata né dura.
11 disastro caudino non poteva non imprimersi profondamente
nella memoria dei Romani, al pari di quelli del Cremerà e del-
TAUia. La concordia con cui dalle fonti vien riferito al 321, la
facilità con cui può inquadrarsi tra gli avvenimenti di quegli anni
mostra che ogni dubbio sulla sua realtà storica, come sulla sua
cronologia, sarebbe infondato ; e fortunatamente i dati che abbiamo
sul luogo della battaglia e sulle condizioni e le forze dei bellige-
ranti sono tali che di quell'avvenimento è possibile farci una co-
gnizione sufficientemente chiara. I racconti degli annalisti peraltro
non sono che una caricatui-a della storia : per giustificare l'eser-
cito romano non solo esagerano l'insipienza dei consoli, non solo
rappresentano contro ogni verosimiglianza le milizie che tentano
avanzarsi nel cuore del paese nemico come sfornite di prov\àgioni,
ma, che è più, la valle di Caudio e i passi che vi conducono ven-
gono dipinti contro la verità topografica come fossero le selvaggie
spaccatm-e dei valichi alx^ini e le posizioni dei Sanniti come fos-
sero imprendibili e persino inattaccabili, mentre invece le vie che
menano nella valle Caudina son tutte tali che, quando non erano
difese con armi da fuoco, si poteva assai bene tentar di forzarle
con la speranza di lieto se non facile successo (1).
(1) Che i Romani fossero stati battuti dai Sanniti prima d'essere costretti
alla resa non era al tutto^dimenticato dalla tradizione. Già Livio stesso IX 1 1,
parla d'una cludes Caudina, poi Cic. Cat. mai. 12, 41 di un Caudinum proelium e
altrove, de off. Ili 30, 109, dice cum male pitgnatum upiid Caudium esset. Ap-
piano Samn. 4, 2 usa la frase : 'f\T:r\(ìr\aav Otto lauviTÙJv koI ùttò Iv^òv r\xQr\aav
ci PiwMaloi; ed infine è detto anche più chiaramente nella cronica d'Oxyihjn-
chos (ad a. 320/19) ['Pcwiuatoi] òè 7TapaTaEd|U6[voi toT^ Zau]v€ÌTai(; i^TTt'ijGricTavj
Cfr. Cass. Dio fr. 36, 9-14 e Zon. VII 26. Il primo ad intuire la verità è stato,
come spesso, il Nieiìuhk III 247 segg. e, come spesso, i suoi epigoni si sono
accostati alla verità meno di lui. Anche l'argomento ch'egli ha ricavato dal
documento della sponsio in cui secondo Api-. Samn. 4, 6 comparivano X'^ìcPXoi
312 CAPO XIX - LA LOTTA TRA OSCHI E LATINI PER l'eGEMONIA
E una caricatura, se è possibile, peggiore è il racconto che segue
alla pace di Gaudio. I vinti, tornati appena in città, si rifugiano
ciascuno nelle proprie case, compresi i consoli die non vogliono
più esercitare il loro ufficio. Nominati i nuovi consoli ed entrati
in carica lo stesso giorno della designazione, si discute subito in
èenato intorno alla pace conclusa in Gaudio. Su proposta dello stesso
Postumio si stabilisce clie tutti coloro che hanno pattuito l'accordo
coi Sanniti siano ad essi consegnati e che il trattato stesso si con-
sideri come irrito e nullo. Postumio, nell'atto di esser rimesso ai
Sanniti, percuote il feziale che lo consegna, e dice che i Romani
faranno una guerra tanto più giusta in quanto un Sannita come egli
ora è ha insultato il loro feziale. Ma il duce sannita Ponzio ricusa
di ricevere i Romani consegnatigli, e, deridendo la indegna com-
media da essi rappresentata e accusando i Romani di spergim'o,
dice che o debbono sancire il trattato gim-ato dai consoli, o deb-
bono rimettere l' esercito nella condizione stessa in cui erano
quando si giurò l'accordo. E la guerra vien ripresa da una parto
e dall'altra con più accanimento di prima.
Nel 137 av. Gr. un esercito romano di 20 mila uomini che
operava in Spagna contro i Numantini agii ordini del console
G. Ostilio Mancino fu circondato dal nemico. Il console capitolò
consegnando armi e bagagli, e giurando insieme con altri ufficiali
superiori, tra cui il questore Tib. Sempronio Gracco, un trattato
di pace tra Roma e Numanzia. Gassato questo dal senato nel 136,
si stabili di consegnare il console Mancino nelle mani dei Nu-
mantini; furono invece, con poco riguardo alla logica, risparmiati
gli ufficiali che avevano al pari di lui gim'ato i patti, e ciò per
salvare il (juestore Gracco, che godeva assai favore presso il popolo
e che non molto dopo si presentò pel 133 candidato al tribunato
della plebe. Ostilio fu pertanto consegnato ai Numantini, che rifiu-
tarono sdegnosamente di riceverlo.
Non può esservi dubbio per chi conosca la natura della nostra
tradizione sulle guerre sannitiche e l'impossibilità che si conser-
vassero notizie fededegne sui particolari di quei fatti, che gli an-
nalisti ricopiassero, riportandole al 321, quelle discussioni e quelle
deliberazioni che avvennero realmente nel 136. K ciò chiarisce per-
bibbcKa, aù^Travrec; 6ffoi laexà toù; bierpGapuevou; t^pxov, ò probante, nel senso,
s'intende, che il falsario di quel documento (v. sopra p. 308 n. 1) suppose die la
metà dei 24 tribuni militari che accompagnavano normalmente quattro legioni
fossero periti combattendo.
LA PACE CAUDINA 313
sino un particolare altrimenti incomprensibile. Tra quelli die ave-
vano giurato i patti coi Sanniti erano, si narra, due tribuni della
plebe, i quali, non molto disposti a lasciarsi riconsegnare al ne-
mico, mettevano innanzi la scusa della loro sacrosanta potestà.
Ma il contegno di Postumio e del senato li persuase a rinunciare
alla loro opposizione e a dimettersi dal tribunato per poter essere
senza scrupolo dati in mano ai Sanniti. Ora si va incontro
a grandi difficoltà sia amméttendo che tribuni della plebe in ca-
rica avessero seguito Tesercito, sia supponendo die si trattasse di
tribuni designati, die fossero entrati in carica solo dopo il loro
ritorno in Roma. Infatti da una x^arte i tribuni della plebe non
potevano allontanarsi x^iù d'un miglio oltre i limiti del pomerio ;
dall'altra assumevano il loro ufficio il dieci dicembre e le deci-
sioni in senato non potendo essere state che di poco jiosteriori
al disastro, converrebbe riferir questo all'ottobre o novembre e
supporre uno spostamento assai singolare dei mesi romani in con-
fronto con le stagioni. Una spiegazione semplicissima di questa
notizia è invece die un annalista abbia voluto col racconto della
consegna dei tribuni della plebe die avevano giurato il trattato
di Gaudio vituperare gli amici di Tiberio Grracco die, sebbene egli
non fosse ancora designato, ma solo preconizzato tribuno, avevano
voluto ad ogni costo salvarlo, impedendone la consegna ari Nu-
mantini e accrescendo cosi linfamia che il popolo romano si ac-
quistava con la violazione del trattato giurato da Ostilio e da' suoi
ufficiali (1).
Agli annalisti non pareva possibile che Roma si fosse rasse-
gnata a sopportare sia pure per breve tempo l'onta della pace
Caudina ; e supposero che quel trattato venisse immediatamente
rescisso, come fiu-ono annullati al tempo loro quelli conclusi con
Numanzia da Q. Pompeio e da G. Ostilio Mancino. In realtà essi
fecero grave torto ai loro avi del IV secolo paragonandoli ai Ro-
mani della metà del II che, nella coscienza dell'invincibilità delle
loro legioni, si credevano lecita ogni cosa; e maggior torto ai
bravi contadini proprietari del Lazio, che costituivano il nerbo
degli eserciti romani nell'età delle guerre sannitiche, paragonan-
doli alle torme sfrenate dell'esercito di Mancino e supponendo che
al pari di queste fossero pronti ad arrendersi senza colpo ferire.
Le due legioni consolari erano rimaste indubitatamente nei com-
battimenti che precedettero la resa, scompigliate e decimate, talché
(1) Su tutto ciò V. NissEN mem. cit.
s
314 CAPO XIX - LA LOTTA TltA osrUI V. LATINI PER l'eGEMOBIA
per ricominciare con profitto la guerra conveniva ricostituire l'eser-
cito, né ciò si poteva fare senza un breve periodo di raccoglimento.
Iniziando subito le ostilità, si rischiava invece di andare incontro
a perdite anche maggiori di quelle sofferte e soprattutto di met-
tere in pericolo il dominio romano in Campania. E così l'interesse
e l'onore fecero del pari che la pace coi Sanniti fosse realmente
osservata per qualche tempo ; di che la prova sta in ciò, che le due
terre di cui i Sanniti avevano pattuito nel trattato la consegna, Lu-
ceria e Fregelle, furono da essi realmente occupate (1). È vero che
secondo la nostra tradizione Fregelle fu concpiistata per sorpresa
di notte ; ma impadi^onirsi per sorpresa di una colonia latina
posta a guardia del confine non doveva essere facile allora come
non fu mai ne prima né dopo ; onde par chiaro che gii annalisti,
i quali tenevano il trattato come nullo, dovettero inventare per
debito di coerenza la sorpresa, a fine di spiegare come Fregelle
fosse occupata dai Sanniti senza che i Romani si movessero a di-
fenderla.
Di questo periodo di pace i Romani profittarono per modifi-
care alquanto la tattica e T armamento dell'esercito adottando
in parte quegli ordini che vedevano far buona prova presso il
nemico. Ciò che costituiva la forza degli eserciti romani era la
coesione ; e a questa essi dovevano le i^recedenti vittorie sui San-
niti ; ma se la coesione sola bastava combattendo in campo aperto
nella pianura laziale o nella campana, il disastro di Caudio pro-
vava che non era sufficiente tra i monti del Sannio, dove i mobili
(h^appelli nemici avevano il vantaggio sulle pesanti colonne ro-
mane. Bisognava, senza perdere la coesione, accrescere la mobi-
lità della fanteria, e ciò si raggiunse creando, entro l'unità tattica
della legione, unità tattiche minori, i manipoli. Cosi i Romani pre-
pararono la vittoria definitiva ; perché i Sanniti si trovarono dopo
ciò inferiori anche tra i loro monti ai Romani; egli Etruschi, che
non avevano avuto occasione di mutare gii ordinamenti delle loro
falangi, vennero d'allora in poi facilmente superati dalle legioni
romane, che serbavano l'unità della falange, pur essendo assai x)iù
mobili e più abili a cimentarsi su qualsiasi terreno. Con la trasfor-
mazione della tattica si accompagnò la modificazione delle armi,
che furono anch'esse imitate dal nemico (sopra p. 207); cioè alla
lancia si sostituì il pilo, che si scagliava a una certa distanza
(1) Questo fu acutamente osservato dal Niebuhu 111 p. 259, il quale però non
ha tratto dalle sue osservazioni le conseguenze lot?iche.
RIFORME MILITARI 315
sul nemico, cercando di scompigliarne le file, e la spada per com-
battere a corpo a corpo ; mentre, per protegger meglio la p)ersona
dagli avversari non più tenuti a distanza dalla lancia, diveniva di
uso generale, in luogo del piccolo scudo di bronzo di cui era armata
la prima classe, l'ampio scudo di cuoio gicà usato dalla classe se-
conda e dalla terza. Altro effetto di queste riforme, sebbene
non immediato, fu l'accrescimento delle milizie cliiamate sotto le
armi, perchè la mobilità dei manipoli faceva si che non tutta la
fanteria di grave armatura potesse contemporaneamente aver
|ìarte alla battaglia, sia pure soltanto con lo sx)ingere innanzi le
prime file, ma una porzione servisse soltanto come riserva : e ciò
permise senza dubbio ai Romani più d'una volta di ristabilire le
sorti incerte d'una battaglia : ma li costrinse anche a nuovi sacri-
fizi, affinchè il diminuii'e delle milizie cui era in effetto affidato
il primo urto col nemico non ne scemasse 1' efficacia. Con la ri-
forma della fanteria si accompagnò quella della cavalleria (sopra
p. 208), che se non tolse al tutto , attenuò almeno l'inferiorità in
cui si trovavano rispetto a quest' arma i Romani a confronto dei
Campani e dei Sanniti.
Le invenzioni tendenziose degli annalisti si accumulano nella
pseudostoria dell' anno seguente (1). I due consoli di quell' anno.
Q. Pubblio Filone e L. Papmo Cm'sore, i due migliori capitani
che Roma allora avesse, costituiscono, a quel che si naiTa, con
gli stessi soldati che avevano capitolato a Caudio nuove legioni.
Papirio muove verso la Puglia, Pubblio verso il Sannio per tra-
versarlo lirendendo la rivincita del disastro di Caudio ; ma questa
volta non c"è bisogno per penetrare nel Sannio di superare spa-
ventosi burroni asserragliati dal nemico. Il console entra senza
difficoltà tra i monti, sconfigge con la metà dell'esercito che ave-
vano i comandanti di Caudio le legioni sannitiche stesse vittoriose
de" suoi predecessori e, traversato il paese nemico, si congiunge
felicemente con Papuio che assediava Ijuceria, ove i Sanniti te-
nevano gli ostaggi romani ricevuti a Caudio. Qui sul di-amma si
innesta la comm.edia. Si fanno innanzi ambasciatori tarentini ad
intimare a Romani e Sanniti di deporre le armi. Papuio, che si
era riservato di rispondere tra qualche tempo, mette in ordine di
combattimento le trui)pe e, chiamati a ludibrio i Tarentini, dà il
segnale della battaglia. Mentre i Sanniti protestano di non voler
uscire a battersi per riguardo agli ordini di Taranto a cui intendono
(1) Liv. IX 12-1.5.
316 CAPO XIX - LA LOTTA TRA OSCHI E LATINI PER l'eGEMONIA
obbedire, i Romani assalgono il loro accampamento e riportano
nna splendida vittoria, dopo la quale Publilio riceve in dedizione
i popoli dell' Apulia, e Papii*io, rimasto con l'esercito dinanzi a Lu-
cerla, costringe i Sanniti a capitolare. I Romani con la città ricu-
perano le armi, le insegne, gli ostaggi rimessi al nemico a Gaudio
e mandano sotto il giogo sette mila Sanniti, tra cui il vincitore di
Gaudio, Ponzio figlio di Erennio.
Il silenzio dei fasti trionfali su queste vittorie del 320 è gra-
vissimo argomento contro la loro realtà storica; ma più la situa-
zione militare degli anni seguenti che è al tutto incomprensibile
doi30 vittorie romane di tanta importanza. E assurdo che ad un
solo esercito consolare nel 320 venisse fatto a beli' agio con le
truppe disanimate dal disastro caudino ciò cui non erano perve-
nuti i due eserciti consolari riuniti. Fa poi d'uopo appena accen-
nare alle altre evidenti falsificazioni del racconto tradizionale :
incomprensibile è per esempio come i Sanniti tenessero in Lu-
cerla, una terra occupata da poco fuori del loro paese, gli ostaggi
romani, e incomprensibile come riconoscessero l'alto dominio ta-
re ntino dopo una vittoria come quella di Gaudio, essi che erano
tanto gelosi della loro indipendenza e avevano cosi aspramente
combattuto fino allora contro gl'Italioti. Par chiaro che gli anna-
listi del II secolo credettero indisj)ensabile per l'onore delle armi
romane di far seguire immediatamente alla sconfitta quella rivin-
cita che ebbe luogo solo più tardi e in maniera assai diversa. E
come è impossibile andar d' accordo quando s' inventa , e' era chi
ascriveva il vanto di questa rivincita ai consoli, chi l'attribuiva a
L. Gornelio dittatore con L. Papiiio Gursore maestro della caval-
leria (1), chi la narrava invece all'anno dopo (2) ; e non tutti s'ac-
cordavano nei)pure nella favola del duce sannita Ponzio costretto
(1) Liv. IX 15: ceterion id minus miror obscurum esse de hostium duce dedito
missoque (cfr. Djonys. XVI 1, 4): id magis mirabile est ainbigi Luciusne Cor-
nelius dictator cutn L. Papirio Cursore magistro equituin eas res ad Caudiiim
atque inde Luceriam gesserit ultorque unicus Romanae ignominiae... triumphaverit
an consuluin Painrique praecipuum id decus sit.
(2) Così la cronica di Oxyrhynchos al 318/7 (dopo aver registrato al 320 19
il disastro di Gaudio, v. sopra p. 311 n. 1): Ttju)uaìoi iTapaTa2[aMe]voi IauveÌTOi<;
èvi[Kriaav] xaì Toùq aix|Lia\djT[ouq Tidv]iac, aÙTÓùv èv rr) TTp^orép?] MÓX'l àTieXaPov.
La stessa versione era probabilmente quella della fonte prima dei f. trion-
fali, che registrano al 319 il trionfo di L. Papirio Cursore de Samnitihus ; ma
si cercava di combinarla con la prima vittoria di L. Papirio nel 320, cfr. Liv.
IX 16, 11.
INVENZIONI ANNALISTICHE 317
a passare sotto il giogo. Eliminata questa pretesa rivincita del 320
o 319, può sorgere persino il dubbio se, come le storielle imprese
vittoriose di Publilio e Papirio del 315 furono parzialmente rico-
piate nei racconti fantastici intorno al 320, cosi anclie il loro con-
solato del 320 non sia che una reduplicazione di quello del 314.
Ma se l'ultimo punto è più clie incerto (I p. 12), par certo invece
che ostilità aperte tra Romani e Sanniti in questi due anni non
vi fossero. I Romani non fecero alcun tentativo per ricuperare la
l'occa di Fregelle presidiata dai Sanniti (1), e non ripresero in realtà
che assai più tardi Lucerla, la quale fino al 315 o 14 rimase in mano
dei loro avversari. Solo fatto degno di fede riferito per questi
anni è il ricupero di Satrico (319), città vicina a Fregelle, che,
pur essendo municix)io romano, aveva defezionato poco prima (2).
Può Sarsi che i Sanniti soccorressero apertamente o di sotto-
mano i Satricani ; ma non tennero limito il procedere dei Romani
verso Satrico come una violazione del trattato di pace. E cosi
pure senza rompere il trattato caudino i Romani cercarono nova-
vamente d'aprirsi la via dell'Apulia attraverso l'Appennino e lungo
l'Adriatico, dacché non vi potevano pervenire per mezzo il Sannio.
A tal uopo ebbero a combattere coi Frentani, che anch'essi dopo
Gaudio avevano rotto il loro trattato d' alleanza con Roma (3) ;
ma visto ora che i Romani non si rimovevano per la sconfitta dai
disegni di ]3rima, tornarono senza troppa difficoltà all'alleanza: di
che si ha la prova altresì nell'esser novamente libei^a ai Romani
non nel 320, ma nel 318, la via dell'Apulia.
Non è facile piuttosto spiegare linazione apparente dei San-
niti né com'essi lasciassero mano libera ai Romani verso le Puglie.
Ma la ragione deve probabilmente cercarsene nelle relazioni tra i
Sanniti e gli Italioti, che erano molto diverse da quel che non
si pensasse l'annalista a cui si deve la commedia dell'intervento
tarentino a Lucerla. Perocché le lotte tra Grreci ed Italici erano
continuate con accanimento anche dopo la morte di Alessandro
d'Epù'O ; e in particolare solo all'intervento siracusano doveva la
sua salvezza Crotone assediata dai Bruzì (330 circa) (4). Ma questo
(1) Dioij. XIX 101. Liv. IX 28, 3. Livio in questo luogo rappresenta la rocca
di Fregelle come occupata dai Sanniti poco prima d'esser ripresa dai Romani ;
ma non è certo dopo le sconfitte del 314 che ai Sanniti succedette d'occupare
Fregelle.
(2) Liv. IX 12, 20. 16. Cfr. sopra p. 296 n. 2.
(8) Liv. IX 16, 1.
(4) DioD. XIX 3.
318 CAPO XIX - LA LOTTA TRA OSCHl E LATINI l'ER l'eGEMONIA
intervento aveva inasx)rito altresì le discordie intestine e costretto
i democratici crotoniati a prender la via dell'esilio; poiché in Si-
racusa allora spadroneggiava una oligarchia al cui predominio
avevano preparato il terreno le riforme costituzionali introdotte
da Timoleonte. E i fuorusciti democratici, collegatisi forse coi Bruzi,
guidati da un esule siracusano, Agatocle che xjoi fti signore di Si-
racusa, dopo un vano tentativo d'impadronii'si della rocca di Cro-
tone, avevano soccorso efficacemente i Regini assaliti dall'oligai-
eliia skacusana. Frattanto la morte d' Alessandi^o Magno (323),
come fece rialzare la testa alla demagogia nella penisola greca,
così non fu senza gravi effetti, quasi per ripercussione, nell'Occi-
dente ellenico (1). Ciò spiega come gli oligarchici di Siracusa per-
dessero il potere ed a Crotone tornassero gii esuli democratici,
mentre i Crotoniati che si sentivano più esposti a rappresaglie
Xjer le loro relazioni con l'oligarchia siracusana abbandonavano la
città (2). Ed ora prima cura dei democratici fu la pace coi Bruzi,
mentre i fuorusciti soccorsi dai Tmini cercavano di riconquistare
la patria con le armi in mano e poi, essendo stati respinti, si ac-
campavano ai confini dei Bruzi, dove perirono tutti combattendo.
Qual parte avessero in queste lotte, di cui abbiamo notizie sì
frammentarie, i Lucani e i loro alleati sanniti non ci è traman-
dato ; ma è chiaro che essi non potevano in alcun modo trascu-
rarle ; e forse per questo, forse perchè, soddisfatti di quel che ave-
vano ottenuto, non volevano dar pretesto ai Romani di riprendere
la guerra, i Sanniti non si occuparono di chiudere ai Romani la
via delle Puglie.
E così per due anni ancora (318-317) non vi furono ostilità tra
Romani e Sanniti (3). Il silenzio della tradizione indusse persino
gii annalisti che non avevano voluto credere alla pace caudina
ad ammettere una tregua biennale che i Sanniti avrebbero otte-
(1) Cfr. le mie osservazioni nella ' Riv. di Fil. ' XXIIl (1895) p. 292.
(2) Ciò è da ricavare da Diod. XIX 10.
(3) Col 318 (che egli ragguaglia all'anno attico 317/6) comincia Diodoko la
sua storia delle guerre sannitiche con queste parole: Karà òè Tf]v 'IroXiav
'Puj|uialoi. |Lièv èvvoTov éroq i\br] òieiroXénouv upòc; Zauvira^ (ossia dal 327, non
computato l'anno dittatoriale 324), Kal Karà |nèv toùc; liairpoaGev xpóvouq }xe.-
fà\ai<; òuvóiueffiv i^aav biriYujvianévoi, TÓte bè et<; tì)v iroXeiuiav eìaPoXàq tioioO-
(ievoi )U€Ya (ièv oùbèv oùbè uvi'uli»-); àiiov bieirpdiEavTo, bieréXcuv bè toIc, qppoup(oi<;
irpoopoXàq Troioù|a€voi koì tì\v x^P^'^ XerjXaToOvTeq, ènópOriaav bè Tf)q 'ATTouXiac;
Tr^v Aauviav iróiaav icai TTpoaataYÓiaevoi Kavuoioue; ó|uripou^ -rrap' aÙTuùv èXa^ov.
Per l'anno seguente Diodoro tace di nuovo.
SANNITI ED ITALIOTI i319
liuto con le suppliche più umili, singolare umiltà, mentre occu-
pavano, come la tradizione stessa riconosce, la rocca di Fregelle,
e, come non è meno sicui'O per quanto non sia riconosciuto espli-
citamente dalla tradizione, Lucerla. Ad ogni modo i Romani pro-
fittarono dell'inazione dei Sanniti per raffermare la propria autorità
nella Daunia costringendo a far alleanza con Roma anclie le due
città osche di Canusio (318) e di Teano (317) (1). Ed ormai conso-
lidatisi nell'Apulia, messo nuovamente in assetto l'esercito, presi
i provvedimenti che parvero loro più opportuni per assicurarsi
della vacillante fedeltà dei Campani, si trovarono preparati alla
gueiTa.
Non sappiamo quale dei due popoli fosse il primo a ricomin-
ciare le ostilità dox30 quattro o cinque anni di tregua, né se queste
avessero principio nel 316 o nel 315. Nel 316 infatti non si ha no-
tizia fededegna che dell'alleanza contratta dai Sanniti coi Nuce-
rini in Campania e al tempo stesso degli ulteriori progressi dei
Romani dalla parte della Apulia, ove occuparono al confine lucano
Forento a poca distanza da Venosa e più oltre una ignota terra
. lucana detta Nerulo (2), e solo pel 315 sappiamo con sicui'ezza che
(1) Liv. IX '20, 4 (ad a. 318): et ex Apulia Teanenses Canusinique populatio-
nibus fessi obsidibus L. Plautio consuli datis in deditionem venerimi; ed al 317
(20, 7-8), non accorgendosi di parlare degli stessi Teanensi: Teates quoque Ap idi
ad novos consides foedus petitmn venerunt impetravere ut foedus daretur
neque ut aequo tamen foedere sed ut in ditione populi Romani essent. Il silenzio
di DioDORO al 318 rende preferibile la seconda data.
(2) DiOD. XIX 65, 7 : 'PuujLiaìoi |uèv òia-nroXefioOvTec; Zoiuvitok; <t>ep6VTriv iróXiv
Tfjq 'AirouXiac; kotò Kpaioc; eiXov, oi òè rY]v NouKepiav ty]v 'AXoparépvav koXou-
luévriv oÌKoOvrec; TTeicreévTeq ùttó tivujv tì]c, jnèv ' Puj|uaiujv qpiXiac; àtréaTriaav, irpòt;
bè Toùq Za|uvÌTa<; 0U|U|uaxiav èTroiviaavTo. Che per gli annalisti la lega dei Nu-
cerini coi Sanniti fosse una defezione da Roma s'intende ; ma ciò appar molto
dubbio dacché l'influenza romana in Campania non sembra si estendesse oltre
Napoli. Livio racconta la presa di Forento all'anno precedente (IX 20, 9), in
quest'anno invece l'assedio di Saticula e di Plistica (e. 21), di cui torna a par-
lare all'anno seguente (e. 22) sotto il quale ne fa unicamente menzione Diodoro
(XIX 72). Pare che qui Livio o la sua fonte abbia contaminato due scrittori
la cui cronologia di questi fatti differiva di un anno; è il caso stesso del
trattato con Teano ripetuto da Livio due volte al 318 e al 317 (sopra n. 1).
Convien quindi riportare, attenendoci alla cronologia di Diodoro, al 316
l'occupazione di Forento e quella che con essa sembra connettersi di Nerulo
(sebbene non narrata che da Livio e soltanto al 317, IX 20, 9: Apulia perdo-
mita.,.. in Lucanos perrectum, inde repentino adventu Aeinili consulis Nerulum
vi captuin); al 315 l'assedio di Saticula e di Plistica.
320 CAPO XIX - LA LOTTA TUA OSCHI E LATINE PER l'eG EMONIA
.si combattè tra Sanniti e Romani. I Romani s'erano scelti a consoli
due dei loro capitani più esperti, L. Papii'io Cursore e Q. Publilio
Filone; e questi avevano adottato lo stesso piano di guerra che
s'era tenuto prima del disastro caudino: siccliè mentre l'uno con
una legione operava nell'Apulia, l'altro con un'altra legione pro-
teggeva la Campania. Ma da questa parte i Romani non si con-
tentarono più di stare sulle difese, bensì presero prudentemente
l'offensiva, e risalendo il Volturno fino al confluente dell' Isclero
e seguendo poi questo torrente posero l'assedio a Saticula, risoluti
d'impadronirsi d'una delle chiavi della valle Caudina. L'esercito
assediante s'era questa volta trincerato fortemente, e col concorso
dei Capuani aveva assicurato le retrovie ; quindi al nemico non venne
fatto di costringere i Romani a toglier l'assedio. Ma il successo
di Gaudio aveva imbaldanzito i Sanniti; e però essi con un'ardi-
tezza di mosse di cui avevan dato pochi esempi, non solo presero
frattanto d'assalto nna terra presidiata dai Romani di nome Pli-
stia o Plistica, di cui ci è ignota la posizione, ma scendendo
improvvisamente forse da Venafro pel basso Liri nel paese degli
Am-unci, dopo averli indotti a ribellione, per la via costiera si di-
filarono verso Terracina. Cosi da una parte la legione che cam-
peggiava a Saticula si trovò tagliate le comunicazioni con Roma
perchè dalla rocca fregellana i Sanniti dominavano la via La-
tina, ed ora anche la strada costiera era chiusa dalla insm:re-
zione degli Aurunci, dall'altra l'esercito che operava nell'Apulia
non era più in tempo per x3roteggere Terracina e Roma. Per-
tanto i Romani si avvisarono che fosse necessario uno sforzo su-
premo per imxjedire che la ribellione si propagasse nel loro terri-
torio. Chiamate alle armi le riserve, fu nominato dittatore uno
dei più arditi capitani che avesse allora Roma, Q. Fabio Rulliano,
il quale si scelse a maestro dei cavalieri un bravo ufficiale che
due volte era stato console, Q. Aulio Cerretano. Col loro esercito
improvvisato i Romani marciarono fin oltre Terracina e cercarono
di chiudere ai Sanniti, tra il monte e il lago di Fondi, le Termo-
pile dell' Italia media ossia il passo di Lautule (1). Qui avvenne
un'accanita battaglia in cui le truppe raccogliticce dei Romani non
resistettero all'imi^eto dei Sanniti, e il maestro dei cavalieri cadde
combattendo (2). Mentre in conseguenza della vittoria i Sanniti po-
(1) NissEN LandesJcunde II 642.
(2) Un'altra versione nota a Livio (IX 22) riferiva la morte di Aulio ad un
combattimento presso Saticula, in cai i Romani avevano finito col riportare
Vittoria; ma questa versione è poco degna di fede, v. oltre p. 324.
BATTAGLIA DI LAUTULE 321
iievano rassedio a Terracina, si ribellava Capua, la seconda città
dello Stato romano. La battaglia di Lautule segnò il culmine dei
prosperi .successi riportati dai Sanniti nella loro seconda guerra
contro Roma, come la battaglia di Canne segnò quello dei suc-
cessi cartaginesi nella seconda punica. Ma v'era tra l'esercito san-
nita e il cartaginese una differenza che spiega come i Romani
tardarono tanti anni a xjrender la rivincita di Canne, mentre poco
andò che riuscirono ad avere quella di Lautule. I Cartaginesi
d'Annibale finché il fiore delle loro schiere non peri combat-
tendo, rimasero superiori in campo aperto ai Romani; i Sanniti
furono in campo aperto sempre inferiori, tantoché non osarono
cimentarsi in generale se non quando avevan per sé il vantaggio
della posizione e del numero o, come a Lautule, quando potevano
opporre le loro truppe più agguerrite alle truppe romane di se-
conda linea. Quindi quanto felici nella difensiva, altrettanto fui-ono
in generale inabili a prendere una ardita offensiva nonostante il
vantaggio che dava loro la posizione del Sannio al confronto delle
sottili linee romane che s'estendevano da Capua a Roma e da
Roma a Luceria.
Dopo la battaglia di Lautule, come dopo quelle d'Eraclea e di
Canne, si manifestò la meravigliosa forza di coesione dello Stato
romano. Sollevazioni avvennero, ma tra le città meno favorite,
che non possedevano i pieni diritti di cittadinanza romana. Rima-
sero invece senza eccezione fedeli le colonie latine, le città latine
cui erano stati conceduti i pieni diritti di cittadinanza e le città
volsche in cui Roma aveva saputo ridurre all'impotenza la popo-
lazione indigena pre^Darandone efficacemente la latinizzazione. Non
poteva esser dimostrata in modo più chiaro l'opportunità del trat-
tamento usato verso i vinti della guerra latina. Che se Roma
avesse allora abusato della vittoria assoggettandoli a prestazioni
d'uomini e di danari senza alcun contraccambio, il disastro di
Caudio e la rotta di Lautule sarebbero stati fatali per l'egemonia
romana, come per Atene il disastro di Sicilia e la rotta d'Egospo-
tami. Ora, intanto che i Sanniti benché vittoriosi non osavano
avanzarsi in pieno paese nemico, i Romani, richiamate dall' Apulia
le loro forze migliori, si preparavano all'offensiva; e sulla pri-
mavera dell'anno seguente un esercito forte di due legioni agli
ordini del console (J. Sulpicio Longo si avanzò verso Terracina (1).
(Ij Livio (IX 27) e Diodoko (XIX 76) attribuiscono la vittoria ad ambedue i
consoli, ma i fasti trionfali al 314 registrano solo il nome di C. Sulpicio Longo.
Quanto ai precedenti della battaglia, il racconto liviano appar poco soddisfa-
G-, De Sanctis, Storia dei Romani, II. 21
322 CAPO XIX - LA LOTTA TEA OSCHl E LATINI PER l'e&EMONIA
I Sanniti non avevano clie a retrocedere o ad accettare battaglia
campale contro le milizie romane; e sebbene non si trovassero più
dinanzi le truppe raccogliticce con cui li aveva assaliti Q. Fabio
Rulliano, dovettero commettersi a battaglia per proteggere i nuovi
alleati am'unci e campani e per mantenere le posizioni conqui-
state con tanta fatica e tanto sangue. E il combattimento terminò,
com'era da prevedere, con la piena disfatta dei Sanniti, di cui
diecimila (1), stando ad una notizia clie non sembra esagerata,
rimasero sul campo. I Romani seppero vigorosamente giovarsi
della vittoria ottenuta e del suo effetto morale. Grii Aurunci fu-
rono tosto assaliti e trattati con terribile severità (2), espugnata
Sora sull'alto Liri e Lucerla nella Apulia (3), e mentre Sulpicio
compiva la sottomissione degli Am-unci e l'altro console Petelio
entrava in Lucerla, un tèrzo esercito romano, agli ordini del dit-
cente (v. oltre). Molto migliore è quello di Diodoro : Ia|LiviTai jaèv luerà ttoXX5i<;
òuvciiLieijui; éitrioav TTOp6o0vTe(; tOùv Kax' 'IroXiav tróXeiuv òaai ToTq èvavxioK; ouvr|-
yuuviZovTO, oì ò' uTTaxci tlDv 'Puj|uaiijuv luerà axpaTOTréòou irapaYevÓMevoi Trapo-
PorjGelv èireipuJvxo xotc; KivbuveOouai xujv au|u|adxuuv, àvxeoxpaxoirgbeùaavxo bè
xoìc TroXeuioii; rrfpì Kiwav ttóXiv koì xaùxrjv |uèv eùQù<; èppùaavxo xiijv éiTiKei|jévujv
q)ó(5a)v KxX. Questa città di Cinna era a una certa distanza da Capua secondo
Diodoro, perche Tf); |U(ixn<^ (iiYvoou|uévr|^ èxi Ka|HTTavoi |nèv Kaxacppovrioavxec; xujv
'Puj|uaiujv àiréoTriaav (su questa in verisimile disposizione dei fatti v. oltre), nei
Campani campi ossia nelle vicinanze immediate di Capua secondo Livio. Ora
sembra impossibile che i Sanniti non abbiano mantenuto la posizione di Lautule
dopo averla conquistata e che non abbiano profittato della vittoria per avan-
zarsi alquanto nel paese volsco. Onde assai probabile pare che Kivva (un cod.
ha Kiva) si abbia da correggere con Burger 'Mnemosyne' n. s. XVI (1888)
p. 82 seg. in (Tappa)Kiva e che Terracina sia la città minacciata dai Sanniti
e liberata dai Romani.
(1) DioD. 1. e. Livio invece parla di 30 mila morti.
(2) Deleta Ausonum gens, Liv. IX 25, 9.
(3) L'occupazione di Lucerla è riferita da Liv. IX 26 con maggiore verisi-
miglianza al 314, da Diodoro XIX 72, 8 già al 315. Nell'Apulia non potè tro-
varsi che il console Petelio, dacché il collega trionfò per la vittoria di Ter-
racina. Secondo Livio Sora fu pure occupata quell'anno (IX 24); e probabilmente
egli è nel vero, sebbene i fasti trionfali registrino al 312 il trionfo di M. Va-
lerio de Samnitibus Soraneiftque. Le falsificazioni di Valerio Anziate hanno reso
giustamente troppo sospetti i trionfi dei Valeri perchè noi possiamo in questo
caso preferire a cuor leggero l'autorità dei fasti trionfali. In ogni modo la
tradizione che Sulpioio nel 314 s'impadronì di Sora è assai antica, come mostra
la sua reduplicazione a proposito del console Sulpioio del 345 (v. sopra p. 266
n. 3). Secondo Livio del resto (IX 23, 2) Sora si era ribellata ai Romani
l'anno precedente; il che è molto incerto, la occupazione romana del 345
BATTAGLIA DI TERRACINA 323
tatore C. Meiiio, si accampava dinanzi alla ribelle Capua. Capua
era in grado di resistere a lungo ; ma lo sgomento per la rotta dei
Sanniti a Terracina e per la sorte toccata agli Aurunci fece rial-
zare la testa al partito aristocratico, die anche nella guerra latina
era riuscito, abbandonando a tempo la causa dei Latini, ad otte-
nere per Capua patti discreti. Ora la condizione delle cose era
analoga : i Campani resistendo fino agli estremi si sarebbero esposti
a sacrifizi gravissimi, forse non ritraendone altro die di perire con
la loro città; dal canto loro i B/Omani, imponendo condizioni troppo
gravose, avrebbero indotto i Campani a disperata resistenza e resa
ancor più asxira e formidabile quella guerra coi Sanniti di cui ave-
vano già sperimentato la gravità e forse anche ne avrebbero
messo a pericolo la vittoria finale. Inoltre i legami che pel diritto
di commercio e di connubio s'erano stretti tra Romani e Campani
e in particolare tra Taristocrazia delle due città, facevano inclinare
gli animi a miti consigli. E però Capua si padfìcò con Roma tor-
nando, come ci è detto esplicitamente, nelle condizioni di prima;
s'intende che i consiglieri della ribellione furono messi a morte in
quanto non prevennero essi stessi il giudizio col suicidio (1).
Sono queste le linee generali degli avvenimenti del 315 e 314:
come possono tracciarsi sui pochi dati fededegni sparsi nei racconti
tradizionali, i quali mostrano che, mentre probabilmente per mezzo
degli annali dei pontefici s'era conservata la nuda notizia de' fatti
principali, s"era però perduto di vista il nesso tra quei fatti e la
fantasia poco regolata degh annalisti aveva faticato invano a ri-
cercarlo. Cosi uno scrittore collega la battaglia di Lautule con la
guerra in Puglia e mostra di ritenere, con grave errore geografico,
che colà appunto vada ricercata Lautule (2); un altro la collega
essendo probabilmente una favola, v. sopra p. 295 n. 4. Ed è da notare che
i particolari dati da Livio sul trattamento fatto ai ribelli Sorani (IX 24, 14-15)
son riferiti da Diodoro a proposito della presa di Fregelle all'anno seguente
(XIX 101, 3).
(1) DioD. XIX 76, 5: toÙ(; yàp aitiouq Tiìq Tapaxn^ èSéòtUKav, o'ì T[poTeQeior\<i
KpiOiax; où TrepijueivavTcq t^v d-rrócpaoiv aÙTOÌx; dveUov . ai bè TTÓXeiq xuxoOaai
auYY\/u»|Liris eie; Tf]v TipouTTcipxouaav au|u,uaxiav ànoKaTéarriaav, dove la parola
auiajaaxia va presa cum grano salis. In Livio come è oscurato il racconto della
ribellione capuana, così quello della repressione, che si trasforma in una ter-
ribile inchiesta contro tutti coloro qui usquain cuissent coniurassentque adversus
rem publicam, alla quale non si sottrae né il dittatore Menio ne lo stesso
Publilio Filone.
(2) DioD. XIX 72.
o24 CAPO XIX - LA LOTTA TRA OSCHI E LATINI PER l'eGEMOMA
invece con la defezione di Sora e colloca, almeno implicitamente,
Lautule nelle vicinanze di quella città, mettendosi in contrasto al
pari dell'altro con la geografìa (1). E la vittoria dei Romani a Ter-
racina, che permise ad essi di sottomettere novamente Aurunci e
Campani, viene da uno scrittore narrata dopo domate le ribellioni,
ossia quando i Sanniti, se non erano scesi in campo per difendere
i loro alleati, non avevano alcun motivo più di cimentarsi a bat-
taglia fuori del proprio paese; da un altro scrittore jorima clie la
ribellione fosse non pure domata, ma anche solo iniziata, con la
notizia iDOchissimo verisimile che i Campani si ribellarono dopo la
battaglia e prima di averne conosciuto Tesito (2). Inoltre i prosperi
successi dei Romani furono al solito esagerati fino al ridicolo dalla
boria patriottica degli annalisti più tardi. Non parliamo dei dieci-
mila Sanniti caduti a Terracina che in una fonte meno degna di
fede divengono trentamila; ma vi ha di peggio: laddove i più
antichi annalisti menzionavano una sola vittoria presso Saticula (3),
uno storico più recente ne ricorda due (4), mentre il silenzio dei
fasti trionfali fa dubitare anche dell' unica vittoria ricordata dai
primi. Cosi pure dopo la rotta di Lautule gli annalisti più recenti
credettero indispensabile per l'onore della patria d'inserii-e una vit-
toria del dittatore Fabio Rulliano, che fu inventata di pianta, come
mostra il silenzio eloquente delle fonti migliori (5).
S'iniziò ad ogni modo, sotto buoni ansimici, la campagna del
31Ì3; nella quale i Romani si proposero soprattutto di riaprire le
comunicazioni con la Campania per la via del Liri, dacché ave-
vano visto la gravità del pericolo che sovrastcìva se, comunicando
con quella regione per la sola vìa, costiera, questa veniva momen-
taneamente chiusa dal nemico. L'esito della campagna fu felice:
si ricuperò Fregelle (6), si indussero ad accordi Aquino e Casino^
(1) Sopra I p. 34. Liv. IX 23: So?ri ad Samnites defecerat quo cum prior
Eoinanus exercitus pervenisset et sparsi per tiias speculatores sequi legiones
Sainnitium nec iam procul abesse alii super alios nuntiarent ohtHum itum hosti
atque ad Lautulas ancipiti proelio dimicatum est.
(2) Liv. IX 27. DioD. XIX 76.
(3j DioD. XIX 72, 4.
(4) Liv. IX 21.22.
(5) Liv. IX 23.
(6) DioD. XIX 101, 3. Liv. IX 28, il quale parla di un immaginario assedio
di Boviano sospeso perchè Fregelle era caduta in mano dei nemici. In realtà
in mano dei Sanniti Fregelle doveva essere fin dalla pace di Gaudio.
RIVINCITA ROMANA 325
cui si tolse una parte del territorio (1), e più a nord Atina; e fu
espugnata ad ovest del campo Stellate Caiazia. Assicurato da
questa parte il confine, si potè prendere l'offensiva in Campania,
costringendo a venii-e a patti ed accettare l'alleanza romana Nola,
<3lie era dal 327 in armi contro Roma, il cui esempio fu seguito
probabilmente da Abella (2).
Dopo di che, mentre nel 313 i Romani avevano combattuto sul
versante tirreno, nei due anni seguenti raccolsero il loro sforzo
sul versante adriatico. Qui, represso un j)rimo tentativo d'insurre-
zione dei Marrucini (312) (3), succedette ad essi di vincere e di-
struggere nel 311 un corpo di Sanniti che aveva profittato delle
operazioni romane della Campania per invadere la Daunia ed oc-
<3upare varie terre ch'erano in potere del nemico (4).
Cosi al termine del 311 non solo i Romani avevano ricuperato
-quel che possedevano prima di Caudio; ma avevano indotto a
stringere alleanza Teano e Canosa nelF Apulia e Nola in Cam-
pania, si erano consolidati nuovamente con l'occupazione di Sora
e di Atina nel bacino del Liri, mentre con Caiazia e Saticula,
(1) Quello cioè in cui venne fondata Interamna Lirina. L'occupazione di
Atina (Liv. IX 28) presuppone quelle di Aquino e Casino, di cui no'n abbiamo
notizia esplicita. È possibile che alcune di queste terre siano state ricuperate
•dai Sanniti quando ripresero Sora nel 306, v. oltre.
(2) DiOD. XIX 101, 3: (Q. Fabio) è)u3aXdjv eie, ty\v tuùv iroXeiuiujv x^P"v Ke-
Xiav (KaiaTiav?) koì t^v NiuXavóùv ànpónoXiv èEetroXiópKriae. Liv. IX 28, 6: qui
captae decus Nolae ad consulem (C. lunìutn) trahunt, adiciunt Atinam et Cala-
iiam ab eodem. captae. Si suol correggere Atinam in Atellam. Probabilmente è
■da correggere piuttosto Calatiam in Caiatiam. Sarebbe stata occupata allora
questa città che i Sanniti ricuperarono nel 306 (Liv. IX 43, 1, v. oltre p. 335
n. 6). Quanto ad Atalia e Caiazia, tutto fa credere che tornassero con Capua
nell'alleanza romana. Sulle condizioni di Nola v. Beloch Catupauicn 393. Sulle
relazioni tra Nola ed Abella v. sopra p. 268.
(3) DioD. XIX 105, 5: 'Puj,uaToi òuvóiueaiv ótòpaiq ireZòJv re koì iTTiréuiv èarpd-
Teuaav è-rrl TToXXitiov (ignota) MappouKivuJv oOaav ttóXiv.
(4) DioD. XX 26. Il luogo della battaglia, TdXiov, quello ove i Sanniti si
rifugiarono e furono costretti alla resa, lepòq Xóqpo^, le due terre KaxapdKTa
e Kepauvaia conquistate dai Romani sono affatto ignote. Livio IX 31 parla in
quest'anno della espugnazione di Cluvie o Cluvianum (su cui v. I p. 103 n. 3).
Questa notizia forse non è da revocare in dubbio. Al contrario l'espugnazione
di Boviano dei Pentri (Boiano) al pari della vittoria riportata ivi presso, in
cui perirono ventimila Sanniti, non sono che favole. Anche i fasti trionfali
registrano al 311 il trionfo del console C. lunio Bubulco de Samnitihus.
B26 CAPO XFX - LA LOTTA Ti{A OSCHT E LATINI PER l'kGEMOXIA
che avevano conquistata nonostante la ribellione di Capua fi), si
erano guadagnati due importanti propugnacoli tra la Cami^ania
e il Sannio; e al temj)o stesso debellando gli Aurunci, inducendo
i Campani a deporre le armi, vincendo a Terracina ed in Daunia
i Sanniti, avevano più che mai raffermato la loro autorità in tutti
i loro possedimenti.
Le ragioni di questo cambiamento di fortuna dopo i disastri
di Gaudio e di Lautule erano due. L'una era di carattere mi-
litare, la inferiorità tattica dei Sanniti , ora più grave che mai,
per cui sul campo di battaglia ebbero semj)re la peggio a fronte
dei Romani, quando la superiorità numerica od opportuni espe-
dienti strategici non dessero loro un gTande vantaggio suira,\^^er-
sario (2). Ora la tattica non s' impara agevolmente ; ma è men
difficile imparare la strategia, e la guerra stessa n'è la migliore
maestra; di guisa che elemento fondamentale del felice successo
romano negli ultimi anni della seconda guerra sannitica fu sem-
plicemente l'aver evitato gli errori strategici commessi nei primi
anni. Inoltre la densa i)opolazione e gli ottimi ordini di gueiTa
mettevano in grado i Romani di armare forze tali da non lasciar
mai al nemico la superiorità numerica. Senonchè a tal uopo si ri-
di iedevan gravi sacrifizi; e faceva mestieri soi^rattutto di aumen-
tare i contingenti che si chiamavano annualmente, sotto le armi.
A ciò i Romani, che avevano già sparso tanto sangue nelle lotte
per l'esistenza dopo l'invasione gallica , non si adattavano che a
malincuore. Come nella prima punica e nella gueiTa annibalica,
solo lentamente acquistarono la coscienza dei sacrifizi necessari
per la vittoria; e quando n'ebbero acquistato coscienza, li compi-
rono e vinsero. Così si cominciarono a mettere in assetto di guerra
annualmente non più due, ma tre legioni coi contingenti di alleati,
ossia poco meno di trentamila uomini, e tenendo la difensiva con
una legione in uno dei teatri dflle operazioni, si corco di ])rpndere
(1) Come mostra la colonia condottavi poco dopo.
(2) Vittorie sannitiche accertate in questa guerra sono quella di Gaudio (32])
dovuta alla natura dei luoghi e all'imprudenza dei duci romani e quella di
Lautule i315) dovuta al trovarsi a fronte di leve tumultuarie; storica è proba-
bilmente pur quella su C. Marcio (310) dovuta alla superiorità numerica. Vit-
torie accertate dei Romani son quelle di Terracina (314), di Talio (311), del-
l'agro Falerno o Stellate e di Boviano (805). Solo nelle due ultime battaglie
è da credere che i Romani abbiano avuto la superiorità del numero.
RIVINCITA ROMANA 327
l'offensiva con due neir altro d). Quel che a questo modo si ot-
tenne lasciava ragionevolmente sperare un pronto compimento
della guerra; quando Tentrare in campo di nuovi avversari rese
indispensabili sacrifizi anche più gravi.
Ma frattanto i Romani avevano profittato della ricuperata su-
periorità per proteggere con una rete di colonie latine le loro
conquiste. Fu ricostituita cosi (313) la colonia di Fregelle (2) e
fondata sul Liri (312 o 310) a non grande distanza Interamna Suc-
casina (3), dedotta nel paese soggiogato degli Am-unci (313 o 312)
Suessa (4), assicurato uno degli ingressi della valle caudina (313
o 312) colonizzando Saticula (5), per la difesa del Tirreno dai pi-
i-ati (313) inviata una colonia a Ponzia (6) e finalmente (315 o 314)
a custodia della Daunia ordinata a colonia (se pure prima di
Gaudio non era già. stata in tal condizione) Lucerla (7). Dell' im-
(1) Questo è un punto fondamentale per l'inteliigenza della seconda sanni-
tica. La rotta di Gaudio suppone che i due eserciti consolari fossero forti
nel 321 di una legione ciascuno. Una terza legione (fatta eccezione pel caso
del proconsolato di Publilio Filone nel 326 e forse per qualche caso analogo)
si armò per la prima volta tumultuariamente nel 315, normalmente negli anni
seguenti. L'esito della guerra etrusca non può spiegarsi se non per mezzo di
un miracolo quando non si riconosca che i Romani nel 310 (309) e 308 misero
in campo quattro legioni. S' intende del resto che quando difendevano con
una sola legione la Campania o l'Apulia, i Romani avevano validissimo aiuto
dalle milizie locali.
(2) Infatti la troviamo poi novamente in qualità di colonia latina p. e. in
Liv. XXVII 10.
(3) DioD. XIX 105, 3 (ad. a. 312). Liv. IX 28, 8: Interamnam Sucasinam ut
(ìeduceretur colonia senati consultum factum est (313): sed trium-inros creavere ac
misere colonorum quattuor milUa insequentes consules M. Valerius P. Decius (312).
Veli.eio I 14 fornisce date un po' diverse: Tarracina deducta colonia (329) intera
positoque {decennio et) quadriennio Lucerla (315) ac deinde interiecto triennio
Suessa Aurunca et Saticula (312), Interamnaque post hienniiim (310). Invece di
inserire nel testo {decennio et) si può anche supporre che Veli>eio abbia con-
fusa la probabile prima deduzione di Luceria (325 circa, cfr. sopra p. 307) con
la seconda (315 o 314), e i calcoli tornano egualmente.
(4) Liv. IX 28, 7 (313). Vell. 1. e. (312).
(5) Vell. 1. e. (312). Fest. p. 340 M : Sati[cula oppidum] in Samnio captum est:
quo [postea coloni]am dednxerunt triumviri M. Valerius Corvus, lunius Scaeva,
P. Fulvius Lotif/us ex S. C. kal. lanuaris, L. Papirio Cursore, C. Itinio li cos. (313).
(6) Liv. IX 28, 7.
(7) Liv. IX 26, 5 f314). Diod. XIX 72, 8 (315): auoiKiav èEéireMUJUv ek Aou-
Kepi'av TTÓXiv éTriqjaveoTÓTriv tujv èv TOk tóttok; ■ ^k Tourric hi ópuib^evoi òieTTO-
328 CAPO XIX - LA LOTTA TRA OSCHI E LATINI PER l'eGEMONIA
portanza di queste fondazioni può darci un'idea il numero dei co-
loni inviativi , che furono 2500 per Lucerla e non meno di 4000
per Interatìina.
E così i Romani poterono far fronte coraggiosamente alla
guerra che scoppiò con gli Etruschi. Perocché gli Etruschi, vedendo
da si lungo tempo travagliarsi i Romani, con varia fortuna, in
una fiera lotta coi Sanniti, credettero venuto il momento di pro-
fittarne per carpii'e a Roma i territori conquistati in Etruria, e
prima di tutto Sutrio e Nepi ove i Romani avevano fondato due
colonie latine. Può parere strano che gli Etruschi si siano risoluti
cosi tardi ad intervenire, mentre se iDrendevano le armi dopo il 321 o
meglio ancora dopo la rotta di Lautule non è dubbio che avrebbero
avuto molto maggiori speranze di felice successo. Ma gli Etruschi
allora, come altre volte, ricusarono di giovarsi del momento fa-
vorevole per osservare coscienziosamente le tregue giurate: e pare
appunto che non prima del 310 spirasse la tregua di quarant'anni
conclusa da Roma con Tarquinì (1). Forse, del resto, non era la
sola onestà che rendeva gli Etruschi cosi osservanti delle tregue,
ma anche l'inerzia d'un popolo per cui da lungo tempo era ter-
minato il periodo della espansione e che ora aspirava più che
altro a conservare, per quanto era possibile, ciò che aveva acqui-
stato. Tuttavia troppo era chiaro anche agli Etruschi che in quella
età non era da sperare la coesistenza j)acifica di più popoli indi-
pendenti e che chi non i^rendeva a tempo l'offensiva incorreva
nel rischio di vedere i vicini prenderla a danno . suo, perchè quando
la loro inerzia non era giustificata dalle lunghe tregue concluse
non si risvegliassero dal loro letargo. Ma questa inerzia nelle due
occasioni che dovettero parere più favorevoli all'azione, procedeva
anche da un altro motivo: se infatti i Sanniti riuscivano a supe-
rare i Romani, come parve avesse loro a succedere dopo le rotte di
Gaudio e di Lautule, gli Etruschi non avrebbero fatto che scambiare
un vicino più civile, con cui vivevano da molto tempo in rapporti
tollerabili, con uno meno civile, con cui sarebbe stato anche meno
facile stabilire relazioni di buon vicinato. Essi non avevano ancora
dimenticato che dai Sanniti era stata distrutta con le armi in
Xéfiouv joxc, Tapivii aie, où kokiL^ Tf\c, àa(pa\eiac, TTpovor|Oa|U€vot • òià y«P TaÙTr|v
THv TtóXiv où |uóvov èv TOÙTiy Tuj TroXé|Liuj éirpoTÉpriaav, àWà koì kotò xoùq luerà
TaOxa Yevoinévouc; ^tuc tlùv koB' f][ià<; xpóviuv òiexéXecrav ópitiriTtìpiLU XP^M^voi
Karà TÙ)v irXrjaiov è0vijùv.
(1) V. sopra p. 256 n. 1.
GUERKA IN ETRURIA 329
Campania la signoria etnisca. Si può quindi spiegare come non
credessero d'intervenire tra i due popoli che contendevano per l'e-
gemonia dell'Italia meridionale finché parve che la vittoria on-
deggiasse tra i due o pendesse piuttosto verso i Sanniti. Quando
invece sembrò assicurata ai Romani, allora forse pensarono gli
Etruschi che fosse il momento di ristabilire col loro intervento
l'equilibrio. Si badi del resto che la coesione tra gli Etruschi era
scarsa, e che quelli di Volterra o di Fiesole non si saranno dati
sulle prime troppo carico del pericolo ond'erano minacciati i loro
connazionali di Tarquinì. Tuttavia nel corso del sec. IV il movi-
mento unitario, come nel Lazio e nel Sannio, cosi s'era rinvigorito
in Etruria; ed ora per la prima volta i Romani si trovarono a
fronte non ])m due o tre Stati etruschi, ma l'Etrm-ia tutta (1). In-
fatti la federazione religiosa degli Etruschi, che aveva per centro
il santuario di Voltumna (I p. 435), s'era venuta trasformando in
una lega politica, mano mano che gli Etruschi avevano acquistato
coscienza della necessità di stringere insieme le loro forze per re-
sistere ai vicini, che si venivano riunendo in Stati di ragguarde-
vole estensione e popolazione. E cosi, fiduciosi nella loro unione,
gli Etruschi sul principio del 310 posero l'assedio a Sutrio (2). Quel-
l'anno per la prima volta furono dai Romani armate quattro le-
gioni: una fu inviata nell'Apulia, una nella Campania per tenere
a bada i Sanniti, due agli ordini dei due consoli per ridurre tosto
(1) Eccettuata la parte che i Romani avevano incorporato al proprio terri-
torio ed anche Falerì, la quale, come prova il silenzio della tradizione, rimase
fedele all'alleanza contratta con Roma nel 343 (sopra p. 256), e pur nei primi
anni della terza sannitica servì di base d' operazione ai Romani in Etruria
(v. e. seg.).
(2) Per Livio IX 29, 1 già nel 312, sebbene non si iniziassero le ostilità,
Etrusci belli fama exorta est. Al 311 poi egli racconta (IX 32) una vittoria ri-
portata dal console Q. Emilio Barbula contro l'esercito etrusco assediante
Sutrio, che sembra la stessa raccontata da Diodoro (e con molta esagerazione
anche da Livio) per l'anno seguente e che quindi non pare abbia valore sto-
rico, sebbene anche i fasti trionfali registrino al 311 il trionfo del console
de Etrusceis. Per l'a. 310 Diodoro XX 35 narra la battaglia vinta a Sutrio da
ambedue i consoli, che ebbe il solo eft'etto di respingere l'esercito assediante
nell'accampamento, e poi dice che i consoli divisero le forze, e l'uno rimase
in Etruria, l'altro mosse verso il Sannio. Per Livio la vittoria è così piena che
gli Etruschi fuggiaschi si salvano nella selva Ciminia, ma è opera del solo
console Marcio. Dobbiamo, per rispetto all'importanza del fatto, attenerci piut-
tosto a Diodoro. Ma dopo una simile vittoria pare impossibile che si riduces-
330 CAPO XTX - LA LOTTA TRA OSCHI E LATINI PER l'eGEMONIA
a consigli di pace gii Etrusclii mossero verso Sutrio. Qui si com-
battè una battaglia accanita tra gli Etruschi e i due eserciti con-
solari romani. I Romani si ascrissero la vittoria; ma gli Etruschi
non si ritii'arono punto, anzi continuarono a stringer davvicino la
città assediata. Frattanto giungevano cattive notizie dal Sannio e
dall'Apuli a, dove le forze romane erano troppo esigue per resistere
efficacemente ai Sanniti. Così Q. Fabio Rulliano rimase a fron-
teggiare gli Etruschi a Sutrio con le due legioni, mentre il con-
sole C. Marcio Rutilo si affrettava verso il Sannio a prendere il
comando delle forze romane che eran colà. Qui il suo arrivo ])arve
per un momento mutar faccia alle cose ; egli riusci perfino a ri-
cuperare Allife, quella testa di ponte al di là del medio Voltm^no
che i Romani avevano conquistato molti anni prima e che dal 321
era tornata in potere dei Sanniti (1). Al tempo stesso, perchè
le forze sannitiche non finissero col radunarsi a danno della legione
di cui disj)oneva il console Marcio, fu operata una diversione nella
Camjiania meridionale. Per la prima volta, con l'aiuto soprattutto
degli alleati greci di Napoli, i Romani misero in mare un'armata
navale. Si fece uno sbarco presso Pompei allo scojjo di devastare
i territori della confederazione nucerina che era in lega coi San-
niti; ma le milizie da sbarco, che per amor di bottino s'erano al-
lontanate troppo dalla costa, furono dai Nucerini battute e co-
strette a riprendere il mare (2).
Mentre avveniva questa poco fortunata diversione in Campania.
Fabio Rulliano con mossa arditissima, lasciando dietro a sé Sutrio
e r esercito che 1' assediava , valicati i monti Ciminì, si spingeva
nell' alta Etruria verso il lago Trasimeno. La tradizione romana
ha celebrato la mossa di Fabio come un'impresa di straordinaria
difficoltà. La selva Ciminia era in quel tempo, si dice, impervia
sero le forze ed anche più che si prendesse con forze ridotte l'offensiva. Quindi
è da ritenere che la distribuzione delle forze romane rimanesse invariata e
che soltanto il console Marcio raggiungesse con qualche rinforzo l' esercito
della Campania. Che nel CIÒ per la prima volta si mettessero in campo quattro
legioni è da indurre dalla rogazione approvata nel 311 ut tribuni militum se-
nideni in quattuor legiones a popuìo creciì-entur (Liv. IX 30, 3).
(1) DioD. XX 35, 3. Liv. IX 38, 1: dmn haec in Etruria geruntur , consul
alter C. Marcius Rutilus Allifas de Samnitibus vi cepit. Cfr. sopra p. 299.
(2) Liv. IX 38. Questa spedizione si connette con la rogazione dell'anno pre-
cedente: ut duumniros navales classis ornandae reficiendaeque causa populus
iuberet (Liv. IX 30, 4).
GUERRA IN ETRURIA 331
come poi la selva Ercinia, e nessuno, neppure i mercanti, ne co-
nosceva i passi. Un fratello del console che, educato a Cere,
era pratico della lingua etnisca, si offerse di oltrex)assarla come
esploratore, e pervenne travestito da contadino tino a Camerino
neir Umbria. Qui svelò l'esser suo e ottenne che i Camerti si di-
chiarassero pronti a dar mano forte all'esercito romano. Dopo ciò
il console varcò la selva; e quando egli già l'aveva oltrepassata e
aveva superato i nemici, giunsero a lui gli ambasciatori che gli
aveva mandato il senato insieme con due tribuni della plebe per
invitarlo a non arrischiare al di là dei monti Ciminì l'esercito (1).
Questo racconto pecca di smisurata e quasi ridicola esagerazione :
anzitutto l'alleanza di Camerino sul confine piceno poco o nulla
poteva giovare per combattere presso Perugia (2), i)oi è impossi-
bile che non esistessero relazioni commerciali tra Roma e le città
al di là della selva Ciminia e che gii Etruschi sudditi di Roma,
quali erano i Ceriti, ne ignorassero i passi. La difficoltà e l'ardi-
tezza dell'impresa di Fabio non stava in ciò, si bene nell'adden-
trarsi nel paese nemico rinunciando alle comunicazioni con la base
d'operazione e, che è più, lasciando dietro a se l'esercito che as-
sediava Sutrio. Questa audace diversione, analoga al tentativo che
avevan fatto Postumio e Veturio nel 321 di portar la guerra nel-
r interno del Sannio, riusci felicemente a Fabio Rulliano che aveva
avuto occasione d'imparare l'arte militare sul campo di battaglia.
Quando egli cominciò a devastare i campi dell' Etruria centrale,
i contingenti delle vicine città etrusche accorsero in fretta alla
difesa: e presso Perugia aA'^enne una battaglia in cui le agguerrite
legioni del console sbaragliarono le milizie etrusche raccolte alla
meglio a difesa del paese (3). Dopo ciò Arezzo, Cortona e Perugia,
(1) Liv. IX 36, cfr. Flob. I 12.
(2) L'inverisimiglianza del racconto è tale che alcuni critici hanno creduto
si debba qui trattai-e di Chiusi, che anticamente era chiamata anche Caraars,
secondo Liv. X 25, 11: Clusimn quod Camars olini appcllabanf. Ma questa as-
-frzione di Livio è alquanto dubbia (cfr. e. XX e Folyb. Il 19, 5). Forse i Ca-
merti furono inseriti nel i-acconto ad onta della geofrrafìa, perchè da quell'anno
ilatava il loro foedus aequum con Roma, su cui v. Cic. prò Balbo 28, 46 (Ca-
mertinuin foedus sanctissimiun atque aerjuissiiniim). Liv. XXVIII 45, 20.
(3) La battaglia avviene presso Perugia secondo Diod. 1. e, secondo Livio
{IX 37) invece presso Sutrio. dove gli Etruschi sarebbero di nuovo accorsi dopo
che il console era tornato indietro ; però egli aggiunge : eam tam claram pu-
guani trans Ciminiam silvani ad Perusiam pugnntam quidam auctores sunf. Dopo
332 CAPO XIX - LA LOTTA TRA OSCHI E LATINI PER L EGEMONIA
che si trovavano prese alla sprovvista e che temevano cranclare
incontro a sacrifizi troppo gravi per una guerra che le interessava
solo scarsamente, fecero coi Romani una pace di trent'anni (1). Con
ciò si ottenne che una parte considerevole dell' esercito che asse-
diava Sutrio dovesse venir richiamata ; e il restante, non sentendosi
in forze sufficienti e costernato dai prosperi successi dei Romani,
si ritirò senza colpo ferire (2).
Ma intanto il console C. Marcio Rutilo resisteva con difficoltà
ai Sanniti, cui aveva dato animo il piccolo numero dei Romani e
l'allontanarsi dell'altro console oltre i monti Cimini; anzi abbiamo
notizia di una sconfitta, che indusse i Romani a nominar dittatore
L. Papirio Cursore e ad inviarlo con nuove leve per congiungersi
alle truppe del console. La sconfìtta, per quanto ne faccia cenno
una fonte di mediocre valore (3), non par da revocarsi in dubbio,
perchè non era consuetudine degli annalisti romani inventare
sconfitte dei loro connazionali. Che il dittatore Papii^io ne pren-
desse immediatamente una strepitosa rivincita (4) è certo possibile,
ma non è altrettanto sicuro, e il silenzio della nostra fonte mi-
gliore è grave argomento in contrario. Ad ogni modo mentre Pa-
pirio difendeva il confine romano presso il Volturno, scoppiò fra
le tribù montanare dell'Italia centrale, che già avevan dato qualche
tutto ciò Livio, non contento sebbene avesse detto che sessantamila nemici
caddero in quella battaglia, aggiunge un' altra battaglia al lago Vadimone
(ricopiata sulle battaglie posteriori colà combattute) che suppone un secondo
passaggio della selva Ciminia, battaglia che primum fortuna vetere abundantes
Etriiscorum fregit opes (IX 39, 11), come se la sconfitta precedente non fosse
stata nulla, e finalmente un' ultima vittoria presso Perugia (senza accorgersi
che è la stessa da lui secondo un'altra fonte già narrata presso Sutrio), che
sarebbe stata provocata dalla trasgressione della tregua fatta dai Perugini su-
bito dopo averla conclusa (IX 40, 18). Questa trasgressione cade con la redu-
plicazione della battaglia che ha dato occasione ad inventarla.
(1) Dico. Liv. 1. e.
(2) Secondo Diod. 1. e. dopo che i Romani ebbero ancora preso d'assalto la
ignota terra di KotaróXa.
(3) Liv. IX 38, 8: dimicutum proelio utrimque atroci atque incerto eventu est
et cum anceps caedes fuisset, adversae tanien rei fama in Romanos vertit oh
amissos quosdain equestris ordinis tribunosque militum atque unum legatum et,
quod insigne maxime fuit, consulis ipsius vulnus.
(4) Liv. IX 40. Anche i fasti trionfali registrano all' anno dittatoriale 309
la vittoria di Papirio de Samnitibus.
GUERRA IN ETRURIA 333
indizio di malcontento (1), una vasta ribellione contro Roma (2).
Antichi alleati di Roma come gli Ernici, antichi avversari da molto
tempo pacificati come gli Equi, amici di nuova data come i Marsi
e i Peligni e forse i Marrucini ed i Frentani presero le armi. Erano
tutte piccole tribù bellicose, fiere della loro indipendenza, che ve-
devano messa in pericolo dal meraviglioso incremento che aveva
preso la potenza romana. Mentre le migliori forze dei Romani
erano impegnate in Etruj'ia e le altre bastavano appena a difen-
dere i confini dai Sanniti, parve a quelle piccole popolazioni che
fosse giunta Foccasione favorevole per staccarsi dall'alleanza ro-
mana e per ricuperare la loro piena indipendenza. ì^è il momento
era male scelto ; soltanto la fortuna di quel tentativo -dipendeva
non dalle forze delle piccole tribù ribelli, ma dall'esito della guerra
dei Romani coi Sanniti e con gii Etruschi.
Ora la guerra etrusca condotta dai Romani con esemplare
energia fu chiusa nell' anno seguente (308) dal console P. Decio
Mure (3). Tarquini che restava ancora in armi dovette ijrob abilmente
comperare con qualche cessione territoriale la tregua di quaran-
tanni che allora concluse; e finalmente con la intera lega etrusca
si fermò un'altra tregua che doveva rinnovarsi anno per anno dai
delegati della lega convenuti al santuario di Voltumna (4). Grii effetti
(1) V. sopra p. 325 il cenno sulla campagna contro i Marrucini.
(2) La ribellione degli Ernici da Livio è collocata al 306 (IX 42, 11) ossia
air anno stesso della sottomissione. È appunto uso degli annalisti di datare
dalle sottomissioni le ribellioni, ma non è altrettanto certo che si trovino
in questo modo nel vero. Del resto Livio già accenna nel 307 (42, 8) che mi-
lizie erniche aiutarono i Sanniti. Rispetto agli Equi Livio ricordando la guerra
fatta con essi nel 304 dice che incolumi Hernico nomine missitaverant simul cum
iis Samniti uuxilia et post Hernicos siibactos universa prope gens sine dissimu-
latione consilii publici ad hostes desciverat (IX 46). La ribellione dei Marsi è già
ricordata al 308 insieme con quella dei Peligni (v. oltre). La pace con questi
popoli e coi Marrucini e Frentani, che dunque debbono essersi ribellati insieme
con gli altri, fu conclusa solo nel 304. Tutto considerato, pare che la insurre-
zione di queste tribù sia stata contemporanea e dati dal 309 o 308. La sot-
tomissione naturalmente ebbe luogo in tempi e occasioni diverse.
3) Non tenendo conto dell'anno dittatoriale 309, v. I p. 9.
(4) Liv. IX 41, 5 6. DioD. XX 44, 9. Si è asserito che ai Tarquiniesi fosse
data la cittadinanza romana (Bkloch Ital. Bund 59 segg.). Non è provato ; ad
ogni modo non è in questa occasione (l'ultima in cui la tradizione ricordi
lotte con Tarquini), nella quale non solo Livio ma anche Diodoro parla di
tregua di quarant'anni. All'incontro può benissimo spettare a quell'anno la
cessione del territorio dove nel 181 fu condotta la colonia romana di Graviscae
(Liv. XL 29).
334 CAPO XIX - LA LOTTA TRA OSCHI E LATINI PER l'eGEMONIA
della guerra biennale romano-etrusca fingono apparentemente scarsi,
dacché lo stato delle cose prima della guerra ne venne solo in
piccola misura modiiicato. Infatti i trattati dei Romani con Arezzo.
Cortona, Perugia e Tarquinì non implicavano alcuna dipendenza
di queste città da Roma. Grli Etruschi in sostanza, visto che non
potevano ricuperare il territorio sulla destra del Tevere tolto loro
dai Romani neppm- profittando dell'occasione in cui i Romani
erano impegnati con la metà delle forze nel Sannio, si rassegna-
rono a far novamente pace ed a pagare anzi il loro tentativo con
la cessione d'un altro lembo del loro territorio dalla parte di Tar-
quinì. Ma l'eco di una cosi patente dimostrazione della impotenza
dell' intera lega etrusca contro Roma doveva fortemente ripercuo-
tersi in tutta la i^enisola. E inoltre questa guerra fornì il destro
ai Romani d'entrare in relazione con alcune città umbre. La tradi-
zione ci parla anzi di una vittoria romana presso Mevania e della
sottomissione di tutti gli Umbri (1). Quella vittoria è però assai
sospetta sia perchè pare molto diffìcile che i Romani fin d'allora
si inoltrassero nell'Umbria mentre avevano tante guerre a com-
battere, sia perchè l'Umbria, che certo non era regione da soggio-
gare molto facilmente, ci appare poi indipendente da Roma, tranne
la estremità meridionale, sia finalmente perchè ne tacciono i fasti
trionfali. Ciò che i Romani conseguirono nell'Umbria fu di fare
accedere alla loro alleanza Ocricolo, la più meridionale delle città
umbre (2), e di guadagnare un altro alleato nella lontana Came-
rino, la quale verisimilmente pensò d'assicurarsi a questo modo dai
Galli Senoni stretti allora da un trattato d'amicizia con Roma (3)-
Mentre conducevano cosi a termine in meno di due anni la
guerra con gli Etrusclii e gli Umbri, i Romani avevano potuto
(1) Liv. IX 41. DioD. XX 35, 3. 44, 9 parla solo di invasione dell' Etruria
bla Tf\c, tOjv '0|uPpiKÙ)v xiJf^pa<; (codd. ó|uópujv). L'invio con Decio del console
Q. Fabio accorso a marcie forzate dalla Campania per i-iportare insieme con
l'altro console la vittoria decisiva è ricopiato dalla loro cooperazione a Sen-
tine. Per Diodoro tutti e due i consoli combattono nel paese dei Marsi, pas-
sano nell'Umbria e compiono la guerra etrusca. Dal che si vede che i nudi
fatti erano tramandati per mezzo degli annali pontifici, e che qui come altrove
la connessione e l'ordine sono opera degli annalisti. La maggiore verisimi-
glianza è che ciascuno dei due consoli combattesse per conto suo in uno dei
due teatri della guerra.
(2) Liv. IX 41, 20: Ocriculani sponsione in deditionem accepti.
(3j V. sopra p. 331 n. 2 e p. 261.
ULTIMI ANNI DELLA SECONDA SANNITKA 1335
riacquistare la superiorità anche dalla parte della Campania, ove
combatteva probabilmente con due legioni il console Q, Fabio
RuUiano (308). Qui egli riusci ad ottenere die Nuceria Alf aterna
cambiasse Talleanza sannitica con quella di Roma (1), e si dice
anche che riportasse una vittoria sui Sanniti congiunti coi Marsi
ribelli {'2j, vittoria che, se realmente ebbe luogo, non può aver avuto
grande importanza sia perchè i Marsi perseverarono nella ribel-
lione, »sia perchè non è registrata nei fasti trionfali.
Ma i Romani erano stanchi dello sforzo fatto in questi due
anni; e lo dimostrarono nei comizi consolari, dove rimasero eletti
il democratico Appio Claudio e l'uomo nuovo L. Volumnio al posto
dei provetti militari che pareva si fossero assicurati Tesclusivo
possesso del consolato. I nuovi consoli (307) non misero in assetto
di guerra che due legioni: e con queste operarono in Campania
Volumnio e il proconsole Q. Fabio RuUiano (3). Cosi le tribù insorte
erano lasciate tranquille tra i loro monti e gli alleati della Puglia
erano pel momento costretti a resistere ai Sanniti con le proprie
forze: del che profittarono i Sanniti per occupare Silvio tra Ve-
nosa e Blera (4). Uno scrittore ricorda mia vittoria di Q. Fabio sui
Sanniti presso AUife, dopo la quale l'esercito nemico fu costretto
alla resa e i Sanniti fatti passare sotto il giogo, i loro alleati ven-
duti schiavi in numero di settemila (5) ; ma al solito il s-ilenzio
delle fonti migliori e la situazione militare dell'anno seguente ren-
dono questa vittoria assai sospetta. Infatti non solo nessuna delle
tribù ribelli si mostrò disposta a sottomettersi; ma sul principio
del 306 Sora e Caiazia, che erano cadute in mano dei Romani sei
o sette anni prima, furono riconquistate dai Sanniti (6) ; i quali per
(1) Liv. IX 41, 3.
(2) Liv. IX 41, 4 : cum Sainnitibus ade dimicatum: haud magno certamine
hosfes vieti : neque eius pugnae memoria tradita foret ni Marsi eo primmn proelio
cum Romanis bellassent. Anzi Livio ag^^iunge una vittoria sui Peligni: secali
Marsorum defectionem Paeligni eandem fortunam habiieriint. Assai diversamente,
ma certo cadendo in equivoco Diodouo XX 44, 8: oì tuùv Puuiuaiijuv ÙTTaxci
Mapaoìq TTO\€|uou)U6voi^ ÙTTÒ ZaiaviTÙJv ^or\Q\\ao.v^(.c, tiq tg MÓxr) lirpoTépriaav koì
ouxvoùi; tOùv iroXeiuiujv àvelXov.
(3) Ciò sembra da indurre dalla esiguità dei successi riportati.
(4) Che era in mano dei Sanniti nel 306 : Diod. XX 80, 1. Sulla posizione
NissEN II 861.
(5) Liv. IX 42, 6-7.
(6) Liv. IX 43, 1: Calatiu (da leggere col Mommsen Caialia, CIL. X p. 444)
et Sora praesidiaque quae in iis Romana erant expugnata. Diou. XX 80, 1 :
336 CAPO XIX - LA LOTTA TRA OSCHT E LATINI PER l'eGEMONIA
mezzo di Sora e di Arpino, che avevano conservata o che ricupe-
rarono allora (Ij, e di Atina, ricuperata pure in quell'occasione se
non già prima (2), assicurarono le loro comunicazioni coi ribelli
Ernici.
Un tale stato di cose era vergognoso per Roma; e per quanto
la lista dei consoli degli anni seguenti mostri a chiare note che
il j)opolo era stanco di rieleggere sempre gli stessi generali e non
voleva ammettere che alcuno si ritenesse indispensabile allo
Stato (3), tuttavia l'opinione pubblica si persuase della necessità
di nuovi e gravi sacrifizi. E non appena s'impegnarono contro i
Sanniti le forze necessarie, si riusci a por termine in due campagne
alla guerra sannitica che durava da quasi vent'anni, come in due
campagne s'era condotta a buon fine la guerra con gii Etrusclii (4:).
Armate quattro legioni, i due nuovi consoli Q. Marcio Tremulo
e P. Cornelio Ai'vina (306) invasero il Sannio e lo devastarono
senza pietà (5). Era la prima volta che i Romani riuscivano a pe-
netrare nel cuore del paese nemico ; e il bottino e l'effetto morale
dovettero essere immensi. I Sanniti o non osarono mostrarsi o fu-
rono facilmente sbaragliati; ma il silenzio delle fonti migliori
mostra che non ebbero luogo combattimenti notevoli, sebbene
Zaiuvìrai luèv ZiJbpav xai 'Axiav (leg. xai Kaiaxiav, Mommsen 1. e.) nóXeiq 'Piu-
uaioic; avìJi\iaxoùaa(^ èKiroXiopKricTavTec; èEr|vf)paiTOÒ(aavTO. Sulla occuiDazione ro-
mana di queste città v. sopra p. 322 n. 3 e p. 325 n. 2.
(1) Fu infatti riacquistata dai Romani nel 305, v. oltre.
(2) Era stata occupata dai Romani nel 313, v. sopra p. 325 n. 2. Rimase
poi in mano dei Sanniti fino al 293.
(3) Infatti dal 307 al 302 nessuno fu rieletto dei consoli precedenti mentre
per lo innanzi la iterazione era usuale.
(.4) La tradizione infatti sia nel 306 sia nel 305 ci mostra in azione am-
bedue gli eserciti consolari sul teatro della guerra; come abbiamo visto, in
questi anni, si era cominciato a dare agli eserciti consolari la forza normale
di due legioni per ciascuno.
(5) Dal racconto di Diodoro XX 80, 2 parrebbe che i consoli fossero passati
dall' Apulia nel Sannio; e certo così fecero al loro ritorno: ma nell'Apulia
stessa non possono essere pervenuti che attraverso il Sannio, essendo in ribel-
lione le tribìi dell'Apennino centrale. Diodoro aggiunge che al ritorno i con-
soli sottomisero gli Ernici. Per Livio uno dei consoli si avanzava nel Sannio
mentre l'altro operava contro gli Ernici. Vinti gli Ernici, l'altro corse ad
aiutare il collega. Queste differenze si possono spiegare come è accennato nel
testo. È verisimile che hx campagna nel Sannio si sia cominciata con tutte le
forze e al principio della buona stagione.
ULTEVn ANNI DELLA SECONDA SANNITICA 337
un annalista non si sia xoeritato d'inventare una battaglia in
cui perirono trentamila nemici (1). Ad ogni modo attraversato
il Sannio mettendolo a ferro e fuoco, i Romani passarono in
Apulia. Avevano cosi rinnovato il tentativo fatto quindici anni
prima da Postumio e Veturio; ma col doppio delle forze, con Sa-
ticula custodita da un presidio romano e soprattutto avvantag-
giandosi deiresaiu-imento dei Sanniti. In Apulia, con la enorme
superiorità del numero, ebbero presto ragione della terra di Silvio
che restava in mano ai nemici, e n eli' impadronirsene fecero non
meno di cinquemila prigionieri; poi ripresero la loro via attra-
verso il Sannio e dopo cinque mesi ricondussero l'esercito nel ter-
ritorio romano (2). Rimaneva ancora qualche mese della buona
stagione. E cosi mentre uno dei consoli si fermava al confine san-
nitico, l'altro con due legioni invadeva il paese degli Ernici (3).
G-li Ernici non avevano forze che neppur lontanamente si potes-
sero misurare coi quindici o diciottomila uomini del console Marcio.
Né era possibile ai Sanniti di aiutarli perchè, forse a Fregelle,
stazionava l'altro console pronto a chiuder loro la via; e cosi in
pochi giorni si arrese Fresinone, e poi tutti gii Ernici chiesero
Ijace. E la ebbero, ma a condizioni analoghe a quelle toccate ai
Latini dopo la loro defezione, anzi ancor più gravi. Disciolta la
lega ernica, ad Alatri, Ferentino e Veroli si concessero separati trat-
tati d'alleanza con Roma; Anagni venne incorporata nello Stato
romano coi diritti di cittadinanza senza suffragio ; ma, a differenza
di Capua, p. e., e di Cere, venne privata d'ogni autonomia comu-
nale (-k). Quanto a Fresinone, città probabilmente d'origine volsca,
(1) Liv. IX 43, 17. 1 fasti trionfali non registrano alcuna vittoria sui Sanniti.
(2) DioDORO, prescindendo da Prosinone, non parla al 306 che della dichia-
razione di guerra agli Anagnini. Ma ciò va messo sul conto della sua negli-
genza nel compilare, e non va ritenuto che la sua fonte ponesse il termine
della guerra all' anno seguente. Livio mette in evidenza la rapidità della
guerra, e con lui si accordano le testimonianze citate più oltre.
(3) È da ritenere contro Diodoro, conforme a Livio, che solo Q. Marcio Tre-
mulo debellasse gli Ernici sia per le considerazioni di carattere militare svolte
nel testo sia perchè il trionfo del solo Q. Marcio de Anagnineis Erniceisque è
registrato nei fasti trionfali ed a lui solo fu eretta una statua equestre, su cui
V. oltre.
(4) Liv. IX 43, 23: Hernicorum trihus populif^ Aletrinati Verulano Ferentinati,
quia maluerunt qtiam civitatem, suae leges redditae coni(biumque inter ipsos, quod
aliquamdiu soli Hernicorum habuerttnt, permissum, Anagninis quique arma Ro-
manis intuì erant civitas sine suffragii latione data concilia conubiaque adempia
G. De Sanctis, Storta dei Romani, II. 22
338 CAPO XIX - LA LOTTA TRA OSCHI E LATINI PER l'eGEMONIA
sebbene in questa guerra procedesse d'accordo coi \àcini Ernici,
fu privata d'una parte del territorio che si distribuì fra cittadini
romani, onde poi si formò la tribù Teretina (299) (1), ed inoltre fu
incorporata nello Stato romano anch'essa con diritto di cittadi-
nanza senza suffragio (2). Dopo questi prosperi successi Marcio
aveva ben meritato il trionfo e la statua equestre togata che gli
fu inalzata nel Foro innanzi al tempio dei Castori (3).
Ma i Sanniti non si risolvevano a cedere; e l'anno dopo, mentre
i nuovi consoli L. Postumio e Ti. Minucio attendevano con le le-
gioni a compire la pacificazione del paese degli Ernici ed a ricu-
perare nell'alta valle del Liri Sora ed Arpino, inviarono audace-
mente un esercito a devastare il campo Stellate e l'agro Falerno.
Ma furono pronti i consoli ad accorrere con le loro quattro legioni
alle spalle del nemico; e. impadronitisi di Trebula Balliniense, gli
cliiusero la via della patria (4). Allora i Sanniti si trovarono co-
et magistratibus praeterqucun sacrorum curatione interdictum. Fest. p. 233 ri-
corda Anagni tra le prefetture. È incerto se Alatri, Ferentino e Verdi si
astenessero dalla guerra o se questa sia una induzione dal trattamento mi-
gliore avuto. Pel trattamento diverso si pensi, p. e., come i Romani si son
comportati assai diversamente in pari causa con Tivoli ed Aricia. Gli altri
Ernici cui accennano Livio (1. e. e 42, 11) e i fasti trionfali 1. e. (Diodoko
parla solo di 'AvaYvlTai) potrebbero essere al più quelli di Treba e di Capi-
tulum, MoMMSEN CIL. X p. 584.
(1) Liv. X 9, 14. Il nome deriva probabilmente dal fiume Trero, come ha
congetturato il Mommsen ' Rh. M. ' XII (1857) p. 467, cfr. Fest. p. 363 La po-
sizione approssimativa si desume da ciò che a questa tribù furono poi ascritte
Interamna, Casinum e Minturnae.
(2) DioD. XX 80, 4: 0poua(vijuva èKiroXiopKriOoivTgc; ÓTiéòovTO tì'iv x<J^pav (306).
Liv. X 1, 3: Frusinates tertia parte agri damnati (303). Fu ridotta a prefet-
tura: Fest. p. 233 M.
(3) Plin. n. h. XXXIV 23 : ante aedem Castorum fiiit Q. Marci Tremuli (statua)
equestris togata, qui Samnites bis devicerat captaque Anagnia x>opulum stipendio
liheraverat. Cic. Philipp. VI 5, 13.
(4) DioDORo comincia il racconto delle gesta dell' a. 305 (XX 90) a questo
modo: 'Piu|aa!oi |jèv TTaXivioui; (al. lez. TTaAriviouc) KaranoXeiuiriaavTe; tj^v xiljpav
àqpeiXovTO koì tioi tuùv òotdvxujv xà 'PujjLiaiiJUv TieqppovriKévai lueréòuJKav t)ì<; iro-
XiTeiaq. Si suol correggere TTeXiYvoùq; ma i Peligni fecero pace nel 304 e fu-
rono d'allora in poi alleati. Perciò Beloch It. Bund p. 51 riferiva la notizia
di DioDORO alla incorporazione nel territorio romano dell'alta valle dell'Aterno
con Amiterno e Peltuinum. Par dubbio che il territorio romano si estendesse
fin là dal 305; ma sembra altrettanto incerta la emendazione del Niebuhr
'Avayvioui; {R. G. Ili 306), poiché altrove Diodoro parla correttamente di 'Ava-
ULTIMI ANNI DELLA SECONDA SANNITICA 339
stretti a venire nelle condizioni più sfavorevoli a battaglia e dopo
aver con accanimento pugnato rimasero pienamente disfatti (1);
ma il console Minucio che aveva quel giorno il comando dell'eser-
cito, ferito a morte, soccombette poco dopo (2). Senoncbè i Romani,
fatti arditi dal successo, agli ordini di L. Postumio e di M. Fulvio,
clie era stato sostituito al morto Minucio, penetrarono novamente
nel Sannio e posero l'assedio alla capitale dei Pentri, la più im-
portante città del Sannio, Boviano, clie fu poi soprannominata
degli Undecimani (Boiano) (3). Invano i Sanniti fecero uno sforzo
supremo per salvare la loro capitale o per ricuperarla caduta ap-
pena che fu in mano dei Romani (4). La loro sconfitta presso Boiano
e la prigionia del loro duce Gellio segnò la fine della guerra.
TVìTOi (e. 80). Io proporrei BaXiviou? intendendo clie si tratti di Trebula Bal-
liensis 0 Baliniensis (Plin. n. h. Ili 64) presso Caiatia. La presa di Trebula si
connetterebbe così con quelle di Arpino e di Sora, avvenute nello stesso anno ;
e non importa che Diodoro riferisca queste dopo la conquista di Boviano,
perchè l'ordine dei fatti è anche presso Diodoro, come s'è veduto, arbitrario.
In Livio è detto semplicemente (IX 44, 16) : eodem anno Sora, Arpinum, Ce-
sennia recepta ab Samnitibiis. Cesennia (presso Diodoro Zepevvia) ci è ignota
perchè la identificazione proposta con Cerfennia nei Marsi sembra alquanto
problematica. Del resto al 303 Livio nota Arpinatibiis Trehulanisque civitas
data (X 1, 2). Se le osservazioni precedenti son fondate, deve intendersi Tre-
bula Balliniense col Mommsen CIL. X p. 442.
(1) Secondo Dico, perdettero venti inaegne ed ebbero duemila prigionieri.
Livio (IX 44) racconta una prima vittoria, che par a lui stesso dubbia e che
è pura invenzione, in cui sarebbero caduti ventimila nemici, poi una seconda
in cui i Romani avrebbero prese 21 insegne, ambedue avvenute nel Sannio.
Sembra preferibile il racconto di Diodoro, secondo cui la battaglia avrebbe
avuto luogo, come almeno par meglio da interpretare il testo, nel territorio
stesso che i Sanniti devastarono.
(2) È da ritenere che il console Minucio comandasse l'esercito vittorioso,
perchè la vittoria romana può difficilmente essere messa in dubbio, ma il con-
Bole Postumio, stando ai fasti trionfali, non ebbe punto l'onore del trionfo.
Livio dice, è vero, che magna gloria rerum gestarum consules triiimpharunt; ma
accenna pure alla diversa versione confortata dall'autorità dei fasti consolari
capitolini e trionfali : Minucium consulem vulnere gravi relatum in castra mor-
tuum quidam auctores sunt et M. Fultnum in locum eius consulem suffecttim et
ab eo, cum ad exercitum Mimici missus esset, Bovianum captum.
(3) Non pare possibile che i Romani si siano spinti in questi anni fino a
Bovianum vetus (Pietral)bondante).
(4) Livio dà la prima versione, Diodoro la seconda. La BùjXa dei testi di
DioDORo è senza dubbio Boviano. In quest'ultima battaglia secondo Livio furono
340 CAPO XIX - LA LOTTA TRA OSCHI E LATINI PER l'eGEMONIA
Il trattato concluso l'anno seguente (304) rinnovava, al dir di
Livio, l'antico, quello che esisteva al principio della guerra, e gua-
rentiva quindi ai Sanniti la piena indipendenza. Ma essi dovevana
al tempo stesso rinunciare ad ogni aspirazione di dominio nella
Campania fino al capo di Minerva, nei paesi degli Ernici, Marsi,
Peligni, Vestini, Marrucini, Frentani, e finalmente nell'Apulia set-
tentrionale, lasciandone ai Romani senza contrasto la supremazia.
La lotta per l'egemonia tra Latini ed Oschi era cosi terminata;
e solo restava a vedere se la nazionalità osca sarebbe riuscita a
vivere ancora di vita propria nel mezzogiorno d'Italia ovvero se
doveva anch'essa irremissibilmente sottostare al dominio dei La-
tini. Il territorio appartenente direttamente alla lega sannitica non
fu che di poco ridotto. Essa perdette nel bacino del Volturno Sa-
ticula, Trebula e forse anche AUife, città che i Romani avevano
occupata durante la guerra e che è incerto se restituissero a pace
conchiusa; alla regione dell'alto Liri dovette poi rinunciare quasi
per intero, conservandovi soltanto, pare, l'agro atinate; ma più
grave ancora fu F abbandono dell' alleanza coi Frentani che to-
glieva ai Sanniti lo sbocco dell'Adriatico e l'essere ormai cir-
condati da ogni parte, fuorché a mezzodì, da territorio romano.
Roma, costretti i Sanniti alla pace, si affrettò a ridurre all'ob-
bedienza le piccole tribù insorte. Toccò per primi agli Equi, i quali
vennero facilmente soggiogati nel 304 (1) e privati della parte mag-
giore del territorio, in cui si fondarono, a dominare la via che tra-
versava l'Italia media, le colonie latine di Alba Fucente (303) (2)
signa militaria sex et viginti capta et imperator Samnitiuni Statius Gellius miil-
tique aia mortales. Nei nostri testi di Diodoro costui è detto réXXioi; fàioq, ma
la correzione féWicq ZTaTio:; è paleograficamente assai facile. Diodoro del resto
non dà cifre di perdite, ma dice che i Sanniti erano seimila, numero certo
non esagerato. 1 fasti trionfali registrano la vittoria del solo M. Fulvio Curvo
de Samnitibus.
(1) Liv. IX 45, 17: unum et triginta oppida intra dies quinquaginta omnia op-
pugnando ceperunt (consules)... nomenque Aequorum prope ad internecionem de-
letiim. DioD. XX 101 parla di un solo console Sempronio e di quaranta città,
prese in cinquanta giorni. I fasti trionfali d'accordo con Diodoro fanno trionfare
de Aequeis il solo console P. Sempronio; registi-ano invece il trionfo dell'altro
console P. Sulpicio de Samnitibus, sebbene ne Diodoro ne Livio ricordino vit-
torie sui Sanniti in quell'anno.
(2) Liv. X 1, 1. Vell. I 14, 5: decem deinde hoc munere anni vacaverunt (dopo
la fondazione di Interamna, 310 secondo Velleio, s. p. 327 n. 3); tunc Sora
atque Alba deductae coloniae (800) et Carseoli post biennium (298).
EFFETTI DELLA SECONDA 8ANNITICA 341
e di Carseoli (302 o 298) (1), la prima con quattromila, la seconda
con seimila coloni, quanti non se ne erano sin qui inviati in nes-
suna colonia. Del rimanente territorio la parte a mezzogiorno di
queste due città fu confiscata e distribuita tra cittadini, di cui si
formò la tribù Aniense (299) (2), la parte a settentrione ossia l'alta
valle deirimella fu incorporata nello Stato romano, dando agli
abitanti, noti d'ora in poi col nome d'Equiculi od Equiculani (onde
il paese conservò il nome di Cicolano), la cittadinanza senza diritto
di suffragio. Cosi, domata negli anni seguenti l'ultima resistenza
di qualche cantone montanaro (3), termina la storia di questa bel-
licosa tribù che un tempo aveva sparso il terrore fino alle porte di
Roma. Sbigottiti dalla sorte degli Equi, i Marsi, i Peligni, i Mar-
rucini e i Frentani si affrettarono a rinnovare i loro trattati con
Roma (304) (4); e due anni più tardi (302j ne seguii'ono l'esempio
i Vestini (5). Ci vien detto che i Marsi fm^ono poco dopo la pace
novamente in armi, ma che da una sola sconfitta furono ridotti a
fare un'altra volta alleanza con Roma, cedendo qualche parte del
territorio (301) (6).
(1) Liv. X 3, 2 (ad a. 302) : Marsos agrum vi tueri (nuntiahatur) , in quem
colonia Carseoli deducta erat; in base ad altra fonte (ad a. 298) lo, 1: eodem
anno Carseolos colonia in agrum Aequiculoriim deducta.
(2) Liv. X 9, 14. Fu istituita insieme con la Teretina ricordata sopra
p. 338 n. 1.
(3) Liv. X 1 (a. 302), 9, 7 (a. 300). I fasti trionfali riportano al 302 la vittoria
di C. Giunio Bubulco de Aequeis. Se a questo trionfo e alle vittorie menzio-
nate da Livio dobbiamo piena fede è incerto ; verisimile è però che alcuni
dei montanari siano rimasti in armi anche dopo il 304.
(4) I tre primi popoli sono ricordati da Livio e Diodoro, gli ultimi dal solo
Livio.
(5) Liv. X 3, 1.
(6) Liv. X 3. Tutto quel che Livio narra in tal proposito è però molto so-
spetto. Causa della ribellione sarebbe stata la deduzione della colonia di Car-
seoli; ma Carseoli era, come Livio stesso riconosce (sopra n. 1), non nel ter-
ritorio dei Marsi bensì in quello degli Equi; e del resto i Marsi potevano
legittimamente impensierirsi non per la deduzione di Carseoli, ma di Alba
Facente. Le terre tolte ai Marsi Milionia, Plestina, Fresilia, sono altronde
ignote. Milionia è però ricordata da Liv. X 34, 1 e da Dionys. nel lib. XVII
(ap. Steph. Byz 8. V. MiXujvia) come città dei Sanniti. Il trionfo di M. Valerio
Corvo de Etrusceis et Marseis è ricordato anche nei fasti trionfali ; ma è so-
spetto come in generale i trionfi dei Valeri, tanto più che la sua vittoria
etrusca in cui sarebbero state fractae iterum Etruscorum vires e probabilmente
una pura e semplice invenzione di Valerio Anziate : habeo auctores (così Liv.
X 5, 13 chiude il racconto delle sue imprese in Etruria) sine ulto memorabili
342 CAPO XIX - LA LOTTA TRA OSCHI E LATINI PER l'eGEMONIA
Dalla seconda guerra sannitica l'estensione dello Stato romano
ebbe non piccolo incremento : si incorporarono i distretti che for-
marono le tribù Teretina ed Aniense, quello ove poi vennero
fondate (296) le colonie cittadine di Mintm'ne e Sinuessa e una
parte del territorio di Tarquini; si diedero i diritti di cittadinanza
senza suffragio ad Arpino, Prosinone, Trebula e fors'anclie a Fa-
brateria, Aquino e Casino, inoltre agli Ernici di Anagni ed agli
Equiculi. E però l'estensione dello Stato romano da almeno sei-
mila chilometri quadrati nel 328 crebbe a più di ottomila nel 300.
Ma i Romani non largheggiarono come prima nella concessione
dei pieni diritti di cittadinanza, in piarte perchè i nuovi cittadini
non erano probabilmente neppure in grado di esprimersi in latino
e non conveniva accordar loro i pieni dmtti se non quando fossero
al tutto latinizzati, in parte perchè la crescente potenza di Roma
e il moltiplicarsi dei cittadini, rinsanguati dai nuovi elementi in-
corporati dopo la guerra latina, liberava dalla necessità che sarà
parsa assai dui'a all'orgoglio dei ^dncitori di accordare ai vinti
diritti almeno teoricamente pari a quelli che essi stessi possede-
vano. E cosi circa il 300 il territorio abitato dai cittadini forniti
dei pieni dii-itti non poteva superare più che di idoco quello dei
cittadini di grado inferiore.
Al territorio degli alleati eran frattanto toccate notevoli dimi-
nuzioni per l'incorporazione di i^arte di essi allo Stato romano,
ma anche maggiori incrementi per il continuo estendersi dell' al-
leanza romana, in modo che raggiungeva ormai 19.400 km*, di cui
15.500 spettanti ad alleati propriamente detti e 3.900 a coionio di
diritto latino. Degli antichi alleati rimasero in tale condizione, oltre
le città latine di Tivoli, Preneste e Cora, le città erniche di Alatri,
Ferentino e Veroli e la sidicina Teano; e conservarono del pari i
loro diritti corrispondenti a quelli delle città alleate tutte le co-
lonie latine fino allora fondate, Signia, Nerba, Ardea, Circei, Sutri o,
Nepi, Sezia, Cales e Fregelle (1). Accedettero dm-ante la seconda
proelio pacatam ab dictatore Etriiriam esse seditionihus tantum Arretinoruni com-
positis et Cilnio genere cum p lehe in gratiam rediicto. Se i Marsi fecero cessione
di territorio, si sarà trattato probabilmente di qualche distretto di confine in-
corporato nella colonia di Alba.
(1) Il territorio degli antichi alleati comprendeva ora sopra 3000 km^ cioè
Tivoli 500, Preneste 32.5, Cora 65, Anatri, Ferentino e Veroli 530, Teano 300,
colonie latine 1390 (Signia 235, Norba 100, Ardea 200, Circei 100, Sutrio e
Nepi 300, Sezia 185, Cales 120, Fregelle 150); totale 3110. Pel valore e la
fonte dei computi contenuti in questa nota e nelle aeguenti cfr. sopra p. 257 n. 6.
EFFETTI DELLA SECONDA SANKTTICA 343
sannitica o subito dopo all'alleanza romana nella Campania Na-
poli (326), Nola con Abella (313) e la confederazione nucerina (308),
nell'Umbria Camerino (310) ed Ocricolo (308), le piccole tribù sa-
belliche dell'Appennino ossia i Marsi, i Peligni, i Man-ucini (304),
i Vestini (303) ed i Frentani (304), e nella Daunia Teano (317),
Arpi (326) e Canusio (318) (1). E finalmente furono fondate non
meno di nove colonie di dii-itto latino: Carseoli ed Alba nel paese
degli Equi, Suessa nel paese degli Aurunci, Sora sull'alto ed Inte-
ramna sul basso Liri, Ponzia nelle Tremiti, Saticula tra la Campania
e il Sannio, Lucerla nella Puglia (2). Insomma tutto il territorio
su cui Roma allora dominava mediatamente o immediatamente
aveva la considerevolissima estensione di 27.500 km* ed era due
volte e mezzo maggiore di quel che non fosse prima della guerra;
sicché per estensione come per popolazione Roma era divenuta il
primo Stato d'Italia e con ciò stesso una delle prime potenze del
bacino del Mediterraneo. Il suo territorio non poteva, è vero, mi-
sm'arsi con nessuno di quelli dei quattro regni di Macedonia, Tracia,
Siria ed Egitto che si dividevano l'impero di Alessandro Magno
dopo che ne fu definitivamente spezzata l'unità con la battaglia
di Ipso (301) ; ma superava i due altri Stati maggiori della regione
italiana, la lega etrusca che s'estendeva per qualcosa meno di
25.000 km* (3), l'impero siracusano che nella estensione massima
raggiunta sotto Agatocle misurò un 22.000 km", ed anche più i tre
Stati sabellici indipendenti del mezzodì, la lega sannitica ridotta
forse a 14.000 km*, la Lucania ed il Bruzio, che avranno abbrac-
ciato allora tra 10 e 12.000 km' per ciascuno.
(1) Estensione totale sopra 13.800 km', cioè Napoli con Capua ed Ischia 200,
Nola ed Abella 470, confederazione nucerina 450, Marsi 1100, Peligni 1100,
Vestini 2000, Marrucini 550, Frentani 2750, Ocricolo 200 (?), Daunia (tolta
Lucerla etc.) 5000, totale 13.820. Sarebbero forse da aggiungere Allife e Ca-
iazia nel Sannio, Camerino nell'Umbria ; le prime peraltro non muterebbero
che di pochissimo la somma, e quanto a Camerino non era per allora un'al-
leata su cui i Romani potessei-o contare al modo stesso che sugli altri federati.
(2) Per una estensione di oltre 2500 km-, e cioè Luceria 450, Suessa 800,
Ponzia 30, Interamna 180, Sora 640, Alba 500, Narnia 220, Carseoli 300; to-
tale 2570. L'estensione del territQrio di Saticula non può determinarsi, ma
era senza dubbio non grande.
(3) Tenuto conto delle ultime cessioni territoriali.
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CAPO XX.
La conquista d'Italia.
Frattanto i Lucani continuavano la loro guerra con Taranto. Ma
da soli non erano in grado di riportare una vittoria definitiva: ne
i Sanniti si mostravano disposti ad aiutarli, stremati com'erano
di forze e fors'anclie nella giusta previsione che jpresto a\'Tebbero
dovuto cercare l'alleanza dei Grreci nella lotta per l'esistenza contro
Roma. Si trovarono invece pronti a soccorrerli i Homani^ sia
perchè la loro bellicosa gioventù^ ora che posavano le armi nel
Sannio, avrà ambito di misurare le sue forze coi Greci, sia anche
perchè era questa per Roma un'occasione oiDjDortuna a distac-
care dai Sanniti i potenti loro alleati sul confine meridionale
del Sannio e compire il cerchio di ferro con cui andava stringendo
il paese de' suoi avversari (1).
j
(1) Di questa lega fa testimonianza soltanto Diod. XX 104, 1, ma è testimo-
nianza perentoria; del resto anche Liv. X 11 e Dionys. XVII-XVIII 1 consi-
derano l'alleanza del 298 come il rinnovamento di un patto anteriore ; e non
importa che essi vogliano alludere alla pretesa alleanza del 326 (sopra p. 303),
non a quella effettiva, che non conoscono, del 303 o 302. Inoltre gli ohsides
presi in Lucania nel 298, cui accennano non solo le fonti classiche, ma anche
la iscrizione di L. Cornelio Scipione Barbato (v. più oltre), si accordano bene
con questa ipotesi.
ALLEANZA TRA EOMANI E LUCANI. CLEONIMO 345
All'alleanza romano-lucana i Tarentini si sentivano troppo in-
feriori. Onde deliberato di chiamare per la terza volta in loro
soccorso mi principe greco , si rivolsero a Sparta e sollecita-
rono rinvio del principe reale Cleonimo della casa degli Agiadi,
figlio secondogenito di re Cleomene II e zio del regnante Areo.
Crii Spartani lo lasciarono partire ben volentieri^ sia per le an-
tiche relazioni di parentela e d'amicizia con Taranto, sia anche
per liberarsi d'un principe turbolento e ambizioso che non mancò,
l)iù tardi, di procacciare molestie al governo spartano. E Cleo-
nimo coi mercenari laconici, con gli altri che raccolse ' in Ta-
ranto e con le milizie italiote , ebbe presto messo in assetto di
guerra un esercito di forse ventimila uomini (303) (1). Cimen-
tarsi contro tali forze i Romani non i)otevano senza inviare il
nerbo dei loro eserciti in mia regione lontana in cui le armi
loro non erano mai penetrate, con rischio che gii anticlii nemici
ne ijroiittassero per rialzare il cai^o. E i^erò senza dubbio la loro
deliberazione di far pace con Taranto fu assai prudente. S'intende
che gl'interessi dei Lucani dovettero in parte venir sacrificati; ma
Roma, senza aver perduto nulla, potè attendere gli eventi. Far
pace, sia pure a buone condizioni, col nemico nazionale fu invece
un grave errore, tanto da parte di Cleonimo, quanto da parte dei
Tarentini. Cleonimo solo nella lotta col nemico della nazione po-
teva trovare un mezzo efficace e al tempo stesso legittimo d'ac-
quistare potenza nell'Italia meridionale ; ed è vero che egli non
si preoccupava tanto della causa nazionale, quanto di fondare un
regno ; ma avrebbe dovuto accorgersi che per colorire il suo di-
segno conveniva che al pari d'Agatocle si mostrasse coi fatti
il difensore della nazionalità ellenica nell'Occidente. I Tarentini
poi, ora che i Lucani non potevano contare sull'alleanza sanni-
tica e che il timore dei Sanniti e degli altri nemici o poco fedeli
amici, che avevano j)iù a nord, tratteneva i Romani dalF impe-
gnarsi troppo seriamente, avrebbero avuto un'occasione propizia,
quale non si presentò mai più, per rialzare le sorti dell'ellenismo
nell'ItaUa meridionale. Ma essi badavano agl'interessi dell'oggi e
non vedevano l'ora di liberarsi dall'alleato dispendioso e perico-
loso cui avevano fatto ricorso e dedicarsi in pace ai loro commerci ;
(1) DioD. XX 104-105 racconta l'impresa di Cleonimo al 303/2. Ma dall'arrivo
di lui alla sua sconfitta nei Sallentini corse probabilmente più di un anno. A
quella rotta si accenna in Liv. X 1 sotto il 302 (452 Vakk.).
346 CAPO XX - LA CONQUISTA d'itALIA
né mancavano certo a Taranto quei predicatori di pace ad ogni
costo che ottengono soltanto di rendere più imbelli i popoli im-
belli, e clie studiandosi d'impedir ad essi di far guerra quando
hanno per farla prosperamente l'occasione opportuna, li costrin-
gono xDoi a sostenerla quando l'occasione è opportuna pel nemico.
Cleonimo frattanto diede presto a divedere i suoi veri intendi-
menti. Dalla lega italiota s'era in quel tempo allontanata, forse
per rivalità verso la vicina Taranto, la città di Metapontio. La
pace fatta dai Lucani coi Tarentini e coi loro alleati, non inclu-
deva naturalmente Metaj)ontio : e gl'indigeni si lasciarono indurre
a invadere subito il territorio metapontino, senza avvedersi che
agivano cosi non nel proprio interesse, ma in quello di Cleonimo.
A Metapontio infatti non rimase altra via di scampo che rivol-
gersi a Cleonimo ed agli Italioti, ed accogliere le loro soldatesche
entro le proprie mura (1). Cleonimo trattò la città come paese
di conquista, non solo imponendole una gravissima contribuzione
di guerra, ma pretendendone per ostaggio fanciulle delle famiglie
più nobili, cosa che in Grecia non s'era mai fatta (2). Tutto ciò
irritava gli alleati di Cleonimo ai quali iDareva che egli non facesse
cosi ])er aiutare la lega, ma per ambizione di dominio; ed essi non
erano disx)osti per nulla a rinnovare sotto la gTiida di Cleonimo
la lotta a cui già avevano partecipato con poca fortuna capita-
nati dal suo fratello maggiore Acrotato contro il tù^anno di Si-
racusa Agatocle, ora che Agatocle dominava su tutta la Sicilia
greca e s'era persino pacificato co' suoi avversari oligarchici. Frat-
tanto, presentataglisi non sappiamo bene quale opportunità, Cleo-
nimo navigò imj)rowisamente verso Corcira e se ne impadi'oni,
guadagnando in tal modo una base non dispregevole per ulteriori
imjjrese in Italia e Sicilia. Ma i Tarentini erano ormai stanchi e
colsero l'occasione della sua assenza per rinunciare, forse d'accordo
con tutte le città italiote, alla sua alleanza. Cleonimo salpò tosto
verso la Calabria per tentare la sottomissione dei ribelli; ma^
privo degli alleati italici e di parte de' suoi mercenari che aveva
dovuto lasciare a Corcii'a^ non gli venne fatto neppur di soste-
nersi contro gl'indigeni e dovette riprendere poco gloriosamente
il mare. A proposito di questa vittoria degl'indigeni onde ebbero
(1) Questo pare il solo modo d'intendere ragionevolmente il racconto con-
fuso di Diodoro, il quale sembra escludere che Cleonimo si sia impadronito di
Metapontio per forza d'armi, v. Beloch Gr. G. Ili 1, 209.
(2) Cfr. DuRis fr. 37 ap. Athen. XIII 605 e.
CLEONIMO 347
conoscenza dalle fonti greche , gli annalisti, ascrivendone, com' è
natm-ale, il vanto ai Romani, sapevano narrare o del console
M. Emilio (302) clie aveva vinto nei Sallentini Cleonimo e lo aveva
costretto ad imbarcarsi, ovvero del dittatore C. Grimiio Bubulco
che col suo solo avvicinarsi aveva indotto Cleonimo alla ritirata.
Ma queste sono evidenti invenzioni, xjercliè i Romani non pos-
sono essersi inoltrati fin d'allora nella penisola Sallentina (1) ; e
il trattato di pace che avevano dovuto stringere con Taranto mi-
rava apjDunto a escluderli dai paesi che sottostavano all'influenza
tarentina : cosi si spiega il di\'ieto fatto ai Romani di navigare
oltre il promontorio La cinio che chiudeva alle loro navi da guerra
il golfo di Taranto e l'Adriatico (2). Frattanto Cleonimo, cacciato
dalla Magna Grecia, si ridusse a pirateggiare partendo da Cor-
eira lungo le coste dell'Adriatico. La tradizione locale di Padova,
non indegna di fede, ricordava una duplice vittoria che i Pado-
vani aveano riportato e per terra sulle milizie di Cleonimo scese
a predare e nella laguna con le loro imbarcazioni sulle navi da
guerra greche avanzatesi imprudentemente tra i bassi fondi. I
rostri delle navi conquistate infissi presso un tempio e annue
regate sul Bacchigliene furono monumento della vittoria (3). Ma di
queste piraterie avevano a soffrh'e non solo gl'indigeni, si anche
i commercianti greci, e soprattutto i Siracusani che da tempo fre-
quentavano quel mare ; e perciò Agatocle si dispose a mettervi
un termine. Liberata Corcira, col suo aiuto, da Cleonimo (4), al
(1) Del resto i fasti trionfali tacciono a tal proposito.
(2) Già il NiEBUHR ha visto rettamente (III 318) che qui dev'essere posta la
conclusione delle TtaXaiai ouv0r|Kai la cui trasgressione ebbe per elietto la guerra
di Pirro, le quali stabilivano M'I ir^eìv PujiLiaioue; Ttpóauj AaKivia<; ÓKpaq.
(3) Secondo il padovano T. Livio X 2. Può esservi soltanto qualche dubbio
se la vittoria sui Greci ricordata dalla tradizione di Padova sia stata ripor-
tata proprio su Cleonimo o in altra occasione, p. es. intorno al tempo in cui
sotto Dionisio il vecchio i Siracusani cercarono di stabilirsi alle foci del Po.
Ma è più verisimile che si tratti appunto di Cleonimo.
(4) Questa non è che una ipotesi; ma essa spiega ad un tempo come Cor-
cira fosse tolta a Cleonimo (ablata, Trog. prò/. 15), e come Agatocle la dispu-
tasse poi con tanto accanimento a Cassandro (Diou. XXI 2), mentre non ebbe
difficoltà di cederla poco più tardi a Pirro. Per ciò che concerne la cronologia,
il tentativo dei Macedoni su Corcira fu anteriore alla morte del re Cassandro
(297); e però le piraterie di Cleonimo nell'Adriatico erano terminate nel 298
0 più probabilmente già da prima.
348 CAPO XX - LA CONQUISTA d'iTALIA
principe spartano non rimase che tornarsene con poco onore in
patria.
Mentre i Romani dilatavano nell'Italia meridionale il campo
d'azione della loro politica, non perdevano di vista l'Italia media,
dove avevano soggiogato gli Equi e rinvigorito la loro egemonia
sui Marsi, Peligni, Marrucini e Vestini, Che pm- la Sabina ba-
gnata dal Tevere fosse sotto il loro diretto o indiretto dominio
è il presupposto della guerra scoppiata nel 300 coi Nequinati in
cui essi s' impadronirono di quella città col suo territorio (299)
e vi fondarono la colonia latina di Narnia (1). Estremo avamposto
romano era nell'Italia centrale verso nord la importante città
umbra di Camerino, che i Romani avevano saputo legarsi valida-
mente con un favorevolissimo trattato di alleanza (sopra p. 331),
Ma tali progressi dell'influenza romana dovevano intimorire le
altre popolazioni dell'Umbria e della Sabina, bellicose e gelose
della loro indipendenza. Non sappiamo che alcun legame federale
di carattere politico unisse tra loro quei popoli che nella tradi-
zione greca e romana compaiono col nome di Umbri (2), né quelli
che sono ricordati col nome di Sabini adoperato in senso stretto (3),
Ma il comune pericolo fece che parecchi di essi si stringessero ora
in lega apertamente coi Sanniti, o almeno non si tenessero dal fa-
vorù'li sottomano ; e ciò spiega come poi i Sanniti potessero facil-
mente aprirsi un varco verso l'Umbria del nord. Contrassero poco
prima o poco dopo tali relazioni d'amicizia e d'alleanza coi San-
niti, a giudicare in ispecie dal trattamento che ebbero di poi dai
(1) Liv. X 9, 8. 10, 1-5. I fasti trionfali registrano nel 299 la vittoria di
M. Fulvio de Samnitibus Nequinatibusque. Se la menzione dei Sanniti non è dovuta
a falsificazione o ad errore, per Sanniti qui non jiossono intendersi che i Sabini,
V. B. Bruno La terza guerra sannitica negli ' Studi di storia antica ' del Beloch
fase. VI (1906) p. 12 segg. Ma è più probabile che si tratti di ripetizione delle
vittorie sui Sanniti attribuite a M. Fulvio cos. nel 306 o a Cn. Fulvio cos,
nel 298. Sulle imprese narrate da Frontino d'un Fulvio Nobiliore, che alcuni
vorrebbero a torto fosse il M. Fulvio Patino cos. nel 299, v. oltre p. 351 n. 1.
(2) Non è chiaro il significato della divisione in tribù o plagae cui accenna
Livio. Ma sembra si tratti di cantoni indipendenti e che quei termini, in
questo caso, non indichino 1' esistenza di legami tra essi. Livio ricorda la
plaga Materina (1X41, 15: da cercarsi a Matelica?) e la tribù Sapinia presso
Sarsina (XXXI 2, 6. XXXIll 37, 1). Ignoriamo se con queste vadano messe
in relazione le tribù Tadinate ed Iguvina ricordate nelle tavole eugubine
(I p. 349 n. 3).
(3) Strab. V 228. Plin. n. h. Ili 107 seg.
PRODROMI DELLA TERZA SANNITICA 349
Eomani, le popolazioni sabino-vestine clelFalta valle del Pescara,
intorno a Peltuino, Aveia, Amiterno (1), poi nel bacino della Nera
Rieti e Norcia, sull'Adriatico gli affini Pretuttii che avevano il
loro centro ad Interamnio (Teramo) (2), nell'Umbria anzi tutto Spo-
leto e Foligno, che dovevano sentirsi incerte dell'avvenire, strette
tra la colonia latina di Narni e la città alleata di Camerino, poi in
maggiore o minore misura gli Umbri occidentali : questi ultimi ne tutti
forse né con ardore pari a quello dei loro fratelli, come sembrano
mostrare i trattati di alleanza conclusi poi con Roma^ e in par-
ticolare quello favorevole ottenuto dalla potente Iguvio (Gubbio) ;
e ciò probabilmente per la loro poca amicizia coi vicini d'oltre
Tevere che fecero causa comune coi Sanniti (3). Invece un'altra
regione italica assai popolosa strinse alleanza con Roma nel 299,
il Piceno, forse in odio dei vicini Pretuttii, forse per timore dei
barbari Celti con cui i collegati si disponevano ad iniziare rela-
zioni amichevoli (4).
Cose non meno gravi si x^reparavano in Etruria. All'infuori dei
Tarquiniesi, troppo provati dalle ultime guerre per essere desiderosi
di cimentarsi ancora con Roma (5), e dei Falisci, meno indocili
forse per ragione dell'affinità di razza al primato romano, le altre
alleanze erano malfide, e tutti aspettavano l'occasione opportuna
per riprendere la guerra. Si parla anzi di nuove ostilità con l'E-
truria già fin dal 302 o 301 : ma par che allora si trattasse sol-
tanto di qualche sedizione in Arezzo tra l'aristocrazia, in cui pre-
(1) Per questa via sembra che i Sanniti penetrassero nell'Umbria. Ne la
tradizione aveva perduto ogni ricordo di ciò, parlandosi della fuga dei Sanniti
dopo Sentino attraverso il territorio peligno (Liv. X 30, 2); che se anche si
trattasse di semplice induzione, sarebbe abbastanza caratteristica. Se i Romani
avessero già incorporato questa regione al loro territorio con la cittadinanza
senza suffragio, come ritiene Beloch Rai. Band 51 fondandosi sopra il passo di
DiOD. XX 90, 3, che va interpretato altrimenti (sopra p. 338 n. 4), i Sanniti
non sarebbero passati così facilmente nell'Umbria.
(2) La parte da loro avuta nella guerra è indicata chiaramente dalla cam-
pagna che contro di essi condusse nel 290 M'. Curio Dentato (v. oltre).
(3) L'opera prestata dagli Umbri nella guerra dev'essere stata assai modesta.
I fasti trionfali, Polibio e Diodoro parlano solo di Sanniti, Etruschi e Galli.
Sul foediis d'Iguvio v. Cic. prò Balb. 20, 47.
(4) Liv. X 10, 12: foediis ictum cuni Picenti populo est. Cfr. 11, 7: alterius
belli. .. fama Picentium novorum sociorum indicio exorta est: Samnites arma et
rehellionem siìectare seque ab iis sollicitatos esse.
(5) Se pure non erano stati incorporati allo Stato romano, cfr. s. p. 333 n. 4.
350 CAPO XX - LA CONQUISTA d'iTALIA
dominavano i Cilnì, e la classe popolare, composta mediante
l'intervento romano (1).
Ad ogni modo l'oiDportunità attesa non tardò a presentarsi. Da
quasi mezzo secolo i Galli non si erano arrischiati più a fare
scorrerie nel Lazio e nell'Italia meridionale, tenuti in rispetto
dalle due grandi potenze militari clie vi si erano formate, Roma ed
il Sannio (2). Ora stimolati dal sopravvenire di nuovi migratori
celtici nella regione padana e dagl'inviti degli avversari dei Ro-
mani, determinarono d' intervenii^e di nuovo, e tanto più agevol-
mente vi. si indussero in quanto i Romani, con pericolo evidente
pei barbari, per mezzo dell' alleanza coi Camerti e coi Picenti,
toccavano ormai i confini dell'agro gallico (3). Un esercito di Gracili
ed Etrusclii devastò nel 299 i possessi romani a nord del Tevere
e tornò addietro indisturbato e carico di bottino (4). La tradi-
zione più recente, dimenticando questa impresa vittoriosa del
nemico, parlava invece di fiere devastazioni perpetrate dai Romani
nel territorio etrusco. Ma pei popoli d'Italia fu quello il segnale
della riscossa.
(1) Liv. X 5, 13: (sopra p. 341 n. 6). Pure nei fasti trionfali il dittatore M. Va-
lerio Corvo trionfa non solo dei Marsi ma anche degli Etruschi. Quanto alla
data, M. Valerio è secondo i fasti l'eponimo dell'anno dittatoriale 301; ma
non v'ha dubbio che conviene riferirlo con la tradizione annalistica all'anno
consolare 302.
(2) Cfr. sopra p. 261.
(3) Le condizioni della tradizione son tali che sarebbe certamente pericoloso
definire se l'alleanza coi Picenti fosse tra le cause o (come vuole Livio) tra
gli effetti della spedizione gallica del 299. Non fu estranea ad ogni modo alla
continuazione della guerra coi Galli.
(4) PoLYB. Il 19 narra che dopo trent' anni di pace, rinforzati^ da migratori
transalpini, i Galli fecero una spedizione contro i Romani: 4v fj ti'iv éopoòov
TToirioà|uevoi h\à Tuppnviaq, Ó|no0 auarpaTeuaaiLiévujv oqpicfi TupprivObv koì irepiPa-
Xó,uevoi Xeia^ nXfiOo;, ìk |nèv Tf\<; 'Puj)aaiujv èTrapxia<; àacpaXwc, èiravfiXeov : in
patria poi vennero a discordia pel bottino e distrussero tò -rrXeTaTov }xépoc, delle
proprie forze : dove l'ultima può essere un'invenzione destinata a mostrare che
i violatori del territorio romano non sfuggirono la nemesi. La tradizione liviana,
assai alterata (X 10), riferisce che i Galli avevano pattuito con gli Etruschi
d'invadere il territorio romano; ma poi tornarono in patria mancando ai patti,
e allora il console T. Manlio e poi M. Valerio a lui sostituito portarono la
guerra in Etruria, e Valerio devastò spietatamente il paese, che non oppose
resistenza (X 11). Quanto ci sia di vero sull'ultimo punto non sappiamo; e
il nome del console è poco fatto per ispirarci fiducia. Che il console T. Manlio
morto sul principio della guerra per una caduta da cavallo non sia invece
caduto combattendo contro gli invasori, come alcuno potrebbe congetturare,
pare escluso dal silenzio di Polibio.
I PRIMI ANNI DELLA TERZA SANNITICA 351
Tosto il grido di guerra risuonò dal Po ai monti della Sila.
Non era più ora la lotta tra Oschi e Latini per l'egemonia: era
la lega degli abitatori indipendenti d'Italia contro la affermantesi
supremazia romana. Diversi x^er nazionalità e per incivilimento, i
collegati non avevano altro interesse comune che quello di abbat-
tere Roma. E Roma si trovò in grave pericolo quando sorsero in
armi contro di lei i Celti, terrore un tem]30 dei Romani, le belli-
cose tribù dell'Umbria e della Sabina, gli Etrusclii e i Sanniti,
sempre vinti e non mai domi. I territori degli alleati, anche pre-
scindendo dalla Grallia, avevano una estensione di 50.000 km*,
dopx^ia quasi di quella dello Stato romano con le sue dii^endenze,
ed erano, se non relativamente, certo assolutamente più popolati.
Ma la mancanza d'unità di direzione, la diversità degli interessi
dei contraenti e la loro poca omogeneità rendevano ad essi molto
diffìcile di trionfare, nonostante le forze preiDonderanti, lo siDÌrito
guerriero ond' erano animati e gli aiuti gallici, della salda com-
pagine dello Stato romano. La quale si manifestò in questa oc-
casione non meno che nelle guerre di Pirro e di Annibale, x^èrchè
nessuno dei municipi e delle colonie defezionò, e fuori dell'Etrmia
e dell'estremo mezzogiorno d'Italia anche gli altri alleati rimasero
fedeli. Militarmente poi le parti dei Romani e dei loro avversari
erano per rispetto ai territori invertite in confronto con la seconda
sannitica: allora i Sanniti avevano il vantaggio della posizione
centrale di contro alle estese e sottili linee romane: ora il terri-
torio romano e alleato formando come una massa compatta sepa-
rava i Sanniti dai loro confederati x^iù settentrionali.
Prima di tutto i Romani si proposero d'impedire la defezione
tra i Lucani, che vi parevano dis^Dosti, e non del tutto a torto,
poiché dall'alleanza romana essi non avevano rice^nito altro pro-
fìtto che quello d'essere costretti ad una pace poco vantaggiosa
coi Tarentini. Qui la prontezza con cui i Romani intervennero e
la consueta esitazione dei Sanniti ad affrontarli in campo a]Derto
foce si che già nel 298 l'influenza romana fosse riaffermata, il trat-
tato d'alleanza rinnovato e consegnati ai Romani ostaggi per gua-
rentii-ne la esecuzione. Cosi i Romani poterono con parte delle
forze iniziare l'offensiva nel Sannio, mentre con l'altra parte te-
nevano a freno gli Etruschi (1). Nel Sannio pertanto conquistarono
(1) Secondo Livio nel 298 il console Scipione vinse gli Etruschi a Volterra;
l'altro console Cn. Fulvio, vinti i Sanniti a Boviano, prese Boviano ed Aufi-
dena e trionfò de Samnitibus (X 12). I fasti trionfali tacciono di Scipione o
fanno trionfare Fulvio de Samnitibus Etrusceisque. Fuontino parla di Fulvio
352 CAPO XX - LA CONQUISTA d'iTALIA
alcune terre la cui posizione ci è poco nota, ma che vanno forse
cercate sui contini del paese: Taurasia e Cisauna nel 298 (1), Ci-
metra nel 297 (2), Murganzia, Romulea e Ferentino nel 296 (3).
Nobiliore (e vuole intendere senza dubbio il cos. del 298) che guidando l'eser-
cito ex Samnio in Lucanos seppe causare le insidie tesegli per via dal nemico
(I 6, 1. 2. 11, 2). In contraddizione con queste è la fonte piìi antica, l'elogio
sepolcrale di Scipione Barbato {CIL. VI 1284 seg.): Cornelhis Lucius Scipio
Barbatus Gnaivod patre prognatus, fortis vir sapiensque qiioius forma virtutei
parisuma fuit; consol censor aidilis quei fuit apud vos; Taurasia Cisauna Samnio
cepit, suhigit omne Loucanam opsidesque ahdoucit. L'iscrizione peraltro è stata
incisa mezzo secolo od anche un secolo dopo il consolato di Scipione (cfr. Wolfflin
' Sitzungsber. der mùnch. Akad. ' 1892 p. 120 segg.). La contraddizione può
spiegarsi soltanto col Niese ritenendo che gli annalisti piìi antichi registrassero
qui i fatti senza i nomi ; la distribuzione delle provincie tra i consoli è però
opera dell' annalistica recente e senza valoi'e storico {De annalihus Romanis
Marburgi 1886 p. IV). Certo alle versioni annalistiche è preferibile la iscrizione
del Barbato; ma se anch'essa meriti fede assoluta riferendo la conquista di
Taurasia e Cisauna e la sottomissione (la parola stibigit va naturalmente in-
tesa cum grano salis) della Lucania al Barbato è incerto. Il Beloch ' Rivista
di storia antica ' IX (1904) p. 277 suppone che la tradizione originaria attri-
buisse a Fulvio vittorie sui Sabini da cui poi si sarebbero ricavate le sue pre-
tese vittorie sui Sanniti ; ma la sua ipotesi pare arbitraria.
(1) Dalla iscrizione citata. Cisauna è affatto ignota. Da Taurasia si suole
trarre il nome àelVager Tanrasinus (Liv. XL 38. 41) in cui furono stanziati
nel 180 i Liguri Bebiani e Corneliani. Se la congettura è fondata, è impos-
sibile riferire la cosa al principio della seconda sannitica e si tratterebbe
d'una falsificazione dovuta alla vanità gentilizia. Può però trattarsi di quella
Taurania menzionata da Plin. n. h. Ili 70 come distrutta in Campania, cfr.
Steph. Byz. s. V. Taupavia : questa terra dovrebbe essere cercata al confine col
Sannio, forse verso Saticula.
(2) Liv. X 15. Forse è da cercare al confine volsco-sannitico ricordando i suf-
fissi simili di Velitre, Ecetra.
(3) Caratteristico è che la conquista di questi tre luoghi si attribuisca o al
solo P. Decio proconsole o in parte a lui in parte all'altro proconsole Q. Fabio
Rulliano o ài due consoli Ap. Claudio e L. Volumnio o al solo L. Volumnio
(Liv. X 16). Ciò mostra che era in realtà tramandato il solo fatto della con-
quista. Della posizione di Murganzia non sappiamo nulla (congetture abba-
stanza arbitrarie in tal proposito son presso Pais I 2 p. 428). Per Ferentino
(da non confondersi con la omonima città degli Ernici), si è proposto di iden-
tificarla con Forentum o Ferentum al confine lucano, già occupata dai Romani
durante la seconda sannitica (v. sopra p. 319); Romulea s'è messa in relazione
con la stazione ad Romulam menzionata dagli itinerari a cinque miglia da
Aquilonia. Questo indicherebbe che i Romani combatterono prosperamente
partendo dalla Lucania.
I PRIMI ANNI DELLA TERZA SANNITICA 353
Tali contiuiste vengono attribuite dalle fonti ora all'uno, ora al-
l'altro dei vari comandanti romani; segno die la tradizione con-
servava solo la nuda notizia delle terre occupate. Le fonti tarde
a noi pervenute vi aggiungono coi nomi dei vincitori altri rag-
guagli poco credibili. Così al 298 la vittoria presso Boviano e la
presa di questa città, attribuita al console Cn. Fulvio, è proba-
bilmente una reduplicazione delle gesta del console M. Fulvio
nel 305(1); si spiega Fassalto alla capitale sulla fine della seconda
sannitica, non mentre principiava la terza. Anclie meno credibili
appaiono le vittorie del 297: nel quale anno il console Q. Fabio
RuUiano avrebbe sbaragliato i Sanniti a Tiferno, mentre il suo col-
lega P. Decio Mure avrebbe superato gli Apuli a Male vento (la
posteriore Benevento) impedendo loro di congiungersi coi Sanniti.
Su di che è molto eloquente il silenzio dei fasti trionfali; ed è del
resto singolare clie fra tanto minacciar di nemici ambedue gii
eserciti consolari si riunissero nel Sannio; ed anche meno si vede
perchè gii Apuli dovessero passare a Malevento per giungere a Ti-
ferno (2). E tuttavia l'andamento della guerra è abbastanza chiaro.
I Romani o^jeravano con una loarte delle forze verso il confine
etrusco ed umbro, con l'altra dalla parte del Sannio, sia per pro-
teggere i loro alleati Lucani ed Apuli ed assicurarsi al tempo
stesso della loro fedeltà, sia per tenere a bada i Sanniti disto-
gliendoli dal congiungersi coi loro amici del settentrione. '
Questo scopo non fu raggiunto. Non solo tra i Lucani e tra gli
Apuli non riusci ad affermarsi i^ienamente la superiorità delle
armi romane (3), ma nel 296 un forte esercito sannitico agii ordini
(1) Cfr. sopra p. 339. Nella frase di Liv. X 12, 9 : Boviuntiin inde adgressus
nec ita midto post Aufidenam vi cepit, adgressus si riferisce, come nota il Weis-
SENBORN, anche ad Aufidenam e cepit anche a Bovianum. Con la presa di Boviano
cade anche quella di Aufidena, quantunque questa non sia attribuita esplici-
tamente dalle fonti al consolato del 305.
(2) Liv. X 14. 15. Un combattimento a Tiferno è riferito per gli ultimi anni
della seconda sannitica (sopra p. 339 n. 1. Liv. IX 44). Un altro presso il tnons
Tifernus è ricordato da alcune fonti che Livio non segue, con evidente redu-
plicazione (X 30, 7;, sotto l'altro consolato di Fabio e Decio (295).
(3) Per i Lucani ciò è provato dalla loro sottomissione nel 290 per opera
di Curio Dentato. Del resto non è neppur certo che tutti fossero tornati al-
l'alleanza romana iin dal 298. Gli Apuli vengono menzionati come nemici da
Liv. X 15 (a. 297), dove, s'intende, può trattarsi solo di una qualche tribù
apulica, non certo dei Danni di Arpi. Le posteriori guerre in Apulia sembrano
provare che i Sanniti non mancavano colà di alleati : vedansi soprattutto le
notizie sulla presa di Venusia nel 291.
G. De Sanctis, Storia dei Romani, II. '.£3
354 CAPO XX - LA CONQUISTA d'itALIA
di Gelilo Egnazio, traversando il paese dei Peligni senza che questi
osassero affrontarlo, e passando poi nel territorio delle tribù amiche
dell'alta valle dell' Aterno, dava la mano ai Sabini ed agli Umbri
e s' internava i30Ì nell'Umbria verso il paese dei Senoni per con-
gimigersi con le forze dei Gralli (1).
Frattanto i Romani avevano combattuto in Etrui'ia senza poter
ottenere successi di gTande momento. La tradizione narra d'una
vittoria presso Volterra nel 298 (2), confermata dai fasti che allo
stesso anno registrano un trionfo sugli Etruschi; poi al 296 ri-
corda mia vittoria che i consoli Ap. Claudio e L. Volumnio avreb-
bero riportato su Etruschi e Sanniti: vittoria intorno alla quale
ci rende molto scettici il silenzio dei fasti, la nessuna influenza
che ebbe nel corso ulteriore della guerra e il fatto che le forze
dei collegati si congregarono, com'è naturale, non nell'Etruria me-
ridionale, ma al confine umbro-gallico (3).
Effetto della mosssa di Grellio fu che i Romani ebbero a di-
(1) Il travestimento che i fatti soffrono per la vanagloria romana diviene
grottesco a proposito della partenza di Gellio Egnazio v. Liv. X 16, 2: (P. Decius)
Samnitium exercitum nunquam se proelio committentem postremo expulit finìbus.
Per la via seguita da Gellio cfr. sopra p. 348. Il Beloch mem. cit. p. 276 ritiene
che a Sentino abbiano combattuto non i Sanniti, ma i Sabini. Si mette così
in contraddizione patente con Duride (fr. 40), con Polibio (v. oltre p. 357 n. 1)
e con Livio. Ma è estremamente difficile che gli scrittori greci contemporanei,
l'annalistica più antica rappresentata da Polibio e la recenziorè rappresentata
da Livio cadessei'O di pieno accordo nel mede.s;imo errore: ne per negare la
presenza dei Sanniti a Sentino si sono addotte altre ragioni che di carattere
al tutto subbiettivo. Del resto che Egnazio fosse Sannita è confermato dal
ricorrere tra i duci pivi famosi degli Italici insorti contro Roma nella guerra
sociale un Mario Egnazio. E poi se i Sabini, le cui forze erano intatte, fossero
stati in grado di compiere imprese così pericolose per Roma come quella di
Gellio Egnazio, non sarebbero stati sottomessi, e senza possibilità di riscossa,
in poche campagne che hanno lasciato appena traccia nella tradizione.
(2) Liv. X 12. Per quanto questa vittoria sia attribuita da Livio a Scipione
Barbato, né tace la sua iscrizione. Invece Cn. Fulvio, secondo i fasti, trionfa
in quell'anno de Samnitibus Etrusceisque.
(3) Liv. X 19. È anche caratteristica l'indeterminatezza del luogo della bat-
taglia, mentre le battaglie su cui c'è vera tradizione hanno tutte un nome
preciso. Forse ad uno strato di tradizione più antico risalgono gli accenni a
vittorie di Appio sui Sabini di cui tace Livio ma parla il suo elogio (CIL. I '
p. 192: oppida de Samnitibus cepit, Sabinorum et Tuscorum exercitum fudit) e
l'autore del de vir. illustrib. (84, 5 : Sabinos, Samnites, Etruscos bello domuit).
Le lotte che non possono aver mancato in questi anni coi Sabini sono quasi
obliterate nella tradizione. — Non c'è ragione per mettere in dubbio che con-
LA BATTAGLIA DI SENTINO 355
sporre diversamente le loro forze: con la maggior parte di esse
dovettero difendere i loro alleati delFEtrmia e dell'Umbria e co-
prii'e la calcitale. Sicché la loro offensiva contro il Sannio cessò,
anzi presero invece l'offensiva i Sanniti devastando arditamente
la Campania e l'agro Falerno (1). La vittoria clie avrebbe guada-
gnato sugli assalitori il proconsole L. Volumnio accorso a grandi
giornate dall'Etrmia non ha il suffragio dei fasti trionfali; ma,
vera o falsa che sia, è certo che i Sanniti si pro^Donevano appunto
con queste diversioni di costringere i Romani a indebolire gli
eserciti con cui potevano fronteggiare Grellio Egnazio ed i suoi
collegati; poiché su Gelilo poggiavano le speranze dei Sanniti.
Fm^ono eletti consoli i^el 295 i due capitani più sperimentati
che Roma avesse, Q. Fabio RuUiano e P. Decio Mm-e, che già
erano stati consoli insieme per due volte, nel 308 e nel 297, senza
badare al breve intervallo corso da che per l'ultima volta avevano
rivestito la magistratura suprema. La situazione era grave più di
quel che non fu dopo le vittorie di Pirro e paragonabile soltanto
a quella creata dalla guerra annibalica; poiché non si sapeva nep-
pui-e se l'esercito dei collegati che si raccoglieva sotto la guida di
Grellio Egnazio sarebbe passato in Etrmia e di li, nella direzione
della \'ia Cassia, si sarebbe avanzato su Roma, ovvero se sarebbe
sceso dall'Umbria settentrionale nella direzione della via Flaminia.
L'incertezza obbligava quindi i Romani a dividere le forze, per
non essere colti alla sxjrovvista nell'una o nell'altra direzione; e al
tempo stesso non si potevano lasciare senza qualche protezione gli
alleati Lucani e Apuli, e conveniva tenere intorno alla città una
riserva, pronta ad accorrere ove maggiore fosse il bisogno. Si vi-
dero tutti gli inconvenienti della dispersione di forze cui erano
obbligati i Romani, quando una legione, che, agli ordini del pro-
pretore L. Cornelio Scipione Barbato, proteggeva il territorio degli
alleati di Camerino, fu sbaragliata dai Sanniti e dai Galli (2).
forme alla tradizione il tempio di Bellona sia stato votato in questo anno da
Appio Claudio: Liv. X 19, 17. Ovid. fasti 203. Sul passo di Plin. n. h. XXXV
12 V. al e. XXIV.
(1) Liv. X 20, 1 : in Samnium novi exercitus exorti ad populandum imperii
Romani fines per Vescinos in Campaniam Faìernumqiie agrum transcendunt.
(2) PoLYB. Il 19, 5 : auiucppovrioavreq fx\xa lauvÌTOi Kal TaXàTOi irapeTdEavTO
'Puj)uaioi<; év Tf\ Ka|aepTÌwv x^J^Jpcji Kal ttoXXoùc aÙTUJv èv tlù kivòùvuj biéqpSeipav.
Allora i Romani mct' òXiyaq t'ìiuépat; si mettono in marcia con quattro legioni
per riparare la sconfitta avuta e atìrontauo il nemico nel territorio dei Sen-
tinati. 11 contesto mostra all'evidenza che Polibio ha riferito la prima battaglia
356 CAPO XX - LA CONQUISTA d'iTALIA
Frattanto i Sanniti rimasti in patria, profittando dell'assenza di
forze romane sufficienti a tenerli in rispetto, scendevano di nuovo
devastando verso la Campania e verso il paese degli Aurmici per
le valli del Voltm^no e del Liri (1). Ma i Romani non si lascia-
rono distogliere per questa diversione da quello che doveva essere
il loro obbiettivo. La rotta del Barbato aveva rivelato ove si rac-
cogliesse il nemico. E però Q. Fabio e P. Decio riunirono i due
eserciti consolari e, forti di quattro legioni^ circa trenta o trenta-
seimila uomini, mossero verso l'Umbria settentrionale per termi-
nare la guerra distruggendo il nucleo principale delle forze av-
versarie (2). Forse Gelilo Egnazio non aveva ancora raccolto tutti
al territorio di Camerino e che per equivoco la fonte di Livio l'ha riportata-
ai territorio di Chiusi quod Cantar s olim appellabant (X 25, 11). Del resto Livio-
poco prima aveva supposto che il campo romano fosse nell'Umbria (25, 4) ad op-
pidum Aharnam; ed egli conosce alcuni scrittori qui Vmbros fuisse non Gallos
tradant gli autori della rotta (26, 12). Al solito non mancava chi anche di questa
piccola sconfitta aveva inventato una immediata rivincita. Nel testo son rico-
struiti i precedenti della battaglia di Sentino movendo dall'esame delle con-
dizioni di fatto dei belligeranti e prescindendo dai minuti ragguagli di Livio
in tal proposito, i quali non mi sembra meritino neppur discussione. Nel
punto fondamentale però , che cioè la rotta dei Romani fosse anteriore alla
marcia degli eserciti consolari nell'Umbria, il racconto di Livio è assai meno-
inverisimile di certe ricostruzioni recenti.
(1) Livio riferisce ciò a torto dopo la rotta di Sentino (X 31, 2): Samnitci-
praedatum in agrum Vescinum Formianumque et parte alia in Aeserninum quaeque
Volturno adiacent flamini descendere. Aesernia faceva parte del Sannio, quindi
Livio ha fatto un po' di confusione. Sembra peraltro da ricavarne col Niebuhr
(111 453) che i Sanniti sieno scesi lungo le valli di quei due fiumi. Anche qui alla
devastazione segue immediatamente l'immancabile rivincita in cui sarebbero
caduti 16.300 Sanniti. Il fatto della rivincita ha lo stesso negativo valore di
quel numero. Può sorger dubbio piuttosto se la devastazione come la sua ri-
vincita non sia la ripetizione di quella dell'anno precedente (sopra p. 355); e il
dubbio, considerando lo stato della tradizione, è abbastanza giustificato ; ma
che i Sanniti ripetessero le diversioni da quando ebbero spedito Gelilo nel-
l'Umbria è, anche prescindendo dalla tradizione, sicuro.
(2) Secondo Polibio i Romani attaccarono battaglia Ttaai toT<; arparoTréòoK;-
Secondo Livio, oltre le quattro legioni consolari, i Romani avevano alii duo
exercitus haud procul urbe Etruriae appositi, lums in Falisco alter in Vaticano
agro. Le due legioni destinate a coprire la città sono forse un' induzione fon-
data sulle due legioni urbane che si levarono talora nella guerra anniba-
lica. E quanto alla vittoria che per eosdem dies della battaglia di Sentino
(Liv. X 30, 1) il propretore Cn. Fulvio avrebbe riportato sui Perugini e Clu-
sini, questa è la stessa evidentemente che poco dopo avrebbe riportato Fabio
.sui Perugini (Liv. X 31, 3) con parte dell'esercito che aveva pugnato a Sentino.
LA BATTAGLIA DI SPUNTINO 357
i contingenti etnischi. Solo con la lentezza della radunata [)uò
^spiegarsi com'egli non profittasse del felice successo per scendere
nella direzione della via Flaminia verso Roma chiamando gli
Umbri alla riscossa. I Romani dunque prendendo l'offensiva po-
terono concentrare felicemente le loro quattro legioni a Camerino,
e di li si avanzarono verso Matelica per poi scendere lungo la
valle dell'Esino verso il paese dei Senoni. Ma press'a poco dove il
Sentino sbocca nell'Esino si trovarono chiusa la via dalFesercito
dei Sanniti e dei Galli rinforzati dai contingenti degli Etruschi e
probabilmente da parte degli Umbri; né v'ha dubbio che le forze
dei collegati erano assai sux:)eriori numericamente a quelle dei
Romani. Fu un combattimento memorando, l'ultima grande bat-
taglia che il particolarismo italiano sostenne con le sue xjroprie
forze contro Roma, e una delle maggiori che ricordi la storia ro-
mana fino all'età delle guerre civili. L'impressione che fece ai
contemporanei fu grandissima, tanto che i Greci di quel tempo
narrarono persino di centomila nemici rimasti sul campo (1). La
fantasia poi dei posteri la circonfuse dei colori della leggenda:
ma noi pm-troppo dobbiamo rassegnarci ad ignorare come si svolse
un combattimento che nella storia d'Italia ebbe im'importanza
paragonabile a quello di Solferino. La vittoria fu pagata dai Ro-
mani a caro prezzo: uno dei consoli rimase sul campo di battaglia,
P. Decio, che, a quanto ci vien detto, comandava l'ala sinistra, la
quale posta a fronte dei Galli ebbe più a soffrire, in ispecie per
la carica ch'essi fecero coi loro carri da guerra (2). Ma tuttavia la
(1) PoLYB. II 19, 6: au|Li3a\óvT6<; irSai Tot<; arpaxorréòoK; èv rf) tiDv ZevTivaTuùv
Xiwpa ■npòc, Toùq irpoeipriiaévouc; (Galli e Sanniti) toùc; |uèv TrXeiaTOUc; diréKTeivav
rovc, he XoiTTOìx; rivÓYKaaav irporpondòriv éKàaxouc; eU Triv oÌKeiav (puyetv. Diod.
XXI 6: Ittì toO iroXéiaou tiùv Tupprjvuùv Kal FaXaTiIiv Kal ZaiuviTiùv koI tuùv
érepiuv au)Li|Liaxujv (ìvr]pé0r|aav ùttò 'Puj|uaiajv cpapiou ÙTTareOovToc; òéna |.iupidb6c;,,
Questo numero è esageratissinio, sebbene dato da un contemporaneo. Il rac-
conto di Livio non merita alcuna fede, ma si accorge egli stesso in qualche
parte delle esagerazioni delle fonti (X 30, 5): superiecere quidam augendo fidem
qui in hostium excrcitu peditum milia trecenta triginta , equitum sex et quadra-
ginta milia mille carpentorum scripsere fuisse. — Del resto è degno di nota
«he secondo Livio (come pure Frontin. strat. I 8, 3. Oros. Ili 21, 3) alla bat-
taglia prendono parte i soli Sanniti e Galli e che di questi soltanto parla Po-
libio : prova che i soccorsi etruschi ed umbri, che certo non mancavano, furono
di poco conto, e quindi la tradizione potè facilmente dimenticarli.
(2) Ripetutamente è nella tradizione ricordata la devotio di Decio, il quale
visto piegare l'ala da lui comandata consacrò se ed i nemici agli dèi infer-
358 CAPO XX - LA CONQUISTA d'iTALIA
rivincita dei Romani che si misuravano allora per la prima volta
in campo coi Celti dopo la rotta dell'Allia fu piena. L'arditezza
di Fabio Rulliano e la disciplina delle legioni trionfò del numero
e della bravura del nemico. Quel momento fermò le sorti della
penisola. Rimaneva solo a vedere se con gli aiuti della madre-
patria i Grreci d'Italia avrebbero saputo conservare la loro indi-
pendenza.
Bisognava peraltro sfruttare vigorosamente la vittoria otte-
nuta: ne i Romani vi mancarono. Mentre le reliquie dei confederati
si davano alla fuga, Q. Fabio invadeva il paese dei Senoni. Al-
lora Gralli ed Umbri deposero le armi. I Senoni dovettero cedere
il territorio in cui poco di poi si dedusse la colonia cittadina di
Sena (Sinigaglia) e quello di Sentino (1) ; le città umbre strinsero
con Roma trattati di pace e d'alleanza. Ma Fuligno e Spoleto eb-
nali e precipitandosi tra le schiere dei barbari v' incontrò la morte. 1 testi
son tutti raccolti dal Muenzek presso Pauly-Wissowa IV 2, '2284. Forse la testi-
monianza più antica in tal proposito era di Duride; ma non basta a provarlo
la notizia confusa di Tzetze ad Lycophr. 1378: ypciqpei òè AoOpi^ koI Aióòuupo^
Koì Aiuuv 6ti ZauviTuùv TupprivOùv koI éxépuuv èSvuùv ttoX€|uouvtujv 'Pwiiiaioi^ ó
AéKinc, ìÌTTaTO(;'Puj|Lioiiiuv, auorpàrriYOt; u)v TopKoudTou, èirébiuKev éauxòv el<; acpay/iv,
Koì àvr)pé0r|OC(v tOùv èvavTicjuv éKaxòv xi^ióbeq aùOrifiepóv. L'ultimo particolare
deriva certo da Duride : ma nel resto è troppo evidente la confusione con la
battaglia ad Veserim per poter attribuire ogni cosa alla stessa fonte. Ad ogni
modo la morte di Decio in battaglia non par da revocare in dubbio : può du-
bitarsi piuttosto della devotio. Questo è forse un mito sorto quando fantasti-
camente, ma sotto l'impressione della morte gloriosa di P. Decio Mure a Sen-
tino, l'epopea popolare cantò della morte del costui padre nella battaglia
contro i Latini. Da questo punto di partenza la leggenda s'è reduplicata e
persino triplicata cercando d'applicarsi anche al terzo Decio (v. oltre e. XXI),
(1) La pace coi Galli, sebbene non ne venga data notizia esplìcita, è il pre-
supposto dei racconti seguenti. La integrazione proposta nel testo regge sol-
tanto se si accetti la cronologia di Livio secondo cui la deduzione di Sena
{epit. 11) spetterebbe al 290-288. Polibio (II 12, 12) la dà come posteriore alla
guerra di sterminio iniziata contro i Senoni poco dopo la terza sannitica. Ma
forse qui Polibio, trovando nella fonte la notizia della confisca dell'agro gallico
e sapendo che la colonia di Sena era stata precisamente dedotta in territorio
gallico, vi ha aggiunto di suo a questo punto la menzione della colonia. L'in-
corporazione del territorio di Sentino è il complemento necessario di quella
di Sena. Con questi territori, con quello di Fuligno e con 1' alleanza fedele
di Camerino i Romani erano padroni dei passi dell'Appennino e ponevano tra
i Sanniti e i loro possibili alleati del settentrione una muraglia che non fu
più superata.
ULTIMI ANXl DELLA TERZA SANNITICA 359
bero a pagare più cara la loro defezione, perchè furono private
dell'autonomia e incorporate nel territorio romano (1).
L'anno seguente (294) fu compiuta la guerra in Etruria. Vista
la disfatta dei Sanniti e dei Galli, già sconfitti essi stessi, a quanto
ci dice la tradizione, da Q. Fabio, e poi colpiti con l'espugnazione
di Ruselle (2), gli Etruschi preferirono accordi ragionevoli ad una
guerra all'ultimo sangue. Volsinì, Arezzo e Perugia conclusero no-
vamente, certo a condizioni meno favorevoli di prima, jjace e al-
leanza con Roma (3); e insieme con esse certamente Chiusi, Vulci,
Ruselle, mentre rimane dubbio invece se sin d'allora entrassero
neir alleanza romana le città più settentrionali dell' Etrmia. A
qualche cessione territoriale gli Etruschi fui^ono x^rob abilmente
obbligati; ma non dovette trattarsi che di poca cosa; poiché gli
Stati indipendenti di Vulci, Volsinì e Falerì continuarono da questa
parte a segnare il limite dello Stato romano. Tutto sembra pro-
vare che i Romani, desiderosi di terminare al più presto la guerra
in Etrmia per xjrocedere con tutte le loro, forze contro i Sanniti,
offersero agli Etrusclii condizioni miti, che essi accettarono di
buon grado.
Ma frattanto i Romani, obbligati a provvedere rapidamente
alle cose dell'Italia centrale, non avevano potuto disporre che di
forze inadeguate nel Sannio e nell'Apulia. I Sanniti, forse già dal-
l'anno precedente, minacciavano la colonia latina d'Interamna sul
Liri e nell'Apulia la colonia di Lucerla (4). Nel 294 sembra che i
(1) La praefectura Fulginatium è ricordata da Cic. jjro Vareno fr. 4. La de-
duzione della colonia latina di Spoleto (241) prova che già da tempo il terri-
torio spoletino era stato incorporato allo Stato romano. Sulla data di queste
annessioni giudica rettamente Beloch It. Biind p. 56 seg.
(2) Liv. X 31, 3 (cfr. p. 356 n. 2). 37, 3. Questi particolari non sono però al tutto
sicuri. Ruselle rimase alleata a Roma, mentile non sembra che in generale
fosse questa la condizione che i Romani facevano alle città prese d'assalto.
Del resto Livio stesso (X 87, 3) ricorda le versioni più varie sulle imprese
spettanti in questo anno a ciascuno dei due consoli. I fasti registrano il trionfo
di L. Postumi© de Samnitibus et Etrusceis e quello di M. Atilio de Volsoiiibus
et Samnitibus.
(3) Anche qui Liv. X 37, 5 parla di indutiae in quadraginta auiios. Forse
è una semplice ripetizione fuor di luogo delle indutiae di quarant' anni fatte
nel 308 con Tarquinì (sopra p. 333 n. 4). Ma ad ogni modo non v'è dubbio
che da allora datano i foedera di queste città etrusche con Roma.
(4) Liv. X 37, 16 (cfr. 39, 1). 38, 13 segg.
360 CAPO XX - LA CONQUISTA d'iTALIA
Eomani riportassero qualclie felice successo nel bacino del Liii (1),
occupando le terre sannitiche di Milionia e Feritro (2) e libe-
rando da ogni pericolo Interamna. Non fu altrettanto facile as-
siciu'arsi la vittoria nella lontana Apulia, dove essi ebbero a
soffrii'e gravi perdite nelle vicinanze di Luceria e solo a fatica
riuscirono a salvare dalla resa Luceria e dalla distruzione tutto
l'esercito die colà operava (3). Questo era del rimanente ciò che
per allora più imx^ortava ; percliè già nell'anno seguente (293) fu-
rono in grado di raccogliere novamente contro il Sannio forze
sufficienti per riprendere l'offensiva. Sembra clie da due parti, da
nord e da sud, movessero contro i Sanniti; da una parte rifacendo a
ritroso la via percorsa da Gellio Egnazio scesero per la valle del-
rAterno. dove occuparono Amiterno, verso il paese dei Peligni (4),
e Cominio negli Equicoli (5) ; dall'altra movendo dall'Apulia e pe-
(1) Infatti non si fa più cenno che i Sanniti sconfinassero da questo lato.
(2) Liv. X 34. Qualche indizio sulla posizione di queste città ignote dà forse
il suffisso di Feritrum (cfr. p. 352 n. 2) e la tradizione che riferisce la presa
di Milionia alla guerra marsica del 301 (sopra p. 341 n. 6).
(3) Che Luceria rimanesse ai Romani può ritenersi come bastantemente pro-
vato dal silenzio della tradizione. Quanto al combattimento, per la tradizione
che Livio segue è una vittoria dei Romani, pagata però a caro prezzo, perchè
rimangono sul campo piìi dei Romani che degli avversari (X 36); e anzi vi si
aggiunge persino una vittoria del console nel ritorno da Luceria sui predoni
sanniti che da Interamna riparavano nel Sannio, la quale è topograficamente
assurda. Ma son note a Livio stesso tradizioni molto diverse (X 37, 13 segg.):
Postumium auctor eat Claudius in Samnio cctptis aliquot urhibus, in Apulia fusuin
fugatumque, saucium ipsuin ciim 2}(tucis Luceriam compidsum... Fabius ambo con-
sules in Samnio et ad Luceriam rem gessisse scribit traductumque in Etruriam
exercitum... et ad Luceriam ufrimque multos occisos inque ea pugna lovis Sfa-
toris aedem votam.
(4) L' Amiterno menzionata da Livio (X 39, 1) dev'essere la nota città dei
Sabini, nonostante che secondo lo stesso Livio sia stata presa de Samnitibus.
Infatti sarebbe singolare che questo nome derivato dal fiume Aterno su cui
la città era posta (Varr. de l. l. IV 28) si ripetesse anche altrove, v. Beloch
mem. cit. p. 273. Probabilmente fino da ora fu annesso il territorio di Ami-
terno con quelli di Aveia e Peltuino, onde poi si fecero tre prefetture {CIL.
IX p. 397. n. 3429. 3627). Non sappiamo se in questa od in altra direzione deb-
basi cercare la ignota Duronia (Liv. 39, 4).
(5) Liv. X 39, 5 : inde pervugati Samnium consules, maxime depopulato Atinate
agro (donde si vede che le scorrerie romane secondo le fonti di Livio si limi-
tavano al confine tra il Lazio e il Sannio) Carvilius ad Cominium, Pnpirius ad
Aquiìoniam pervenit. La relazione che Livio pone seguendo le sue fonti tra la
ULTIMI ANNI DELLA TERZA SANNITICA 361
netrando nel paese degli Irpini col grosso delle forze, un paio di
legioni, posero l'assedio ad Aquilonia sotto il comando di L, Pa-
pirio Cursore, figlio dell'eroe della seconda guerra sannitica. Rotti
i Sanniti che erano accorsi alla difesa di Aquilonia (1), i Romani
occuparono Aquilonia ed altre terre (2), sebbene non venisse loro
fatto pel momento di penetrare molto più innanzi (3).
L'offensiva contro il Sannio procedeva cosi felicemente, tuttocliò
con lentezza. Ma intanto la ribellione dei Falisci provava che non
era j)rudente sguernir troppo il confine etrusco. I Falisci da mezzo
secolo erano alleati fedeli dei Romani; e non avevano vacillato
nella fede neppui' quando l'Etrm-ia nella seconda e nella terza
sannitica si era levata in armi contro Roma ; anzi negli anni xDre-
cedenti Falerì era stata la base d' operazione dei Romani in
espugnazione di Cominio e quella di Aquilonia compiute dai due consoli
mostra che queste fonti credevano che si trattasse di Cominium Ocritum nelle
vicinanze di Benevento (Liv. XXV 14). X 44 : uterque ex alterius sententia
consìil captimi oppidutn diripiendum militi dedit... eodemque die Aquilonia et Co-
minium deflagr avere et consicles cum gratulatione mutua legionum suaque castra
coniunxere. Ma dacché Sp. Carvilio occupò, come vedemmo, Amiterno, è più
probabile che si tratti della Cominio l'icordata da Flin. n. h. Ili 108 fra le
città distrutte degli Equicoli. Forse invece alla città omonima presso Bene-
vento si riferisce Dionisio attribuendone la occupazione al console Postumi o
Megello del 291, che operò dal lato della Puglia.
(1) È evidente che la narrazione della vittoria di L. Papirio nel 293 (Liv.
X 38-39. Cass. Dio fr. 36, 29. Zon. Vili 1) corrisponde interamente a quella del
padre nel 309 (Liv. IX 40). Il racconto (per poco o molto di vero che vi sia)
doveva riferirsi originariamente al 293 (cfr. sopra p. 332). I fasti del resto
registrano in quest'anno conforme al racconto di Livio il trionfo dei due con-
soli de Samnitibus. L'Aquilonia di cui qui si tratta è senza dubbio l'odierna
Lacedonia nel paese degli Irpini. Dal passo di Livio si è voluto trarre la con-
gettura che esistesse un'altra Aquilonia presso Boviano; ma la geografia di
Livio è troppo difettosa per giustificare simili induzioni. Quanto poi alle mo-
nete con la epigrafe JINIHNVJIVMN, esse si riferiscono con ogni probabilità
a Lacedonia, cfr. Samiìon Monnaies- ant. de l'Italie I p. 109. 115.
(2) Velia, Palumbinum, Herculaneum (Liv. X 45, 8), tutte di posizione ignota.
Quanto a Velia, può sorgere il dubbio che si tratti non d'una piccola terra
conquistata nel Sannio, ma della nota città greca di questo nome che in
quell'anno sarebbe entrata nell'alleanza romana. Sul suo foedus cfr. Cic. p7'o
Balb. 24, 55.
(3) L'occupazione di Saepinum presso Boviano attribuita a Papirio, se pur
merita fede, ebbe certamente breve durata.
362 CAPO XX - LA CONQUISTA d'iTALIA
Etrui'ia (1). Ora, forse non avendo ottenuto nella pace poco prima
conclusa quei vantaggi a cui i loro importanti servizi pareva des-
sero il dii'itto di aspirare, e fors'anch.e vedendosi trattati dopo
terminata la guerra etrusca con quell'alterigia che i Romani anclie
allora non semijre risparmiavano agli alleati di cui non avessero
più bisogno, i Falisci si ribellarono (2). Forse confidavano che gli
Etruschi, posate appena le armi, fossero pronti a riprenderle. Ma
questa speranza riusci vana ; XDoichè è evidente, nonostante qualche
fugace accenno della tradizione, che gli Etrusclii si astennero dal-
l'intei'venire a favore dei Falisci; e forse anche assistettero non
senza compiacimento alla umiliazione d'una città che, pur essendo
ascritta alla lega etrusca, aveva fatto causa comune coi Latini.
Soccorsi dagli Umbri, dai Gralli o dai Sanniti non erano da sperare.
Pertanto i Falisci credettero prudente di venire presto a patti con
Roma senza esporsi con mia lotta i^rolungata alla estrema rovina;
e conclusero nello stesso anno 293 una tregua che dovettero Tanno
seguente mutare in un trattato di pace e d'alleanza, meno favo-
revole senza dubbio di quello che avevano avuto sino allora (3).
E continuò nel 292 l'offensiva romana contro il Sannio (4). Ma
i Sanniti resistevano accanitamente, e la tradizione registra una
sconfìtta del console Q. Fabio Massimo Giu^gite, il figlio del Eul-
liano. L'onta della sconfitta fu lavata, secondo le nostre fonti, dal
vecchio Rulliano che, come legato del figlio, seppe procm-argli
(1) Liv. X 12. 14. 26. Cfr. sopra p. 3-19.
(2) Liv. X 45. 46. Si è proposto di indeiitificare Troilum conquistata allora
dai Romani in Etruria con Trossulum a nove miglia a sud di Volsinì (Plin.
n. h. XXXUI 35), di cui una leggenda etimologica attribuiva la conquista ai
cavalieri romani per spiegare il loro soprannome di Trossuli (Plin. 1. e. Fest.
p. 867 M. ScHOL. Pers. I 82. Varr. ap. Non. p. 49, 1). L'identificazione è dubbia.
Se mai, potrebbe trattarsi d'una posticipazione, perchè pare strano cbe i Vol-
siniensi abbiano ripreso le armi un anno dopo averle deposte. I fasti del resto
non menzionano vittorie ne su Etruschi ne su Falisci nel 293. Zon. VITI 1
narra oltre alla guerra etrusca del 293 anche una sollevazione dei Falisci nel
292, che sarebbe stata superata dal console D. Giunio Bruto per virtù di Car-
vilio che serviva sotto di lui come legato. Si tratta evidentemente di una ri-
petizione della guerra narrata da Livio e da lui all'anno precedente : e il le-
game in cui anche in questa narrazione essa appare con Carvilio, mostra che
è preferibile la data del 293.
(3) Sulla tregua del 293 Liv. X 46, 12 e quasi allo stesso modo Zon. Vili 1.
(4) Con l'anno 293 si chiude la prima deca di Livio, e, perduta la seconda,
ci manca dei fatti seguenti un racconto continuato e diifuso.
ULTIMI ANNI DELLA TERZA SANNITICA 363
una grande vittoria sui Pentri: nella quale cadde prigioniero
C. Ponzio, il ^dncitore di Gaudio, die, condotto in catene dinanzi
al carro trionfale del console fu ucciso di scure ai piedi del Cam-
pidoglio (1). Conviene però confessare clie se la sconfitta può te-
nersi come accertata, la importanza della rivincita è assai sospetta ;
e cosi può anche dubitarsi della morte di Ponzio, non perchè i
vincitori romani fossero molto accessibili a j)ietà, m.a perchè gli
annalisti erano anche più sj)ietati di essi verso i nemici di Roma.
Ma se la sconfìtta fu pei Romani dolorosa, essa non mutò lo
stato delle cose; che ormai, superati gli altri avversari, la sotto-
missione del Sannio richiedeva solo tempo e costanza. Lo stesso
Fabio Gm^gite, avuti rinforzi da Roma, continuò a fronteggiare il
nemico (2); e nell'anno appresso (291) il console L. Postumio Me-
gello ristabili la fortuna delle armi romane conquistando Cominio
nel Sannio e in Puglia impadronendosi di Venusia. Qui in un ter-
ritorio confiscato di sopra 2000 km^ si costituì una colonia latina
superiore per estensione a tutte quelle che si erano condotte in
Italia, inviandovi, a quanto si dice, non meno di 20 mila coloni (3).
Nel 290 poi il console M'. Curio Dentato invase col collega P. Cor-
nelio Rufino il paese dei Sanniti. Le quattro legioni consolari su-
perarono facilmente la resistenza che i Sanniti avevano tentato di
oppoire in campo e devastarono terribilmente il paese da occidente
ad oriente (4). Finalmente i Sanniti chiesero pace; e l'ebbero rin-
(1) Liv. epit. 11. Cass. Dio fr. 36, 30 seg. Zon. Vili 1. Suid. s. v. <t)à3ioq.
Val. Max. V 7, 1. Eutrop. II 9, 3. Oros. Ili 22, 6 segg. Che la vittoria fosse
sui Pentri è detto da Dionys. XVIl-XVIII 4, 4. 11 trionfo di Fabio Gurgite (su
cui cfr. anche Plut. Fab. 24) è registrato dai fasti, secondo il CIL. al 463 di R.
(= 464 Varr. = 290 av. Cr.). Se questo non è un errore di lettura, si tratta certo
di un errore del lapicida per 462 (= 291 av. Cr.), cfr. B. Bruno op. cit. p. 84
n. 1; nulla peraltro può desumersi in proposito dai trionfi seguenti, perchè
segue una lacuna che va fino al 282 av. Cr.
(2) La rivincita immediata è probabilmente favola ; ma .se Fabio non si fosse
in qualche modo riabilitato, difficilmente i Romani lo avrebbero eletto console
nel 276 durante la guerra di Pirro. 11 trionfo del 292 può essere storico e do-
vuto a fatti d'arme di mediocre importanza, ma può anche essere reduplica-
zione dello storico trionfo del 276.
(3) DioNYs. XVll-XVIII 4-5 (da lui Sino. s. v. TTooToù|aiO(; uTtaTOq). V^kll. 1 14, 5.
Cass. Dio fr. 36, 32. — Per Cominio v. sopra p. 360 n. 5.
(4) AucT. de vir. illust. 33, 1 : M\ Curius Dentatus primo de Samnitibus trium-
phavit quos tisque ad mare superum perpacavit. Cass. Dio fr. 37. Liv. epit. 11 :
pacem petentibus Samnitibui^ foedus quarto renovatum est. Curiuft Dentatus consul
Samnitibus caesis et Sabinis qui rebellaverant victis et in deditionem acceptis bis
364 CAPO XX - LA CONQUISTA d'iTALIA
novanclo con Roma rantico trattato d'alleanza che guarentiva pie-
namente la loro indipendenza, e acconciandosi soltanto a qualclie
piccola cessione territoriale, come quella di Atina e probabilmente
di Venafro, clie fm-ono incorporate nello Stato romano (1). All'in-
contro è molto diffìcile clie il paese taui'asino fosse fin d'allora
tolto ai Sanniti. Sicché in sostanza il territorio del Sannio pro-
priamente detto rimaneva quasi intatto; ma ormai, circondato in-
teramente da regioni sottomesse o alleate a Roma, era tolta ai
Sanniti ogni possibilità d'espansione; e l'esito della loro lega con
gli Etruschi, Umbri, Sabini e Galli mostrava che nei3p)ui^e con
l'aiuto delle altre popolazioni d'Italia erano idonei a impedire
l'estendersi deiregemonia romana. Né ormai, data la sproporzione
delle forze, era punto da sperare che riuscissero a conservare anche
tra i monti la loro indipendenza.
Rimanevano in armi parte dei Sabini ed i Pretuttii, alla cui
sottomissione i Romani non avevano ancora avuto il temijo di
provvedere. Anche di questi M'. Cm-io riportò facile vittoria. Tutto
ciò che rimaneva della Sabina indipendente insieme col paese dei
in eodetn magistrata triumphavit. Eutrop. II 9, 3: deinde P. Cornelius Rafinus-,
M'. Curius Dentatus, ambo consules, cantra Samnites missi ingentibus proeliis eos
confecere. tum bellum cum Samnitibus per annos quadraginta tiovem actiint su-
stulerunt. È chiaro da questi due passi che per Livio la guerra sannitica
durava ancora nel 290. Non è buona critica quella che prende alla lettera il
riassunto non sempre fedele d'OROsio, dove a proposito della pretesa sconfitta
di Ponzio, è detto : tandemque Samniticum belhim quod per quadraginta et novem
annos multa Romanorum clade trahebatur capti ducis destitutione fìnittim est. E
del resto Orosio potrebbe aver voluto accennare anche semplicemente alla fine
virtuale della guerra. Il raffronto tra Eutropio ed Orosio mostra che i 49 a.
erano menzionati già da Livio. Come per Livio il 46" anno della guerra era
il 294 (X 31, 10), ne segue che o ha detto anno 49° quello della pace, cioè
il 290 (Eutropio), con una incoerenza di computo (fra il 348 Varr. e il 290
corrono, prescindendo dai quattro anni dittatoriali, 49 o 50 anni secondo che
nel calcolo si comprende un solo od ambedue gli estremi), ovvero ha detto
anno 49° quello della pretesa disfatta di Ponzio, che avrebbe chiuso virtual-
mente la guerra (Orosio). — Del resto il trionfo di M'. Curio sui Sanniti non
era riferito soltanto dall' Auct. de vir. ili., ma anche dai fasti trionfali che, d'ac-
cordo con esso, fanno trionfare M'. Curio per la quarta volta dei Sanniti e di
Pirro nel 275. Ne deve far difficoltà d'attribuire a Curio troppe imprese pel
suo anno consolare; poiché nulla vieta ritenere che una parte ne abbia con-
dotte a termine come proconsole.
(1) Atina fu prefettura secondo Cic. prò Piane. 8, 19, e così pure Venafrum
secondo Fesxo p. 233 M.
ROMA E I SUOI ALLEATI 365
Pretuttii fu incorporato nello Stato romano con la cittadinanza
senza suffragio (1). In territorio tolto ai Pretuttii si fondò incon-
tanente la colonia latina di Atria (2). La pacificazione della pe-
nisola fu dopo ciò compiuta dallo stesso M'. Cuiio con la piena
sottomissione di quelli tra i Lucani die avevano perseverato dal 298
nella ribellione o si erano novamente ribellati (3).
A queste vittorie seguirono quattro o cinque anni di pace. H
13opolo romano, mentre prendeva il meritato riposo, poteva guar-
dare con soddisfazione a quel che aveva ottenuto co' suoi sacrifizi.
Il territorio romano con l'incorporazione della Sabina, del paese
dei Pretuttii, di Spoleto e Foligno neirUmbria, di qualche di-
stretto del paese dei Senoni, di Atina, Venusia e forse anche
altre xDorzioni del Sannio e di qualche altro lembo dell'Etruria
meridionale, abbracciava ormai un ventimila chilometri quadrati.
Solo mia piccola parte peraltro di questo territorio, un quinto o
al più un quarto, era abitata da cittadini romani forniti dei pieni
diritti politici; che tra la guerra latina e la guerra di Pirro i Ro-
mani non largheggiarono |)iù nel concedere la pienezza dei diritti
cittadini. Onde il territorio che potremmo du'e privilegiato, dopo
il termine della seconda sannitica si accrebbe quasi soltanto per
(1) V. p. 363 n. 4. Flor. I 10 : Sed Curio Dentato consule omneni eitm tractum
qua Nar, Anto, fontes Velini, Hadriano tenus mari igni ferroque vastavit (po-
pulus R.). Adct. de vir. illustrib. 83, 3: iterum de Sahinis triiimphavit. L'aned-
doto raccontato ivi poco prima secondo cui Curio avrebbe detto : tantum
agri cepi ut solitudo futura fuerit nisi tantum liominum eepissem; tantum porro
hominum cepi ut fame perituri fuissent nisi tantum agri eepissem, benché rife-
rito dall'A. al Sannio, concerne evidentemente l'agro sabino, come mostra anche
Oros. Ili 11 (cfr. Cass. Dio fr. 87). Al contrario ai Sabini è forse riferito per
equivoco un episodio della guerra sannitica da Frontin. strat. I 8, 4: M'. Curius
adversus Sabinos qui ingenti exercitu conscripto relictis finibus suis nostros oc-
cupaverant occultis itineribus manum misit quae desolatos agros eorum vicosque
per diversa incenderunt. Ma si riferisca pure il fatto alla guerra sabina, non
conviene perciò esagerare la importanza di questa, che la tradizione ci dimostra
non grande, come a torto s'è fatto di recente. Vell. 1 14, 5 : M\ Curio et Rufino
Cornelio consulibus Sahinis sine suffragio data civitas. Reate e Nursia, come le
città dell'alta valle dell'Aterno, sono da questo tempo prefetture (Febt. p. 233 M),
fors'anche Trebula (Beloch Ital. Bund p. 54. 134j. Interamnio dei Pretuttii
allora o poi è stata costituita come un conciliabulum ciinum Romanorum (Be-
loch 1. e. Frontin. nei Gromatici p. 19, 2).
(2) Liv. epit. 11 (intorno al 289).
(8) AucT. de vir. illustr. 33, 4: tertio de Lucanis ovans urbem introivit.
366 CAPO XX - LA CONQUISTA d'iTALIA
la fondazione di colonie cittadine, come Mintume, Sinuessa (296)
e forse Sena (289?) (1), e per la assegnazione viritana di agro pub-
blico nei territori acquistati in Sabina (2), e prima ancora nelle re-
gioni clie formarono le tribù Aiiiense e Teretina (299). Né è al
tutto da escludere che fin d'allora si avesse riguardo ad abitanti
di comuni in cui accanto alla popolazione indigena erano stabiliti
cittadini romani con tutti i diritti, come Velletri e Priverno: ma
se pur si ebbe, fu certo con misura assai parca (3). In ciò stava
un grave rischio per Roma, se s'arrestavano i Romani con gret-
tezza sulla via tracciata dai vincitori della guerra latina, e se tra
le due classi dei cittadini si innalzava una barriera insormonta-
bile. Per allora tuttavia la cittadinanza senza suffragio, senza
confondere insieme vinti e vincitori, bastava a stringerli tra loro
con legami d'interessi e a render salda l'unione tra gli av^'■ersari
di prima. Intanto in parte pel natm'ale incremento della popola-
zione, ma soprattutto per le annessioni territoriali, il primo censi-
mento posteriore alla terza sannitica registrò non meno di 272.000
cittadini atti alle armi, il che presuppone una popolazione citta-
dina di forse più che 800 mila anime, ossia una popolazione to-
tale, compresi gli stranieri e gli schiavi, di oltre un milione (4).
Il territorio degli Stati alleati, che s'estendeva circa il 300 per
19.500 km^ (non comprese Falerì e Camerino), di poco sminuito
per i territori incorxDorati nel paese vestino-sabino (1000 km"^), s'era
accresciuto dell'Umbria indipendente (5000 km^), dell'Etruria in-
dipendente (25.000 km'), del Piceno (2500 km^), della Lucania
(11.000 km') e delle nuove colonie latine di Venusia (2300 km") e
di Atria (200 km'), e abbracciava ora ben 62.000 km^, ossia più
(1) Sopra p. 358 n. 1.
(2) Cfr. Plin. n. h. XVIII 14. Val. Max. IV 3, 5. Frontin. strat. IV 3, 12 etc.
(3) Purtroppo ci mancano in materia dati precisi. Solo è chiaro che la con-
cessione dei pièni diritti a Fundi, Formie ed Arpino nel 188 (Liv. XXXVIII 36)
mostra che già da tempo (e quindi da prima del 218, l'anno in cui incomincia
la III deca liviana a noi conservata) era in possesso di quei diritti la regione
più vicina a Roma.
(4) Liv. epit. 11. Poco chiare sono invece le cose rispetto al censimento del
294/3 (Liv. X 47, cfr. Euseb. II 118 Schone) che avrebbe dato 262.321 civimn
capita. Non si spiega innanzi all' annessione dell' ager Sabinus l'aumento dal-
l'età della seconda sannitica; ne si spiega come, raddoppiando, a dir poco,
d'estensione lo Stato romano dopo la terza sannitica, i civinm capita non siano
cresciuti che di 10 mila. Cfr. Beloch Bevolkerung 343 seg.
ROMA E I SUOI ALLEATI 367
del triplo di prima (1). Erano però in parte i nuovi alleati ancora
recalcitranti alla supremazia romana, come si vide allorcliè negli
anni prossimi si ribellarono i Lucani, i Picenti e gii Etruschi, e
solo quando si persuasero che mentre essa non poteva evitarsi
recava al tempo stesso tali vantaggi da compensare largamente i
sacrifizi che ricliiedeva, si raffermò il dominio romano sulla peni-
sola. Cosi lo Stato romano abbracciava ormai 82.000 km^, ossia i
tre quinti della penisola italica al sud di Pisa e di Rimini; e quel
che ne rimaneva fuori, l'agro gallico, il Sannio, il Bruzio, i Peu-
cezì, la penisola sallentina, i territori di Taranto, Metapontio,
Turi, Crotone, Locri e Regio, era abitato da popolazioni cosi di-
verse per razze e per civiltà che lottando insieme contro Roma
non avi'ebbero potuto resisterle efficacemente anche se non vi fosse
stata la sproporzione di forze che v'era di fatto. Ormai lo Stato
romano era per l'estensione, la popolazione, gii ordinamenti mili-
tari tra le maggiori potenze del bacino del Mediterraneo. L'im-
pero siciliano di Agatocle che allora aveva raggiunto la massima
estensione era assai meno ampio ; e meno estesi erano pui-e nel 290
i regni di Macedonia e di Tracia su cui imperavano Demetrio Po-
liorcete e Lisimaco. Avevano invece maggior territorio e molto
maggior popolazione in Oriente solo i due grandi Stati ellenistici
d'Egitto e di Siria, su cui regnavano Tolemeo Sotere e Seleuco
Nicatore, e in Occidente l'impero cartaginese. E se a tutti questi
Stati, compreso l'impero d' Agatocle, Roma era assai inferiore per
i proventi e l'assetto della pujbblica finanza, fin d'allora però per
gli ottimi ordinamenti militari e per lo spirito guerriero della po-
polazione non era forse inferiore a nessuno. E benché l'avvenire
non fosse scevro di pericoli, i Romani s'erano seriamente prepa-
rati a diminuirli. Con Tannessione dell'agro sabino e pretuttiano,
dei territori di Spoleto, Fuligno e Sentino, con la fondazione della
colonia cittadina di Sena e di quella latina di Atria (289) i nemici
del mezzogiorno erano definitivamente isolati da quelli del setten-
trione; e Roma aveva provveduto per sempre affinchè non si rin-
novassero i giorni pam-osi trascorsi innanzi alla vittoria di Sentino.
Sull'estremo mezzogiorno la fondazione della colonia latina di Ve-
nosa (29-4) ai confini della Puglia, del Sannio e della Lucania, pel
immero straordinario dei coloni e l'estensione del territorio, mo-
li) Per la estensione relativa di questi Stati cfr. i dati del Beloch Gr. G.
UI 1 p. 330 seg.
868 CAPO XX - LA CONQUISTA d'iTALIA
strava chiaro il proposito di prepararsi la via al i)ieiio assogget-
tamento di quella regione. Anche il confine etrusco non fu al tutto
trascurato: poiché pare che appunto in questi anni ('289 circa) si
fondasse colà in territorio tolto ai Tarquiniesi la prima colonia di
cittadini a settentrione del Tevere, Castro Novo (1), quattro o
cinque miglia a sud di Civitavecchia.
Mentre Roma guerreggiava coi Sanniti, s'era formata nova-
mente nella Sicilia greca una grande potenza militare per opera
d'Agatocle (2), un ufficiale siracusano che dopo d'essersi segnalato
in Italia combattendovi nelle milizie inviatevi da' suoi compatriotti
prima, poi come mercenario o come avventm-iere (3), rovesciato
con una sorx)resa ben preparata il governo repubblicano, si era
insignorito di Siracusa (317) e tosto s'era accinto a metter in atto
i grandi projjositi di Dionisio il Yeccliio: riunirle sotto l'egemonia
di Siracusa la Sicilia greca, assicurare in Sicilia la prevalenza
dell'elemento ellenico sul semitico^ assumere la i^rotezione dei
Greci d'Italia contro gl'indigeni. Erano compiti in sé ardui, e ne
accresceva la difficoltà il prepotente sentimento particolaristico e
lo spirito repubblicano dei Sicelioti. Una serie di lotte fortunose
con le città greche indipendenti della Sicilia, col partito repub-
Tìlicano, che si era persino trovato un capo di sangue reale in
Acrotato, primogenito di Cleomene re di Sparta, e coi Cartaginesi,
in cui Agatocle alternando perfidie e crudeltà con iniziative ge-
niali e con prove singolari di valore, ora si era visto sul punto
di distruggere, non in Sicilia soltanto, ma persino m Africa, l'im-
pero dei Fenici, ora si era trovato a un passo dall'estrema rovina,
l'aveva reso intorno al 305-4 signore rispettato della Sicilia greca
con titolo di re, che aveva assunto ad imitazione dei generali di
Alessandro Magno. In mezzo a queste lotte s'era tenuto in rela-
zione con le popolazioni indigene d'Italia noi} solo per far leva
di mercenari nel Sannio, nella Campania e nell'Etrm^ia, ma anclie
per assicui'arsi contro i Cartaginesi l'alleanza di qualche città ma-
rittima etrusca. Di fatto una squadra navale etrusca di diciotto
(1) A questa colonia sembra riferirsi Liv. epit. 11 e XXXVI 3. Invece la
notizia di Vklleio I 14, 7 : at initio i»'iini belli Punici Firmum et Castrum
colonis occupata sembra doversi riferire a Castrum Novum Piceni. Ricordiamo
che il Piceno fu annesso nel 268. Su ciò v. Bokmann CIL. XI p. 530.
(2) Su Agatocle v. Schubert Geschichte des Agatholcles (Breslau 1887) e la
mia memoria Agatocle nella ' Riv. di Fil. ' XXIII (1895) p. 289 segg. Fonte
quasi unica è Diod. XIX, XX e XXI.
(3) Cfr. sopra p. 318.
AOATOCLE IN SICILIA ED IN ITALIA 369
trireme venne nel 307 a soccon-ere Siracusa bloccata per mare
dai Cartaginesi, e con questo aiuto Agatocle potè sconfiggere la
squadra assediante e approvvigionare la città (1). Quand'anche si
ammetta che la fonte greca onde abbiamo questa notizia avesse
potuto inesattamente designare i Romani come Tirreni, è evidente
che quella squadi'a non poteva provenire da Roma, né da una
cittk etrusca dipendente da Roma come Cere ; poiché i Romani
dalla prima sannitica alla guerra di Pirro, si tennero in ottime
relazioni con Cartagine. Ma é pvir chiaro che quegli Etruschi i
quali s'arrischiavano lungi dalla patria in un'impresa cosi grave
e pericolosa^ quale era una guerra con Cartagine, non potevano
avere al tempo stesso a combattere in terraferma avversari formi-
dabili come i Romani; e però deve ritenersi che si tratti di città
etrusche, le quali già nel primo anno della guerra contro Roma
avevano fatto pace quando la fecero Arezzo, Cortona e Perugia,
ovvero di città che alla guerra non avevano preso alcuna parte.
Tarquini deve con jjrobabilità escludersi, sia perché nel 307 era
appena venuta a patti coi Romani (2), sia perchè la pace allora
conclusa, comperata con importanti cessioni di territorio, se pur
lasciava i Tarquiniesi in possesso dei diritti sovrani, il che non è
certo, difficiLmente era tale da permettere loro d'avere altri amici
e nemici fuor degli amici e nemici di Roma (3).
Ma raffermata che ebbe la sua autorità nella Sicilia greca e
sospesa la guerra nazionale coi Fenici, Agatocle ebbe agio d'in-
tervenire in Italia dove lo chiamavano i Tarentini (4), o che fos-
sero minacciati essi stessi dai Lucani, poco cm^anti dell'accordo
stretto insieme ai Romani con Taranto e poco rispettosi dell' au-
torità di Roma, o che ricercassero soltanto l'opera d' Agatocle a
difendere le città della odierna Calabria contro i Bruzì. Sebbene
Agatocle fosse stato sino allora in buone relazioni coi Bruzi (5),
non esitò a passare lo stretto. Ma poco dopo tragittato in Italia
il suo esercito, dovette lasciarne il comando al figlio Arcagato per
(1) DioD. XX 61.
(2) La pace risale al 308 secondo Vareone ossia probabilmente, tenuto conto
dell'a. dittatoriale 301, al 307 av. Cr.
(3) Su tutto ciò cfr. Pais ' Studi storici ' II (1893) p. 343 n. 4. Beloch Gr. G.
Ili 1 p. 204 n. 2 e le mie considerazioni nella ' Riv. di Fil. ' XXIII (1895)
p. 324 n. 1.
(4) Strab. vi 280.
(5) DioD. XX 71, 5, cfr. XXI 3, 1 e Iustin. XXIII 2, 1.
Gr. De Sasctis, Storia dei Romani, II. 24
370 CAPO XX - LA CONQUISTA DlTALIA
accorrere alla difesa di Corcira (1). In quest'isola, che egli aveva
liberato dal dominio di Cleonimo (2), cercava ora di por piede
Cassandre^ clie dopo la battaglia d'Ipso aveva raggiunto l'apice
del suo i3otere e, signore della Macedonia e della Tessaglia, aveva
l'alto dominio sul!' Epiro, ove regnava a lui ligio Neottolemo,
figlio di queir Alessandi'o die era morto in Italia nel 331/30 (3j.
Non importava molto ad Agatocle il possesso di Corcira, che le
sue mire erano dirette all'Italia ed all'Africa, non all'Oriente elle-
nico ; ma molto gli era a cuore l'onore delle sue armi ; né poteva
piacergli che una grande potenza come la Macedonia acquistasse
un avamposto cosi prezioso nel mar Ionio : donde avrebbe potuto
agevolmente intervenire nelle cose d'Italia e di Sicilia, sia colle-
gandosi coi molti nemici greci ed indigeni, che Agatocle aveva,
sia impedendogli in qualsiasi modo il raggiungimento de' suoi
fini. La prontezza d' Agatocle, la superiorità della sua armata, l'im-
pegno che misero nel combattere i suoi soldati per mostrarsi
j)ari agli '' invincibili ,t Macedoni, assicurarono al signore di Si-
racusa la vittoria (298) ; ed a Cassandre tolse la morte incol-
tagli poco di poi (298/7) di rinnovare con la sua consueta tena-
cità il tentativo su Corcira. Poco dopo un giovane principe d'un
altro ramo della casa reale epirota^ Pirro, tornato in patria con
aiuti tolemaici (297), prendeva a regnarvi prima insieme con Neot-
tolemo, poi, tolto di mezzo il collega, da solo. Da Pùto, troppo
meno potente allora di Cassandre, Agatocle non credeva d'aver
nulla a temere ; gli conveniva invece d'esser con lui in buone
relazioni e d'evitare gli urti che j)otevano nascere dal possesso di
Corcira, proprio dirimpetto alle coste epirotiche : si aggiunga che
il nuovo re godeva l'amicizia e la protezione della maggior po-
tenza navale d'allora, l'Egitto ; con la quale Agatocle, sempre
pronto ad una lotta mortale con Cartagine, era ovvio che mirasse
a tenersi in buona armonia. Cosi il signore di Sicilia cedette Cor-
eira all'Ei3Ìro, come dote della figlia Lanassa elio andò sposa a
Pirro (296 circa) (4).
Ma intanto, appena ritornato da Corcira, Agatocle aveva rag-
giunto il suo esercito che operava in Calabria e vi aveva rista-
ci) DioD. XXI 2, 3, 1.
(2) Sopra p. 347.
(3) Sopra p. 294. Per la genealogia v. Collitz Dialekt-inschr. II 1336. Beloch
Gr. G. Ili 2 p. 99 seg.
(4) Plut. Pijrrh. 9. Per la cronologia v. Beloch op. e. p. 104.
ACATOCLE TX ITAI>IA 371
bilito la disciplina trattando con estrema severità un corpo di
mercenari liguri ed etruschi che dm'ante la sua assenza avevano
tumultuato per ragione della paga. E dopo ciò prese l'offensiva
contro i Bruzi assediando una delle loro città; dove peraltro as-
salito improvvisamente dagl'indigeni ebbe una tale sconfitta da
essere indotto a ritornare pel momento in Sicilia (297). Ma non
si rimosse per questo dall'impresa ; anzi già, come pare, l' anno
seguente (296), circa il tempo in cui Lanassa partiva jDer l'Epiro,
tornò in Italia con l'intendimento di proemiarsi per la guerra coi
Bruzi una sicura base d'operazione (1). Scelse a tal uopo la città
greca di' Crotone, il cui tiranno Menedemo, ch'era in buone relazioni
d'amicizia con lui, non si attendeva punto che Agatocle gl'impo-
nesse di sorpresa la sottomissione; per modo che la città, assediata
per terra e per mare e imxjreparata alla lotta, cadde presto in
mano del signore di Siracusa. Di qui egli entrò in relazione coi
vicini barbari e prima di tutto coi Peucezì che, vedendo con ter-
rore la potenza romana affermarsi nella Daunia, accolsero certo
volentieri l'alleanza offerta da Agatocle (2). Il quale tornò all'as-
salto l'anno seguente (295), passando in Italia con trentamila fanti
e tremila cavalli. Con tali forze s'impadroni agevolmente d'Ipponio,
antica colonia locrese, da tem]30 caduta in mano dei Bruzi e riusci
jjersino a costringere i Bruzi ad accettare la sua alleanza e a
dargli ostaggi. La sottomissione dei Bruzi fu poco durevole, che
si ribellarono appena egli ebbe ricondotto in Sicilia il grosso del-
Tesercito (3). Ma rimase in suo potere Ipponio di cui si diede cura
di rimettere in buone condizioni il porto (4) ; e sebbene non sap-
piamo d'altre sue spedizioni in Italia, pur non v'ha dubbio che
quand'egli, presso ormai a morire, si disponeva a rinnovare quella
guerra con Cartagine che da lunghi anni aveva preparato, doveva
aver provveduto ad assicurare, mediante accordi coi Bruzi, i suoi
possedimenti italiani (5). Né forse a questo accordo erano stati
(1) DioD. XXI 3, 1. 2.
(2) DioD. XXI 4. [AiusTOT.] de mirab. au-icult. 110. Il nostro testo di Diodoro
parla di alleanza d' Agatocle Trpòc; '{ànv^o-'i koì TTeiiKeTiouq. Ma i Peucezi erano
Iapigi, ed al nord della Peucezia è molto difficile che Agatocle abbia avuto
alleati. Probabilmente è da eliminare la copula. Cfr. Herod. VII 170: 'IniruTCc;
Meoadnioi.
(3) DioD. XXI 8.
(4) Strab. vi 2.56. Su Ipponio cfr. Duri.s fr. 42. Athen. XII 542 a.
(5) Cfr. Tk. Pomp. prol. 23: omnibus subactis (Bruttiis) rcx seditione fili
exheredati ac nepotis oppressus interiit.
372 CAl'O XX - LA CONQUISTA d'iTALIA
troiDpo riluttanti i Bruzì, che vedevano ormai rinvigorirsi nel mez-
zogiorno d' Italia r autorità dei Romani e clie dovevano essere
rimasti fortemente impressionati al pari di tutti i popoli dell'Italia
meridionale, Greci e indigeni, dalla fondazione della gagliarda
colonia latina in Venosa.
Che a Siracusa si seguisse con attenzione l'andamento della
lotta tra i Romani e i loro alleati non v'ha dubbio: ed è del pari
certo che a Roma si tenevano ben d'occhio gli incrementi graduali
della potenza d'Agatocle ; ma ad atti ostili Roma e Siracusa
non procedettero né direttamente, ne indirettamente : ne fa prova
non solo il silenzio delle fonti romane, che potrebbe aver altre
ragioni, ma il parlare le fonti greche solo di trattative d'Aga-
tocle coi Bruzì e coi Peucezì, ossia con popoli ch'erano al di fuori
dei termini dell'azione politica romana. E del resto se durante la
terza sannitica Agatocle si fosse trovato in stato di guerra con
Roma, gli sarebbe convenuto levar l'animo dalla guerra di rivin-
cita con Cartagine nel momento in cui la lotta tra Roma ed il
Sannio volgeva, al suo termine, con vantaggio manifesto dei Ro-
mani (1).
Frattanto s'erano modificate le condizioni dell" Oriente ellenico,
da quando Lanassa era andata sposa a Pirro. Demetrio Poliorcete
era riuscito ad insignorirsi del trono di Macedonia, e Pirro aveva
tentato inutilmente di disputarglielo. Agatocle, cui Pirro era parso
forse un vicino troppo turbolento, ritraendosi dall'amicizia di Pirro,
si accostò a Demetrio (2). Demetrio gli pareva forse preferibile
anche per essere potentissimo sul mare, onde un qualche soccorso
suo o anche una benevola neutralitcà poteva riuscirgli di grande
vantaggio nella guerra contro Cartagine, mentre aveva d' altra
parte tropi3Ì nemici in Grrecia e nell'Oriente il Poliorcete per po-
tersi rendere pericoloso nei mari occidentali. Allora Lanassa si
separò, non senza averne anche motivi personali, da Pirro e si
ritrasse a Corcù-a (291), dove invitò anche l'avversario di Pirro, che
venne, e, sposatala, pose nella città un presidio (3).
Il signore di Siracusa, più che settantenne, prima d'iniziare la
guerra con Cartagine^ volle regolare la successione. V erano in-
fatti due pretendenti al trono di Siracusa: Agatocle figlio quar-
(1) Per queste ragioni credo si debbano respingere le congetture del Beloch
Gr. G. Ili 1 p. 214 n. 2.
(2) DioD. XXI 15.
(3) Plut. Pyrrh. 10.
FINE DI ACATOCLE 373
togeiiito del re, e il suo nipote Arcagato, figlio di quell'Arcagato
che era stato ucciso in Africa nella guerra contro Cartagine. Il
re, sebbene da molto tempo avesse preparato la successione di Ar-
cagato affidandogli importanti comandi, ebbe sull'ultimo il torto
di volergli ]3referire il giovane Agatocle, che fece riconoscere come
successore da re Demetrio e nell'assemblea popolare di Siracusa;
mentre, semijre avendo potuto contare sulla fedeltà d' Arcagato e
credendo che gli avesse anche ora la stessa fede , gli aveva
conservato sino alFultimo il comando dell'esercito e dell'armata.
Ma quande Arcagato, invece di piegarsi, ebbe assassinato lo zio
ad un banchetto, Agatocle, se voleva salvare l'opera di tutta la
sua vita, doveva riconoscere 1' assassino come erede del trono e
a]3rirgii le porte di Sii'acusa: troiDpi delitti aveva a suo carico
per poter essere giudice severo del delitto d' Arcagato^ non più
grave del resto di quelli con cui si assiciu'arono il regno Deme-
trio Poliorcete, Pirro e Tolemeo Cerauno. Ma ferito nel i3Ìù vivo
dei suoi sentimenti, non seppe perdonare; né aveva ormai più la
forza per presentarsi tra i suoi veterani e ridmdi a dovere, giacché
una malattia violenta lo aveva condotto in poc'ora sull'orlo
del sepolcro. E poiché lasciare il trono ai due fanciulli nati
dall'ultima moglie, Teossena, con una reggenza^ sarebbe stato
possibile solo se avesse avuto fedele l'esercito, ristabili in Siracusa
la democrazia : e cosi decretò egli stesso la rovina dell'impero da
lui costituito, nel momento in cui era chiamato ad una missione
d'importanza gravissima, la lotta di rivincita col Fenicio per libe-
rare la Sicilia e la lotta con Roma per l'indipendenza dei Greci
d'Italia. Né le conseguenze esiziali dell'ultimo suo atto potevano
sfuggire alla mente perspicace del re moribondo : e con questo pen-
siero egli scese nella tomba (289) (1).
La storia d' Agatocle mostra la vitalità dei Sicelioti pochi de-
cenni prima dell'intervento romano ìiell'isola. Sarebbe però errore
il credere che al caso della preferenza data da Agatocle al figlio
.sul nii)ote si debba ih posteriore assoggettamento della Sicilia ai
Romani. Infatti a stringere in fascio le forze vive della Sicilia
greca si richiedeva ora tale energia senza esitazione, tal coraggio
a tutta prova, tal genio politico che non poteva essere in Sicilia
dm-evole la monarchia militare. Ma fosse anche stata durevole, i
jjrecedenti mostrano chiaro che come Dionisio ed Agatocle non
erano riusciti a superare in modo definitivo la sola Cartagine, cosi
(1) DioD. XXI 16. lusTiN. XXIII 2.
374 CAPO XX - LA CONQUISTA d" ITALIA
tanto meno alcuno sarebbe riuscito a superarla quando si fosse
unita contro il comune nemico con Roma, come poi avvenne ai
tempi di Pirro. Ora che s'era formato nell' Italia non greca un
grande Stato unitario indigeno, il perdurare della monarchia mi-
litare fondata da Agatocle avrebbe potuto rendere più gloriose,
ma non sostanzialmente mutare le sorti dell'ellenismo in Sicilia.
Una prova si ha anche in ciò, che il nerbo degli eserciti di cui
si valeva Agatocle come già Dionisio, era costituito d'Italici e
soprattutto di Campani; onde già in una delle lettere platoniche
era preveduto sin dalla metà del sec. IV che l'elemento ellenico
in Sicilia sarebbe soggiaciuto al fenicio od all'osco (1).
La fortuna di Sicilia sembrò precipitare non appena ebbe
chiuso gli occhi Agatocle. A^i era una sola speranza di salute : che
Arcagato, amato dalle truppe e già sperimentato come capitano,
riuscisse ad occupare il trono dell' avo ; e forse vi sarebbe perve-
nuto ; ma, tolto di mezzo proditoriamente da un Segestano di
nome Menone, privi i mercenari d'un capo che avesse reputazione
sufficiente iDer tenerseli devoti, l'esito della guerra tra essi e il
popolo siracusano che si era eletto a stratego Iceta, appariva
molto incerto. Di ciò profittarono i Cartaginesi per imporre ai con-
tendenti la loro mediazione, i3er cui restituita alle città greche di
Sicilia assoggettate da Agatocle la loro autonomia e riconosciuta
di nome almeno la libertà siracusana, i mercenari, per la massima
parte Campani, furono riammessi in Siracusa con facoltà d'eser-
citarvi i diritti cittadini.
Ma i nuovi cittadini non riuscendo ad avere in Siracusa una
posizione autorevole, si lasciarono presto indm're a vendere gli
stabili che i^ossedevano in città o nel territorio e a incamminarsi
verso la patria ; senonchè per via,, ospitati dai Messinesi, si im-
padronù-ono di sorpresa della costoro città, ne uccisero o fugarono
i cittadini, si tennero le loro donne e^ col nome di Mamertini,
fondarono uno Stato di nazionalità osca nell'isola (2). I G-reci non
ricuperarono mai più il terreno che cosi l'ellenismo aveva perduto ;
e fu di gravissimo danno agl'interessi ellenici lo stabilirsi degl'Ita-
lici sullo stretto ; poiché non molto dopo facilitò d' assai la con-
quista romana dell'isola. I Mamertini^ del resto, avevano fondato
(1) Epist. Vili 353 e: riEei òé, èdvirep tujv eÌKÓxujv YÌYvirrai ti koì àTreuKTóùv,
axeòòv de, èpriMiav Tf)<; 'EWriviKf)^ qpuuvfic; ZiKeXio iràaa Ooivìkujv ?\ 'Ottikùjv |U6-
ToPaXoOoa eie; riva òuvaareiav koì Kpaxo;.
(2) DioD. XXI 18. Por.YB. I 7. Cass. Dio fr. 40, 8.
NUOVA (ÌL'ERRA cor SENONT 375
il loro Slato sulla negazione del diritto delle genti, ond'esso do-
veva essere in lotta permanente e feroce coi vicini ; e mentre i
Greci discordi tra loro erano appena in grado di difendersi da quel
pugno di malfattori, e i Fenici assumevano una specie di protet-
torato nell'isola, gl'Italioti, abbandonati dai loro connazionali di
oltre il Faro, si trovavano novamente esposti senza difesa agli
assalti degrindigeni. Tosto i Bruzì ricuperarono Ipponio, e Turi fu
assalita dai Lucani. Soccorso i Tmini jootevano averne da Taranto:
ma la loro vecchia rivalità contro i Tarentini, die s'era manife-
stata anche durante la spedizione italica d'Alessandro il Molosso
(sopra p. 294), fece si che preferissero chiedere l' aiuto di Roma. I
Romani avevano la scelta tra due: o lasciare che i loro alleati
italici continuando la lotta secolare contro i Grreci ponessero ter-
mine violentemente alla vita dell'ellenismo in Italia, o intervenire
a favore dei più deboli Greci, assicurandosene cosi l'amicizia e
impedendo che la potenza dei popoli italici del mezzogiorno piren-
desse uno svilupi^o x^^ricoloso. La seconda politica parve ai Ro-
mani più saggia, ora che, vinto replicatamente il Sannio, non si
credevano più tenuti ad usar molti riguardi ai Lucani. V'era però
nel seguirla un rischio : che i Lucani, malcontenti dell'alleanza di
Roma e consapevoli della propria inferiorità a fronte di essa, di-
menticassero le loro querele con gli antichi avversari per sfuggire
al nuovo padrone ; e che i Greci, dimentichi della gratitudine
verso i loro salvatori, facessero causa comune con gl'indigeni
contro Roma. Ad ogni modo per allora i Romani cominciarono
con FintrodmTe un i3residio in Tuii per metterla al sicm'O dagli
assalti lucani (285) (1). Né potevano arrestarsi su questa via. Sa-
nonchè la loro azione nell'Italia meridionale fu incagliata dalla
guerra che riarse a settentrione.
I Senoni, vinti a Sentino, avevano dovuto rassegnarsi a far
pace e a ceder territorio : e nel territorio confiscato era stata fon-
data la colonia di Sena. Era questa una umiliazione cui non po-
tevano certo adattarsi. E però non tardarono a insorgere nova-
mente ; ma del procedere contro Roma per l'Umbria erano ormai
(1) Del primo aiuto recato ai Turini si parlava in Livio sulla fine del lib. XI,
come mostra la perioca, ossia intorno al 285. Che Turi fosse minacciata due
volte dai Lucani è detto da Plin. ». h. XXXIV 32 : publice aiitem ab exteris po-
sita est (statua) Romae C. Aelio tr. pi. lege periata in Sthennium Stallium Lu-
canum qui Thurinos bis infestaveraf. oh id Aelium Thnrini statua et corona aurea
donar unt.
376 CAPO XX - LA CONQUISTA d'iTALIA
impediti dalle alleanze e dalle conquiste di Roma; onde, traver-
sato l'Ajjpennino, si presentarono innanzi ad Arezzo e invitarono
gli Ai-etini e gli altri Etruschi a prendere le armi contro i Ro-
mani. Volsinì, se già non era insorta, si sollevò probabilmente
senza por tempo in mezzo (1). Grli Aretini invece essendo rimasti
fedeli, i Romani inviarono al loro soccorso il console L. Cecilio
Metello con due legioni (28i). Ma inorgogliti della vittoria di Sen-
tine, non mism-ando la gravità del pericolo, avevano dato uno dei
soliti eserciti consolari ad uno dei soliti consoli, che non aveva
mai tenuto il comando dinanzi al nemico. E la conseguenza fu
una delle disfatte più terribili che sia mai toccata ai Romani (2),
nella quale, stando alla tradizione, che non sembra punto esage-
rare, il console, sette tribuni militari e tredicimila uomini rima-
sero sul campo di battaglia e gli altri furono fatti prigionieri. La
rotta, più grave forse e più piena di quelle di Camerino, di Lau-
tule e di Gaudio, dovette fare una impressione profonda. E fu
probabilmente questo il segnale della ribellione degli Etruschi,
dei Sanniti e dei Lucani che insieme coi Bruzi troviamo negli
anni seguenti in armi contro Roma (3). Ma ora gli avversari di
Roma se potevano costringere i Romani a dividere le loro forze
per resistere, non erano più in grado di riunire le forze loro
contro Roma come avevano fatto a Sentine. E i Romani proce-
dettero con pari senno ed energia. Al morto console fu sostituito
il miglior capitano che Roma allora avesse, W. Cmno Dentato ; il
(1) Cfr. Liv. epit. 11 fin. : res praeterea cantra Vulsinienses gestas continet.
(2) La relazione migliore su questo e i fatti seguenti è quella di Polyb. II
19, 7-20, egregiamente commentata dal Mommsen Rom. Forschungen II 365 segg.
Che essa derivi da fonti romane, come ciò che precede sulle guerre galliche
(cfr. sopra p. 258), è fuori di dubbio : òioTevojuévuiv bè irdXiv èriliv òéKa (dalla
battaglia di Sentino, 295; il conto torna, purché si prescinda dall'anno ditta-
toriale 301) TrapeyévovTO FaXarai juexà neydXr)^ arpaxiàc; iToXiopKrioovTe<; ri]v
'Appr)TÌvu)v nóXiv. 'Pu)|uaToi bè TrapaPori6noavT€<; Kai oufaPaXóvxe^ -rrpò Tn<; ■nóXeujc,
i*|TTri9riaav, èv bè rr) luàxri Taùtr) AeuKiou toO arparriYcO TeXeurnaavrOv; Màviov
èTTiKaTéarrioav xòv Kópiov. È evidente che il defunto era console, l'altro un
console suffectus ; e quindi deve trattarsi dell'a. 284 in cui era console L. Ce-
cilio Metello. Le cifre sono in Obos. III 22.
(3) Liv. epit. 12 : Samnites defecerunt. adversus eos et Lucanos et Bruttios et
Etruscos aliquot prooeliis a compluribns ducibus bene pugnatum est. Oros. Ili
22, 12 : Dolabella et Domitio consiilihus (a. 283) Lucani, Bruttii Samnites quoque
cum Etruscis et Senonibus Gallis facta societate, cum redivivum cantra Romtmos
bellum molirentur eie.
NUOVA (rUEKlIA COI sf:xoxi 377
cui primo pensiero non fu quello di vendicare i caduti, ma di ri-
scattare i prigionieri: tanto i Romani d'allora senza esser meno
valorosi erano più umani dei loro nepoti dell'età d'Annibale. I Se-
noni inebriati dal successo risposero mettendo a morte, contro il
diritto delle genti, gli ambasciatori. Era troppo, tanto più che
per la Sabina e il Piceno la via del loro territorio era aperta agli
eserciti romani. E Manio Curio^ condotte là direttamente le sue
legioni, vinse i Senoni in battaglia, favorito forse dall'assenza di
una parte delle forze galliche che saranno rimaste in Etruria a
concitare a ribellione gii Etruschi e fors' anche più dall'insorgere
della popolazione umbra che, stanca del giogo gallico, avrk accolto
con gioia i suoi connazionali italici.
Il console trattò i Senoni senza pietà mettendo a morte quelli
che non si salvavano con la fuga ; mentre tutto il loro territorio
a settentrione di Sena fino all'antica città umbra di Arimino veniva
annesso allo Stato romano (1). La sorte dei Senoni inspirò j)ropositi
di vendetta ai Boi, loro connazionali e vicini; ond'essi nell'anno
seguente (283) scesero in Etruria per sostenere energicamente le
reliquie dei Senoni e i ribelli etruschi nella guerra con Roma. Un
esercito gallo-etrusco lungo la sinistra del Tevere mosse verso
Roma, e, dove i contrafforti dei monti Cimini scendono verso il
fiume, poco sotto Bomarzo, presso il sito dove uno stagno (lago
di Bassano) è il residuo dell'antico lago Vadimone, si scontrò con
un esercito romano condotto dal console P. Cornelio Dolabella..
I Boi e gli Etruschi fui'ono pienamente disfatti, e il sangue dei
caduti, secondo la tradizione, colorò il Tevere in rosso (2). I vinti
(1) PoLYB. 1. e: ou ("Curio) TipcaPeuTàq èKTTé)Liv|;avTO^ eie, faXariav ùtrèp tiwv
alxMoXUjTUJv, TTapaOTTOvònaovTet; èitaveiXovTO toù<; irpéoPeiq . tuùv òè 'Poifiaiuiv
ÙTTÒ TÒv Gu.uòv ÉK x^ipòc, é-iTiaTpaTeuffa|Li6vu)v, àiravtriaavTec; auvéPaXov oi Zr^viuvei;
KoXouiuevoi faXciTai. 'Puj|uaìoi ò' ex -rrapoTdEeiuc; KpaxriaavTet; aÙTiùv Toùq |uèv
TtXeiaTout; dnréKTeivav, toùi; bè XoiTroù<; éEéPoXov, xnq bè X^P'^'i éy^vovro irdaric;
è^Kpareti;. Si capisce che fin d' allora fu incorporato allo Stato romano anche
il territorio di Arimino, in cui poi venne condotta nel 268 una colonia latina.
(2) PoLYB. 1. e. : ci bè Boìoi ... éEeaTpdT€UCTav -rravbriiuei itapaKaXéaavTee; Tup-
prìvoùi;. à9poia0évT€(; bè uepi tì*iv 'Odbnova TrpoaaYopeuo)uévr)v \(|uvriv TrapCTdEavTO
'Puj|uaioi(;. èv bè xfj ladxi raùrr) Tuppr|viùv |uèv oi irXeìoTOi KaTCKÓnriaav, tujv bè
Boioiv TeXéuui; òXìyoi bienpuYOv. Sul luogo v. Nissen Landeskunde II p. 342. Cfr.
EuTROP. II 10 : interiectis uliquot annis iterum se Gallorum copiae contra Ro-
manos Tuscis Samnitibusque iunxerunt, sed cum Romam tenderent a Cu. Cor-
nelio Dolabella consule deletae sunt, dove è errata la menzione dei Sanniti e
il prenome del console. Flor. I 8. [Dio] fr. 39, 2 : AoXafiéXXou irepaiouiuévoi^ tòv
378 CA.l'O XX - LA CONQUISTA d"iTALIA
non deposero però le armi ; anzi i Boi inviarono Tanno dopo in
Etrnria nn nuovo esercito, chiamando alle armi persino quelli die
avevano raggiunto appena l'età virile. Ma pur questo nuovo eser-
cito fu vinto dal console Q. Emilio Papo (282): onde i Boi, stre-
mati, si rassegnarono alla pace, che Roma, la quale non aveva
per allora alcuna mira di conquista nella valle padana, accordò
loro ben volentieri (1). Rimanevano in armi gii Etruschi, ma da
soli, doi^o la terribile disfatta che era loro toccata al Vadimone.
non erano tanto pericolosi che i Romani non potessero rivolgersi
contro i ribelli del mezzogiorno verso i quali s'erano tenuti sino
allora sulle difese (2).
Il racconto della triennale guerra gallica è nella tradizione più
recente trasformato e alterato in modo appena credibile. La guerra
non è iniziata dai Senoni, ma dagli Etruschi e dai Sanniti, cui
si congiungono i Senoni nonostante il loro trattato con Roma (3).
I legati romani vanno nel paese dei Senoni non per chiedere il
riscatto dei prigionieri, ma per richiamarli all'osservanza del trat-
tato (4). I Senoni vincono non un console, ma un pretore, L. Ce-
cilie; e sono tosto disfatti e soggiogati dai consoli Cornelio Do-
labella e L. Domizio (283). Ne si fermano qui le alterazioni, giacché
in una versione sembra persino esser rimasta al tutto obliterata
la sconfitta di L. Cecilio Metello (5). Ma anche sènza queste esa-
gerazioni, era notevole assai quel ch'era succeduto ai Romani di
ottenere.
Ti'Pepiv iTTiGeuévou rote; Tuppr)voT<; ó TroraiLiòt; m'iuaTÓc; re koì auu|uàTUJv èirXripiLGri
uji; Toti; Karà tÌ]v ttóAiv 'Piw|uaioi(; ty\v ò^jiv toO iroTaiuiou ^eiGpou ar|,uàvai tò
Tiépat; rf\c, |udxri; frpìv àcpiKéoeai tòv ayyeXov.
(1) PoLYB. 1. e. : où lai'iv àWà tlù kctò iróbat; èviauTJj aujucppov/iffavxe^ oi
TTpoeiprmévoi koì toù; ópxi tiDv vétuv i^iPuùvTac; KaGoirXiaavTe^ TrapexóitavTO irpòc;
'Pa))Liaiou(;. ì^TTnOévxe^ ò' ÓXoaxepùJc, xr) ^àxr] j-ióXic, etìcv raXq H)uxai<; Kal òiaupe-
aPeuadfievoi irepl arrovòiùv xaì biaXùaeujv. auvGrìKaq èGevxo -n-pòq 'Puj)uaiou(;. Cfr.
DiONYS. XIX 13 : Kóivxov Aì|uiXiov xòv auvapSavxa xCp OaPpiKiuj Kaì xi'iv ì^y^MO-
viav xoO Tuppr|viKoO TroXé|uou oxóvxa.
(2) Sul punto d'iniziare la guerra tarantina (281) vi erano alcuni secondo
DioNYs XIX 6, oi TtapaivoOvxei; pLr\Tcu) xoOxov àvaXajiPdveiv xòv iróXeiuov é'uuq
AeuKavoi x' à(peaxY\Kaa\ kkI Bpéxxioi koì xujv ZauvixuJv ttoXù koì cpiXottóX€|liov
lOvoq Kal Tupp»ivia, irap' av-vaìc, oOaa joic, Gupai^, ^xi (ìxeipuJX0(; fjv.
(3) App. Samn. 6. CelL 11. Cfr. i passi citati sopra p. 377 n. 2.
(4) Liv. epit. 12. Oros. Ili 22 (Aug. de civ. Dei III 17, 2). App. Samn. 6.
Celi. 11.
(5) App. 11. ce.
Xl'OVA (iUKRRA COI SKXOXI 379
Dopo ciò nel 282 il console C. Fabricio Luscino sceso con due
legioni neir Italia meridionale riportò varie vittorie sui Lucani,
sui Sanniti, e sui Bruzi, facendo ricco bottino e liberando da ogni
pericolo Tiu'i (1). In quel mezzo i Greci di Locri e di Regio, mi-
nacciati dai Bruzi e dai Mamertini , chiesero ed ottennero presidi
romani (2) ; ed anche Crotone , che dopo la morte di Agatocle
aveva ricuperato la propria indipendenza, allora, se non prima, si
alleò con Roma (3). La riputazione della potenza romana si dif-
fondeva ormai nel Ionio : e già sulle sijonde delF Adriatico i Ro-
mani avevano da tempo alleati, tra cui, importantissima, Ancona.
Onde parve al governo romano che il credito dello Stato e il ri-
guardo ai nuovi e vecchi alleati esigesse che l'armata romana non
si stimasse più esclusa da quei mari. E perciò una squadra ro-
mana di dieci navi da guerra passò lo stretto e lungo le coste
italiane si avanzò fin entro il golfo di Taranto (4). I decemviri
navali che la comandavano erano ben lontani dal prevedere sia la
sorte che li aspettava, sia l'impero che Roma in un avvenire pros-
simo a^^.'ebbe a^nito in c|uei mari.
(1) DioNTS. XIX 16 (in un discorso di Fabricio a Pirro): TToXXdKi<; juèv koI
itpÓTepov, iLiaXicTTo b' èirel èirì ZauviTat; koI AeuKcxvoùi; xai BpeTTiouq arpaxiàv
à'fwv èaTà\r[v TeTÓpTot -rrpÓTepov èviauTuJ ti')v uTraTOv àpx^'iv ix^"^ (dunque nel
282) Kui TToWi^v laèv x'Jf'Pav èXen^^f noa, -noWaìc, òè |uaxoK Toùq àvTiTaHa|uévou<;
èviKriaa, iroXXàc; òè koì eòòai|uova<; iróXeic; Karà KpdTOi; éXiùv èEeTTÓp8rioa Kal t€-
TpoKÓaia TÓXavTa luexà tòv 9pia)uPov eìi; tò TafiieTov eianveTKa. Val. Max. I 8, 6.
Plin. n. h. XXXIV 32: iiclem (Thurini) posteci Fahricium donavere statua U-
berccti obsidione. Cfr. App. Samn. 7, 1.
(2) 11 presidio di Locri è ricordato da Iustin. XVIII 1, 9. Quello di Regio
da DiONYS. XX 4. App. Samn. 9. Polyb. I 7, 6. Diod. XXII 1 Liv. epit. 12. È
pili verisimile che questi presidi vi siano stati introdotti nel 282 di quello
che nel momento in cui venne Pirro in Italia, sebbene le frasi delle nostre
fonti in generale si concilino meglio con questa seconda possibilità. V. Beloch
Gr. G. Ili 2 p. 404 segg.
(3) Infatti nel 277 era alleata a Pirro dopo essersi inbellata ai Romani :
ZoN. VIII 6.
(4) DiONYs. XIX 4. App. Samn. 7. Cass. Dio fr. 39, 5. Zo.v. Vili 2, Oeos. IV 1, 1.
l||P'ik,j,l, ■Si,|,l.|||l-"Jl^li|||ll'''ilip|||»illl|li||lll||[MI'l!il»ip''-l»ilPI^!"'W^ ii|ii.,ii.iiii|l,H.i.i Pini i..|i.i„ ii||i 1.11,1,. Il III ,,. ,,.. ,,,,,._ .. .11,, . .„ 1^^ ^. , ..I ,. ,iu' ' .V,» t,.
CAPO XXL
La sottomissione degli Italioti (1).
I Tarentini avevano visto con terrore sorgere i Romani a tanta
grandezza e, occupate coi loro presidi Tui'i, Locri e Regio, ri-
dui'si per la prima volta le più importanti città greche del Ionio
in potere di uno Stato indigeno. E doveva ormai apparir chiaro
a chiunque degli Italioti non chiudesse gli occhi alla verità che,
se si volevano rialzare le sorti delFellenismo nella penisola, non
conveniva j)iù tardare ad iniziare la lotta né attendere che il
predominio romano avesse messo trop]30 salde radici. In questo
mentre la squadra delle dieci navi da guerra romane comparve
(1) La storia delle guerre di Pirro in Italia e in Sicilia, oltre che negli
ÙTrojuvrmaTa regi, la cui natura peraltro non è ben chiara, fu narrata in greco
almeno da tre contemporanei, leronimo di Cardia, Prosseno e Timeo. È incerto
se ne abbia trattato il Samio Duride, a cui oggi si suole fare gran parte nella
ricerca delle fonti per la storia di Pirro. Di quegli storici del resto non ab-
biamo che pochi frammenti; ma ad essi si deve se questa guerra ci è ben
piìi conosciuta delle guerre sannifciche: poiché su quegli scritti è fondata la
narrazione degli annalisti romani, che presero a trattarne quasi un secolo
dopo, inserendovi, con poche notizie degne di fede tolte ai fasti trionfali o
alle note dei pontefici, molte tradizioni fallaci e falsificazioni a maggior
gloria di Roma o delle famiglie romane. Questa tradizione alterata si rispecchia
nella maggior parte delle fonti a noi pervenute, ossia non solo in quelle de-
rivate da Livio {epit. 12-15. Flor. I 13. Eutuop. Il 11-14. Oros. IV 1-2 etc),
ma anche nella vita di Pirro di Plutarco, la fonte nostra piii copiosa, nei frani-
OSTILITÀ TRA HOMA E TARANTO 381
nelle acque del golfo di Taranto. Una tale patente violazione del
trattato del 303 non era perx)etrata dai Romani per provocare i
Grreci in modo inconsulto, ma era la conseguenza necessaria di
tutti i fatti clie d'allora in poi avevano modificato la situazione
generale e soprattutto le relazioni reciproche dei contraenti di
quel patto. E tuttavia pei Tarentini quello era il momento critico
in cui dovevano decidere se rassegnarsi alla supremazia romana
nel mar Ionio o tentare d'abbatterla con le armi. Il profondo
sdegno che la violazione del trattato e il comparire delle navi
da guerra romane in acque ove da tanti secoli dominava la ma-
rina greca suscitò nell'animo loro, fece prevalere il partito della
guerra. Tosto fu messa in mare una squadra che, assalite d'im-
provviso le navi romane, quattro ne colò a fondo ed una ne cat-
turò, mentre le altre si salvarono con la fuga. La tradizione an-
nalistica invece narra che i Tarentini tra le baldorie della festa
di Dioniso, alterati dal vino ed ingannati dai demagoghi, immagi-
narono a torto che la squadi'a romana mirasse ad impadronirssi di
Taranto: da ciò un subitaneo assalto del popolaccio alle navi an-
corate nel porto, che ne furono colte alla sprovvista (1). In effetto
quando deliberarono d'assalù-e la squadi'a romana, i Tarentini
presero l'unico partito ragionevole e onorevole che per loro si po-
tesse in quello stato di cose ; e se i Romani fossero colti del tutto
alla sprovvista non sappiamo ; ma è evidente che non si potevano
affondare navi da guerra senza battaglia navale (2) e che il com-
battimento avvenne al largo , fuori del Mare Piccolo, dacché la
squadra tarentina non riusci a chiudere la ritirata a tutte le navi
menti dei libri XIX e XX di Dionisio, in Appiano {Samn. 7-12), in Cass. Dione
(fr. 39-40 e presso Zon. Vili 2 6) e persino, a quel che pare, in Diodoro (XXII).
Non mancano, è vero, nella maggior parte di questi scrittori traccia dell'uso
diretto di fonti greche ; ma la sostanza del loro racconto vi risale quasi
sempre solo indirettamente pel tramite degli annalisti, donde ha preso il co-
lorito sempre favorevole a Roma. A fonti greche attingeva invece diretta-
mente Trogo, del cui racconto non ci è pervenuto che un misero estratto
presso lusTiN. XVIII-XXIII. Di scritti moderni son da citai-e v. Scala Der pyr-
rhische Krieg (Berlin-Leipzig 1884). Schubert Geschichte des Pyrrhus (Konigaberg
1894). NiESK Ziir Geschichte des pyrrhischen Krieges nel ' Hermes ' XXXI (1896)
p. 481 segg. Beloch Or. Geschichte III 2 p. 221 segg. 388 segg.
(1) DioNYS. XIX. 4, 2. Appian. Samn. 7. Cass. Dio fr. 39, 5. Zon. Vili 2.
Oros. IV 1, 1.
(2) Questo punto di prima evidenza è stato messo in sodo per primo dal
Beloch Gr. G. Ili 503 n. 2.
382 CAPO XXI - LA SOTTOMISSIONE DEOTJ ITALIOTI
nemiclie. Del resto i Tarentini o per lo meno i loro uomini poli-
tici saijevano benissimo che i Romani non miravano punto allora
ad assalir Taranto (1), sia perchè erano troppo iDrudenti per muo-
verle guerra mentre erano ancora in armi contro di loro gli Etru-
schi, i Sanniti, i Lucani ed i Bruzì, sia perchè se avessero prepa-
rato una sorpresa, vi avrebbero senza dubbio usato forze adeguate.
Anche dopo quest'atto di ostilità si sarebbe forse potuto schi-
vare la guerra, poiché i Romani, con tanti nemici a combattere,
avevano tutto l'interesse a menar le cose in lungo a costo di
tardare ancora qnalche anno a colorire i loro disegni sul Ionio.
Ma il partito nazionale tarentino profittò dell'eccitamento popo-
lare per la violazione del trattato da parte dei Romani e pel
fàcile trionfo ottenuto, a fine d'indurre il popolo ad un atto di
ostilità che non era più semplicemente una difesa della integrità
della convenzione, ma presupponeva invece che questa ormai
fosse nulla. I Tarentini mossero contro Turi, dove certo un forte
partito doveva veder di mal occhio la presenza del presidio ro-
mano. Ciò spiega perchè il comandante di esso, sentendosi mal-
sicuro, invece d'attendere i soccorsi di Roma, capitolò a patto di
aver libera uscita col suo presidio. Occni^ata la città, i Tarentini,
d'accordo, s'intende, col popolo turino, cacciarono in esilio i capi
del partito aristocratico che era favorevole ai Romani (2).
Ma quanto più il momento sembrava propizio ai G-reci. per
iniziare la lotta, tanto meno appariva tale naturalmente ai Ro-
mani; e però anche ora questi tergiversarono prima d' accettare
la sfida. Certo senza una qualche soddisfazione la guerra era ine-
vitabile; ma le richieste dei Romani erano modeste, stando essi
contenti alla liberazione dei prigionieri fatti nella battaglia navale
alla reintegrazione degli esuli in Tm-ì ed alla consegna dei colpe-
voli dell'assalto contro questa città (3); né era del resto inverisi-
mile che a qualcuna delle loro domande i Romani fossero pronti
a rinunziare nel corso dei negoziati, in specie all' ultima, se pure
(1) Come hanno asserito a torto anche alcuni moderni. L nel vero per questo
rispetto la tradizione romana. App. Samn. 7 : KopvfiXioq èBcàro ti'iv IV.eydXriv
EXXóòa cfr. Cass. Dio 1. e.
(2) Appian. loc. cit.
(3) Queste richieste sono enumerate da App. 1. e. : toù<; |nèv aìxnaXujTouc
ànoboOvai, Goupiujv b' oO<; èEépaXov eie, ■tì]v uóXiv KaraTaTeW, d te biripndKeaav
aÙToùc; f\ Tr)v Zr|l^«ov tOùv àiToXo|uévujv ànoTioai, aqpiai ò' dKÒoOvai xoùc; altiouq
Tf\q 7Tapavo|a(a<; el 'Piu|Lia(ujv èGéXouaiv elvai qpiXoi.
OSTILITÀ T1{A ROMA E TARANTO 88;i
è vero clie Tabbiano messa innanzi; ad ogni modo non si fece
neppm'e parola di i^residiare novamente Tiui e d'ottenere libertà
di navigazione nel golfo di Taranto. Questa arrendevolezza non
era da spiegare col timore che ispirava la sola Taranto, ma con
la cautela che i Romani rix^utavano necessaria per non ferire il
sentimento dei Greci dTtalia e più ancora con la ovvia previsione
che i Tarentini si sarebbero rivolti per aiuto alla madrepatria.
Correva il 282, e Seleuco Nicatore, che aveva vinto a Corupedio
Lisimaco (1), si preparava a penetrare in Em-opa e ad incorporare
la maggior parte della penisola balcanica nel suo impero, che ab-
bracciava già tutte le antiche provincie persiane, tolto l' Egitto.
La possibilità che egli intervenisse con le armi o anche semplice-
mente con qualche dimostrazione a favore dei Greci d'Italia non
era tale da lasciar tranquilli i Romani, giacché Seleuco, l'ultimo
sujjerstite dei generali di Alessandro Magno, era, o jjareva al-
meno, non molto meno potente di Alessandro stesso. Tanto più i
Tarentini dovevano sentirsi sicuri ; e cosi 1' ambasciatore romano
Postumio non solo non ottenne alcuna soddisfazione, ma fu
anche trattato in modo ingiuiioso, sia pure che il livore degli
annalisti romani verso i Tarentini abbia fatto esagerare l'insulto
che gli toccò di soffrire (2). Dopo ciò essendo ormai impossibile
astenersi dalla guerra, fu spedito contro i Tarentini ed i.loro al-
leati il console Q. Emilio Barbula , che riportò alcuni vantaggi
sui Sanniti, sui Sallentini e sui Tarentini stessi (281) (3). E i Ta-
rentini se per awentui'a avevano sperato di tener testa a Roma
con l'aiuto dei loro alleati italici, Sanniti, Lucani, Bruzì, Messapì,
con ])arte dei quali erano in lega da tempo, con jiarte si erano
allora affrettati a stringere accordi, dovettero convincersi del loro
errore quando dalle mura della città poterono vedere il fumo
sollevarsi dalle loro campagne messe a fuoco da Emilio. Perciò è
nel vero la ti-adizione quando ci presenta i Greci esitanti a con^
tinuare la guerra (4) : tanto più che i Romani si mostravano anche
ora proi)ensi a venire ad un accordo. L'esitare dei Tarentini j^ro-
(1) Sulla data di questa battaglia v. sotto p, 390 n. 2.
(2) L'insulto è menzionato anche da Polyb. I 6, 5; ma ciò non vuol dire che
si debbano accogliere i particolari dati dagli annalisti romani (Dionys. XIX 5.
Val. Max. II 2, 5. App. Samn. 7. Cass. Dio fr. 39, 6. Zon. Vili 2).
(3) Egli trionfò 1' anno seguente come proconsole de Tarentineis Samnitibus
ft Sallentineis.
(4) App. Samn. 1. e. Zon. Vili 2. Pr.irr. Pfirrh. 18.
38-4 CAPO XXI - I.A SOTTOMISSIONE DEGLI ITALIOTI
cedeva soprattutto dalle condizioni mutate dell' Oriente ellenico,
dove, sul principio del 281, Seleuco, passato col suo esercito in
Europa, era stato assassinato da Tolemeo Cerauno, che si fece
subito riconoscere come re in Tracia ed in Macedonia. Dopo ciò
il Cerauno si era trovato a fronte nemici formidabili, come An-
tigono Gonata figlio di Demetrio Poliorcete, clie voleva profittare
dell'occasione per insignorirsi del trono macedonico, ed Antioco
Sotere^ figlio di Seleuco, che, padrone dell'Asia, non voleva
punto rinunciare al retaggio paterno. In tale stato di cose lo
sfacelo della maggior jDotenza che fosse sorta sulle rovine del-
l'impero di Alessandro e la possibilità che tutti i più ragguarde-
voli Stati del mondo greco si trovassero implicati in una terribile
guerra di successione doveva ispirare ai Tarentini il timore d'es-
sere abbandonati dai connazionali della madrepatria nel momento
in cui più avevano mestieri del loro aiuto. Fortunatamente presto
la situazione si chiari ; perchè Antioco ed Antigono si dimostra-
rono impotenti a togliere al Cerauno gli Stati di cui s'era impa-
dronito, e Pirro re d'Epiro che aveva conteso senza felice successo
la Macedonia a Demetrio Poliorcete e a Lisimaco, preoccupato
di quel che avveniva nella immediata vicinanza de' suoi Stati al
di là del canale d'Otranto, sollecitato dai Tarentini a venire in
loro soccorso, preferì di lasciare senza contrasto al Cerauno il
dominio di quel regno e di cercare in Italia gloria ed impero.
Pirro, figlio di Eacida, re d'Epiro, aveva raggimito allora, me-
nando una vita assai avventurosa, quasi quarant'anni (1). Suo
padre, deposto dagli Epiroti nel 317/6, era poi perito in un ten-
tativo di ricuperare la patria ed il regno con le armi in mano.
Pirro, portato al trono da una sollevazione, in età di undici o do-
dici anni, nel 307, e cacciatone poco dopo da un'altra, cominciò a
segnalarsi nel suo esilio combattendo valorosamente accanto a
Demetrio e ad Antigono il Vecchio nella giornata d'Ipso (301),
che decise delle sorti dell'impero d'Alessandro. Poi alla morte di
Cassandi'o di Macedonia, sbarcato con aiuti tolemaici in Epiro (298/7)
si fece riconoscere come collega di Neottolemo che allora vi re-
gnava e che apparteneva ad un altro ramo della casa reale, es-
sendo figlio del re Alessandro, venuto anni prima in Italia; presto
però il nuovo re si tolse d'accanto l' incomodo compagno assassi-
nandolo e si fece solo signore. Con Pirro l'Epiro prese parte attiva
(1) Sulla casa reale epirotica e le prime vicende di Pirro v. Beloch Gr. G.
Ili 2, 99 segg.
PIRRO E I SUOI ALLEATI 385
alla grande j)olitica della penisola balcanica, non più come sem-
plice appendice della Macedonia, ma con quella indipendenza cui
gii dava diritto la sua estensione e la sua popolazione abbon-
dante e g-uemera. E ciò diede a lui occasione d'ingrandire il regno
a\'ito, occupando durevolmente l'Illiria meridionale, la Paravea e
la Tinfea, l'Atamania, Ambracia, l'Anfilocliia e Tisola di Corcira ;
sicché il regno epirotico aveva ormai un'area di circa 12 mila km^
e una popolazione clie, densa in specie nel territorio d'Ambracia
e di Corcira, ma non scarsa neppure nell' Epiro propriamente
detto, non doveva essere di molto inferiore ad un mezzo milione
d'abitanti. Ad un i3rincipe solerte e ardimentoso come era Pirro,
doveva riuscire accetto l' invito dei Tarentini. Se non lo avesse
accolto, dato die i Tarentini non riuscissero a procurarsi 1' aiuto
di qualche altro ambizioso e potente epigono, come Antigono
Gonata, la sottomissione di Taranto a Roma non poteva tardare.
Prendendo invece in Italia le difese dell'ellenismo con l'aiuto dei
molti popoli che erano in armi contro Roma, Pirro si ripromet-
teva non solo di ristabilire le sorti delFellenismo nella xjenisola,
ma fors'anche di fondare, partendo dall'Epiro, un impero ellenico
nell'Occidente.
Il territorio degli alleati di Pùto nell'Italia meridionale, i San-
niti, i Lucani, i Bruzì ed i Messapi, con le città greche di Taranto,
Metapontio, Eraclea e Tm-ì, non era molto inferiore ai 50 mila km*;
e la popolazione v'era abbastanza densa, per modo che, compresi
gli stranieri e gli schiavi che certo abbondavano a Taranto e nelle
regioni più pervase dall'influenza della civiltà greca, non sarà
stata di molto inferiore ad un milione di abitanti (1). Per popo-
(1) Secondo Fabio presso Polyb. II 24 (cfr. Beloch Bevolkerung I p. 356 segg.),
le forze di cui disponevano i Sanniti nel 225 erano di 70 mila fanti e 7 mila
cavalli, i Lucani di 13 mila fanti e 3 mila cavalli, gli Iapigi e Messapi di 50
mila fanti e 16 mila cavalli (l'ultima cifra è da correggere in 6 mila). Calco-
lando all'ingi-osso che le forze dei Bruzì non ricordati in quella lista siano
state eguali a quelle dei Lucani e che tra gli Iapigi e i Messapi la metà circa
fossei'O i Danni, ne ricaveremmo che le truppe clic potevano mettere in campo
gli alleati italici di Pirro salivano allora a 121 mila fanti e 16 mila cavalli.
Tenuto conto delle perdite di territorio da essi sofferte per effetto di quella
guerra, dato che la popolazione non avesse variato sensibilmente in quel mezzo
secolo, potremmo computare le loro forze intorno al 280 ad un 150 mila uo-
mini almeno. Ma i dati di Polibio si riferiscono all'esercito attivo ; compren-
dendovi le riserve (calcolate alla metà dell'esercito attivo), giungiamo a 225
mila uomini. Sommandovi l'esercito attivo e le riserve dei Greci d'Italia al-
G. De Sanctis, Storia dei Romani, II. 25
386 CAPO XXI - LA sottOxMISsionp: degli italioti
lazione il territorio dominato direttamente da Roma era a un di-
presso eguale a quello degli alleati tarentini, benché non fosse
esteso neppure la metà, ossia, compreso l'agro gallico di recente
acquistato^ un 22 mila km-. Però si aggiungevano gli Stati alleati
che, prescindendo dagli Etruschi e Lucani ribelli , ma compren-
dendovi parte dei Grreci d'Italia, abbracciavano 28.500 km'^ di su-
perficie, con almeno un altro mezzo milione di abitanti. Cosi se
gli alleati di PiiTO erano abbandonati alle sole loro forze, il van-
taggio restava indubitatamente allo Stato romano più esteso e
più popolato, anche senza tener conto della superiorità de' suoi
ordinamenti politici e militari. Ma questo vantaggio era messo in
forse dall'alleanza con Pirro. Tra Roma coi suoi alleati da una
parte, e Pirro coi Tarentini e i loro alleati dall'altra, non vi era
molta disparità di forze. Infatti gli abitanti dei territori di cia-
scuna delle due leghe sommavano a chea un mihone e mezzo di
uomini: e tra questi tanto i Romani e i loro alleati, quanto gli
Epiro ti e i loro confederati ^ italici erano agguerriti e dotati di
buoni ordinamenti militari. E vero che fra altri alleati di Pirro,
cosi presso i Grreci d'Italia, gli Ambracioti e i Corchesi, lo spirito
guerresco doveva essere alquanto in decadenza, come in generale
tra i più inciviliti dei Greci nel sec. IV e più nel III. Ma questo
inconveniente era largamente compensato dai maggiori cespiti di
entrata di cui disponeva sia la repubblica tarentina, sia uno Stato
ordinato sul tipo delle grandi monarchie ellenistiche com'era allora
l'Epiro: entrate che permettevano di armare truppe mercenarie e
di sopperh'e assai meglio che non si potesse in Roma alle spese
della guerra. Senonchè v' erano due altri inconvenienti i quali a
Pirro non potevano sfuggire : prima di tutto la lega tra i Sanniti,
i Messapì, i Bruzì, i Lucani, i Gfreci d'Italia e gli Epiroti era una
lega tra popoli diversi di nazionalità e d'incivilimento, che ave-
vano mediocri simpatie gli uni per gli altri e di cui ciascuno mi-
rava principalmente ad assicurarsi la propria indipendenza ; poi
Pirro non poteva disporre di tutte le forze del regno d'Epiro,
leati con Pirro ci accostiamo a 250 mila uomini. Secondo Plutarco Pyrrh. 13
invitando Pirro gli si disse che le forze di cui disponevano gli alleati erano
di 20 mila cavalli e 350 mila fanti. La cifra dei fanti va corretta in 250 mila,
come suggerisce anche la proporzione coi cavalli (si badi che FApulia era
famosa pei suoi cavalli, Varr. de re r. II 7, 1. 6). La popolazione cittadina
totale dei paesi alleati a Pirro in Italia doveva essere di 750-800 mila
abitanti.
Pipaio E T SUOI ALLEATI 887
poiché, a prescindere dai pericolosi vicini, fin nel territorio stesso
deir antico Ex)iro aveva certamente nemici die anelavano di farg^li
toccare la sorte del padre Eacida, e inoltre gran parte del terri-
torio epirotico era costituito da regioni di recente sottomesse, la
cui fedeltà era malsicura. Questi erano gravi elementi d'inferio-
rità per Pirro e pei suoi alleati a fronte di Roma, uè Pirro })o-
teva ignorarli : ma egli i)resumeva di compensarli con le doti
straordinarie die aveva coscienza di possedere come generale, coi
sussidi die gli forniva la tecnica militare progredita, da lui stu-
diata alla scuola dei generali d'Alessandro, e con gli aiuti dei re
ellenistici suoi amici, tra i quali Tolemeo Cerauno, che aveva ben
ragione di comperare a caro prezzo la sua amicizia, gli diede
cinquemila uomini e un certo numero di cavalli e d'elefanti (1).
Queste speranze di Pirro non erano infondate, tanto è vero,
che egli riusci a vincere ripetutamente in campo i Romani. Ma
mezzi sufficienti per continuare lentamente la lotta assediando e
conquistando ad una ad una le città dello Stato romano non ne
aveva. Poteva quindi solo sperare nel disgregarsi della federa-
zione stretta intorno a Roma per l'effetto morale delle sue vit-
torie. Pirro si persuadeva certamente che lo Stato romano fosse
all'immagine degli Stati greci e che un paio di ^'ittorie avrebbe
indotto gli alleati di Roma a distaccarsi da lei per accoglierlo
come liberatore ; al modo stesso che gli alleati, p. e., della Mace-
donia o anche dell'Epiro in Grrecia non aspettavano che la prima
occasione favorevole per ricuperare la loro indipendenza. Ora ab-
biamo veduto come non sapienza politica, ma la forza delle cose
e le esigenze della disperata lotta per l'esistenza avessero indotto
i Romani a unir saldamente insieme sia i comuni dello Stato loro
propriamente detto, sia la federazione che gli si stringeva attorno,
e quindi ardua impresa era quella di staccare da Roma municipi,
colonie o città alleate. Clù giudica perciò dal successo non man-
cherà di notare Pirro d'insipienza politica; giacché se egli pre-
vedeva che avi-ebbe lasciato sul campo di battaglia tanta gio-
ventù epirotica senza pervenire a disgregar la compagine dello
Stato romano e però senza mutare d'una linea le sorti dell'elle-
(1) lusTiN. XVII 2, 14, cfr. XXXVIII 4, 5, parla di 5000 fanti, 4000 cavalli
e 50 elefanti. Il numero dei cavalli è certamente errato, perchè è sproporzio-
nato con quello dei fanti e perchè, a quanto dice Plut. Pi/rrh. 15, Pirro ne
aveva in tutto tremila quando passò in Italia: onde dobbiamo credere che
debba leggersi presso Giustino 400 on valli.
388 CAPO XXI - LA SOTTOMISSIONE DEGLI ITALIOTI
nismo in Italia, non a^a^ebbe commesso la follia d'intervenire. (Hi
è che questa previsione Pirro non i)oteva fare in alcun modo.
Perocché ostilità tra Romani e Greci ancora non vVrano stato,
se si tolga r assedio di Napoli e la breve lotta con Taranto fra
la seconda e la terza guerra sannitica, in cui i Romani s'erano
guardati dairimpegnar troppo le loro forze. Quindi i Grreci non
potevano far giudizio esatto dello Stato romano: anzi doveva dar
loro motivo a bene sperare il pensiero che mentre Roma aveva da
mezzo secolo tenuto testa con difficoltà ai Sanniti, ora si con-
giungevano contro di lei ai Sanniti i Greci d'Italia e gli Epiroti,
a tacere degli Etruschi non sottomessi e dei Galli che potevano
da un momento all'altro rinnovare i loro assalti.
I negoziati fra Pirro e i Tarentini fm*ono abbastanza laboriosi :
giacché i Tarentini erano i^ronti a far sacrifizi finanziari per la
guerra, ma non a sottomettersi ad una monarchia assoluta, anzi
al confronto probàbilmente non pochi di essi avrebbero j)ref erito
l'alleanza romana che, in specie allora, rinunciando ad ima poli-
tica estera autonoma e promettendo d'aiutare in certa misui-a i
Romani con la marina da guerra, x^otevano avere ad ottime con-
dizioni. D'altra parte Pirro aveva ogni ragione di pretendere gua-
rentie perchè non gli succedesse quel ch'era toccato al suo pre-
decessore Alessandro, di essere cioè tradito dagli alleati nel mezzo
della sua impresa ; e cosi esigeva il diritto di presidiare la città
e di avere in Taranto pieni poteri durante la guerra e inoltre i]
supremo comando di tutte le forze alleate. In cambio i Tarentini
chiedevano che Pirro si obbligasse a non trattenersi in Italia se
non per la durata della guerra, che prevedevano breve (1) : essi
contavano che sarebbe terminata con un paio di campagne, o
PÙTO stesso si era imjDegnato a restituire dopo due anni gli ausi-
liari macedoni a Tolemeo Ceramio. Tuttavia le guarentie chieste
da Pirro e quelle che poi si prese da sé, tenendo come ostaggio al
suo fianco, sotto colore d'usar loro riguardo, alcuni dei più riputati
fra i Tarentini inviatigli e mandandone poi altri con vari pre-
testi in Eph'o (2), erano guarentie che avevano un valore effettivo ;
poco o punto ne aveva invece la promessa di Pirro di sgomberare
l'Italia dopo vinti i Romani. Né i Tarentini erano forse tanto in-
(1) Si capisce che questa clausola fu stipulata nell'interesso dei Tarentini e
non proposta da Pirro nell'interesse proprio come vorrebbe far credere Zonar.
Vili 2. Della cosa giudica rettamente Schdbert Pyrrhiis p. 163.
(2) Zonar. loc. cit.
SBARCO DEGLI EPIROTI 389
genui da credere che Pirro, se impiegando tutta la sua energia e le
forze del suo regno riusciva \T.ttorioso, avrebbe jdoì lasciato go-
dere ad altri il frutto delle sue vittorie. Ma i patriotti tarentini
avranno pensato bene a ragione clie valeva meglio servire un
padi'one greco di quello che essere alleati dipendenti di uno stra-
niero. Tutti poi potevano contare su ciò che l'Epiro era piccolo e
distante e che gli alleati italici di Pirro sarebbero stati pronti a
sostenere Taranto contro di lui quando non avessero avuto più
bisogno de' suoi aiuti. Ma le sorti della guerra dis^Densarono tanto
Krro quanto i Tarentini dal provvedere a tali eventualità.
Concluso il trattato, Pirro volle agire prontamente; e ne aveva
ben ragione, mentre le condizioni incerte della Grrecia e le deva-
stazioni di Emilio Barbula avevano fatto si che fosse nominato a
Taranto stratego con- pieni poteri un tale Agide, che ci viene
rappresentato come partigiano dei Romani e che, se non altro,
ijarà stato partigiano della pace con Roma (1). Il re inviò tosto
in Italia Cinea con un piccolo corpo di truppe (2) ; e allora i pa-
triotti tarentmi, assicurati del soccorso d'Ex)iro, spalleggiati certo e
forse istigati clagh ufficiali epiroti, deposero Agide e gli sostitui-
rono uno degli ambasciatori tornati dalla Grecia. Sopraggimise poi
con altre forze epirotiche un ufficiale di nome Milone, che occupò
la rocca di Taranto a nome di Phro , e conforme agh' accordi
assimse la guardia delle mura (3). Tutto ciò rese più audaci i Ta-
rentini e permise loro di disporre di milizie più numerose per af-
frontare i Romani. Si appressava frattanto l'inverno 281/0, e sia
per la stagione inoltrata, sia per non essere pari in forze al ne-
mico cresciuto di numero e di baldanza, il console stimò bene
di ritirarsi. Allontanandosi da Taranto per la strada costiera, col
Ijroposito di ritornare verso l'interno della Lucania nella dii'eziono
della via Popillia, Emilio ebbe a correre un grave pericolo, in un
punto presso il mare, dove le sue truppe furono bersagliate dalle
navi da guerra dei Greci con le loro armi da getto, mentre pro-
Inabilmente gl'indigeni occupavano le alture sovrastanti alla via (4).
Nondimeno egli riusci a disimpegnare il suo esercito ; e svernò
(1) ZoNAR. loc. Cit.
(2) Plut. Pijrrh. 15. Zonar. 1. e. Non v'e rapfione per respingere questa no-
tizia con lo SCHUBERT p. 165.
(3) Zonar. loc. cit.
(4) Frontin. I 4, 1. Zonar. 1. e. Zonara pone il fatto presso l'Apulia, Fron-
tino in Lucania. Le ragioni geografiche stanno dalla parte di Frontino.
390 CAPO XXI - LA SOTTOMISSIONE DEOLI ITALIOTI
poi a non troppa distanza dal territorio nemico, di che è prova
Tesser egli tornato solo più tardi in Roma, dove trionfò Tanno
seguente come proconsole nella prima metà di luglio (1).
• Intanto Pirro affrettava i suoi apparecclii; e poi, regolate per
una lunga assenza le cose di Epii'o lasciandovi come reggente
il figlio quindicenne Tolemeo, appena col cedere dell'inverno co-
minciò a riaprirsi la navigazione tra l'Italia e la Grecia , senza
neppm-e attendere la buona stagione, salpò coi due figli più gio-
vani Alessandro ed Eleno. Fu sorpreso da una tempesta che la tra-
dizione descrive non senza abbellimenti retorici, ma che impedì ad
ogni modo alle navi epirotiche di seguir tutte la stessa rotta e fece
si che PiiTO con un piccolo corpo di truppe soltanto sbarcasse sulle
coste orientali della Calabria. In breve però, nelTaiìrile 280 (2'. !<•
(1) V. sopra p. 383 n. 3.
(2) Secondo Poltb. II 20, 6 i Romani fecero pace coi Boi tlù xpirty irpórepov
eT€i Tfì<; TTvjppou biapdaeiwq el<; IxaXiav, tréiuTrTiu bè rfic; faXarOùv -nepi A6Xqpoù(;
biaq)0opà<;. Ora la rotta dei Galli accadde nella ol. 125,2 = 279/8 secondo Pausan.
X 23, 14. Quindi Pirro passò in Italia nel 281/0. Si accorda con ciò un altro
passo di PoLYB. II 41, 11, in cui è detto che Pirro venne in Italia nella ol. 124
(284,'3-281/0). Del momento preciso ci dà notizia Cass. Dio fr. 40, 4: oùòè tò
?ap l!U€ive (cfr. Zonar. Vili 2): ne v'ha motivo di mettere in dubbio la fretta
del re, perchè aveva ogni ragione di far presto. Plutarco, è vero, dice che la
sua armata fu dispersa popéct àvé,ULU uap' djpav èKpayévTi {Pyrrh. lo); ma in
realtà non c'è contraddizione sol che l'uno e l'altro passo s'intenda cum grano
salis; e dovremo ricavarne che Pirro si mosse in marzo od aprile. Rimane a
spiegare il passo di Polyb. I 6, 5, dove è detto che i Tarentini chiamarono
(èTteaTTCtaavTo) Pirro tlù TrpÓTepov irei Tf\c, tuùv TaXaTUJv èqpóbou tóiv Te -rrepi
AeXqpoùc; qpBapévTuuv koì -n-epaiujS^vTuuv eìq ti'iv 'Aoiav. Qui evidentemente si ac-
cenna al momento in cui comparvero i Galli in territorio greco. Ora le fonti
distinguono appunto la invasione dei barbari in cui perì Tolemeo Cerauno e
l'altra in cui i Galli giunsero fin presso Delfi. La prima dunque si colloca
assai bene nel 280 ; e così va ritenuto che la fonte cronologica di Polibio at-
tribuisca alla òl. 124,4 = 281/0 la chiamata di Pirro e il suo sbarco in Italia,
alla ol. 125,1 = 280/79 l'invasione dei Galli in Macedonia. Ciò si accorda pie-
namente con altri dati, a cominciare da quelli forniti da Polibio stesso li 41, 1 :
òXunTTiòq )ièv i'jv reTÓpTri ftpòc; xaiq éKaxóv, Kaipoi òè Ka0' oO<; TTToXgfiaìoq ó
Aóyou Kaì Auai.uaxoq, è'xi bè ZéXeuKoi; Kaì TTroXeiiiaioc; ó Kepauvòc; lueTiiXXaEav
TÒv Piov • TTÓvrec, yòp oCroi irepì ti^v irpoeipriiuévriv òXu|UTridòa tò Zf\v iiéXmov.
S'intende che il Ttcpì ci lascia qualche mese di larghezza, e che nulla impe-
disce di collocare la morte del Cerauno ad estate inoltrata del 280. Invece chi
col Beloch colloca la morte del Cerauno nel 279 si mette in piena contrad-
dizione con Polibio. Del resto Tolemeo Cerauno regnò 1 anno e 5 mesi se-
condo Porfirio presso Eusebio (I 235). Ammettendo che sia morto intorno al-
SBARCO DEGLI EPIROTI 391
milizie epii'oticlie si concentrarono a Taranto in numero di forse
l'agosto 0 settembre 279, conviene collocare il principio del suo regno nel
marzo od aprile del 281, e la vittoria di Corupedio, che accadde sette mesi
prima (Iustin. XVII 2, 4). nell'agosto o settembre 282. Questa data non va
incontro ad alcuna obbiezione grave ; perchè non son davvero tali quelle che
si traggono (Beloch III 2, 68) dalle cifre formicolanti d'erróri della lista degli
Asianorum et Syroriim reges di Eusebio. — Veniamo ora al raffronto della cro-
nologia greca con la romana. Le fonti sono d'accordo nel tenere P. Valerio
Levino pel console che primo si trovò a fronte di Pirro. Ogni dubbio in tal
proposito deve essere respinto da una critica temperata, e non è certo da
sottoscrivere alle considerazioni del Beloch 1. e. Nulla di strano vi sarebbe
anzi tutto che le fonti greche avessero dato il suo nome. Se menzionavano i
regoli gallici, a maggior ragione potevano ricordare un duce romano. È anzi
assai difficile che Pirro tacesse questo particolare nelle sue memorie, come
Cesare non tace nei suoi commentari i nomi dei comandanti gallici con cui
ebbe a combattere. Del resto memoria della cosa doveva conservarsi anche
in Roma, non certo nei fasti trionfali, ma nelle note dei pontefici ; e se tutte
le fonti son d'accordo nell'attribuire a P. Valerio una sconfitta che non era
gloriosa ne per Roma ne per la gente Valeria, dobbiamo ritenere che la no-
tizia si basi sopra un fondamento vero di tradizione. Inoltre la cronologia
dei fasti ci conduce pel consolato di P. Valerio e del suo collega Ti. Corun-
canio precisamente a quell'anno 280, a cui per lo sbarco di Pirro in Italia ci
riportano in modo affatto indipendente le fonti greche. Per precisare -maggior-
mente conviene ricercare il giorno iniziale dell'anno consolare in quel tempo.
Si è osservato che tutti i trionfi consolari del periodo tra il 293 e il 223 ca-
dono fra il 13 decembre e il 13 aprile. Ne scende che questi erano gli ultimi
mesi dell'anno consolare e che in questo periodo, che comprende la guerra di
Pirro e la prima punica, il primo giorno dell'a. consolare cadeva il V maggio.
Vi ha una sola difficoltà appunto pel 280. Per questo anno nei fasti trionfali
è riferito prima il trionfo del console Ti. Coruncanio sui Volsiniensi al 1° feb-
braio e poi al 10 luglio quello del proconsole L. Emilio Barbula sui Tarentini
e i loro alleati. Ora se Barbula trionfò come proconsole il 10 luglio dopo che
il console aveva già trionfato a febbraio, pare a prima vista da indurne che
il primo giorno dell'anno consolare non fosse compreso tra febbraio e luglio,
ma tra luglio e febbraio, ossia non potesse essere il primo maggio. Ma la dif-
ficoltà si elimina ammettendo (v. Holzapfel Rom. Chronologie p. 103) che il
redattore dei fasti abbia fatto una trasposizione registrando i due trionfi se-
condo l'ordine che avevano al suo tempo i mesi dell'anno consolare. Più gl'ave
è la questione del rapporto tra il 1° maggio del 280 e il 1° maggio giuliano.
Al tempo della prima punica (come cercherò di provare a suo luogo, espo-
nendo le ragioni per cui è da respingere interamente la cronologia di quella
guerra quale è data da P. Varese negli ' Studi di storia antica ' del Beloch
fase. Ili e dal Beloch stesso nella Gr. O. Ili 2 p. 232 segg.) il calendario ro-
392 CAPO XXI - LA SOTTOMISSIONE DECtLI ITALIOTI
trentamila uomini con venti elefanti (1). Pìito si occupò tosto di
far leve nella città e di acquartierarvi i suoi soldati. Che ciò non
si potesse senza dar qualche disturbo ai Tarentini s'intende da se ;
e s'intende pure che non mancassero malcontenti ; ma il re aveva
la forza in mano; e i malcontenti fui'ono costretti con mezzi più
o meno legali a tacere (2).
Anche i Romani si prepararono alla guerra. Le forze però che
potevano impegnare contro Puto non erano pel momento troppo
considerevoli, sia perchè grossi iDresidi erano distaccati a Regio ed
a Locri, sia perchè conveniva anzi tutto terminare , e presto , la
guerra etrusca per evitare che gii Etruschi potessero unn-si a Puto.
Perciò fu inviato in Etruiia col suo esercito consolare di due legioni
Ti. Coruncanio, e così l'altro console P. Valerio Levino non xjotè
muovere contro Pirro che col consueto esercito di due legioni, ossia,
poiché è da ritenere che le legioni avessero gli interi effetti vi,, con
ventimila uomini. I Romani volevano evidentemente affrontare
Puto prima che avesse terminato i suoi preparativi e prima che
gli Italici si fossero congiunti con lui, per atterrire i suoi alleati
mostrando che non lo temevano. E l'aver preso l'offensiva con
solo un ventimila uomini mostra che, usi a vincere, non si fa-
mano corrispondeva al giuliano o anticipava di pochissimo. Lo stesso era pro-
babilmente al tempo di Pirro. Computi precisi non è dato di farne. Ne ha
tentato il Beloch movendo dalla supposizione che non molto prima, durante
l'edilità di Cn. Flavio e per opera sua, sia stato riformato il calendario : sup-
posizione che è senza dubbio da respingere, v. e. XXIV.
(1) FhVT.Pyrrh. 15 parla di 20.000 fanti, 2000 arcieri, 3000 cavalieri, 500
frombolieri e 20 elefanti. Aggiungendovi i 3000 uomini passati con Cinea e
quelli condotti da Milone si viene a circa 30 mila uomini. Non bisogna però
dimenticare che di questi una buona parte doveva costituire il presidio per-
manente di . Taranto, di guisa che sul campo di battaglia Pirro non avrà mai
potuto dispoi-re di oltre 20.000 Epiroti. Quanto agli elefanti, secondo Padsan.
I 12, 3 erano stati presi a Demetrio Poliorcete, secondo Iustin. XVII 2, 13
furono forniti a Pirro da Tolemeo Cerauno in numero di 50. Tra i due numeri
par preferibile quello di 20 dato da Plutarco, che si ritrova anche in Oros.
IV 1, 6; ma quanto alla provenienza par che Giustino sia nel vero e che gli
elefanti di Pirro provenissero realmente dall'esercito con cui Seleuco aveva
passato l'Ellesponto, v. Beloch Gr. G. Ili 1 p. 360 n. 2. Pel numero dei ca-
valli cfr. sopra p. 387 n. 1.
(2) ZoNAR. Vili 2. Ai'P. Samn. 8. Plut. Pi/rrh. 16. Probabilmente alle leve
fatte in Taranto si riferisce Frontin. strat. IV 1, 3.
BATTACLfA DI ERACLPL^ 393
cevano idea del pericolo, come novant' anni dopo tardarono assai
ad avvedersi del rischio clie li minacciava per opera d'Annibale.
Levino, devastata la Lucania , giunse sulle sponde del Ionio
e lungo il mare si diresse verso Eraclea. Se Pirro non moveva al
soccorso, i Romani die forse non mancavano di qualche amico
nella città (1) avrebbero tentato di trarla a sé; ad ogni modo gli pre-
cludevano intanto la via delle colonie greche della odierna Calabria,
Regio, Locri, Crotone, fedeli sino allora ai Romani, che il re avrebbe
potuto facilmente concitare a ribellione. PiiTO cosi dovette, per
quanto ancora non ben preparato, accettare la sfida; X3erchè se ri-
fiutava di venire a battaglia, l'effetto morale sarebbe stato peg-
giore di quello d'una sconfitta; e con forze pari press'a poco alle
romane o fors'anche inferiori, tenuto conto del valido presidio che
lasciò a Taranto e dell'assenza degli alleati (2), si accam^DÒ presso
la sponda del Siri fra Pandosia ed Eraclea, tenendosi sulle difese.
Il re non credeva davvero con -l'ostacolo d'un fìumicello tagliare
la via all'esercito romano; e quindi è chiaro che non intendeva
punto schivare la battaglia se il nemico voleva continuare l'avan-
zata. Soltanto poteva darsi benissimo che i Romani esitassero
alquanto prima di arrischiarsi ad una offensiva oltre il Siri, mentre
non disponevano punto del massimo delle loro forze. Pel momento
dunque Pùto lasciava ai Romani d'iniziare le offese, giacché a lui
conveniva di attendere che giungessero i soccorsi degli alleati e
che fossero a sufficienza esercitate per poterle condurre a battaglia
le leve tarentine. I Lucani frattanto non si movevano, perchè la
presenza del nemico nel paese aveva impedito la radunata delle
loro forze; i Bruzì perchè erano tagliati fuori dalUi mossa di Va-
lerio ; i Sanniti perchè non bramavano troppo di cimentarsi lungi
dal proprio territorio, ammaestrati dall' esempio della sconfìtta
toccata a Sentino. Pùto tuttavia confidava ne' suoi soldati ed in
se stesso : né aveva torto (3).
(1) Cfr. oltre p. 411 n. 3.
(2) lusTiN. XVIII 1, 5.
(3) Sulla battaglia di Eraclea v. soprattutto Plut. Pyrrh. 10-17. Egli narra
largamente aneddoti su Oblaco, Megacle o Leonnato che non meritano molta
fede e che del resto non hanno importanza. Questi aneddoti derivano da
DioNYs. XIX 12; non basta però la loro poca serietà a provare che siano at-
tinti a fonte romana, come vuole il Beloch IH 2 p. 400 n. 1. Un Romano
piuttosto che un Oblaco od un Megacle avrebbe inventato un Fabio o Furio
0 Valerio. Prescindendo però da costoro, Plutarco dice che Pirro prima con la
sola cavalleria mosse per disturbare i Romani nel passaggio del fiume, quando
394 CAPO XXI - LA SOTTOMISSIONE DEGLI ITALIOTI
Come i Greci non potevano sorvegliare che un tratto limitato
della sponda, sembra che i Romani, passato il fiume senza alcun
serio impedimento, riuscissero a spiegare tutte le loro forze sulla
sinistra del Siri prima che il re potesse muovere all'assalto. Pirro
innanzi tutto inviò o condusse egli stesso in ricognizione la caval-
leria. Dopo aver pigliato contatto con le forze nemiche e forse
cercato di infliggere qualche perdita ai Romani mentre passavano
o mentre cominciavano ad ordinarsi sull'altra riva, la cavalleria
ei3Ìrota si ritirò prendendo posizione con gii elefanti sulle ali della
falange, mentre si avanzava tutto l'esercito greco in ordine di bat-
taglia. La fanteria romana e la epirota combatterono aspramente ;
ma l'esito del combattimento fu determinato dai cavalli e dagli
la cavalleria piegò mandò la fanteria, da ultimo fece avanzare gli elefanti che
decisero le sorti della giornata. Pare molto strano che Pirro abbia adoperato
così a spizzico le sue forze. Il passaggio di un fiume con un corpo di venti-
mila uomini non è cosa tanto facile ne breve. E Pirro aveva senza dubbio
tutto il tempo di mettere in ordine di battaglia fanti, cavalli ed elefanti, ed
assalire con le forze compatte i Romani. Perchè non lo avrebbe fatto? Se la
battaglia si svolse come è narrato nel testo, si capisce come uno storico ignaro
di cose militari abbia potuto, fraintendendo i movimenti di Pirro, darne il rac-
conto che è in Plutarco. La ricognizione della cavalleria provocò l'opinione
erronea che la fanteria entrasse in scena sol quando la cavalleria fu vinta.
L'essersi determinata la sorte della battaglia dagli elefanti, qualche tempo
dopo che s'era iniziato il combattimento tra le due fanterie, diede luogo al-
l'errore di riguardar l'entrata in azione degli elefanti come un terzo momento
della battaglia, mentre naturalmente essi furono condotti alla mischia non
appena cominciò la battaglia campale. — Una notizia proveniente da fonti
romane (su di che giudica rettamente lo Schubert p. 182 seg.) è quella di
ZoNAR. Vili 3 secondo cui Levino aveva posto in agguato la cavalleria per
assalire alle spalle all'improvviso durante il combattimento l'esercito di Pirro ;
e Pirro preso alle spalle si salvò percotendo la cavalleria con gli elefanti che,
messo in iscompiglio l'esercito romano, lo avrebbero distrutto se non veniva^
ferito un elefante, il quale con le sue grida portò la confusione tra gli altri
e tolse il vigore all'assalto. Il feritore sarebbe stato secondo Oros. IV 1, 17,
cfr. Flor. I 13, Minucio, il primus hastatus della quarta legione. Qui l'imbo-
scata (che data la posizione effettiva dei belligeranti era assurda), il nome del
salvatore, il numero d'ordine (certo fantastico) della legione indicano che ab
biamo a fare con invenzioni annalistiche, ben diverse dalle invenzioni greche
riportate da Plutarco. Le osservazioni del Delbrueck Kriegskunst I 262 segg.
sulla battaglia sono in generale giustissime : solo egli non trae le conclusioni
opportune dalle sue premesse. La critica del Beloch 1. e. potrebbe approvarsi
se invece della battaglia di Eraclea si trattasse di quella del Cremerà.
BATTA{iLTA DI ERACLEA 395
elefanti del re, fugando nelle due ali o in una soltanto la caval-
leria romana e assaltando per fianco la fanteria. Quest'assalto mise
lo scompiglio nelle legioni. L'esercito consolare prese la fuga in
disordine, mentre 1' accampamento cadeva in mano di Pirro. Ri-
masero sul campo quattromila Epiroti e settemila Romani (1).
La vittoria fece un'impressione profonda ed esaltò il sentimento
nazionale dei Greci d'Italia. Ijocri, tradito il presidio romano, si
diede a Pirro (2). E sembra che i Regini si disponessero a fare
altrettanto (3). Ma il comandante del presidio romano di Regio,
che era forte d'un quattromila uomini, Decio lubellio , un citta-
dino romano nativo della Campania al pari della maggior parte
delle sue truppe, prevenne la possibilità del tradimento assalendo
per sorpresa i Regini, mettendo a morte quanti adulti gli caddero
in mano e distribuendo tra i soldati le donne , come appunto i
Mamertini, anch'essi Campani, avevano fatto un cinque o sei anni
prima con gii abitanti dell'altra città greca dello stretto. Mes-
ti) Questi sono i numeri dati dal contemporaneo Iekonimo di Cardia presso
Plut. 1. e. Dionisio parlava di 15 mila morti Romani e 13 mila Epiroti: nu-
meri che derivano forse da qualche annalista romano immodicus in ungendo
come Valerio Anziate. Si spiega del resto come un annalista romano abbia
potuto anche esagerare le perdite de' suoi connazionali: doveva parergli im-
possibile 0 almeno inglorioso che i Romani si riconoscessero sconfiiti in una
battaglia in cui avevano perduto solo settemila uomini. Livio, seguendo la
fonte stessa di Dionisio, probabilmente Valerio Anziate, dà cifre anche più
precise per le perdite romane : fanti morti 14.880, presi 1310 ; cavalieri
morti 246, presi 802; insegne perdute 22 (presso Oros. 1. e): dove la preci-
sione dei numeri non fa che meglio dimostrarne il niun valore. S' intende
bene del resto che le cifre di Ieronimo si spiegano soltanto movendo dal mio
presupposto, che Levino disponesse d'un ordinario esercito consolare di circa
20 mila uomini.
(2) lusTiN. XVIII 1, 9.
(3) Regio era stata presidiata dai Romani secondo Polyb. 1 7, 6 Ka0' 8v
Kaipòv TTùppoq ei; 'IroXiav èiiepaioOTo. Anche Diod. XXII 1, 2 dice che i Romani
presidiavano Regio òià TTùppov tòv PaaiXéa. Peraltro pare difficile che i Re-
gini avessero chiesto un presidio quando la previsione della venuta di Pirro
rinfocolava il sentimento nazionale dei Greci d'Italia : ed anche più difficile
è che i Romani avessero allora imposto con la forza un presidio ad una città
d'una certa potenza. Par quindi più probabile che fosse stata presidiata da
prima per opera di Fabricio Luscino nel 282 quando di Pirro ancora non si
parlava all'atto e gli avversari temibili di Regio erano invece i Bruzì ed i
Mamertini di Sicilia. E questo appunto è detto da Dionvs. XX 4. Cfr. Beloch
G-r. G. Ili 2 p. 405 seg. e sopra p. 379 n. 2.
396 CAPO XXI - LA SOTTOMISSIONE DEGLI ITALIOTI
sina (1). Il governo romano non osò x)er allora né sanzionare il
fatto con la sua approvazione né apertamente disapprovarlo. Se
infatti dicliiarava guerra a Decio si attirava altri nemici, pui' pre-
scindendo dalle simpatie clie Decio avrebbe potuto trovare tra i
suoi connazionali della Campania ; se accettava invece i fatti com-
13Ìuti, si comprometteva troppo agii occhi degli alleati fedeli, i quali
avrebbero iDotuto attendere sopra qualsiasi sospetto, fondato o in-
fondato, d' essere trattati allo stesso modo dai generali romani.
Quanto ai Campani di Regio, essi erano paglii della tolleranza di
Roma, tanto più clie avevano l'api30ggio dei loro vicini di Messina
con cui presto si strinsero in alleanza.
Pirro dopo la battaglia di Eraclea mandò col bottino un dono
votivo nella città sacra dell'Epiro, Dodona (2). Ma anche più che
preparar doni votivi, importava profittare della vittoria. Sanniti,
Lucani e Bruzi cominciarono a concorrere al suo campo, in parte
2Jercliè la vittoria aveva dato loro la fiducia che prima mancava,
in parte perchè, allontanatosi Levino, erano ormai liberi di con-
giungersi coi G-reci. L'esercito romano però non era stato distrutto.
Levino ritiratosi nella Campania aveva cercato di rimettere in as-
setto le sue legioni coi soccorsi mandatigli da Roma, dove, vista
la gravità della situazione, non si esitò ad armare perfino i pro-
letari, ordinariamente dispensati dal servizio militare (3), Lifatti
la classe abbiente era stanca dei sacrifici sopportati nella terza
sannitica e nella guerra gallica, e se sulla devozione dei cittadini
senza suffragio si poteva contare , era prudente non metterla a
prova troppo dura; e adoperarli non era del resto senza rischio,
come aveva dimostrato il presidio campano di Regio. Questo spiega
perchè si dovesse ricorrere a qiiell'espediente nonostante che il censo
del 280 avesse dato il numero non mai raggiunto sino allora di
(1) PoLYB. I 7. Cass. Dio fr. 40, .5-10. Appian. Samn. 9. Dio.nys. XX 4-5. Diod.
XXII 1. Cfr. Beloch III 2 p. 404 segg. Si capisce che la tradizione, memore
del castigo toccato ai Campani di Regio, assolva da ogni colpa i Greci di
quella città.
(2) DiTTENBERGER SifUogc ' 203 = CoLi.iTz II 1368 : [PaoiXeù]<; TTùppo[(; koì]
'A'tT€ip[Où]Tai Kaì T[apavTìvoi] ànò 'Puiuaiujv koì [tujv] au|u|udxujv Ali Na[iuji].
La menzione dei soli Tarentini sembra dimostrare che non presero i^arte al
combattimento altri alleati, e che quindi deve trattarsi della battaglia di
Eraclea.
(3) Oros. IV 1, 2. 3, cfr. Augustis. de cir. dei III 17. Forse qui va riferito
Enn. fr. 136 Baehrens.
ilAKCTA DI PIRRO VERSO ROMA 397
287 mila cittadini atti alle armi (1). Con tutto ciò i Romani non
avevano ancora un esercito con cui tener testa a Pirro. E quando
il re invase audacemente il tenitorio romano (2), le milizie di Va-
lerio Levino rinforzate si limitarono a tenergli dietro passo passo
sorveo-liandolo e scaramucciando. Tuttavia in Campania, dove Pirro
sperava d' essere ricevuto come un liberatore, nessuno si mosse in
favor suo; e il suo tentativo di sorprendere Capua fu prevenuto
dal console, die riusci a introdurvi in tempo un presidio. Si volse
allora il re contro Napoli sperando che almeno questa città greca
a\Tebbe dato Tesempio della ribellione; ma Napoli viveva tranquil-
lamente da quasi mezzo secolo sotto regemonia di Roma, e non
volle mettere a pericolo il proprio benessere per seguire le solle-
citazioni dei connazionali. Do^do di che Pirro, devastando la valle
del Liri e in particolare il territorio di Fregelle (3), la colonia la-
tina che i Sanniti avevano sempre guerreggiato, si avanzò verso
Roma, procedendo lungo la via Latina , sino ad Anagni, a circa
sessanta chilometri dalla capitale (4). Scopo di Pirro era probabil-
mente non di tentare una sorpresa su Roma, troppo ben j^rotetta
dalle mui'a serviane, né di assediarla, il che non jioteva con le sole
forze che aveva allora a' suoi ordini e a tanta distanza dalla sua
base d'ojDerazione, ma di passare in Etruria per congiungersi con
gli Etrusclii in ribellione. Se vi riusciva, i Romani si sarebbero
trovati in un rischio simile a quello che avevano corso prima della
battaglia di Sentino. Il congiungersi con gli Etruschi peraltro non
era cosa facile, perchè, non potendo passare il Tevere nella imme-
diata vicinanza di Roma, Pirro avrebbe dovuto addentrarsi in re-
gioni montuose e interamente nemiche come l'Umbria e la Sabina
per i30Ì varcare l'alto Tevere.
Ma il re non ebbe a mettere in atto un compito cosi arduo.
Infatti i Romani avevano frattanto condotto innanzi vigorosamente
(1) Liv. epit. 13.
(2) Sulla spedizione di Pirro v. Zonar. VITI 4. Cass. Dio fr. 40, 23-24. Ap-
piAN. Samn. 10. Plut. Pyrrh. 17. Flor. I 13, 24.
(3) Flor. ]. e: Lirim Freyellasque populatus, interpretato rettamente dal
Beloch III 1 p. 567 n.
(4) Così Appian. 1. e. con cui si accorda approssimativamente Plutarco di-
cendo che giunse a 300 stadi ossia, computando il miglio ad 8 stadi, a 37
miglia e mezzo da Roma. Secondo Floro invece Pirro prope captimi iirbem e
Praenestina arce conspexit. Da Eutropio li 12, 1 risulta che già Livio faceva
giungere Pirro fino a Frenaste. Fra le due tradizioni è preferibile quella di
Appiano: ad ogninnodo è evidente die di Preneste Pirro non si impadronì.
398 CAPO XXI - LA SOTTO.MISSIOXE DE(tLI JTALIOTl
la guerra etrusca riportando qualclie nuovo felice succesàso su Volci
e su Volsini ; ed ora dopo la battaglia d'Eraclea mandarono istru-
zione a Ti. Coruncanio di concludere la pace con gli Etruschi. E
la pace fu conclusa. I Volcienti fui^ono obbligati a cedere buona
parte del loro territorio, il distretto in cui fu fondata nel 273 la
colonia latina di Cosa (1), l'agro Caletrano dove nel 183 si dedusse
la colonia romana di Saturnia (2), il territorio di cui divenne centro
Foro d'Aurelio sulla via Clodia e finalmente il distretto di Statonia,
che sembra però non venisse confiscato e distribuito prima o poi a
cittadini romani, ma ordinato a prefettura dando agli abitanti la cit-
tadinanza senza suffragio (3) ; mentre in mezzo ai territori ceduti
Volci dovette continuare, almeno non si ha ragione per dubitarne (4),
a vivere indipendente, sebbene priva ormai di ogni importanza. Vol-
sini invece ebbe pace a condizioni assai meno gravose rinnovando
la sua alleanza con Roma; e serbarono del pari la indipendenza
ed il territorio le altre città etrusche che avevano preso parte alla
guerra. Fatta eccezione pei Volciei^ti che si trovavano probabil-
mente ridotti agli estremi, gli Etruschi, dopo aver visto fiaccate
le loro forze e le loro speranze al Vadimone e dopo che in parte
erano stati schiacciati, in parte s'erano affrettati a far pace con
Roma quei G-alli che li avevano istigati alla sollevazione, pote-
vano essere ben paghi d'una pace che reintegrava in sostanza la
condizione delle cose anteriore alla guerra. Il fondamento che po-
tevano fare sul soccorso greco era del resto assai poco, tenuto
conto della distanza ; e dopo aver veduto riuscire al nulla Taiuto
dato loro dai Sanniti e dai Galli, non dovevano aver più molta
fiducia in aiuti stranieri.
La notizia della pace consigliò Pirro a retrocedere da Anagni
ove era pervenuto. E presto Ti. Coruncanio con le due legioni
con cui aveva fronteggiato gli Etruschi si mise in marcia a grandi
giornate per congiungersi con Levino. Ora le forze del re dove-
vano essere di molto inferiori a (luattro legioni romane, non su-
perando un trentamila uomini: egli non aveva potuto usufruire
che in modo assai limitato degli alleati italici per questa difficile
spedizione, il cui successo dipendeva soprattutto dalla perizia nel
manovrare e dalla severità della disci])lina, in mezzo al paese ne-
(1) Vell. 1 14. Liv. epit. 14. Cfr. Plin. n. h. Ili .51.
(2) Liv. XXXIX 55. Cfr. Plin. n. h. Ili 52.
(3) ViTRuv. de arch. II 7.
(4) Come fa Beloch It. Biind p. 59.
BATTAGLIA DI ASCOLI 399
mico, tra città forti e in parte presidiate, avendo alle calcagna un
esercito avversario non dispregevole, ancorché alquanto disanimato
dalla sconfitta. Ora clie quattro legioni erano in campo contro di
lui, non potendo iniziare l'assedio di città nemiche in presenza di
un esercito avversario assai superiore numericamente al suo, non
gli rimase che sgombrare il territorio romano rixoiegando verso
la sua base d'operazione e prendere i quartieri d'inverno prei)a-
rando per la campagna successiva forze sufficienti a tener fronte
ai due eserciti consolari riuniti. La marcia di Pirro era stata del
resto assai bene ideata ed eseguita mirabilmente ; e grave era l'umi-
liazione inflitta al nemico che aveva visto devastare il territorio
proprio e quello degli alleati senza osare di venire a battaglia. Ma
tuttavia l'effetto pratico fu nullo; anzi Pirro ebbe ora, troppo
tardi, l'occasione d'ammirare la com]3agine saldissima dello Stato
romano e dovette riconoscere la difficoltà dell'impresa cui s'era
accinto.
Il re aijri la camx3agna dell'anno seguente 279 in Apulia, oc-
cupando parte per accordo parte a forza varie terre, certo di pic-
cola importanza, nella Peucezia (1), ossia in una regione in cui i
Romani avevano avuto poco agio di consolidarsi. Non vennero
meno però alla loro fedeltà verso Roma né le colonie latine del-
l'Apulia, Venusia e Lucerla, né gii alleati romani di Daunia,
Ascoli di Puglia ed Ai'pi. Probabilmente Pirro era intento all'as-
sedio di Venusia (2) quando ambedue gli eserciti consolari mossero
verso rA]3ulia agli ordini di P. Sulpicio e P. Decio Mm-e, figlio
quest' ultimo del Decio caduto a Sentine. Nell'aver nominato due
consoli che non avevano mai tenuto il comando di faccia al nemico,
invece di ricorrere a capitani sperimentati come Fabricio Luscino,
CorneHo Rufino, Curio Dentato o Fabio G-m-gite sta la xjrova che
i Romani non giudicavano la situazione estremamente grave e si
persuadevano che fosse bastante al vincere la riunione dei due
eserciti consolari. Le forze loro erano di circa quarantamila
uomini; né molto più scarse di numero erano le milizie di Pirro;
ma i Romani dovevano essere alquanto superiori, senza di che
non si sarebbero arriscliiati a battaglia dopo la prova fatta ad
Eraclea (3). I consoli si accamparono sulle sponde dell'Ofanto nel
(1) ZoNAR. vili 5.
(2) È supposizione del Niebuhr R. G. Ili 588.
(3) Secondo Dionys. XX 1 i Romani avevano sopra 70.000 fanti ed 8000 ca-
valieri, Pirro 70.000 fanti, oltre 8000 cavalieri e 19 elefanti. Questi dati
sono indegni di fede. I Romani fino alla battaglia di Canne non hanno mai
400 CAPO XXI - LA SOTTOMISSIONE DEGLI ITALIOTI
territorio di Ascoli di Apulia, proteggendo cosi tutte le città al-
leate della Daimia e in specie Arpi, mentre la loro vicinanza im-
pediva a Pirro di disporre le sue forze in modo da bloccare effi-
cacemente Venusia; la posizione era scelta con retto giudizio anclie
percliè cosi in caso di sconfìtta avevano libera i Romani la riti-
rata sia verso la fedele Arpi sia verso la colonia di Luceria. Pirro
allora non potendo far più alcun progresso senza battaglia e d'altra
parte fidando nella superiorità della sua strategia e più della tat-
tica determinò di andare incontro ai Romani e si accampò sulla
destra dell'Ofanto (1). I due eserciti si fronteggiarono alquanto
avuto in campo insieme più di quattro legioni ossia un 40.000 uomini. Pirro
poi, detratti dai 30.000 Epiroti che aveva sbarcato in Italia le perdite e i
presidi di Taranto e di Locri, non poteva averne seco più di 20.000. Dionisio
anzi ne numera, forse non a torto, solo 16.000. Per ragioni ovvie il re difficil-
mente avrà avuto con se più d'altrettanti alleati. Quindi anch'egli disponeva
al più di 40.000 uomini. Queste cifre sono quelle che dà appunto Frontin.
strat. Il 3, 21 trascrivendo da Livio XL milia utrimque fiiisse constai. Cfr. Beloch
Gr. G. Ili 2 p. 394 seg.
(1) Sulla battaglia abbiamo una sola relazione fededegna, quella di Plut.
Pi/rrh. 5, che deriva da Ieronimo. Tutte le altre, abbastanza dissimili tra loro
(Liv. per. 13. Oros. IV 1, 19-22. Eutrop. II 13, 4. Flor. I 13, 9-10. Frontin. strat.
II 3, 21. DioNYS. XX 1-3. Cass. Dio fr. 40, 43. Zonar. Vili 5), provengono da anna-
listi romani recenti e rappresentano la battaglia come indecisa o persino come
una vittoria romana, sebbene anche per Val. Anziate fr. 21 si trattasse di
una vittoria di Pirro. Dei moderni, un cenno affatto insufficiente dà il Del-
BRUECK I 264, un'ampia ed eccellente discussione il Beloch III 2, 388 segg.,
cui in generale mi attengo soprattutto per la questione topografica trattata
in modo esauriente. — La battaglia avvenne, come riferiscono concordemente
le fonti, nelle vicinanze di Ascoli presso un fiume che divideva dapprima i
due eserciti. Senonchè mentre secondo Ieronimo Pirro passò il fiume e com-
battè i Romani sulla riva settentrionale ossia sulla sinistra, secondo Cassio
Dione i Romani passarono il fiume e assalirono Pirro. Non c'è dubbio che
merita maggior fede Ieronimo, e che l'altra versione è dovuta alla tendenza
di accrescere la gloria della resistenza romana o fors'anche semplicemente a
quella di copiare per la battaglia di Ascoli il racconto dato per la battaglia
di Eraclea. Rispetto al fiume Plutarco dice che era ùXuObric; e Tpaxùi;, e il
racconto stesso della battaglia mostra che era un ostacolo serio. Si può far que-
stione se sia il fiume Carapella al nord di Ausculum ovvero l'Ofanto (Aufidus)
al sud. Per la vicinanza ad Ausctdum parrebbe convenir meglio il Carapella.
Ma questo è un fiume povero d'acqua e a rive molto piane. Corrisponde assai
meglio l'Ofanto, fiume violens ed acer come lo chiama Orazio, tanto più che
la linea dell'Ofanto era anche strategicamente assai importante. La battaglia
fu chiamata di Ascoli, perchè si combattè in territorio ascolano, dovendo il
fiume formare appunto il confine tra il territorio di Ascoli e quello di Venosa.
BATTAGLIA DI ASCOLI 401
prima di combattere, daccliè TOfanto costituiva un ostacolo ben
altrimenti grave del Siri. Il primo tentativo che fece Pirro per
passare il fiume non riusci a buon fine, perchè il terreno difficile
e boscoso diede agio ai Romani di sorprendere i G-reci menti-e
erano ancora intenti al passaggio e non avevano potuto spiegarsi
in forze sufficienti sull'altra sponda né giovarsi degli elefanti, che
avevano bisogno di tempo anche maggiore per esser trasportati
oltre il fiume. Ma il giorno seguente il re, ingannata la vigilanza
del nemico, iniziando il passaggio in un punto più distante, riuscì a
tragittare il grosso delle forze e ad ordinare in battaglia la
falange prima che i consoli potessero accorrere alla riscossa. Tut-
tavia i Romani giunsero innanzi che fossero passati gli elefanti.
E la battaglia fu accanita e per lungo tempo incerta. Ma final-
mente le legioni cominciarono a piegare , non reggendo all'urto
formidabile della falange. E sopravvennero allora a compiere la
vittoria gli elefanti che avevano finito di x>assare il fiume; ma
prima che potessero mettere lo scomi3Ìgli.o tra le file dei legionari,
i Romani ripiegarono in buon ordine fino al loro accampamento,
lasciando sul terreno seimila morti. E cosi non venne fatto a Pirro,
che aveva perduto anch'egii 3505 uomini, di riportare una vittoria
decisiva (1); poiché non accadeva d'assaltare i Romani nel loro
campo fortificato con forze all'incirca eguali, come doveva avere,
anche detratte d'ambe le parti le X3erdite. La vittoria di Pirro, che
aveva lasciato sostanzialmente intatto l'esercito romano, non era
tale da indm-re a ribellione nessuna delle città alleate di Roma
in quelle regioni. Continuare ]30Ì la sua marcia attraverso la Puglia
il re avi'ebbe potuto; ma il profitto non poteva essere che infe-
riore a quello dell'anno precedente; perché oltre alla difficoltà di
trattenersi in estate in una regione povera d'acque, egli sarebbe
stato seguito passo passo da un esercito vinto si, ma non disfatto
e numericamente ancora eguale all'incirca al suo; onde avrebbe
corso un rischio maggiore e non giustificato da alcuna speranza
di successi corrispondenti. Né era possibile rimanere stringendo
\'enusia in xjresenza dell'esercito romano, X3erché era troppo perico-
loso dividere le forze, come si sarebbe richiesto ad istituire un
(1) Queste cifre sono date da Ieronimo presso Plutarco, che dice d'averle
attinte alle memorie del re, e son preferibili a quelle di Dionisio che parla
di 15.000 uomini perduti da ambedue le parti ; le fonti derivate da Livio giun-
gono a dire che Pirro avrebbe perduto 20.000 uomini e i Romani 5000 soltanto
(Oros. IV 1, 22. EuTRoi'. II 13, 4. Frontin. II 3, 21).
Cr. De Sakctis, Storia dei Romani, IL 2<j
•i()2 CAPO XXI - LA SOTTOMISS lOX E DEOLI ITAI.IOT
blocco efficace. Alla loro volta i Romani dopo la battaglia di
Ascoli non avevano né forze sufficienti né tanto di fiducia in sé
X^er riprendere le offese contro Pirro e i suoi alleati ; onde la guerra
rischiava di prolungarsi indefinitamente. Questo però doveva
esser cliiaro ormai a Pirro: clie grandi vantaggi in Italia non si
potevano raggiungere e die ogni speranza di formarsi un impero
italiano a spese dei Romani era fallito. Ma era pur sempre qual-
cosa assicm^are la indipendenza dei Sanniti, dei Lucani, dei Bruzì
e dei Tarentini da Roma: tanto più clie se ciò gli veniva fatto,
questi popoli avrebbero tenuto in gran conto la sua amicizia e
sarebbero stati sempre disposti a fornirlo di soccorsi per ulteriori
imprese in Grecia e in Sicilia.
Frattanto la Macedonia nel 280, dopo morto Tolemeo Cerauno
combattendo contro i Galli, era caduta nell' anarchia ; e m.entre vari
pretendenti tentavano l'un dopo l'altro di occupare il trono, nel 279
i Galli avevano invaso la Grecia e, nonostante la difesa dei Greci,
forzato il passo delle Termopile, s'erano avanzati fino a Delfi. Qui
il rigore della stagione, le difficoltà dei luoghi a loro poco noti,
l'accanimento degli indigeni che combattevano per la loro patria
e pei loro dèi, il pericolo di trovarsi aggirati alle spalle da forze
beotiche ed ateniesi, li indusse ad una ritirata in cui ebbero a sof-
frire perdite tali che ben pochi tornarono alle loro sedi (1). Tra
questi avvenimenti Pirro se fosse stato in Grecia avrebbe avuto
un'occasione assai j)ropizia sia d'insignorirsi della Macedonia sia
d'offrirsi ai Greci come loro salvatore dalla minaccia dei barbari.
Questo, oltreché le ragioni militari già dette, contribuì certo alla
sua inazione nel resto dell'anno 279. Non j)oteva infatti allonta-
narsi di tropxDO dalla sponda del mar Ionio quando i barbari corre-
vano la Grecia menando orrenda strage in Etolia a poca distanza
dal confine epirotico e quando il sentimento nazionale e l'oppor-
tunità politica potevano da un momento all'altro costringerlo a
varcare il mare per intervenire in Grecia. La tempesta si dileguò
con la rotta dei Galli a Delfi; ma poteva addensarsi novaniente;
e frattanto lo stato della Sicilia era tale da richiamare anch'esso
l'attenzione del re.
(1) La tradizione è nel vero escludendo che il tempio delfico sia caduto in
mano dei Celti. Lo scetticismo del Van Geldek Galatarum res p. 60 seg. e del
Beloch Gr. G. Ili 2 p. 413 è confutato dalla iscrizione commentata dal Reinach
e dal Herzog nei ' Comptes rendus de l'Académie des inscriptions et belles
lettres ' 1904 p. 158 segg.
XKCO/IATI DT l'ACK 40;?
In queste condizioni era nel suo interesse di concludere la pace
coi Romani (1). La tradizione pervenutaci parla, in generale di due
ambascerie inviate da Pirro a tal fine a Roma: ambedue le volte
lo stesso è l'ambasciatore, il tessalo Cinea, e lo stesso l'esito, del
tutto sfavorevole ^2). Ma questa do]3pia ambasceria sembra una
delle tante reduplicazioni onde la tradizione annalistica abbonda;
nò mancano indizi che più anticamente si narrasse d'una sola am-
basceria e si collocasse dopo la battaglia d'Ascoli (3) quando Pirro
aveva motivo di bramare la pace, non dopo la battaglia d'Eraclea
quando, non avendo ancora sperimentato la saldezza dello Stato
romano, aveva ogni ragione di porre nella energica continuazione
della guerra le maggiori speranze. Intorno alle condizioni della
13ace vi ha chi dice che Pirro prometteva di restituire i prigionieri
e di aiutare i Romani alla sottomissione d'Italia sol che stringes-
sero amicizia con lui e perdonando ai Tarentini ne riconoscessero
la indipendenza; ma accanto a queste notizie evidentemente poco
fededegne (-1) altre ve ne hanno secondo cui Pirro chiese la libertà
degli Elleni e la restituzione a' suoi alleati italici dei territori tolti
loro dai Romani (5) o persino pretese di limitare ai soli Latini il
dominio romano (6). E assai difficile peraltro che il re potesse
mettere innanzi una simile i3retesa, perchè non si vede come le
sue vittorie di Eraclea o di Ascoli lo i3onessero in condizione di
dettar legge ai Romani intorno a quel che avrebbero dovuto fare
(l'I Delle trattative ha ragionato assai bene il Niesk ' Hermes ' XXXI (1896)
p. 485 segg., al quale mi attengo.
(2) Plot. Pyrrh. 18 seg. 21. Cfr. Appian. Samn. ]0. 11. Liv. e-int. 13. Cass. Dio
fr. 40, 41. ZoNAR. Vili 4.
(3) lusTiN. XVm 1, 11. Cfr. DioD. XXII 6, 2-3. Non così chiara come ritiene
il NiESE è la data che assegnava Cicerone alla orazione detta da Ap. Claudio
Ceco per impedire la pace septimo decimo anno dopo il suo consolato {de
senect. 6, 16).
(4) Plut. Pyrrh. 1. e.
(5) Appian. Samn. 10, 1 : èòibou h' aÒTOìt; eìpnvriv Kai ipiXiav koì 0U|Lt|uoxiav
iTpò<; TTùppov et Tapavrivoui; |uèv è; raOra auf.iTTepi\àPoi6v, toù<; b' fiXXouc; "EX-
Xr^vac; toù<; iv 'iTaXia KaTOiKoOvTa(; èXeu9épouq koì aÙTovó|aou(; éiùev, AeuKavoìc;
hi Kai ZauviTttK; Kai Aauvioi<; koì BpexTioiq àiroboìev 6aa aùxujv è'xouai iroX^iauj
Xa^óvreq.
(6) YiaW Ineditiim Vaticanum pubblicato da H. von Arnim ' Hermes ' XXVII
(1892) p. 120: xò juév 'E\Xr|viKÒv xò èv MxaXiqt ttòv èXeùGepov elvai Kai aùxóvojuov •
XpóoOai bè Koi Zauv(xa<; koI AeuKavoùc; koI -rrdvxac; BpexTiou; xoìi; aùxujv vóuoit;
TTùppou ovxa^ av^^àxovq, 'PuJiuafouQ bì Aaxivuuv fipxeiv ^óvov.
404 CAPO XXT - LA SOTTOMISSIONE CECILI ITALIOTI
nell'Umbria e nella Etruria ; ma è verisimile clie cliiedesse la piena
indipendenza dei Sanniti, dei Lucani, dei Bruzì e forse degli Apuli,
la restituzione dei territori occupati nel Sannio e l'abbandono delle
colonie di Venusia, di Lucerla e fors'anclie di Fregelle. Certo non
tutte queste condizioni i^otevano essere accolte dai Romani; ma
anche molti Romani avranno pensato che un accordo tollerabile
era da preferù-e ad una guerra in cui non avevano toccato altro che
sconfìtte. Del resto un accordo con PiiTO non importava la rinuncia
al proposito d'acquistare il primato in Italia, ma soltanto costrin-
geva a soprassedervi alquanto : che le condizioni dell'Epiro e della
Grecia in generale erano cosi instabili da dar luogo a sperare che
la potenza di Pirro declinasse con la stessa rapidità con cui era
sorta. Un breve periodo di raccoglimento non sarebbe stato poi
troppo dannoso, tanto più che per tenere durevolmente in campo
buon nerbo di truppe erano insufficienti le entrate modeste dello
Stato romano, e d'altra parte continuando la guerra si dovevano
imporre ai piccoli proprietari già tanto provati sacrifizi superiori
quasi alle forze; e della pace si poteva frattanto profittare per
estendere e rafforzare l'autorità di Roma verso settentrione. Certo
rinunciare a Lucerla e a Fregelle non era possibile: poiché ri du-
cendo cosi al nulla i guadagni di tanti anni di lotta accanita si
sarebbe dato nuovo vigore ai Sanniti già quasi prostrati e si sareb-
bero abbandonati alla mercè degli Oschi i fedeli Danni di Arpi:
ma forse si sarebbe potuto venire ad un accordo mediante la ces-
sione della sola Venusia. Ad ogni modo l'iniziativa dei negoziati
fu presa dai Romani; e fra il re e Fabricio inviato a Pirro dopo
la battaglia d'Ascoli pel riscatto dei prigionieri si stabilirono i
preliminari della pace (1). Per farli ratificare dal senato Pirro inviò
a Roma l'oratore tessalo Cinea nella cui perizia aveva piena fiducia.
Ma Oinea trovò difficoltà inattese non tanto per la eloquente op-
posizione che rese famoso Ap. Claudio Ceco (2), giacché l'elo-
quenza d'un uomo non poteva modificare le condizioni reciproche
dei belligeranti, ma jjer fatto d'un' armata cartaginese forte di
centoventi navi da guerra che approdò allora o poco innanzi presso
Ostia (3). Ne scese a terra lo stesso ammiraglio Magone per tratr_
(1) lusTiN. XVIII 2, 6: legatns a senatu Romano Fahricinn Lnscinus missus
pacem cum Pyrrho composuit. Non molto diversa doveva essere la relazione
della fonte di Appian. Samn. 12 : òri TTuppo; luerà tt^v furtxiv koì rat; irpòt; 'Piu-
)ua(ou(; auvGnKa^ elq IiKeXiav biéirXei.
(2) Sulla sua orazione v. oltre e. XXIV.
(3) lusTiN. 1. e. Val. Max. Ili 17, 10.
NEGOZIATI DI PACE 405
tare col senato in nome di Cartagine (1); e senza dubbio ricor-
Uaifdo Tantica amicizia tra le due repubbliclie cercò di dimostrare
clie i Romani e i Cartaginesi avevano gli uni in Italia gli altri in
Sicilia il medesimo interesse ad opprimere i Grreci e che conveniva
proceder di conserva. Molto probabilmente accrebbe la efficacia
del suo dii'e la offerta di quei mezzi in denaro di cui allora i
Romani abbisognavano anche più che degli aiuti navali dei Car-
taginesi e che al governo cartaginese costava ijoco offrire per lo
stato floridissimo della pubblica finanza. Ciò spiega come il senato
romano respingesse, nonostante la facondia di Cinea, i preliminari
convenuti con Fabricio e concludesse invece un trattato d'alleanza
con Cartagine (2). In questo trattato si stabiliva che Romani e Car-
taginesi solo di comune accordo potessero fermar pace con Pirro e
.si determmavano i modi opportuni perchè i contraenti potessero
prestarsi scambievole aiuto contro il re, confermando pel resto i
patti sanciti dai trattati x^recedenti tra le due repubbliche.
L'intervento cartagmese fu provocato .dal timore che Pirro si
preparasse a passare in Sicilia. La dissoluzione dell'impero d'Aga-
tocle (289) aveva fatto cader la Sicilia greca nell'anarchia; e ne
profittarono i mercenari italici del tu-anno, che poco dopo la sua
morte s' erano insignoriti di Messina col nome di Mamertini (3),
per far nell'isola stragi e rapine distruggendo persino le due città
greche di Gela e di Camarina ; anche i Cartaginesi colsero l'occa-
sione per accrescere la loro autorità sui Grreci di Sicilia interve-
nendo in qualche caso come mediatori, in qualche altro occupando,-
d'accordo con gli abitanti, città che preferirono il dominio stra-
niero alla egemonia di qualche connazionale: tra cui persino la
forte Enna nel centro dell'isola. Fra tanta anarchia a Sù'acusa si
celebrava la libertà ricuperata coniando monete col nome di Giove
(1) Questo particolare ci è noto dal solo Giustino; ma tanto bene si spiega
il silenzio delle fonti romane su ciò e tanta è la luce che il fatto porta sul-
l'andamento altrimenti poco comprensibile delle trattative che non dobbiamo
esitare ad accettare il racconto di Giustino ossia di Trogo. Cfr. del resto Dioi>.
XXII 7, 5.
(2) 11 testo n'è conservato in Polyb. Ili 25, 3-4. Per la intelligenza di esso
^rfr. Beloch Gr. G. Ili 2 p. 401 segg.
(3) PoLYH. 1 7. DioD. XXI 18. Il racconto dello storico Alfio presso Fkst.
p. 158 s. V. Mamertini ha a un dipresso il valore medesimo che ha per questa
età la tradizione annalistica. Pei fatti tra la morte di Agatocle e quella di
Pirro nostra fonte quasi unica è del resto Diod. XXI. XXll. Cfr. Holm Storia
della Sicilia li 509 segg.
406 CAPO XX.I - LA yOTTOMISSIOXK DEliLI ITALIOTI
liberatore; ma intanto nella città stessa aveva di fatto il potere
supremo quelFIceta che i Siracusani avevano nominato stratego
contro Menone (sopra p. 374), a Tam-omenio s'era fatto tiranno Tin-
darione, a Leontini Eraclida, ad Agrigento Finzia. E parve per
un istante die l'egemonia della Sicilia stesse per passare da Sira-
cusa ad Agrigento il cui tiranno, solerte ed ambizioso, nell'interno
dell'isola dilatò i contini del suo Stato lino ad Agirlo e ad oriente
d'Agrigento raccolse i dispersi Greloi in una città clie cliiamò dal
suo nome Finziade. Da questo incremento della potenza agrigen-
tina nacque però una guerra tra Siracusa ed Agrigento in cui sul
fiume Ibleo, clie è forse l'odierno Dirillo, Finzia fu sconfìtto da
Iceta. La umiliazione di Agrigento invogliò alla sua volta Iceta
a ristabilire almeno parzialmente Fegemonia siracusana nell'isola;
ma questo tentativo fu frastornato dall'intervento dei Cartaginesi
che batterono i Sii-acusani i3resso il Terias nella pianura di LentiuL
Peraltro, perito non molto dopo Finzia in Agrigento di morte vio-
lenta e cacciato Iceta da Siracusa dopo avervi dominato nove anni,
non andò guari che tra i nuovi signori di Siracusa e d'Agrigento,
Tenone e Sosistrato , scoppiò una nuova guerra accanita , e So-
sistrato con l'aiuto dei democratici siracusani fini con rimpadro-
nirsi persino della parte di Siracusa posta in terraferma, mentre
Tenone conservava solo il possesso della cittadella ossia dell'isola
di Ortigia. Ma i Cartaginesi non volevano che, cadute sotto il do-
minio d'un solo Agrigento e Siracusa, si ricostituisse l'unità della
Sicilia greca. Perciò, come avevano protetto le città minori contro
Finzia e impedito che i Siracusani profittassero della vittoria del
fiume Ibleo, cosi intervennero ora a Sirac'usa assediandola per mare
con un'armata di cento navi da guerra e per terra con un esercito
considerevole. Questa singolare energia di cui dopo la morte di
Agatocle diede prova il governo cartaginese si spiega con la evi-
denza degli effetti disastrosi della politica dimessa e poco ener-
gica cui prima in vari casi s'era attenuto. Quella politica aveva
permesso più volte alla Sicilia greca di costituirsi ad unità e aveva
poi costretto i Cartaginesi a guerre sanguinose e rischiose per con-
servare i loro domini nell'isola. E però ora parve loro il momento
TTintervenire vigorosamente per imi)edire Tunione dei Greci di Si-
cilia e col favore delle loro discordie stabilire saldamente, occu-
pando Siracusa, il predominio punico nell'isola. E questa volta pa-
revano assai vicini a conseguire l'intento vagheggiato. Senonchè si
trovava allora in Italia con un esercito agguerrito Pirro, difensore
degli interessi nazionali dei Greci d'Occidente e vittorioso dei Ro-
mani. Per trattenerlo ad ogni costo in Italia i Cartaginesi con savio
LA SICILIA DOl'O LA MOKTK d'aCATOCLE 407
consiglio incitarono i Romani a continuare la guerra fornendo loro
probabilmente anclie sussidi in denari. Ma Tenone e Sosistrato, visto
il pericolo comune, per interesse e per carità di patria si accor-
darono ad inviare ambasciatori a Pirro offrendo di consegnargli
Siracusa e quante altre città erano in loro potere purcliè accorresse
alla difesa dei Sicelioti contro Cartagine. Pirro accolse l'invito e
mandò Cinea, clie la tradizione ricorda qui per l'ultima volta, a
trattare coi delegati delle città greche (1). Disponendosi cosi ad
intervenire in Sicilia Pirro agi da patriotta e da uomo assennato.
Se rimaneva in Italia infatti non i30teva contare di raggiungere
più nessun notevole successo sui Romani, mentre intanto i Car-
taginesi si sarebbero impadroniti di Siracusa e l'isola sarebbe ca-
duta sotto il dominio semitico. Passando invece in Sicilia Pirro,
avendo forze terrestri assai superiori a quelle clie erano in grado
di mettere in campo i Cartaginesi, poteva sperare di liberare da
essi la Sicilia greca e di riunirla sotto il suo dominio come aveva
fatto il suocero Agatocle: dopo di che a\T.'ebbe potuto ripren-
dere con maggiori forze e con nuove speranze la guerra contro
Roma. V'erano anche qui due inconvenienti : l'uno che non era da
far molto assegnamento sulla fedeltà dei repubblicani di Sicilia
ad un re non siceliota, l'altro che i Romani durante la sua assenza
avrebbero probabilmente fatto ogni sforzo per riportare , successi
decisivi in Italia ; ma ad inconvenienti anche maggiori andava
incontro qualsiasi altra deliberazione potesse prendersi.
Mentre i Cartaginesi assediavano Siracusa con cento navi da
guerra, con altre centoventi volteggiavano presso Messina per
chiudere a Pirro lo stretto, d'accordo coi Mamertini con cui s'erano
alleati. Magone, che comandava la seconda squadra, aveva imbar-
cato un piccolo corpo di cinquecento Romani, con cui prese terra
presso Regio, e tentò inutilmente d'impadronirsi di Locri, riuscendo
soltanto a dare alle fiamme una gran quantità di legname che Pirro
vi aveva fatto raccogliere per costruire navi. Frattanto Pirro ad
estate inoltrata del 278, dopo due anni e quattro mesi di soggiorno
in Italia (2), s'imbarcò per Locri, dove giunse con dieci giorni di
na\'igazione. Aveva con sé ottomila uomini di fanteria, un corpo
di cavalleria, gli elefanti, molti trasporti per truppe ed una ses-
(1) Sulla spedizione di Pirro in Sicilia fonte principale è Dico. XXII. Vedi
inoltre Plut. Pi/rrh. 22-24. Iustin. XXIII 3. Dionys. XX 8. Di moderni v. il
poco importante scritto speciale di E. Ciaceri Sulla spedizione di re Pirro in
Sicilia (Catania 1902).
(2) DioD. XXII 8.
408 CAPO XXI - LA SOTTOMISSIONE DRfrLI ITALIOTI
Santina di navi da guerra che scortavano i trasporti (1). Quindi
non solo non conduceva aiuti italici, prescindendo dalle navi da
guerra che saranno state in buona parte fornite da Taranto — e
ciò si spiega, perchè gli Italici abbisognavano di tutte le loro forze
per resistere contro Roma — ma aveva anche lasciato in Italia
più della metà de' suoi Epii'oti. Veniva quindi non per vincere con
le sole sue forze i Cartaginesi, che sarebbe stato impossibile, ma
per mettere i Sicelioti in condizioni da apparecchiare nell'isola la
guerra dell'indipendenza contro lo straniero.
PiiTO non aveva una squadra sufficiente x^er mism'arsi con le
centoventi navi di Magone, e perciò gli conveniva di evitare lo
scontro. D'altra i3arte sorvegliare un'ampia distesa di mare con
navi come le antiche e con l'uso degli antichi di trarlo frequen-
temente a secco e bivaccare a terra non era troppo facile; e per
questo gli esempì di violazione di blocco nella storia antica sono
assai numerosi. Ad ogni modo a Pirro riuscì, passando alquanto
al largo del Faro, di far rotta, senza che Magone se ne avvedesse,
da Locri per Taormina, dove Tindarione che ne era tiranno lo
accolse come alleato e lo soccorse con truppe. Griunto poi a Ca-
tania, dove fu accolto come un salvatore, il re sbarcò co' suoi sol-
dati e procedette i^er terra sulla via costiera verso Siracusa, mentre
l'armata rasentava la sponda. E quando si presentò con le sue
forze di terra e di mare dinanzi a Siracusa, la squadra di Magone
che avrebbe dovuto inseguirlo non si scorgeva nei3pure all'oriz-
zonte, e gli assedianti che avevano distaccato proprio in quel punto
trenta navi, probabilmente per scortare qualche trasporto di vet-
tovaglie , non osarono con le settanta rimanenti scontrarsi con
l'armata di Pirro temendo che i Siracusani, messe in mare le loro
navi da guerra, non li assalissero frattanto da tergo. Cosi Pm-o
entrò liberamente in Siracusa e fu messo da Tenone e da Sosi-
strato in possesso dei quartieri di Siracusa che ciascuno di essi
occupava, di centoventi navi da guerra protette e di venti sco-
perte. E mentre l'esercito cartaginese che assediava la città per
terra si ritirava in fretta, correndo ormai pericolo, dopo la partenza
della squadra, d'esser tagliato fuori dalla provincia punica, conve-
nivano a Siracusa i rappresentanti delle principali città greche del-
l'isola, da cui Pirro fu ])roclamato capo e re della Sicilia (2). Come
(1) Appian. Samn. 20, dove e da leggere col Niebuhr R. G. Ili p. 598: M^fd
re Tujv èXeflpdvTijuv koI ÒKTaKiaxiXitJuv (kc^ùiv koì) ... Imréujv.
(2) 'Hyeiaàiv koI paaiXeù^, Polyh. VII 4, 5. Cfr. Iustin. XXIII 3, 3. Sulle sue
monete v. Holm St. della Sicilia III 2, 203 segg.
PIKKO IX SICILIA 409
re di Sicilia Pirro battè anche moneta, e alla successione destinò
il figlio natogli da Lanassa, Alessandro, che, quale discendente da
Agatocle, poteva contare sul favore di quanti rimpiangevano il
grande tiranno.
Trascorso fra negoziati ed apparecchi l'inverno 278/7, sul prin-
cipio della primavera del 277 Pirro cominciò la sua offensiva
contro i Cartaginesi. Per via quelli di Enna si diedero al re, cac-
ciato il presidio punico (1), e Sosistrato gli rimise Agrigento e le
città che avevano formato l'impero di Finzia. Computate le forze
proprie e quelle dei Sicelioti, Pirro disponeva ormai nell'isola di
trentamila fanti e duemilacinquecento cavalli, sicché i Cartaginesi
per timore dell'esercito greco e del suo duce non osavano neppure
di cimentarsi in campo. Pùto quindi occupò l'una dopo l'altra le
città greche ed alcune della provincia cartaginese, Eraclea, Seli-
nunte, Alicie, Segesta, poi nonostante la fortezza della posizione
Erice. nel cui assalto die saggio di grande valore, da ultimo il porto
fenicio di Panormo e la fortezza che lo dominava del monte Heh'kte
(monte Pellegrino) ; onde ai Cartaginesi non rimase più che Lilibeo.
La ragione dei rapidi e meravigliosi successi, per cui il re in
una sola campagna ebbe ridotto i Cartaginesi in distrette peg-
giori di quelle cui i Romani prima della vittoria delle Egadi li
ridussero in ventiquattro anni di guerra, stava nella energia e
nella genialità del duce e nel fervore patriottico con cui ini-
ziarono sotto di lui la riscossa contro lo straniero i Sicelioti. Le
cose dei Cartaginesi erano a tale che chiesero pace rinunciando
a tutti i possedimenti di Sicilia, salvo Lilibeo, e promettendo de-
nari e navi. Offrendo questi patti i Cartaginesi violavano il trat-
tato concluso poco innanzi con Roma; ma l'esempio del provvedere
agli interessi propri senza occuparsi degli alleati l'avevano avuto
dai Romani che, profittando dell'assenza di Pirro per prendere
una vigorosa offensiva contro i loro avversari italici, non s'erano
punto curati di soccorrere, nelle distrette in cui si trovavano, i
Cartaginesi. Se ora Pirro accettava e tornava in Italia nella pri-
mavera del 276 coi sussidi cartaginesi, coi rinforzi siciliani e con
la gloria dei successi riportati, avrebbe potuto riprendere coi mi-
gliori auspici la lotta con Roma. Né del resto doveva restargli
nascosta la difficoltà di conquistar Lilibeo assalendola soltanto
per terra, come pel momento egli sarebbe stato costretto a fare.
fi) DioD. XXII 10, 1 con la correzione del Bicloch ' Hermes ' XXVIII (1893)
p. 630.
410 CAI'O XXI - LA SOTTOMISSIONE DEOLI ITALIOTI
data la suporiorità della marina cartaginese. Lilibeo era posta
sopra un promontorio sijorgente a modo di penisola, che i Carta-
ginesi avevano con gran ciu-a fortificato dalla parte di terraferma,
mentre avevano anche provveduto largamente di vettovaglie e
d'armi d'ogni maniera la città; sicché se i difensori non erano
presi dal panico o non peccavano di negligenza, conciuistaiia non
si poteva se non battendola per parte di mare; né ciò era possi-
bile a Pirro senza aumentare di molto la marina da guerra, il che
richiedeva tempo e tali sacrifizi per parte dei Sicelioti che era
molto incerto se avrebbero avuto la volontà di sopportarli. Cosi
stando le cose par difficile a spiegai'e come Pirro non fermasse la
pace coi Cartaginesi alle condizioni da essi offerte ; ma la ragione
deve cercarsi nel riguardo che egli doveva alla opinione pubblica
dei Greci di Sicilia. Questi infatti si vedevano vicini ad esser libe-
rati da ogni ingerenza straniera e volevano che tale liberazione
fosse piena e dtu'atura, x^ersuadendosi, e con ragione, che il peri-
colo cartaginese persisteva semiDre finché i Cartaginesi avevano
un piede in Sicilia e che, appena liberi dal timore di Pirro, co-
storo avrebbero ripreso da Lilibeo le loro mene a danno dell'el-
lenismo, come in effetto avvenne. E Pirro era costretto a tener
conto assai maggiore dell' opinione pubblica de' suoi alleati di
(|uel che non facesse in un caso analogo Napoleone HI quando,
sfidando l'opinione pubblica italiana, segnò i preliminari di Villa-
franca che lasciavano all'Austria il Veneto; poicliè la sua autorità
in Sicilia non procedeva dalle poche migliaia d'Epiroti che aveva
condotto seco, ma dalla libera volontà e dal sentimento nazionale
dei Sicelioti. E la guerra continuò. Pirro tentò prima di tutto di
impadronirsi di Ijilibeo assalendola dalla parte di terra, valendosi
d'ogni sussidio dell'arte militare ellenica, ma, come era prevedibile,
non gli venne fatto; onde, dopo due mesi di vani tentativi, levato
non senza perdite l'assedio, cominciò a prendere i provvedimenti
necessari per l'aumento del naviglio. Col quale, quando avesse
acquistato il dominio del mare, disegnava di portar la guerra in
Africa come aveva fatto Agatocle; ed è da credere che in Africa
avrebbe potuto emulare i felici successi del suocero e prevenire
fors'anche quelli del maggiore Africano. Senonchè i Sicelioti, con
la stessa leggerezza con cui, non paghi di quel che s'era ottenuto,
avevano chiesto poco prima la guerra all'ultimo sangue con lo stra-
niero, quando ebbero provato con lo smacco di Lilibeo le sorti
incerte della guerra e videro che a vincere si ricercavano ingenti
sacrifizi di denaro e di sangue, sentirono sbollire la loro ardenza
bellicosa e cominciarono a dimostrarsi recalcitranti o ribelli all'au-
PIRRO IX SICILIA 411
torità del re. Ma Pìito procedeva ne' suoi apparecchi adoijerando
co' riottosi rude energia di soldato e non esitando ad occupare
militarmente le città e ad arrestare o mettere a morte gli avver-
sari o quelli che erano creduti tali; tra i quali, non sappiamo se
sospettato a ragione o a torto^ fece uccidere quel Tenone che gli
aveva dato in mano l'isola di Ortigia. Peraltro la violenza non
valse che ad alienargli maggiormente gii animi, dacché le sue
forze erano troppo scarse per tenere l'isola contro il volere dei
Sicelioti. E chi si credeva in pericolo pensò alla propria sicurezza:
cosi Sosistrato che, am.monito dalla sorte di Tenone, si mise in
salvo in Agrigento, xjrivando Pirro degli aiuti della seconda città
dell'isola. Ormai ribellioni cominciarono da ogni parte, e, secondo
il consueto, i ribelli non si tennero dal chiedere aiuto a quegli
stranieri contro cui avevano chiamato Pirro, ai Cartaginesi ed ai
Mamertini. Frattanto i Cartaginesi per profittare degli umori mu-
tati, rifornitisi di mercenari, in Italia, si affrettarono a sbarcare
un nuovo esercito in Sicilia, con cui osarono mostrarsi in campo
contro Phro, il quale, privo degli aiuti di Sosistrato, non poteva
disporre in nessuna maniera di più che ventimila uomini. Purtut-
tavia il re vinse ancora una volta (1); ma, giudicando la sua po-
sizione in Sicilia ormai insostenibile, profittò della vittoria non
per riguadagnare terreno, ma per imbarcarsi salvando il suo de-
coro, in modo che la ritirata non avesse colore di fuga.
Litanto i Romani avevano saputo trar profitto dalla lontananza
del re. La scelta stessa dei consoli che dal 278 al 274 furono di
regola duci già sperimentati a fronte del nemico, Fabricio Luscino,
Emilio Pax)o, Cornelio Rufino, Griunio Bubulco, Fabio Gurgite e
Curio Dentato, mostrava il loro proposito di condurre innanzi con
prudenza e risolutezza la guerra. Grià nel 278, dopo la partenza
di Pirro, Fabricio corse vittoriosamente l'Italia meridionale, per
modo che potè trionfare dei Lucani, Sanniti, Tarentini e Bruzi (2),
e sembra perfino che riuscisse a guadagnarsi Eraclea sul golfo di
Taranto, l' antica sede d^l consiglio della lega italiota (3). Nel-
(1) lusTiN. XXllI .3, 9, degno di fede, sebbene ci manchi su questa vittoria
qualsiasi particolare, piìi di altre fonti che dicono Pirro cacciato di Sicilia
dai Cartaginesi, come Zonar. Vili 5 e più chiaramente Appian. Sanui. 12: Kap-
Xlboviujv aÙTÒv é£e\aodvTujv éK ZiKeXiaq.
(2) F. triKinph. ad a. 278.
(3) Cic. jjfo Balbo 22, 50: quacuin (Heracleu) prope ningulure foedus Pijrrìii
temporibus, C. Fabricio constile ictum putatur. II j^^ttatur di Cicerone si riferisce
forse alla singolarità del foedus, non alla data. E ad ogni modo le condizioni
412 CAPO XXI - LA SOTTOMISSIONE DEGLI ITALIOTI
l'anno seguente (277) il console Giunio Bubulco trionfò sui Lucani
e sui Bruzi; e anclie nel Sannio penetrarono i Romani devastando
l'aperta campagna, mentre i Sanniti si rifugiavano tra i monti o
nei luoghi fortificati. E vero che nel tentare l'assalto di uno di
questi rifugi nei monti Graniti gli invasori soffersero non pochi
danni (1) ; ma non per questo furono in grado i Sanniti di affron-
tare il nemico in battaglia campale. Contro i Grreci poi consegui-
rono i Romani vantaggi notevoli, come il riacquisto di Crotone e di
Locri (277), che forse scoraggita da ciò che le era toccato soffrii'e
per l'assalto dei Cartaginesi, x^assò ai Romani cui tradì il suo pre-
sidio epirota (2). E l'anno seguente 276, in cui Q. Fabio Glm-gite
trionfò sui Sanniti, sui Lucani e sui Bruzì, continuò l'avanzata dei
Romani, diretta, a quanto pare, principalmente in questa e nelle
seguenti campagne, a . separare la maggior tribù dei Sanniti, i
Pentri, dall'altra pur molto importante degli Irpini (v. oltre p. 420).
Onde lo stato delle cose divenne tale che i Sanniti, ormai stremati,
e i Tcirentini ebbero a chiamare novamente con viva istanza Pirro
al soccorso. Pùto pertanto nella primavera del 275 si preparò a
passare di nuovo m Italia: tanto più volentieri in quanto che di
nulla Bra più in grado di venù'e a capo in Sicilia.
Il ritorno di Pirro fu poco fortunato: poiché, colto presso lo
stretto dalla squadra cartaginese, perdette molte delle sue navi (3) ;
e sbarcato poi nelle vicinanze di Regio e assalito dai Regini
aiutati da quelli di Messina, non senza difficoltà riuscì a conduiTe
in salvo le sue milizie (4), che non dovevano salire del resto a più
favorevoli fatte aj^li Eracleoti (tanto che neir89 esitarono ad accettare la cit-
tadinanza l'omana, Cic. ibid. 8, 21) confermano che s'accordarono con Roma
prima che Taranto fosse obbligata a cedere.
(1) ZoNAK. Vili 6. Il nome non ricorre altrove.
(2) ZoNAR. 1. e. La presa di Crotone è attestata anche da Frontin. strat. HI 4,
quella di Locri anche da Appian. Samn. 12. È molto inverisimile poi la sup-
posizione del Beloch III 1 p. 574 n. 1 che la ribellione di Locri a Pirro sia
un duplicato della ribellione ai Romani nel 280. Il silenzio dei fasti trionfali
mostra qui solo che in questa età il senato non era prodigo di ti-ionfi.
(3) Questa rotta navale è ricordata da parecchie fonti (Appian. Samn. 12.
Plut. Pyri-h. 24. Pausan. I 12, 5. Itted. Vatic. ' Hermes ' XXVII p. 121) e non
è da mettersi in dubbio; probabilmente l'ha esagerata Appiano parlando di
70 navi affondate; giacche sembra che Pirro sia riuscito, sia pure con qualche
difficoltà, a mettere in salvo le sue truppe e i suoi elefanti.
(4) Plut. Pijrrh. 1. e. Questi combattimenti nel territorio di Regio diedero
occasione all'equivoco dell'assalto dato da Pin*o a Regio partendo da Locri,
ZONAF. VIII 6.
RITORNO DI PIRRO IX ITALIA 413
(Vun ottoniila uomini (Ij. Dopo ciò come Pirro oiunse presso Locri,
e, avendo i suoi partigiani ripreso il sopravvento, gli si diede la
città, egli si comportò assai severamente verso quelli che avevano
tradito il suo presidio ai Romani e (forse dando, com'era uso., alla
sua usurpazione colore di prestito) s'impadroni dei tesori del tempio
di Persefone, che più tardi restituì almeno in parte, temendo l'ira
della dea (2). Da Locri recatosi a Taranto, s'apparecchiò il re alla
nuova campagna. Ma le milizie epirotiche e macedoniche da lui
condotte in Italia e in Sicilia avevano troppo sofferto nelle guerre
micidiali coi Romani e coi Cartaginesi, ne si potevano rifornire
con nuove leve, perchè non conveniva spogliare ulteriormente delle
sue milizie il piccolo Eph'o, e tra gli alleati italiani alcuni, come
Crotone ed Eraclea, erano stati sottomessi da Roma, altri, come
i Sanniti, erano ridotti da una guerra incessante ed accanita in
tali angustie che non si trovavano più in grado d'inviare al re
contingenti notevoli; cosicché Pirro non valeva più a misurarsi
con due eserciti consolari riuniti.
Consoli nel 275 erano M'. Curio Dentato e L. Cornelio Lentulo,
dei quali mentre il secondo guerreggiava nella Lucania, M'. Curio
aveva preso l'offensiva nel Sannio ed era a campo presso quella
città di Maluento o Malevento, che i Romani jyoì per buon augurio
cliiamarono Benevento, sia che, com'è probabile, fosse già conqui-
stata, sia che si trovasse sul punto di cadere. Il re si propose, in-
nanzi che i due consoli si fossero potuti congiungere, di piombare
(1) Si ricordi che ne aveva condotti in Sicilia diecimila (v. s. j). 407). Se-
condo Plutarco 1. e. giunse a Tai-anto con 20 mila fanti e 3 mila cavalli : se
non v'è esagerazione, sono in buona parte gli aiuti degli alleati Bruzì e Lu-
cani da lui raccolti per via.
(2) Appian. Samn. 12. Zonak. Vili 6. Dionys. XX 9-10. Liv. XXIX 18 etc. Se-
condo le nostre fonti le navi che portavano i tesori della dea, sorprese dalla
tempesta, naufragarono, e mentre gli equipaggi perivano tra le onde, il mare
stesso riversava sulla sponda i tesori, che poi Pirro, pentito, avrebbe fatto re-
stituire al tempio. La fallacia di questo racconto, evidente per se, è dimo-
strata anche dall'analogia del racconto sui tesori di Eolo rubati da Agatoclc.
Ed a ragione ritiene lo Schubert p. 219 che l'ultimo (in cui l'ira del re dei
venti motiva assai meglio la tempesta) sia l'originale dell'altro. Fondamento
dell'invenzione è che l'opinione pubblica condannò come sacrilego l'atto del re
e Pirro stesso, che non era scevro di òeiobiai|uovia, attribuì all'ira della dea il
cattivo esito dell'ultima sua campagna italiana, come risultava da' suoi com-
mentari (Dionys. 1. e), e per resipiscenza, certo quando partì dall'Italia, fece
ricollocare nel tempio quel che rimaneva dei tesori.
414 CAPO XXL - LA SOTTO?,irs.S]OXF, UFA-ÌA rTAl,If)Tr
con la maggior rapidità sopra Curio, mandando iioclie forze per
tenere a bada l'altro console o, nel caso peggiore, ])er ritardare la
sua avanzata. Di fatto giunse presso Benevento mentre Cornelio
n'era ancora lontano, sebbene, messo sull'avviso, movesse al soc-
corso del collega. Ed ora Pirro voleva ad ogni costo dare battaglia
prima che Cornelio sopraggiungesse^ mentre invece M'. Curio Den-
tato, clie era il più sperimentato tra i generali romani, si teneva
prudentemente nel suo accampamento fortificato aspettando l'ar-
rivo del collega. Pirro, ]3er costringerlo a battaglia, divisò di oc-
cupare di notte per sorpresa certe alture che dominavano il campo
romano, e di là poi tentare l'assalto. Ma la marcia nottui'na in
paese boscoso e poco conosciuto fu alquanto disordinata, e. già era
mattino quando le prime file delle colonne di Pirro coi soldati
stracchi e gli ordini perturbati apparvero in vista del campo
romano. Del disordine profittò Curio Dentato per fare con le sue
milizie fresche una sortita che sulle prime gli riuscì assai felice-
mente, tanto che, respinti i Greci, caddero in sua mano alcuni
elefanti. Ma riavutisi dalla sorpresa, gli Epiroti riordinarono le
loro schiere, e i Romani alla lor volta dovettero, all'urto della fa-
lange, piegare fino, all'accampamento. Senonchè allora Cmno fece
salh'e sul vallo le sue riserve e con armi da getto ferire i Grreci che
si avanzavano, e scompigliare i loro elefanti superstiti. Onde Pirro
dovette retrocedere, perchè con le milizie stanche dalla marcia
notturna e disanimate dal successo non buono delle prime avvi-
saglie non era prudente un assalto ad un campo fortificato e messo
ormai dal nemico in assetto di difesa. E non avendo potuto con-
durre a buon termine la sua sorpresa, come l'altro console si av-
vicinava, e mancavano a Pirro forze sufficienti per resistere ad
ambedue, non gli restava che ritirarsi (1).
(1) La sola relazione passabile su questa battaglia è in Plut. Pvrrh. 25, cfr.
DioNYS. XX 10. PoLYB. XVIII 28, 10 rappresenta la battaglia come indecisa.
lusTiN. in un luogo (XXIII 3, 12) chiama la battaglia di Benevento foeda ad-
versus Romanos pugna, in un altro (XXV 5, 5) riguarda Pirro come sempre
invitto. La tradizione romana la considera invece concordemente come una
grande vittoria (Flou. 1 18. Eutkop. Il 14, 3. Oros. IV 2. Fkontin. sti-at. IV 1, 14.
ZoNAR. VIII 16). Il trionfo di M'. Curio de Samnitihua et rege Pijrrho, attestato
dai fasti trionfali, non è da revocare in dubbio, come neppure la notizia con-
fermata da Plin. n. h. Vili 16 sugli elefanti caduti in mano dei Romani. Il
fatto che l'altro console, Lentulo, trionfò non di Pirro, ma de SmnmtiÒHft et
[Lucaneis] (il supplemento par sicuro) conferma il racconto tradizionale della
battaglia. E poiché non Curio, ma Lentulo, trionfò dei Lucani, ciò conferma
BATTAGLIA DI lii:Xi:\' l'.N'rO. l'AKTKXZA DI l'IUllO 41.5
Sebbene potesse dirsi incerto l'esito della battaglia campale,
non ebbero torto i Romani di considerarla come una vittoria ;
])OÌcliè la ritirata di Pirro determinò le sorti della guerra. Pirro
infatti, riconosciuto che non era più in grado di affrontare i Ro-
mani in campo ax3erto, poteva, non i^iù impedire, ma solo tentare
di ritardare i progressi loro a danno de' suoi alleati. Altra via per
poter riprendere le offese non gli rimaneva fuorché quella di chie-
dere soccorsi di soldati a quei sovrani greci che potevano aver in-
teresse a difendere l'ellenismo in Italia e a tener lui lontano dalla
Grecia, quali Antioco Sotere, che, succeduto al padre Seleuco IsTica-
tore, non ne aveva conservato che i j)ossedimenti asiatici, e Anti-
gono Gronata, il tiglio di Demetrio Poliorcete, cui era riuscito (277)
l' acquisto della Macedonia caduta nell' anarchia dojDO l' invasione
gallica. Ma i due re, alieni del resto ambedue da imprese incerte
e rischiose, avevano cure più stringenti né potevano allora ridurre
i loro eserciti inviandone parte nella penisola; poiché Antigono
doveva assicui^arsi del regno di recente conquistato e farne sparire
il disordine lasciatovi dai barbari, e Antioco, mentre da una parte
doveva tenere a segno i Celti che erano passati nell'Asia Minore,
dall'altra era sul punto d'iniziare quella guerra con Tolemeo Fila-
delfo re d'Egitto, che è nota- col nome di prima guerra di Siria.
Privo dei loro soccorsi, Pirro, visto ormai che consumava in Italia
senza un guadagno proporzionato le sue forze, lasciando a Taranto
un validissimo presidio sotto il figlio Eleno e il comandante Mi-
lone, intorno all'equinozio d'autunno del 275 (1) con ottomila fanti
e cinquecento cavalli s'irabarcò segretamente (2) , non tanto per
partire senza che i Tarentini se ne accorgessero quanto per giun-
che la battaglia fu combattuta nel Samiio, come si trae da Plutarco che la
colloca presso Benevento {Pyrrh. 25). Livio collocava invece la battaglia in
Lucania nei campi Arutini (Flor. I 13, 11. Ouos. IV 2, 3. Frontin. loc. cit.), di
cui Frontino dice che erano circa urbem Maluentum (i codd. hanno Statuentum
0 Fatuentum, ma la correzione pare evidente). Sicché anche per Livio pro-
babilmente il combattimento avvenne presso Benevento, e solo per un errore
geogx'afico, che in lui non deve far meraviglia, egli ha riputato Benevento
come città lucana. Cfr. Beloch Gr. G. Ili 2, 400 seg.
(1) Oros. IV 2, 7 computa a cinque anni la sua permanenza in Italia. Plut.
1. e. a sei, ed essendo il re giunto nel marzo o aprile 280, i due dati si con-
ciliano se Pirro partì intorno all'equinozio d'autunno del 275, perchè erano
trascorsi circa cinque anni e mezzo.
(2) Pi.uT. Pyrrh. 26.
41G ('Aro XXI - LA yOTTOMIS.SlOXK DKaLI ITALIOTI
gere in Epiro prima che la notizia del suo arrivo pervenisse
in Macedonia. Il numero dei soldati con cui parti, anche compu-
tando largamente il presidio da lui lasciato a Taranto e forse pur
quello d'altre città, benché d'altri presidi non abbiamo contezza
sicura, mostra che più della metà delle sue truppe eran rimaste
sul campo di battaglia,
Pirro, partendo dall'Italia non intendeva punto di abbandonare
in modo definitivo i Grreci d'Occidente, come mostra l'avervi
lasciato il figlio Eleno; che anzi si disponeva, a quel che pare,
ad intervenire novamente con forze maggiori. Se riusciva il ten-
tativo di riduiTe ad unità la Grecia con la Macedonia e l'Epiro, la
guerra con Roma si sarebbe potuta riprendere con ben altra spe-
ranza di vittoria. Ma sebbene sulle prime gli arridesse la fortuna
nella conquista della Macedonia, poco di poi, nel 273 o 72, il re,
mentre tentava di sottomettere la Grecia, peri in un combattimento
per le vie d'Argo. E l'Epiro che era venuto in grande potenza e
riputazione soprattutto per la debolezza della Macedonia e ]3el
genio militare del suo re, declinò immediatamente non appena
Pirro fu morto, e la Macedonia, riacquistata da Antigono Gonata,
che riuscì ad assicurarla alla sua casa cui rimase per un secolo,
tornò ad essere una delle grandi i^otenze ellenistiche.
A torto il re geniale e sfortunato con cui sorse e decadde la
potenza epirota venne rappresentato come un cavalleresco av-
ventui'iere. Pirro era in realtà un valentissimo generale educato
alla scuola di Demetrio Poliorcete e superava fors'anche Alessandro
Magno, che gli antichi gli mettevano innanzi, perchè non solo era
valoroso della persona e sapeva come Alessandro assalù^e impe-
tuosamente il nemico alla testa della cavalleria, ma sapeva anche,
senza i consigli d'uno stratega provetto come Parmenione, pre-
parare assai bene piani di campagna e di battaglia, ne dimenti-
cava nell'ebbrezza dell'incalzare il dovere di diligere, ed aveva la
prudenza di risparmiare a tempo nel combattimento la sua per-
sona come il coraggio di es^DOiia quando credeva con ciò rialzare
le sorti della battaglia. E cosi in Sicilia, favorito è vero dal senti-
mento nazionale dei Greci, conseguì in breve quello cui non per-
vennero i Romani, che pui"e disponevano di mezzi assai maggiori,
in vent'anni di battaglie; e nonostante la inferiorità numerica
delle sue truppe non fu mai sconfitto dai Romani, e potè condm-re
a buon termine quella invasione del territorio romano nel 280 che
è memorabile nella storia dell'arte militare e che può paragonarsi
alle ijìù belle marcie di Annibale. Come politico poi Puto non
mancò né d'energia, ne d'avvedutezza, se pur forse talora gli fece
PIRRO E LE SUE IMPRESE 417
difetto quella moderazione e quel garbo con cui avrebbe potuto
tentare di conciliarsi gli animi dei repubblicani greci: impresa
disperata del resto, giacché nessun principe ne venne mai a capo
dm-evolmente. Offertasi a Pirro quasi ad un tempo l'opportunità
di difendere i Greci d'Italia contro i Romani, i Grreci di Sicilia
contro i Cartaginesi e di dare unità alla Grecia propria, egli
tentò successivamente tutte e tre queste imprese, e tutte e tre con
assennatezza di politico e genialità di stratega. E assai difficile
dire se a quei tentativi fosse Pin"o incitato dall'ambizione o dal
sentimento patriottico; ma, certo non può darglisi carico se sejDpe
trarre profitto della congiuntura avveMm^ata che, dal 280 in poi,
il suo interesse personale bene inteso era conforme a quello della
nazione; per modo che se prima era soltanto un principe ambi-
zioso che cercava d'estendere il suo Stato, dal 280 in poi, nel
maggior fiore della sua potenza, Pirro si dimostrò il vero rappre-
sentante degli interessi nazionali greci nell'Occidente. Moralmente,
per ciò che riguarda le relazioni sessuali, il suo tenore di vita era
rilassato come quello dei principi ellenistici dell'età sua: e anche
per altri rispetti si mostrò figlio del suo tempo, quando non fu
perplesso ad uccidere o persino ad assassinare prima nell'interesse
proprio, poi nell'interesse della nazione ellenica, o quando per gli
stessi motivi non esitò né a trasgredire i patti giurati, né. a cal-
pestare il diritto delle genti. Ma se per lui lo spargimento di
sangue, come in generale pei principi ellenistici, era un mezzo ado-
perato senza scrupolo per raggiungere i suoi fini, egli seppe anche
procedere, quando ciò non era alieno dal suo interesse, con gene-
rosità cavalleresca.
Pirro non consegui il suo intento in Italia per la compagine
saldissima dello Stato romano, in Sicilia e in Grecia perché le
aspirazioni particolaristiche e il sentimento repubblicano sventu-
ratamente per la nazione ellenica concitarono gli animi contro la
monarchia unitaria. Ancora era tempo pei Greci d'Occidente di
stringersi insieme e con l' aiuto dei connazionali della madre
patria rialzare le sorti dell'ellenismo: mentre una ventina d'anni
dopo questo ebbe a cedere senza riparo di fronte ai Romani in
Italia e in Sicilia. Il successo avverso dell'impresa di Pirro, di
cui la colpa non é sua, ma della nazione, fu dunque per la na-
zione ellenica stessa un disastro irreparabile. Per l'Italia fu in-
vece un vantaggio, perchè la vittoria del romanesimo sull'elle-
nismo rimosse il maggiore impedimento alla formazione di quella
omogenea nazionalità che vi si è costituita appunto per effetto
della conquista romana, laddove la forza espansiva della razza
G. De Sanctis, Storia dei Romani, U. 27
418 CAPO XXI - LA SOTTOMISSIONE DEGLI ITALIOTI
greca era ormai cosi ridotta che se anche i Greci avessero supe-
rati gli Italici assai difficilmente avrebbero potuto assimilarli, e
ne sarebbe seguito il perpetuarsi nella nostra penisola delle lotte
nazionali. Ma se in Italia Pirro ritardò soltanto di dieci anni la
conquista romana, non può negarglisi la lode d'aver impedito che
la Sicilia divenisse una provincia cartaginese; e si rese così bene-
m.erito della umanità civile, agevolando la vittoria degli Indoeu-
ropei sui Semiti in Sicilia e conseguentemente nelF intero bacmo
occidentale del Mediterraneo. E insomma ci separiamo a malincuore
da quest'uomo che, qualunque sia stata la misura delle sue colpe,
fu prode, generoso, colto, geniale e sfortunato, per tornare ai me-
diocri e poco geniali comandanti romani.
Poco dopo ]Dartito dall'Italia, Pirro aveva richiamato da Ta-
ranto il figlio Eleno che, forse conducendo al padre una parte
degli Epiroti rimasti nella penisola, prese parte con lui alla cam.-
pagna del Peloponneso (1). La partenza di Eleno diede animo in
Taranto al jDartito desideroso di pace con Roma, che si raccoglieva
probabilmente nella classe più ricca, a tentar cose nuove. Scoppiò
infatti una sommossa contro gli Epiroti, guidata da un tal IsTi-
cone, che fu i3erò repressa dal comandante del presidio regio
(274 o 273) (2). Tuttavia quelli che vi erano compromessi, riusciti
in parte a scampare con la fuga, s' impadi^onirono d'una fortezza
del territorio tarentino, donde, accordatisi coi Romani, fecero guerra
ai loro connazionali rimasti in città; esempio caratteristico delle
discordie intestine che laceravano i G-reci proprio nel momento
in cui più sarebbe stata necessaria l'unione di tutti contro lo stra-
niero. Queste discordie affrettarono il termine della guerra taren-
tina. Morto Pirro, suo figlio Alessandro, divenuto re d'Epiro, po-
teva conservare a mala pena il regno avito , e non era in grado
di pensare a nuove imprese in Italia. Ma non era facile poter ri-
tirare da Taranto le milizie che la presidiavano, poiché il partito
nazionale, disperando con ragione di poter ottenere dai Romani
condizioni tollerabili, si sarebbe opposto con la forza alla loro
partenza. Onde il comandante epirotico Milone, d'accordo s'intende
col suo re, posponendo gli interessi vitali della nazione a quelli
della dinastia epirota, s'accordò per conto suo coi Romani e in-
trodusse a tradimento un presidio romano nella rocca a patto di
(1) Plut. Pyrrh. 33-34.
(2) ZONAR. Vili 6.
RESA DT TARANTO 419
poter liberamente tornare co' suoi in Ej)iro (272) (1). Questo vile
tradimento clie cliiuse Fimpresa pel resto sfortunata, ma gloriosa
degli Eijiroti in Italia, spiega come Taranto dovesse queir anno
adattarsi a far pace ed alleanza con Roma a condizioni assai dure,
accogliendo stabilmente nella sua rocca, quasi sola tra le città fe-
derate, mi presidio romano, rinunciando al diritto di batter mo-
neta, obbligandosi a fornire ai Romani un contingente di navi
da guerra e guarentendo infine l'osservanza del trattato per mezzo
della consegna di ostaggi (2). E vero die i Cartaginesi, preve-
dendo elle alla morte di Pirro i Tarentini sarebbero stati abban-
donati dagli Epiroti, avevano pensato di cogliere T occasione per
guadagnare alla loro alleanza quella importante città marittima, fer-
mando cosi un piede in Italia, e avevano perciò inviato una squadra
nelle acque di Taranto. Ma li prevennero i Romani, costringendo
i Tarentini all'accordo xier effetto del tradimento di Milone. Ed ai
Cartaginesi che non erano punto disposti a muover guerra a Roma
e die potevano coprire sotto colore d'una tentata mediazione il
loro intervento non troppo conforme allo spirito dei trattati, non
rimase die ritirarsi (3), dolenti certo d'aver perduto tanta oppor-
tunità iiroprio quando, morto Pirro, xiensavano di poter tra non
molto acquistare una posizione preponderante sul mar Ionio im-
padronendosi della Sicilia orientale; in modo clie il loro tentativo
su Taranto non ebbe altro effetto se non quello di raffreddare le
loro relazioni coi Romani, le quali non erano più fondate sulla
comunanza degli interessi dopo die la morte di PiiTO ebbe liberato
i Romani dal pericolo greco.
(1) Liv. jìer. 14. Oros. IV 3, 1. Frontin. strat. Ili 3, 1. Cass. Dio fr. 43, 1.
ZoNAR. Vili 6. Fasti triumph. ad a. 272. Non e' è dubbio che la resa accadde
nel 272 e non nei primi mesi del 271. Cfr. Beloch Gr. G. Ili 2 p. 224 seg. Iustin.
XXV 3, 6 confonde la partenza di Milone con quella di Eleno.
(2) Beloch Gr. G. Ili 1 p. 665 n. 1. Pel presidio v. Poi,yb. II 24, 13. Ili 75, 4,
pel contingente I 20, 14, per gli ostaggi Vili 26. Liv. XXV 7.
(3) L'intervento cartaginese è menzionato da tutte le fonti s. cit. Orosio,
probabilmente fraintendendo Livio, vi aggiunse del suo una vittoria navale
dei Romani sui Cartaginesi , che certo non ebbe luogo. Ne il silenzio di Po-
libio ne molto meno l'asserzione di Filino che 'Pa)|uaioi(; koI Kapxn^ovion; ùnóp-
Xoiev auvOriKai Ka6' Sq lòei 'Puj|uaiou^ \xiv àrréxeoGai ZiKeXiat; àiT(i{Jri(;, Kapxrjboviouq
ò' 'iTttXiaq (PoLYB. II 26, 3) provano nulla in contrario : perchè quali che fos-
sero le intenzioni dei Cartaginesi, essi non eseguirono alcuno sbarco. E però
mi paiono infondate le negazioni del Niese Gesrh. dcr griech. und maked.
Staaten II 63 e del Beloch Gr. G. Ili 2, 225.
420 CAPO XXI - LA SOTTOMISSIONE DEGLI ITALIOTI
Frattanto i Romani, mentre continuavano vittoriosamente la
guerra contro i Sanniti, i Lucani e i Bruzì (1), avevano fondato
la colonia latina di Pesto (273) in territorio tolto ai Lucani, nel-
l'antica città greca di Posidonia, die da più di un secolo era pos-
sedimento lucano (2). Nel 272 poi costrinsero a venire a patti in-
sieme coi Tarentini anclie quei tre popoli, clie erano in armi
dal 284 (3), chiudendo cosi con una piena vittoria, dopo circa set-
tant'anni, le guerre sanniticlie. Per questa pace fu distrutto lo
Stato sannita clie tanto fieramente aveva lottato con Roma, e
furono obbligate a stringere leghe separate con Roma le federa-
zioni degl'Irpini e dei Pentri e le singole città che, come Telesia,
Compulteria, Caiazia, Gaudio, avevano fatto parte del distretto
dei Caudini. Spezzata cosi l'unità del Sannio, a render definitiva
la divisione, separando il territorio dei Pentri o, come d'allora in
poi si chiamarono senz'altro, dei Sanniti, da quello degl'Irpini,
che d'allora in poi neppure si comprendono più ordinariamente
sotto il nome di Sanniti, e mettendo al tempo stesso in contatto
i possedimenti romani della Campania con quelli dell' Apulia, si
confiscò il vasto territorio di un migliaio di chilometri quadrati
in cui si dedusse nel 268 la colonia latina di Benevento, e più ad
oriente il distretto taurasino, che per allora rimase agro pubblico
dello Stato romano. Ne a questo si tennero paghi i Romani, che
ai distretti di Atina, Casino, Venafro, Alhfe, già tolti ai Sanniti,
vollero aggiunto quello esteso un 360 km* in cui poi si fondò
nel 263 la colonia latina di Esernia, e probabilmente s'appropria-
rono allora anche il tratto di territorio api)artenuto prima ai
Sanniti, tra il confine meridionale della lega nucerina e il Silaro
ossia il confine settentrionale della lega lucana, che fu poi noto
(1) I fasti triumph. registrano all'a. 273 la vittoria di C. Claudio Canina de
Lucaneis Samnitibus Bruti ieisqiie.
(2) La data è in Vell. I 14. Il fatto è ricordato anche da Liv. epit. 14.
(.3) I fasti trionfali registrano trionfi dei consoli Sp. Carvilio Massimo e
L. Papirio Cursore su questi tre popoli e sui Tarentini. Ambedue costoro erano
stati già insieme consoli durante la terza sannitica, nel 293. Si conservava
ancora qualche secolo dopo una pittura nel tempio di Conso sull'Aventino che
rappresentava Papirio con la veste trionfale (Fest. p. 209), riferentesi probabil-
mente non al suo trionfo del 293, ma a quello del 272, perchè il bottino del
293 fu impiegato, secondo Livio (X 46, 7), ad addobbare il tempio di Quirino.
Stando a Zonara (Vili 6, cfr. Frontin. Ili 3, 1), la vittoria sui Sanniti spette-
rebbe a Carvilio, quella sugli altri popoli a Papirio.
FINE DELLA GUERRA COI SANNITI. I CAMPANI DI REGIO 421
col nome di agro Picentino. Pertanto il territorio dei Sanniti che
conservarono sotto l'egemonia di Roma la propria indipendenza
non comprendeva più ormai che un ottomila chilometri quadrati,
ossia meno della metà di quello che i Sanniti possedevano nel 343
quando avevano cominciato la loro lotta coi Romani. E dopo tante
guerre sfortunate e tante perdite di territorio, privi della coesione
tra loro, si capisce che d' allora in poi dovessero rassegnarsi al
dominio romano. E vero che nel 269 avvennero alcuni moti nel
Sannio settentrionale che mostrarono come quei montanari vi si
acconciassero riluttanti. La coscienza però della inutilità d'una
nuova lotta coi Romani fece si che la piccola insurrezione dei Ca-
recini rimanesse isolata, e quindi potesse tosto soffocarsi (1) ; dopo
di che dal giogo romano innanzi alla guerra sociale i Sanniti ten-
tarono di liberarsi solo una volta, nella guerra annibalica, é anche
allora parzialmente, perchè i provvedimenti presi a tempo dai Ro-
mani impedirono che potessero essere uniti nella ribellione.
Degli altri ]3opoli sottomessi, i Lucani non sembra che avessero
a soffrire altre xDerdite fuorché quella del territorio di Posidonia,
mentre invece i Bruzi furono obbligati a cedere la metà della
selva della Sila (2). Fra le città greche di quelle regioni Velia era
probabilmente da qualche tempo alleata con Roma (3), Locri,
Turi e Metapontio, se non prima, si strinsero certo in alleanza con
Roma almeno dal 272, ricevendo nelle cittadelle presidi romani (4).
Rimanevano frattanto in armi gli antichi avversari di Taranto,
recentemente alleati a quella città contro Roma, i Calabri e i Sal-
lentini. E restava ancora di mettere a segno i Campani di Regio
che, facendo troi3po conto sulla pazienza romana e credendosi
ormai assicurata l'impunità qualunque cosa facessero, distrussero
Caulonia (5) e s' insignorù'ono di Crotone, che dal passaggio di
Pirro in Sicilia era alleata dei Romani e occupata da un loro
presidio (sopra p. 412) (6). Allora la misura fu colma e, in mezzo
(1) ZoNAR. vili 7. DioNYS. XX 17. 11 silenzio dei fasti trionfali mostra che
la cosa si reputò priva d'importanza. Sui Carecini v. I p. 103 n. 3.
(2) DioNYs. XX 15.
(3j Non pare infatti avesse dal suo foedus altro onere che quello di sommi-
nistrare un contingente di navi da guerra, Polyh. 1 20, 14. Liv. XXVI 39.
(4) Metapontio e Turi: Liv. XXV 15; Locri ; Liv. XXIV 1. 1 Turini obbligati
a consegnare ostaggi: Liv. XXV 7; i Locresi a fornire un contingente all'ar-
mata: PoLYB. XII 5, 2. Liv. XLII 48.
(5) Pausan. vi 3, 12.
(6) ZoNAR. vili 6.
422 CAl'O XXI - LA SOTTOMISSIONE DEGLI ITALIOTI
alla pace quasi generale, i Romani ebbero tutta la libertà di as-
salire Regio e stringerla d'assedio. Ma impadronirsi senza un'ar-
mata navale di una città marittima non era agevole, e per di più
l'esercito assediante aveva poca comodità di vettovaglia. Senonchè
ai Siracusani clie in quel tempo combattevano contro i Mamertini
di Messina tornava assai in acconcio che non avessero più a ri-
cevere soccorsi dai loro connazionali della penisola, e perciò aiu-
tarono efficacemente le milizie clie assediavano Regio; sicché la
città non tardò a cadere in mano dei Romani (270) (1), e fu resti-
tuita a' suoi antichi abitanti, che natm"almente rinnovarono tosto il
loro trattato d'alleanza con Roma (2). I Campani di Regio furono
a buon diritto trattati come delinquenti. I superstiti in numero di
sopra trecento, condotti a Roma, fui'ono giustiziati nel Foro a mal
grado di M. Fulvio Fiacco, tribuno della plebe, che come cittadini
romani avrebbe voluto che fossero sottoposti a regolare processo
dinanzi al popolo (3).
La guerra coi Picenti, che scoppiò l'anno dopo la presa di
Regio, il 269 (4), e la guerra con Sarsina si collegano forse con
la ribellione dei Carecini. I Picenti nel 299 erano entrati nell' al-
leanza romana cercandovi una difesa contro i Pretuttii loro vi-
cini meridionali e contro i Senoni loro confinanti da settentrione.
L'api30ggio ricevuto da Roma aveva sorpassato le loro speranze
tanto che, soggiogati dai Romani i Pretuttii e distrutti i Senoni,
il territorio piceno si trovava quasi da ogni parte chiuso fra ter-
ritorio spettante a Roma: onde era tolta ai Picenti ogni libertà di
movimento. Forse il x^roposito fatto dai. Romani di fortificare da
questa parte il loro confine settentrionale fondandovi a Rimini
una valida colonia di diritto latino, che fu poi in effetto dedotta
nel 268 (5), concitò i Picenti alla insurrezione. Ma era tardi per
(1) PoLYi?. I 7. ZoNAR. 1. c. UiONYs. XX 16. Liv. eptt. 15 (cfr. XXVIII 28). Okos.
IV 3. La data è tratta dai fasti trionfali che registrano al 270 il trionfo di
On. Cornelio sui Regini. Concorda Dionisio, solo che invece di Cornelio attri-
buisce la presa di Regio al collega Genucio. Orosio pure menziona Genucio,
ma pare che per equivoco intenda il console dell'anno precedente. Il numero
degli uccisi è dato da Polibio : altre fonti parlano di 4000 o 4500, come se il
presidio campano tutto fosse sopravvissuto e tutto si fosse arreso.
(2) Regio fu presidiata, ma non permanentemente, dai Romani, Liv. XXIV
1, 12, e fu obbligata a fornire all'armata un contingente di navi, Liv. XXVI 39.
(3) Val. Max. II 7, 15, in contraddizione con Dionisio ed Orosio.
(4) EuTROP. Il 16.
(5) Vell. I 14. Liv. epit. 15. Eutrop. 1. e.
GUERRA COI PICENTI 423
insorgere; né di molto momento era l'appoggio della potente
città umbra di Sarsina, che, certamente in guerra coi Romani
nel 266 (1), sembra avesse prese le armi insieme coi Picenti e per
la stessa cagione. Soggiogati i Picenti con due campagne nel 269
e 268 (2), una parte del loro paese fu incorporata nel territorio
romano, dando agli abitanti il diritto di cittadinanza senza suf-
fragio (3), l'altra fu confiscata (4), deportandone la popolazione in
quella regione compresa tra la Campania e la Lucania (sopra p. 420),
che n'è ebbe nome di agro picentino (5). Una sola città picena ri-
mase indipendente, sebbene costretta all'alleanza romana, Ascoli;
accanto a cui si conservò indipendente ed alleata in quella regione
la città greca di Ancona, che probabilmente già prima aveva fatto
adesione all'alleanza romana e che, almeno a giudicare dal silenzio
delle fonti, non ebbe alcuna parte nella ribellione dei Picenti; e
rimase del pari nella condizione di alleata l'umbra Sarsina, che si
sottomise nel 266. Pochi anni dopo, nel 264, i Romani fondarono,
a guardia del conquistato agro piceno, la colonia latina di Eermo
e, come pare, la colonia romana di Castro Novo (6).
(1) Come sappiamo dai fasti trionfali. La importanza di Sarsina risulta anche
da ciò che, parlando degli alleati romani nel 225, Polibio II 24, 7 mette in
lista gli Umbri ed i Sarsinati, quasi ritenendo questi degni di figurare da
soli di fronte a tutte le altre città umbre; ma del resto i Sarsinati, come ci
dice p. e. il Sarsinate Plauto (Mostell. 770), si ritengono Umbri.
(2) EuTROP. e Liv. 11. ce. Flor. I 19. Oros. IV 4, 5-7. Frontin. stmf. I 12, 3.
F. triumph. ad a. 268. I fasti fanno trionfare dei Picenti i due consoli. La tra-
dizione attribuisce con ragione la vittoria decisiva a uno solo.
(3j Cfr. Beloch Ital. Band p. 55. Ciò risulta dalla testimonianza esplicita
di Livio per Auximum, XLI 26, e dalla menzione di prefetture in questa re-
gione (Caes. b. e. I 15).
(4) Che una parte considerevole del Piceno fosse ager puUicus risulta dalla
posteriore deduzione della colonia latina di Firmum (264) e delle colonie citta-
dine di Castrum Novum (v. sotto), Potentia (184) e Auximum (157) e più dalla
rogazione Flaminia de agro Gallico et Piceno viritim dividendo, cfr. Beloch 1. e.
(5) Così Strab. V 251. È vero che potrebbe sorgere il sospetto che si tratti
di un mito etimologico e che i Picentini siano una tribù sannitica stabilita
sul golfo di Salerno omonima alla tribù sabellica stabilita nel Piceno. Ma qui
peraltro siamo in piena età storica. D'altronde il trasporto di popolazioni sog-
giogate non manca di altri esempì nella storia d'Italia, come quello dei Li-
guri Apuani, che nel 180 furono trasportati nell'agro Taurasino nel Sannio.
(6) Velleio I 14 dice che lo stesso anno di Fermo fu fondata la colonia
di Castrum. Livio {epit. 11) parla di una colonia di Castrum Novum pel 289.
Come vedemmo (s. p. 368 n. 1), Livio pare alludere a Castrum Novum Etruriae,
Velleio a Castrum Novum Piceni, colonia romana in questa regione.
424 CAPO XXI - LA SOTTOMISSIOXE DEGLI ITALIOTI
Ormai tutti i popoli della penisola italiana erano soggetti a
Roma salvo quelle tribù iapigie della Terra d'Otranto che, chiamate
dai Grreci Messapì, si davano esse stesse il nome di Calabri nella
parte settentrionale, di Sallentini nella meridionale di quella re-
gione (I \). 164 seg.) (1). Anche questi furono sottomessi rapidamente
in due campagne nel 267 e 266, e dovettero cedere quella parte
del loro territorio, in cui era il porto meglio adatto pei commerci
con miiria meridionale e la penisola greca, Brindisi : segno che i
Romani si preparavano a iniziare con quei paesi relazioni più
strette. Quanto alle altre terre Calabre e sallentine, non sappiamo
se continuassero a far parte di quelle due leghe ovvero se, sciolte
dai Romani le leghe, stringessero separatamente trattati d'alleanza
con Roma; e dicasi lo stesso dei Pediculi o Peucezì che allora,
se non prima, entrarono nell'alleanza romana (2).
Sottomessi i Calabri, non posarono ancora del tutto le armi
nella penisola. Grià prima s' era veduto che l'Etrmia non era a
pieno pacificata. Forse il comportarsi dei Ceretani durante la guerra
di Pirro era parso a Roma alquanto sospetto : certo è che passato
il pericolo i Romani, minacciando guerra, CQnfiscarono a Cere la
metal del suo territorio (3). Nel 265 j)oi scoppiò una guerra con
Volsinì, la potente città etrusca che aveva fatto iDace ed alleanza
(1) I Sallentini sono per la prima volta menzionati nella storia a pi"oposito
della guerra del 306 (Liv. IX 42, 4, cfr. X 2). Pei Messapì di cui parlano i
fasti trionfali registrando il trionfo dei due consoli de Sallentineis Afessapieisque
probabilmente debbono intendersi i Calabri. Sulla guerra sallentina v. oltre i
fasti trionfali Liv. epit. 15. Flor. I 20. Euteop. II 11. Auct. devir. illustrib. 40, 1.
ZoNAE. Vili 7. Secondo i fasti nel 266 ambedue i consoli trionfarono tanto sui
Sarsinati quanto dopo quattro mesi sui Sallentini e i Messapi, il che non può
ammettersi e per rispetto alla cronologia e perchè è singolare che ambedue
i consoli siano stati inviati insieine a combattere contro nemici per cui un
ordinario esercito consolare era piti che sufficiente. Quindi nei fasti son regi-
strati due trionfi falsi in piìi, per quanto in questo periodo i trionfi siano per
la pivi parte autentici. Su ciò vedi le giuste osservazioni del Beloch ' Riv. di
storia ant. ' IX (1905) p. 273.
(2) Cfr. Beloch It. Band p. 175.
(3) Cass. Dio fr. 33 : 6ti 'AyuWaìoi èireibi?) fjaOovTO toùc; 'Piuiuaiouq ocpiai tto-
X€^)ìaol PouXo|uévou<; TrpéaPei^ xe el<; t)iv 'Pdi|Lir|v lareiXav irpiv Kai ótioOv ipr)fpia-
Qf]vai Koì elpnvriq èirl tuj >^|niaei Tf); x*J^P«<; ^tuxov, riferito giustamente al 273
dal BoissKvAiN (l p. 138) mediante il confronto con Zonar. Vili 6, 10. Il fatto
è da paragonare con la punizione inflitta alle colonie latine che rifiutarono
soccorsi nella guerra annibalica.
I
I CALABRI. YOLSINl 425
con Roma nel 280. I servi della gleba, assai numerosi, a quanto
pare, a Volsinì, dopo aver acquistato la libertà perchè l'aristo-
crazia aveva avuto bisogno di loro nella guerra, ora s'impadroni-
rono interamente del governo. Ma rivoltisi per aiuto a Roma i
fuorusciti aristocratici, i Romani presero la città per assedio, e re-
stam'arono tra i Yolsiniensi il governo aristocratico senza privarli
della loro indipendenza, ma costringendoli ad abbandonare l'antica
loro sede, che era in posizione fortissima (I p. 151), ed a sce-
glierne una nuova in posizione amena, ma non forte, sulle sponde
del lago di Bolsena (1). Con questa guerra pertanto che, comin-
ciata nel 265, terminò nel 264, l'anno in cui ebbe iDrincipio la
prima punica, si compi l'affermazione del dominio romano sull'Italia
peninsulare. La penisola italiana da Pisa e da Rimini al Faro,
comprese le iDiccole isole adiacenti, ha una superficie di 130 mila
chilometri quadrati. Di questi il territorio romano , incluso l' agro
Piceno di recente conquistato, ma senza la Sila, l'agro Tam^asino e
i distretti in cui si dedussero le colonie di Brindisi e di Spoleto,
abbracciava solo un 25.000, 12.000 ne appartenevano alle colonie
latine e alle antiche città di diritto latino, il resto si divideva tra
gli altri alleati. Ormai lo Stato romano era mio dei i3Ìù vasti di
quel tempo. Aveva estensione quasi doppia della Macedonia con
le sue dipendenze, superava, sia pur di poco, il dominio cartaginese
e l'Egitto tolemaico, ed era inferiore al solo impero dei Seleucidi,
]a cui estensione del resto non era in proporzione con la potenza.
Per popolazione tra questi Stati veniva prima il regno dei Se-
leucidi con una trentina, poi l'impero tolemaico con una decina
di milioni d'abitanti, il dominio cartaginese con cinque milioni,
la Macedonia • e l'Italia romana con tre o poco più (2). Il territorio
romano propriamente detto era popolato, secondo la lista del
censo del 265/4, da 292.000 cittadini maschi adulti (3), quanti, dopo
(1) Lxv. epit. 16. Flor. I 21. Val. Max. IX 1 ext. 2. Auct. de vii: illastrib. 36.
Oros. IV 5. Johann. Antioch. fr. 50 {FHG. IV 557). Zonar. Vili 7. Fasti triumph.
ad a. 264. Cfr. Plin. n. h. XXXIV 34. Fkst. p. 209 s. v. pietà. Pare che la tra-
dizione ascrivesse a Fabio Gurgite, console per la terza volta, una gran parte
del merito della vittoria. Se è vero però ch'egli morisse d'una ferita, si spie-
gherebbe come nei fasti trionfali compaia soltanto il successore M. Fulvio
Fiacco e come nel libretto de tir. illustrib. la punizione dei Volsiniensi possa
essere attribuita a P. Decio Mure (come consul suffectun del 265 ? ).
(2) Queste cifre e questi raffronti sono attinti al Beloch Gr. G. IH 1 p. 330 seg.
(3) Liv. epit. 16: 382.233. Edtrop. Il 18:292.334. Paean.: 292.234. La prima
cifra dell'epitome è certamente errata, come mostra il confronto dei prossimi
426 CAPO XXI - LA SOTTOMISSIONE DEGLI ITALIOTI
le i^erdite sofferte nella prima guerra punica, non si tornarono ad
avere se non cento anni dopo.
Rimaneva a vedere se il nuovo grande Stato avi-ebbe saputo pa-
cificamente promuovere la coltm^a e il benessere materiale de' suoi
sudditi, o se forza di cose o libidine d'impero lo avrebbero implicato
in lotte con gli Stati contigui. Coi Greci dell' Oriente fino al tempo
di Filippo V i Romani non ebbero clie assai scarse relazioni. Pre-
scindendo dal mitico viaggio dei figli di Tarquinio il Superbo per
consultare l'oracolo di Delfi (1) e dalla non meno mitica amba-
sceria che si sarebbe recata in Atene a studiare le leggi di Solone
per preparare il codice delle dodici tavole (e. XRO? come i3ure da
quella storica inviata a Delfi dopo la presa di Veì (e. XVI), da
quella non storica die vi sarebbe stata inviata prima e che il
mito collegava con lo scavo dell'emissario del lago Albano e infine
da un'altra riferita all'età delle guerre sannitiche (2), che non
hanno carattere politico, la prima legazione politica romana in
Oriente è quella che si recò a Babilonia nel 323 a fare omaggio
ad Alessandro Magno (3). Questa ambasceria, della cui storicità
non è lecito dubitare, rende testimonianza dell'impressione che
censimenti; e solo è incerto se debba leggersi 282 o 292 mila. Tenendo conto
della concessione della cittadinanza ai Sabini la seconda ipotesi è più proba-
bile, V. Beloch Bevolkerung p. 345.
(1) Cic. de re p. II 24, 45. Liv. I 56. Dionts. IV 6, 9. Val. Max. VII 3, 2.
(2) Plin. n. h. XXXIV 26 : invenio et Pythagorae et Alcibiadi in cornibus comitii
positas (statuas) cum bello Smnniti Apollo Pythius iiississet fortissimo Graiae
gentis et alteri sapientissimo simulacra celebri loco dicaì-i. Cfr. sopra p. 184 n. 1.
(3) Di questa la più antica menzione è in Clitarco fr. 23 M. presso Plin.
n. h. Ili 57, a cui, per quanto colpevole di molte invenzioni, non si può attri-
buire quella della ambasceria romana, poiché Roma al suo tempo era ben lon-
tana dall'avere agli occhi dei Greci specialmente orientali l'importanza che
acquistò più tardi. Gli altri particolari presso Arrian. Anab. VII 15, 5. Memn.
e. 25, 3 {FHG. Ili p. 538) sono indegni di fede. Poco prova il silenzio delle
fonti romane e di Tolemeo ed Aristobulo presso Arrian. anàb. VII 15, 6, i quali
però, come dice poco prima lo stesso Arriano, parlavano di ambascerie dei
Bruzì, dei Lucani e dei Tirreni, e può darsi benissimo che tra le città tirrene
comprendessero anche Roma. Diodoro XVII 113 dice soltanto che mandarono
ambascerie tuùv TT€pl tòv 'Abpiav oIkouvtuiv oi -rrXeìaTOi. Giudicò rettamente della
cosa Kaerst Geschichte des hell. Zeitalters I 415 n. 2 e prima di lui Niebuhr
B. G. Ili 194 seg. e Droysen Geschichte des Hell. I 2, 319 n. Paiono infondati
i dubbi del Mommsen R. G. I^ 383 n. e del Niese Geschichte der griech. und
maked. Staaten l 182 n. 1.
JIOMA E LA (ìKUCTA 427
facevano anche in Italia le vittorie di Alessandro e dei riguardi
che i Romani come gli altri indigeni d'Italia credevano prudente
di usare all'uomo più potente del mondo conosciuto, riguardi tanto
più opportuni in quanto si parlava di vasti piani di conquista in
Occidente di quel j)rincipe (1), cui nessuna forse tra le popolazioni
indigene d'Italia presumeva di poter resistere. Inoltre i Romani
avevano un motivo maggiore degli altri per fare omaggio ad
Alessandro Magno, cioè , il trattato che avevano stretto non molto
l)rima (e. XV Ili) col suo parente Alessandro d'Epiro; ed erano
poi anche in debito di una risposta all'ambasceria mandata dal
grande re di Macedonia per lagnarsi delle piraterie degli An-
ziati (2). Più tardi ci è ricordata un'ambasceria di Demetrio Po-
liorcete ai Romani che ebbe a restituire certi predoni di Anzio,
fatti prigionieri da Demetrio, invitando cortesemente i Romani a
non tollerar più simili atti di pirateria (3). Questa legazione è
forse da collocare dopo la vittoria di Sentino, quando quell'impor-
tantissimo successo dei Romani richiamò su di loro l'attenzione delle
Potenze greche. Dopo ciò non abbiamo menzione di ambascerie
romane in Grrecia o greche in Roma sino al termine della guerra
di Pirro, a prescindere da quelle di Pirro stesso (4) ; tuttavia è da
credere che non mancassero i Romani di concludere trattati com-
merciali coi più importanti Stati marinareschi dell'Oriente, p. e.
con Rodi; ne intorno a ciò siamo privi d'ogni accenno nelle fonti (5).
(1) DioD. XVIII 4, 4. Arrian. anab. VII 1, 2.
(2) Che le lagnanze siano state fatte da Alessandro il Grande e non dal Mo-
losso, come afferma p. e. il Mommsen CIL. X 660, risulta dal modo d'esprimersi
di Strab. V 232; ne è da credere che Strabone sia caduto in equivoco, poiché
quando morì Alessandro il Molosso la colonia d'Anzio era stata appena fondata.
(3) Strab. 1. e. È pei'ò assai difficile che Demetrio abbia detto rimprove-
rando i Romani oùk àEioOv Toùq aÙToùc; àvbpac, orparriYCiv xe fijua Tfiq 'iTaXioi;
Kol Xriaxripia lKné|UTreiv Kai èv |uèv rfl àYopól AioaKoùpmv iepòv Ibpuoaiuévouc; Tijuàv
oi)<; uàvret; oujTfipac òvoi-ióucuoiv, eìq òè Tr^v 'EXXóòa iréiuTTeiv xi^v èKeivtuv irarpiòa
Toùq XeriXaxnaovTaq. Questi sembrano flosculi retorici di Timeo.
(4) Sull'ambasceria mandata nel 293 ad Epidauro per istituire in Roma il
culto di Asclepio v. oltre e. XXIV.
(5) Ad un simile trattato concluso circa il 306 si hanno da riferire le parole
di PoLYU. XXX 5, 6 (all'anno 167) : outuj YÒp rjv npaTMaTiKÒv tò TTo\iTeu|aa
tOùv 'Pobiujv ujc; a%ehòv ^rr) TCTTapdiKOVTa TTpòt; Tot<; éKaxòv KeKOivr|KiÌJ^ ó bf\iÀOc,
'Pui^aioic, TÓJV ènitpaveOTfiTUJv koì KaXXiaxujv ?pTUJV oùk ènenoiriTo Ttpò^ aiiToùq
aumaaxictv. Polibio con una stessa frase alquanto imprecisa accenna alle piìi
antiche relazioni d'amicizia e di commercio ed alle più recenti militari e po-
litiche. È arbitrario espungere col Beloch Gr. <?. I 1 p. 299 n. 2 irpòq TOtq éKOTÓv.
Sulla questione cfr. M. Holleaux nei ' Mélanges Perrot' (Paris 1902) p. 183 segg.
428 CAPO XXI - LA SOTTOMISSIONE DEGLI ITALIOTI
Abbiamo invece ripetute notizie di legazioni amiclievoli scam-
biatesi tra Roma e Alessandria d'Egitto, dopo la guerra pirrica,
nel 273, che forse non erano senza un certo significato politico (1).
I Tolemei infatti combatterono sempre l'influenza macedonica nel
Peloponneso e nelle isole, e per ciò il ridursi ad unità della
Grrecia, della Macedonia e dell'Epiro, com'era pericoloso i3ei Ro-
mani, altrettanto doveva riuscire poco accetto a Tolemeo Eiladelfo,
cbe vi scorgeva una minaccia i3e' suoi possedimenti delF Egeo.
Poco dopo, caduto Pirro e disgregatosi il suo impero^ una città che
vi apparteneva, la colonia corinzia di Apollonia sull'altra sponda
del canale d' Otranto, adombrata dalla occupazione romana del
porto di Brindisi (266), credette opportuno di mandare un'amba-
sceria a Roma (2). I legati ebbero un trattamento poco decoroso
IDcr parte di alcuni senatori. Ma il senato, cui premeva di stringere
buone relazioni coi vicini dell'altra sponda del canale, deliberò che
uno o tutti e due i colpevoli fossero consegnati agli Apolloniati,
i quali, animati dallo stesso desiderio, li rimandarono incolumi.
Questo è tutto ciò che sappiamo sulle relazioni tra Roma e
l'Oriente ellenico innanzi alle guerre puniche; e basta a mostrare
che se primi cercarono i Romani l'amicizia dei Crreci, dal principio
del ni sec. toccò ai Oreci di cercare l'amicizia di. Roma. Nessuno
del resto in quel tempo neir Oriente ellenico prevedeva, prossimo
o remoto, un pericolo romano, mentre il regno tolemaico era nel
suo massimo flore ed Atene e Si3arta riprendevano contro la Ma-
cedonia riordinata da Antigono Oonata l'eterna lotta i^er la li-
bertà. Intanto che le poderose armate tolemaiche e rodie volteg-
giavano per l'Egeo, ognuno avrebbe sorriso al pensiero che potesse
comparirvi ostilmente una squadra di poche e pesanti navi romane.
Nulla pareva mutato nella posizione predominante che la nazione
ellenica occupava nel mondo civile se alcuni avamposti dell' elle-
nismo erano caduti in mano degli stranieri, che ne avevano ri-
spettato del resto la nazionalità e le istituzioni. Ma, segno doloroso
(1) Liv. epit. 14. Val. Max. IV 3, 9. Eutrop. II 15. Iustin. XVIII 2, 9. Dionys.
XX 14. Cass. Dio fr. 41. Zonar. Vili 6. La data è in Eutropio; ne v'e la mi-
nima ragione di dubitarne; poiché la cronologia delle fonti romane è dalla
guerra di Pii-ro d'accordo con quella delle fonti greche.
(2) Liv: epit. 15. Val. Max. VI 6, 5. Cass. Dio fr. 42. Zonar. Vili 7. L'anno
è ricavato da Zonara. Sull'ordine dei fatti nelle perioche liviane, che indur-
rebbe a riportare l'ambasciata prima della guerra coi Picenti ossia al 270 circa,
non è da fare troppo assegnamento. Sulle condizioni di Apollonia in questo
tempo son da respingere le osservazioni del Beloch Gr. G. Ili 2 j). 318.
ROMA E LA (rRECIA 429
dei tempi, dalla Grecia, che tante volte aveva mandato al soccorso
degli Italioti i suoi principi e la sua balda gioventù, nessuno più
si mosse per sovvenirli; tanto le conseguenze della ritirata di
Pirro erano parse ai Greci definitive ed irrimediabili. Eppm-e
questo stesso abbandono d'ogni pensiero di rivincita pareva clie
dovesse costituire un'arra di pace. E nessuno a Roma sognava
allora guerre di conquista in Oriente, e nessuno immaginava die
tutte quelle monarcbie potenti e quelle repubbliche assetate di
libertà avrebbero tra meno d'un secolo boccheggiato sotto il cal-
cagno romano. Costretti dalla lotta per l'esistenza ad una serie di
gueiTe per cui avevano finito col ridurre ad unità sotto il loro
primato l'Italia, non avevano i Romani quelle aspirazioni al do-
minio, quel desiderio d'asservire e di sfruttare che ora si designe-
rebbe col nome d'imperialismo. Non le relazioni coi Greci diedero
occasione al sorgere di siffatte aspirazioni, si la lotta con la grande
potenza semitica che era stata fin allora amica ed alleata dei Ro-
mani: Cartagine.
CAPO xxn.
Il Comune e lo Stato nell'Italia unita.
Air iniziarsi della storia dei popoli classici il Comune, fornito
o no di un centro cittadino, era una cosa sola con lo Stato. Il
difetto di distinzione tra Comune e Stato, naturale e necessiirio
lincile questo non aveva che piccole dimensioni, col formarsi di
Stati sempre maggiori finiva col portare il sacrifizio dei vari inte-
ressi locali a quelli del maggiore o del solo centro cittadino: il
che talora equivaleva in parte a sacrificare la classe più sana e
laboriosa alle moltitudini cittadine né laboriose né sane. Lioltre
era posto cosi un limite forzato ed artificiale agl'incrementi dello
Stato: perchè quando in pace od in guerra veniva il momento di
incorporare un altro centro cittadino, lo si aveva da distruggere di
fatto o almeno di diritto; e ciò non sempre poteva farsi, giacche
per resistere alla distruzione si rinvengono energie che non si tro-
verebbero per difendere la sola indipendenza; e ripugnava poi la
piena distruzione d'uno Stato vinto al sentimento umanitario
rinvigorito talvolta da tradizioni d' antica amicizia. Allora non
rimaneva altro che lasciarlo sussistere come Stato più o meno di-
pendente: il che importava il tenerlo in una condizione perma-
nente d' inferiorità che faceva perennemente rimpiangere la indi-
pendenza, dandogli al tempo stesso la possibilità di ricuperarla
alla prima occasione favorevole. Per tal modo il Comune-Stato
primitivo non rispondeva più alla tendenza d' età progredita di
creare Stati maggiori. Il contrasto non conciliato fra la tradizione
e la tendenza nuova cagionò successivamente nel V e nel IV se-
colo in Grecia la rovina dell'impero ateniese, della egemonia
spartana e della tebana. Pei filosofi, ignari della convenienza di
una evoluzione progressiva della società, il rimedio consisteva sol-
LO STATO ANTICHISSIMO 431
tanto nel restringere novamente lo Stato in quei limiti entro cui
può prosperare un Comune ben ordinato. La lega etolica e l'achea
tentarono invece con altri mezzi nella età ellenistica di conciliare
con le autonomie locali l'esistenza dello Stato. Ma al grave pro-
blema diedero la sua soluzione più perfetta nell'anticliità i Ro-
mani; e ne dipende geneticamente la soluzione che il problema
stesso ha nello Stato moderno. Di qui l'interesse che ha lo studio
degli incunaboli di quella vita municipale romana che fu poi si
fiorente nelFetà dell'impero.
Roma ampliò il suo territorio fino all'incendio gallico soltanto
distruggendo, almeno di diritto, ma in generale anche di fatto,
quei centri che v' incorporava e senza guari procedere alla fon-
dazione di Comuni di cittadini. Né fa eccezione Ostia, che era
un semplice presidio permanente di cittadini stabilito fin dall'età
regia alla foce del Tevere (1), e secondo ogni verisimiglianza non
fu ordinata a Comune che molto più tardi, dopo la metà del
rV secolo. Nel VI e nel V secolo non s'incorporarono nel territorio
romano città cui togliendo la indipendenza politica si conservas-
sero franchigie comunali. Non cade a taglio l'esempio che suole
addm'sene di Gabì. Gabì concluse fin dall'età regia un trattato
d'alleanza con Roma, in forza del quale il Gabino stabilitosi in
Roma godeva la cittadinanza romana e il Romano stabilitosi in
Gi-abì la cittadinanza gabina (I p. 389). Certo quel trattato, per cui
Gabì rimase d'allora in i)oi strettamente unita per secoli con
Roma, la trasformò a grado a grado di uno Stato indipendente
in un Comune del territorio romano; ma quando questa trasfor-
mazione fosse compiuta s'ignora (2) ; né per la minima importanza
di Gabì e pel fatto che gli stadi della trasformazione dovettero
rimanere inavvertiti a Romani e Gabini, può ammettersi che l'or-
dinamento di Gabì servisse d'esemplare a quelli dei Comuni ro-
mani. Né primo Comune va riputata quella che Livio riguarda
come la seconda colonia romana, Labici (3) ; poiché il non trovarsi
essa sul mare come le più antiche colonie di cittadini romani e
più l'esser chiamata municipio sul chiudersi della età repubbli-
(1) Sui magistrati ostiensi v. I p. 384 n. 1 e p. 405 n. 2.
(2) La prima menzione di Gabì come municipio è in Cic. prò Piane. 9, 23.
Tuttavia che fosse municipio prima della guerra annibalica rendono verisimile
i prodigi colà avvenuti (cfr. sotto p. 440) riferiti da Liv. XXIV 10. XLI 16.
Obseq. 14. Intorno a Gabì piìx del Beloch It. Btind p. 47 giudica rettamente
il Dessau CIL. XIV p. 278 n. 4.
(3) V. sopra p. 119 n. 3.
432 CAPO XXII. - IL COMUNE E LO STATO NELLITALIA UNITA
cana (1), mostra che non era punto costituita come colonia, ma si
trattava d'assegnazione viritana, il cui ordinamento a municipio
fu senza dubbio molto tardo. Infine è assai incerto se come primo
dei Comuni romani s'abbia a riguardare Capena, che fu sottomessa,
secondo la tradizione, nel 395 (v. sopra p. 149), e incorporata nel
territorio romano, come risulta sia da notizie che si riferiscono
ai tempi della guerra annibalica (2), sia dal trovarsi in territorio
contiguo a Capena l'agro Stellate onde prese nome la tribù Stel-
latina istituita nel 387 (3), alla quale apiDarteneva, come mostrano
iscrizioni posteriori (4), anche Capena. E certo da ritenere che a
Romani e a quelH tra i Capenati che si sottomisero in tempo a
Roma (5) sia stato assegnato indi\'idualmente il territorio cape-
nate, in cui s'istituì la nuova tribù Stellatina; ma non essendovi
traccia di franchigie comunali allora concesse a Capena, può sti-
marsi che il municipio capenate al pari del veiente sia posteriore
alla guerra sociale o, se anche anteriore, certo non antichissimo.
Da alcune iscrizioni d'età imperiale che menzionano il municipio
federato di Capena o il municipio dei Cai3enati confederati (6) si
è voluto ricavare che, aj)punto perchè uno dei primi municij)ì,
Capena non avesse nello Stato romano la posizione precisa e ben
definita degli altri, ed essendo alcunché di mezzo tra il Comune
dello Stato romano e la città alleata dipendente, potesse dirsi a
buon diritto, sebbene con singolare ibridismo di frase, municipio
federato (7). Ma è assai incerto che si avesse cura in queir età
remota di assegnare alle città denominazioni speciali secondo la
loro posizione nello Stato ; e non facile è pure che si trasmettes-
(1) Cic. 1. cit.
(2) Liv. XXII 1, 10. XXVII 4, 14. XXXIII 26, 8.
(3) Fest. p. 343 : Stellati[na trihus dieta non a campo] eo qui in Campania est,
sed eo qui [prope ahest ab urbe Ca]pena, ex quo Tusci profecti St\ellatinum illuni]
campum appellaverunt.
(4) CIL. XI 3958. 3959. 4004. 4015.
(5) LiT. VI 4, 4: eo anno (389) in civitatem accepti qui Veientium Capena-
tiumque ac Faliscoruni per ea bella transfugerant ad Romanos agerque Jiis novis
civibus adsignatus.
(6) Municipiiim Cappna foederatum, CIL. XI 3932; municipium Capenatium
foederatorum, 3936 ; Capenates foederati, 3883. 3876 a.
(7) Bkloch It. Bund p. 119 seg., il quale confronta la frase di Cic. Phil.lll
6, 15 a proposito di Aricia: Aricinum municipium antiquissimum iure foede-
ratum. Ma questa frase allude probabilmente alla lega sacra, ancora esistente,
del monte Albano.
I PKIMI COMUNI DKLLO STATO ROMANO 433
sero invariate per tanti secoli, in specie quando non corrispon-
devano più alle condizioni di fatto, e forse è nel vero chi stima die
quel nome indichi risultare il municipio capenate dell'età impe-
riale dalla fusione di tre città (1).
Ma il primo Comune vero e proprio dello Stato romano fu Tu-
scolo, che vi fu annesso, pare, nel 381 (v. sopra pag. 243) (2). E
tuttavia la somma d'autonomia concessa ai Tuscolani era assai
limitata. Magistrati supremi di Tuscolo erano in età posteriore
gli edili (3). Par chiaro che, non distrutta Tuscolo, ma iDrivata
affatto di giurisdizione e obbligati i Tuscolani a ricorrere al pre-
tore romano, ad essi non si lasciò che la nomina di propri edili
destinati alla j)olizia della città e del mercato, ossia il minimo pos-
sibile di franchigie comunali. Fu dunque dopo la guerra gallica,
quando il disastro sofferto e la conseguente dissoluzione della lega
latina faceva palese ai Romani la necessità d'impegnare tutte le
proprie forze nella lotta per l'esistenza e li costringeva a conces-
sioni all'interno, che incorporando Tuscolo allo Stato romano non
solo non la distrussero materialmente, non solo diedero ai Tusco-
lani i pieni diritti di cittadinanza romana, ma anche, rispettando
in qualche modo le tradizioni d'autonomia della città, largirono a
Tuscolo una larva di franchigie comunali.
Questo era un primo passo d'una certa gravità in sé, sebbene
j)raticamente di non molto conto. Ma d'assai maggior momento fu
il modo che si tenne nell'incorporare allo Stato romano la imi)or-
tante città etrusca di Cere nel 353 (v. sopra p. 255). Col diritto
di cittadinanza senza suffragio, i Ceriti ottennero, e ciò è pur
molto notevole, libertà comunali che servirono poi d'esemplare a
({uelle accordate ad altri Comuni della stessa categoria. Conser-
varono il supremo magistrato annuo, che latinamente si chiamò
dittatore (4) e che, in origine almeno, avrà esercitato una certa
giurisdizione, ebbero due edili per la polizia locale e per la cura
dell'annona e un consiglio municipale col nome di senato. Queste
istituzioni, differendo di non poco da quelle che ricevettero le città
italiche dopo la guerra sociale, convien riferirne l'origine al mo-
mento in cui la città entrò a far parte dello Stato romano. Cosi
(1) De Rossi ' Bull, di arch. cristiana ' IV (1883) p. 115 segg.
(2) Gic. prò Balbo 13, 31. de off. I 11, 35 enumera sempre i Tuscolani primi
tra quelli che ricevettero la cittadinanza, cfr. 2^ro Piane. 8, 19.
(3) Dell' antico dittatore tuscolano (I p. 423 n. 2) non appare più traccia.
Per gli edili v. CIL. XIV 2579. 2590.
(4) CIL. XI 3593. 3614-15.
Gr. De Sanctis, Storia dei Romani, II. V8
434 CAPO xxn. - il comune e lo stato nell'italea unita
avevano dunque cominciato ad esistervi due categorie di C^omuni:
Comuni con diritto di suffragio e Comuni senza tale diritto. Ac-
canto a queste se n'ebbe presto una terza: Comuni forniti dei pieni
diritti di cittadinanza, ma non preesistenti come Tuscolo o Cere,
si creati con legge dello Stato , cioè le colonie ; o se anche pre-
esistenti come centri abitati, giuridicamente creazioni nuove, senza
addentellati cogli ordini anteriori quali che fossero. Il i^rimo Co-
mune coloniale fu Anzio (p. 283), fondata nel 338, sul cui esempio
fu poi ordinata a Comune la colonia più antica di Ostia, che non
era stata fino allora in possesso di vere franchigie comunali, ma
che il suo stesso progredire obbligava a non mettere in condizione
d' inferiorità a paragone di colonie più giovani. Per vero quelle
franchigie non si erano date in origine neppm-e ai coloni Anziati ;
ma la impossibilità pei coloni, ben più distanti da Roma d'Ostia
o di Tuscolo, di portare i loro piccoli litigi davanti al pretore ro-
mano e la necessità di dirimere con speciali norme di dmtto le
questioni che insorgevano tra essi e gì' indigeni rimasti, fecero si
che i coloni avvertissero presto la necessità di propri magistrati
e che il senato dovesse accondiscendere ai loro desideri (1). Il mol-
tiplicarsi delle colonie romane negli anni seguenti presuppone che
si fosse risoluto il problema del conciliare la piena cittadinanza
coi diritti comunali dei coloni, i^erchè il non essersi ai;)pianato
questo apj)arente contrasto era uno dei motivi che fino allora
aveva fatto istituire solo in via eccezionalissima colonie romane,
mentre tante se ne deducevano di diritto latino.
Ai Comuni senza diritto di suffragio s'applicava esclusivamente,
pare, in origine la denominazione di municipi. " Municipe „ è in
senso proprio chiunque è obbligato ai doveri {mimia) (2) del cit-
tadino. Soltanto come con la denominazione di " erari „ (contri-
buenti) si designano non tutti i cittadini che pagano tiibuto, ma
quelli che sono registrati nelle liste civiche solo in qualità di con-
tribuenti senza avere il pieno esercizio dei diritti cittadini, cosi col
termine di " municipi „ si denotarono quelli che erano tenuti agli
stessi doveri dei cittadini romani senza possederne tutti i diritti.
(1) Ciò è narrato al 317 da Liv. IX 20, 10 (v. sopra p. 283 n. 3); da questo
passo risulta anche implicitamente che fu soddisfatta la richiesta dei coloni
per avere propri magistrati.
(2) Sul significato di questa parola v. I p. 357 n. 2. La definizione esatta del
miiniceps fu data già dagli antichi, Gell. n. A. XVI 13. Varrò de l. l. V 179.
Dig. L 1, 1, 1. L 16, 18. La interpretazione del Rudorff ' quello che riceve doni'
è a ragione respinta dal Mommsen Staatsrecht III p. 281.
MUNICIPI 435
Non v'è alcuna prova che questa designazione s'applicasse in ori-
gine ai Latini clie, in forza del diritto di commercio, possedendo
stabili nel territorio romano, erano obbligati ai " niunia „ (tributo
e prestazione d'opera) che si collegavano con la proprietà. In realtà
non è da credere che questa classe, senza dubbio assai limitata,
avesse denominazione speciale: in quella età il Latino che posse-
deva beni fondiari nel territorio romano doveva in generale es-
servi stabilito, e quindi era partecipe altresì del dii^itto di voto a
norma dei trattati. Inoltre il Latino proprietario e non residente
non poteva essere costretto al più importante dei doveri del cit-
tadino, il servizio militare (1). E quindi da credere che il termine
di "' municipe „ sia sorto quando cominciarono ad esservi citta-
dini senza la pienezza dei diritti politici. ""' Municipio „ avrà quindi
indicato dapprima la relazione di diritto del municipe con Roma,
passando poi a designare il Comune costituito di municipi, ossia
di cittadini senza suffragio. A poco a poco subi un ulteriore cam-
biamento di significato. Man mano che- i Comuni senza diritto di
suffragio ricevevano questa facoltà, municipio passò a significare
qualunque Comune non fosse stato costituito come le colonie per
opera del governo romano (2). Quando poi dopo la guerra sociale
(1) Contro MoMMSEN Staatsrecht III 232 seg. Come possa trovarsi una con-
ferma a questa teoria nelle confuse frasi di Fest. p. 127 non è chiaro : muni-
cipium id genus hominum dicitiir qui ciim Romani venissent neque cives Romani
essent participes (amen fuerunt omnium rerum ad munus fungendtim una cum
Romanis civibus praeterquam de suffragio ferendo aut magistratu capiendo sicut
fuerunt Fundani Formiani Cuinani Acerrani Lanurini Tuficulani qui. post aìiquot
annos cives Romani effecti sunt. Meglio la stessa categoria è definita nella
epit. p. 131 : item municipes erant qui ex aliis civitatibus Romam, venissent quibtis
non licebat magistratum capere sed tantum muneris partem ut fuerunt Cumani,
Acerrani, Atellani, qui et cives Romani erant et in legiones merebant sed digni-
tates non capiebant. E chiaro che qui si tratta di municipi senza suffragio.
(2) A questo significato più largo allude Fest. p. 127 nella continuazione
dell'articolo cit. : alio modo cum id genus hominum definitur quorum civitas uni-
versa in civitatem Romanam venit, ut Aricini Caerites Anagnini. Dei tre popoli
citati i primi ebbero la piena cittadinanza, i secondi la cittadinanza senza
suffragio, gli ultimi ricevendo la cittadinanza senza suffi-agio furono privati di
ogni franchigia comunale. Lo stesso significato dà pure alla parola Servio Sulpicio
presso Fest. p. 142 : at Servius aiebat initio fuisse (municipes), qui cu condicione
cives Romani fuissent ut sentper renipublicam separatim a populo Romano haberent,
Cumanos, Acerranos, Atellanos. Non differisce da questa la terza categoria di
municipi di cui discorre Fest. p. 127 : tertio cum id genus hominum definitur
qui ad civitatem Romanam ita venerunt ut municipes essent suae cuiusque ciri-
tatis et coloniae, ut Tiburtes' Praenestini Pisani Urvinutes Nolani Bononienses
436 CAPO XXII. - IL COMUNE E LO STATO NELl'iTALIA UXITA
per preparare alla cittadinanza i Comuni della Traspadana, si
concedette ad essi il diritto latino, allora la designazione di mu-
nicipi si applicò anche a' Comuni latini, mentre fino allora Comuni
di diritto latino non erano stati che città alleate o colonie (li.
Infine in età assai posteriore si designarono abusivamente come
municipi tutti i Comuni di diritto romano o latino dell'impero, com-
prese le colonie (2).
Tra i distretti popolati da cittadini senza diritto di suffragio
s'iianno da distinguere due categorie, Tuna in migliori, l'altra in
peggiori condizioni. All'ultima appartenevano quelli cui s'era tolta
ogni autonomia comunale : e non portavano neppure probabilmente
il nome di municipi, perchè il municipio sembra presupporre una
repubblica. In tale condizione furono ridotti gli Anagnini nel 306
dopo la rivolta degli Eriiici, privati d'ogni magistratura propria
fuorché delle magistratin-e sacre (3). I distretti di questa categoria
furono assai pochi. Con piena sicurezza possiamo attribuirvi, oltre
Anagnia, soltanto Capua, da quando dopo la sua insurrezione nella
guerra annibalica venne risottomessa a Roma (211). Da allora in
poi Capua vien detta una città mutila, senza senato, senza plebe,
senza magistrati, ovvero, dal punto di vista giuridico, non altro
che un luogo per riporre raccolti e ricoverare i contadini (1).
Piacentini Nepesini Sutrini Locrenses; solo che, come mosti-ano gli esempì, qui
si allude specialmente alle città alleate ed alle colonie latine che ricevettero
la cittadinanza dopo la guerra sociale.
(1) Un esempio più antico vuoisene trovare nella legge agraria del 111 v. 31 :
[sei quei colonieis seive moijnicipieis seive qtiae prò moinicipieis colo[nieisve simf
civium Rom.] nominisve Latini, etc. Ma nominisve Latini può assai bene riferirsi
alle sole colonie come a differenza del Mommsen Ges. Schriften I p. 116 so-
stiene il Marquardt L'amm. romana (trad. Solaini) I 140. In caso diverso
converrebbe dire che quella designazione si fosse già estesa abusivamente allo
città federate latine sopravviventi.
(2) Ulpian! dig. LI, 1, 1 : sed nunc abusive municìpes dicimiis suae cuiusque civi-
tatis cives, ut puta Campanos Puteolanos (mentre Capua e Puteoli sono colonie).
(3) V. sopra p. 337 n. 4.
(4) Liv. XXXI 29, 11: Capua quidem, septdcrum ac moniimentum Campani po-
puli, elato et extorri eiecto ipso populo, superest, urhs trunca, sine senatu, siiie
plebe, sine magistratibus. Cic. de l. agr. II 32, 88 : statuerunt homines sapientes t<i
agrum Campania ademissent, magistratus, senatum publicum ex illa urbe consilium
sustulissent, imaginem reipublicae nullam reliquissent nihil fare quod Capuani
timeremus ut esset urbs quae res eas quibus ager Campanus coleretur suppe-
ditare posset, ut esset locus comportandis condendisque fructibus, ut aratores cultii
agrorum defessi urbis domiciliis uterentur, idcirco illa aedificia non esse deleta.
STATUTI MUNICIPALI 437
Se in tale condizione si fossero ridotti tutti i municipi senza
suffragio, lungi dall'essere un punto d'appoggio per Roma, sareb-
bero stati un pericolo permanente. Ma la condizione della maggior
parte degli altri era ben diversa. Conservavano i loro magistrati,
e poicliè il magistrato, secondo il modo di vedere dei Romani, ha
mestieri d'un consiglio, anche il consiglio municipale, comunque
nei vari municipi prendesse nome (il nome più frequente, se non
unico, fino al 264, era di senato) ; e i3er di più ebbero anche i co-
mizi XDopolari, perchè i Romani non conoscevano se non magistrati
procedenti dal voto del popolo. La misura dei diritti dei magi-
strati locali a fronte dei magistrati romani era certamente stabi-
lita volta per volta nella legge stessa che sanciva la incorpora-
zione d'una città nello Stato romano in qualità di municipio senza
suffragio. E quindi vi potevano essere tra l'uno e l'altro municipio
per questo rispetto non ])Oche disparità provenienti dalla diversa
importanza, dalla maggiore o minore affinità delle leggi locali con
le romane e dalla resistenza più o meno pertinace opposta all'an-
nessione a Roma. Ed anche per ciò che concerne il diritto ci\nle
e penale, è da credere che nell'atto della costituzione di un mu-
nicipio, con opportuna rogazione sancita dal popolo romano, si
determinasse in quanto le norme locali potevano continuare ad
aver vigore di legge ed in quanto dovevano essere sostituite dal
diritto romano. S'intende che al diritto romano doveva essere data
in questi statuti municipali una parte preponderante; ma è pur
certo che non ogni traccia del diritto locale si abolì. Ciò non vale
soltanto per Capua, che nel periodo anteriore alla battaglia, di
Canne ebbe una posizione privilegiata tra i Comuni romani, ma
anche per altre città, come provano alcune norme che ad Arpino.
pur dopo la sua annessione, vigevano intorno alle successioni, di-
verse da quelle del dhitto romano (1). Ad ogni modo in questa
categoria di municipi senza suffragio la giurisdizione fu divisa
in varia mism-a tra i magistrati locali e il pretore di Roma, il
quale alla sua volta o la esercitava direttamente in Roma ov-
vero delegando sul luogo speciali rappresentanti detti prefetti (2).
Se perfino nel diritto sovrano per eccellenza della giurisdizione
<'ontinuavano ad aver parte le autorità municipali, può ritenersi
(ho le altre competenze dei magistrati e dei corpi delilìcranti
(1) Cato fr. 61 Pkteu: si quis mortnus est Arpinatis eitis heredem sacra non
■■^equuntur.
(2) Della giurisdizione dei magistrati locali nei municipi piii favoriti può
<lar'ì un'idea Liv. XXIII 4, 4 (sopra p. 288 n. 2).
438 CAPO xxn. - il comune k lo stato nkf.l'italta cxtta
locali fossero anche più estese. Tuttavia v'era per questo rispetto
una limitazione caj) itale. Lo statuto comunale fissato definitiva-
mente con deliberazione dei comici romani non si poteva mutare
che col voto degli stessi comizi: il che in pratica faceva che non
si mutasse mai e assicurava la stabilità degli ordinamenti non-
ostante la mutabilità delle maggioranze locali. Dappertutto i Ro-
mani avevano o promulgato o confermato statuti per cui il potere
effettivo era nelle mani della classe abbiente, mentre al proleta-
riato, che poteva avere considerevole importanza e pel numero e
pel lavoro cui attendeva in città industriali e commercianti come
Cere o Ca^^ua, veniva imi^edito di esercitare sulla classe possidente
(piella tirannide che s'arrogava talora in Grecia. L'effetto più ma-
nifesto era che per ogni dove la classe abbiente si sentiva legata
a Roma in cui vedeva il suo punto d'appoggio. Ma ne procede-
vano anche altre conseguenze singolari. Mentre nelle città alleate
di Roma gli ordinamenti locali spesso si modificarono ad immagine
di quelli della città dominatrice, nei municipi romani ne rimasero
spesso assai diversi. Cosi le città alleate latine sostituirono in ge-
nerale all'antico dittatore due magistrati eponimi ad imitazione di
Roma, mentre le città latine od ordinate a somiglianza delle la-
tine che vennero incorporate nello Stato romano senza diritto di
suffragio, come Cere, o anche con quel . diritto, come Aricia, La-
nuvio e Nomento, continuavano ad eleggere l'unico dittatore (1). E
la sorveglianza sugli statuti municipali era tale che Cuma nel 180
per introdurre il latino come lingua ufficiale, dovette chiederne
facoltà a Roma (2). Siffatta notizia del resto insieme coi monu-
menti locali ci mostra che i Romani non imposero ai municipi
senza suffragio una latinizzazione violenta, anzi sancirono nei
vari statuti che continuasse ad usarsi come lingua ufficiale la
lingua parlata, osco, volsco od etrusco che fosse. Altro effetto
della posizione subordinata dei municipi è naturalmente che essi
non hanno il diritto che compete agli Stati soAa-ani di concedere
a chi vogliono la cittadinanza, usando del quale ogni municipio
avrebbe potuto introdurre con piena libertà nuo^à elementi nella
cittadinanza romana. La prova di fatto della mancanza di questo
diritto si ha in ciò che quando nella guerra annibalica si volle
provvedere a regolare la condizione di trecento cavalieri campani
che servivano in Sicilia al momento della ribellione di Capua e
s'erano serbati fedeli a Roma, essi furono con un plebiscito di-
(1) Beloch It. Bund p. 125.
(2) Liv. XL 42, l.S.
STATUTI MUNICIPALI. ISTITUZIONI SACRE 439
chiarati municipi dimani: donde si trae die i municipi erano in-
competenti a conferire la propria cittadinanza, mentre invece i
comizi romani potevano conferire la cittadinanza in qualsiasi mu-
nicipio (1).
Per ciò elle concerne i diritti civili dei municipi, è notevole
l'esempio dei Campani che da gran tempo avevano facoltà di con-
nubio con gli altri cittadini romani prima della loro ribellione nella
seconda punica (2) e, perdutala transitoriamente alla resa della loro
città nel 211, la ricuperarono poi nel 188 (3). E poiché nessuno
dei municipi è stato ridotto in condizione più mniliante di Capua
dopo il 211, si deve ritenere che in generale i cittadini senza suf-
fragio fossero in possesso del connubio. Passeggiera fu anche la
eccezione di Anagnia e degli Ernici sottomessi nel 306, se pure vi
è stata, giacché la notizia che in tal proposito dà Livio par riferirsi
non al connubio coi Romani, ma con gli altri Ernici (4). Quanto
al diritto di commercio par certo che non poteva mancare; X3erchè
può aversi commercio senza connubio; ma connubio senza com-
mercio non può concepirsi, non essendovi in questo caso la possi-
bilità di regolare come che sia i rapporti economici tra gli sposi
e tra le loro famiglie (5).
Le istituzioni sacre dei Comuni senza diritto di suffragio se-
condo alcuni divenivano senz'altro istituzioni dello Stato romano
(iuando trattavasi di Comuni della stessa nazionalità (6). Certo
sacerdoti dello Stato romano erano, almeno nell'età imperiale, il
flamine Yirbiale di Ai'icia e i sacerdoti che attendevano ai culti
di Tuscolo e di Laurento; per modo che in questi casi non si tratta
più di culti municipali, si di veri culti pubblici del popolo romano.
Ma Tuscolo, Aricia, Lanuvio, secondo ogni verisimiglianza, otten-
nero i pieni diritti cittadini da quando s'incorporarono nello Stato
romano; e ciò implicava naturalmente che come culti pubblici del
popolo romano fossero riguardati i loro culti; mentre le città che
non ebbero il diritto di suffragio erano in condizione alquanto
(1) Liv. XXIII 31.
(2) Liv. XXIII 4, 7 : conuhium vetuntum multas familias claras ac potentes Ro-
inanis miscuerat.
(3) Liv. XXXVIII 86.
(4) Liv. IX 43, 24 (sopra p. 337 n. 4): conuhia conciliaque adempia, cfr. Vili
14, 10.
(5) Perciò non paiono da accettarsi le riserve del Mommsen Stauffr'-rlit HI 577.
V. invece Beloch p. 125 seg,
(6) Mommsen Staatsrecht III 579 seg.
440 CAPO xxri. - tl comuxe e lo stato xell' Italia unita
diversa. Le loro ceremonie religiose passarono bensì sotto la sor-
veglianza dei pontefici di Roma, ma rimasero affidate ai magistrati
del luogo e si continuarono a celebrare appunto per deliberazione
dei pontefici secondo le norme già prima vigenti: insomma non en-
trarono a far xjarte dei culti del popolo romano, ma furono culti
municipali (municipalia sacra) (1). Una prova del sopravvivere
di questi culti e del loro carattere locale si ha anche ad Anagni;i
dove i magistrati non rimasero che per le ceremonie di culto, «■
perfino per Capua, dove varie iscrizioni del periodo tra il 211 e l;i
guerra sociale sono poste dai locali curatori dei sacrari imagistri
faiiorum) (2). Però l'ingerenza dei pontefici romani è manifesta
in ciò che i x3rodigi avvenuti nei municipi erano normalmente an-
nunziati a Roma affinchè i pontefici provvedessero alla loro espia-
zione, mentre assai meno sovente vi si denunziavano quelli delle
colonie latine e delle città federate: onde dalla frequenza con cui
son riferiti prodigi avvenuti in un dato Comune ed espiati in Roma
può in generale desumersi la sua condizione di municipio o di
colonia cittadina (3).
In ordine alle finanze comunali, non par dubbio che i municipi
senza suffragio avessero diritto di possedere e che a loro profitto
si riscuotessero i dazi locali. Quando Capua cadde nel 211 in potere
dei Romani, poco dopo i Romani ebbero ad occuparsi della riscos-
sione dei dazi sulle merci esportate ed importate (4) : il che mostra
che prima si erano riscossi a ijrofitto di Capua e della lega cam-
pana. E del resto anche i lavori edilizi in queste città erano fatti
per cura ed a spese del Comune e non compaiono mai tra le
opere pubbliche appaltate dai censori in Roma (5). Invece il di-
ritto sovrano di battere moneta mancava a tutti i municipi in
queste condizioni, con la sola eccezione di alcune città della lega
(1) Fest. ejìit. p. 157 : municipalia sacra vocantur quae ah initio hahuerunt
ante civitateni Romanam acceptam, quae observare eos roluerunt jwntifices et eo
more facere quo adsuessent antiquitus.
(2^ CIL. X 3772-3789.
(3) MoMMSEN nella edizione delle jìeriochae liviane del Jahn (Lipsiae 1853)
p. XXII segg. Cfr. anche Wuelkek Die Entwicklung des Prodigienwesetis bei den
Roinern (Leipzig 1903, diss.).
(4) Liv. XXXII 7, 3 (a. 199). Beloch It. Band p. 129.
(5) Se per tal rispetto si parla nel 174 (Liv. XLI 27, 10) di lavori ad Au-
ximum e Calatia, conviene riflettere che questa aveva subito le sorti di Capua
e non costituiva quindi Comune, quella a questo tempo doveva già possedere
la pienezza dei diritti cittadini.
'INAXZK CO.MITXALI 441
campana, Capua cioè con le vicine Atella e Calazia. Queste dap-
prima battevano moneta in oro, argento e bronzo col nome di
Roma in latino, quando Roma non coniava ancora né in oro ne
in argento ; e più tardi, a quel che sembra dal 268, quando Roma
prese ad emettere moneta d'argento, perduto il diritto di coniare
in metalli preziosi, batterono moneta divisionaria di bronzo col
proprio nome in caratteri osclii, forse ricevendo cosi un piccolo com-
penso del diritto importantissimo di cui venivano private (1).
In quanto alle relazioni finanziarie dei municipi con Roma, non
c'è alcuna prova, anzi tutto pare escludere die speciali gravami
pesassero sui municipi. Ma i municipi dovevano sottostare agli
stessi oneri finanziari degli altri cittadini romani, ossia soprat-
tutto all'imposta diretta sul reddito, il tributo, levato in via
straordinaria allorché occorreva per le spese militari. Sebbene si
sia fatta questione (2) se i cittadini senza suffragio vi fossero ob-
bligati, in realtà non può esservi dubbio in materia, vista l'iden-
tità dei Ceriti e degli erari (3) ed essendo del resto inammissibile
che fossero costoro privilegiati per questo rispetto a confronto elei
Romani forniti dei igieni diletti. Ma si è detto che in origine mi-
litando i cittadini senza suffragio in legioni a parte, queste veni-
vano stipendiate per cui'a dei magistrati delle varie città; e però
i municipi non avrebbero avuto ragione di pagare il tributo che
serviva al mantenimento delle truppe romane. Senonchè solo fon-
damento della ipotesi che i cittadini senza suffragio servissero in
speciali legioni è il nome di " legione campana „ che dalle fonti
vien dato al presidio di Regio sul principio della guerra di
PuTO (4) ; mentre nel iDeriodo su cui abbiamo tradizione più larga
e sicura, per la guerra annibalica, i contingenti municix^ali appa-
riscono fusi pienamente nell'esercito romano. Or da uno storico,
che non è tenuto alla precisione di termini d'uno scrittore di di-
ritto pubblico, un distaccamento di quattromila soldati campani,
(1) Ciò secondo MoMMSEN Rijm. Mihizwesen p. 212 segg. La questione della
monetazione romano-campana è del resto tutt' altro che chiara, cfr. e. XXIII,
Conviene, ammessa questa ipotesi, attribuire con Haeukrlin Zion Corpus nii-
inoram aeris (jravis (Berlin 1905) p. 10 al 216-211 la moneta d'argento di Capua
con leggenda osca.
(2) Così dal Beloch p. 129.
(3) ScHOL. Cic. Verr. p. 103 Orelli : censores cires sic notahant ut qui
plebeius (esset) in Caeritum tahulas referretur et uerariust fìrrct. Cfr. sopra pa-
gina 257 n. 1.
(4) Liv. epit. 15. Oros. IV 3, cfr. Polyiì. [ 7, 7.
442 CAPO XXII. - IL COMUNE E LO STATO NE LL ITALIA UNITA
([uaiita era a un dipresso la forza normale d'una legione, poteva
facilmente esser designato come legione senza che a rigore gli
competesse questo titolo. Ben altre prove si richiederebbero per
sostenere che i Romani commettessero Fimprudenza di costituire
normalmente vere e proprie legioni comandate da tribuni militari
indigeni coi contingenti dei cittadini senza suffragio, e, quel che
è anche più grave, d' affidarne il mantenimento agli ufficiali muni-
cipali: ciò senza dii'e che la maggior parte dei municiiDi senza
suffragio non era in grado di fornire contingenti così ragguar-
devoli come i Camptani, e quindi sarebbe convenuto in ogni caso
aggruppare i Comuni facendone distretti per la coscrizione e pel
tributo, di cui avrebbero dovuto essere a capo necessariamente fun-
zionari nominati dal governo centrale. Ne può far difficoltà l'unica
lingua del comando, laddove era tollerato l'uso della lingua indi-
gena nella vita municipale ; perchè non mancano analogie in eser-
citi moderni arrolati tra nazionalità disparatissime ; e ciò sebbene
i comandi e le istruzioni militari che oggi s' impartiscono siano
ancor più complicati di quelli dei Romani.
I cittadini senza suffragio non erano registrati in Roma nelle
liste degl'iscritti alla tribù, ma nelle tavole dei Ceriti od erari. Non
erano però tenuti a recarsi tutti personalmente in Roma davanti
ai censori per farsi segnare nei registri. Ciò dovevano fare sol-
tanto quelli che mancavano di propri magistrati, come fu stabilito
pei Campani nel 189 (1) ; e simile sarà stato p)robabilmente da
prima il caso degli Anagnini. Per gli altri dobbiamo ritenere che
in generale fossero censiti sul luogo da propri magistrati, even-
tualmente con la sorveglianza dei delegati del pretore urbano
{praefecti)^ e che le liste fossero poi passate ai censori di Roma.
Ciò sembra confermato non solo dall'esistere in Cere anche nell'etìi
imperiale un censore perpetuo (2), ma più dal fatto che i Campani
anche dopo il 211 credevano d'aver diritto ad esser censiti sul luogo
e convenne che una speciale deliberazione li chiamasse a tal uopo
in Roma. Non è dubbio del resto che nelle somme tramandateci
dei cittadini censiti sian compresi anche quelli senza suffragio;
altrimenti non si saprebbe spiegare l'altezza di quelle somme in
confronto con la piccola estensione del territorio abitato da citta-
dini con pienezza di diritti (3). Anche Fabio Pittore dando la lista
(1) Liv. XXXVIII 28, 4: Campani ubi censerentxr senatiiin consitluerunt. de-
cretum liti Romae censerentur. ibid. 36.
(2) CIL. XI 3616. 17.
(3) Beloch Bevolkerung I 318.
TAVOLE DEI CERITI. JIAGISTRATI MUNICIPALI 443
delle forze romane nel 225 non fa nessuna categ-oria a parte pei
cittadini senza suffragio; e mentre nota separatamente le forze
degli alleati a cominciare dai Latini, registra insieme, dandone
una sola somma. Romani e Campani (1); nella qnal somma è in-
dubitato che coi più importanti tra i cittadini senza suffragio, i
Campani, son compresi tutti gli altri.
L'ordinamento interno d'alcuni di questi Comuni ci è parzial-
inente noto, in quanto almeno essi dopo la guerra sociale non
modilicarono le loro istituzioni secondo lo scliema uniforme d'ordi-
namento elle s'introdusse allora pei Comuni romani. Sappiamo cosi
clie a Cere era a capo della città un dittatore (sopra p. 433). A capo
della lega campana fino al 211 è il " meddix tuticus ,, (2\ sotto cui
sono uno o più " meddices ,, per ciascuna delle varie città con-
federate (3); Cuma ha .due "meddices,, o, come poi presero a
chiamarsi in latino, " pretori „ (4) ; Anagnia dopo ricuperata, non
sappiamo quando, ma certo prima della guerra sociale, la sua- auto-
nomia, due pretori (5); Velletri due " meddices „ (6); Fundi, Formie
ed Arpino tre edili (7). Li vari Comuni poi della Sabina ricorre
come magistrato supremo un collegio d' " octoviri „ di cui due per
la giurisdizione, due per l'edilizia, due pel culto e due per la fi-
nanza (8). Questa grande varietà mostra che in parte sopravvissero
nei municipi le antiche magistrature locali e che negli sta'tuti mu-
nicipali Roma era affatto aliena dal cercare quella uniformità che
si studiò poi sistematicamente d'introdurre dopo la guerra sociale:
ma al tempo stesso si vede chiaro che nella compilazione di quegli
statuti non mancò d'influire largamente l'ordinamento romano, il
che spiega, per es., come quasi dappertutto ricorrano due edili e
due questori ricopiati sugli edili e sui questori romani.
Grià s'è detto che in alcuni municipi venivano inviati da Roma
dei prefetti (9). E incerto se in tutti. Non sajjpiamo, per es., se
(1) PoT.YR. II 24, U. Su questa lista v. oltre p. 462.
(2) Sul meddix della lega campana v. sopra p. 268 n. 2.
(3) Il meddix di Capua è ricordato presso Zveta.teff Syll. inscr. Ose. 41.
(4) CIL. X 3698, cfr. 3685.
(5) CIL. X 5919. 20. 25-29.
(6) ZvETAJEFF InHcr. It. med. dial. n. 46.
(7) CIL. X 6234. 35. 38. 39. 42. — X 6105. 08. — X 5679. 82. Crc. ad
fam. XIII 11.
(8) Testi p. e. presso Liebenam St&dteverwaltung p. 256 n. 3.
(9) Testo principale sulle prefetture è Fest. p. 233: praefecturae eae ajìpel-
lahantur in Italia in quihun et ina dicebatur et nundinae agehanfur et erat qiiaedam
earnm respublica neqiie tamen maffistratiin .luofi hahebant (tutto ciò è molto ine-
44:4: CAPO xxn. - il comuxe e lo stato nell'itali a unita
so ne mandassero a Velitre. Poteva farsene di meno in città pic-
cole situate a non grande distanza da Roma, in specie se le com-
petenze dei magistrati locali erano tanto considerevoli e tanto
scarsi i casi riservati al pretore o a' snoi delegati die fossero rare
le occasioni al suo intervento. Le prefetture, a cominciare dalla più
importante di esse che abbracciava tutto il territorio deirantica
lega campana con Cuma ed Acerra, non sempre comprendevano un
Comune solo. Nel distretto campano s'inviavano quattro prefetti
designati, se non in origine, almeno in decorso di tempo, dal suf-
fragio popolare, noti col nome di prefetti per Capua e i^er Cuma (1).
Disciolta la lega campana, questi prefetti ebbero gim-isdizione
sopra non meno di dieci centri nelle cui condizioni, rispetto a
Roma, era gran divario: gli uni privi di propria autonomia co-
munale, cioè Capua, Calazia e Casilino (2); altri in possesso delle
comuni franchigie municipali, cioè Cuma, Acerre, Atella e Sues-
sula, altri infine, cioè Puteoli, Volturno e Literno, colonie di citta-
dini romani dedotte dopo la guerra annibalica. Da questo distretto
all'infuori, il pretore urbano inviava prefetti di sua nomina nelle
altre prefettui-e, che avevano anch'esse di frequente una conside-
revole estensione. Cinque x^i'efetture abbracciava ad esempio il
territorio sabino, compreso il tratto sabino-vestino incori^orato nel
290, Nui'sia, Reate, Amiterno, Aveia, Peltuino (3). Il titolo di pre-
fettui'a rimasto a queste città fin nell'età imperiale, quando certo
non vi s'inviavano più i ^Drefetti, mostra che non possono essere
state effettive prefettui'e solo pel breve periodo tra il 290 e il 268,
anno in cui i Sabini ricevettero la cittadinanza con pieni diritti, e
che quindi, anche dopo mutate così le loro condizioni, essi conti-
satto), in quas legibus praefecti mittehantur quotannis qui iiis dicerent. quonon
genera fuerunt duo : alterum in quas solebant ire praefecti quaituor e riginti ftex
virum numero populi suffragio creati in haec opjjida : Capuani Cumas Casilinnm
Volturnum Liternum Pufeolos Acerras Suessulam Atellani Caìatiam : alterum in
quas ihant quos praetor iirhanus quotannis in quaeque loca miserai legibus ut
Fundos Formias Caere Venafrum Allifas Prirernum Anagniam Frusinonem
Reate Saturniam Nursiam Arpinum aliaque complura.
(1) Liv. IX 20. Cass. Dio LIV 26. CIL. XI 3717.
(2) MoMMSEN CIL. X p. 369.
(3) Per le due prime v. Fest. 1. e. — Amiterno, Mommsen CIL. IX p. 397. —
Aveia' p. 341. — Peltuinum p. 324 (sopra p. 360 n. 4). Oltre a queste e alle
prefetture menzionate da Festo, sono dichiarate esplicitamente prefetture Forum
Clodii (Plin. n. h. Ili 52. CIL. XI 3310 a), Statonia (Vitruv. II 7), Fulginium
(sopra p. 359 n. 4\ Atina {CIL. X p. 499), Casinum {CIL. X 5193. 941 A pre-
fetture nel Piceno accenna Caes. h. r. I 15.
PREFETTI. COMUNI CON DIRITTO DI SUFFRAGIO 445
nuarono ad esser giudicati dai delegati del pretore urbano (1).
Qualsiasi Comune pertanto o distretto di cittadini, in qualsiasi con-
dizione giuridica a fronte di Roma, poteva essere prefettura, e il
prevalere di questo termine sopra un altro i^er designare un Co-
mune o distretto non dipendeva clie dal caso e niun lume dà sul
suo essere preciso (2); solo è certo clie prefettm-e non possono essere
se non quei distretti che acquistarono i diritti cittadini pieni o
limitati prima della guerra sociale.
Quei Comuni i cui abitanti erano forniti della pienezza dei
diritti cittadini, chiamati probabilmente municipi solo ad imita-
zione degli altri dove non s'aveva il diritto di suffragio, gode-
vano prima della guerra sociale franchigie comunali minori che
non questi, compensate però dalla somma maggiore di diritti che
provenivano dal possesso integrale della cittadinanza romana.
Anche qui sopravvissero più o meno le antiche magistrature locali,
come in Aricia, Lanuvio e Nomento la dittatura (3), ma fornite
probabilmente, per ciò che s'appartiene alla giurisdizione, di co<m-
petenze assai minori, perchè piena doveva essere la latinizzazione
nel diritto, nelle istituzioni e nella lingua e quindi assai minore
la necessità dell'intervento di magistrati locali. Onde, se non ab-
biamo menzione di prefetti a Tuscolo, Aricia, Lanuvio, Laurento,
deve probabilmente cercarsene la cagione nella vicinanza di Roma
che permetteva di iDortar facilmente i piati innanzi al pretore
urbano. E come minore era l'autonomia nella giurisdizione, cosi
Ijiù limitate erano le competenze finanziarie dei magistrati locali.
Neppm-e doveva aversi un vero bilancio comunale, talché sembra
che perfino costruzioni d'interesse iDubblico non potessero farsi in
origine se non coi denari dell'erario romano e per ordine dei cen-
sori (4). Fa appena d'uopo notare che del diritto di batter moneta
(1) Così pine è probabilmente posteriore al 188, ossia alla concessione dei
pieni diritti di cittadinanza, il decreto in cui i conscriptes di Fondi, col con-
senso del prefetto, si nominano un patrono, CIL. X 6231.
(2j Così si spiej^a come nella lex lidia miinicipalis 1. 85 seg. quando si enu-
merano i centri dei cittadini romani si discorra di municipia coloniae praefe-
cturae fora conciliabiila, quantunque le prefetture siano comuni che spettano ad
una delle altre quattro categorie. — La prefettura nel senso di cui qui s'è par-
lato non deve confondersi del resto con quei vici fuori dei confini d'un dato
Comune, ma ad esso attribuiti e detti pur prefetture, nei quali i magistrati
comunali mandavano rappresentanti per esercitare la giurisdizione, v. Mommsen
Staatsrecht 111 769.
(3) V. 1 p. 423 n. 2.
(4; Liv. XLl 27. Mommsen Staatsrecht 11 429.
446 CAPO XXII. - IL COMUNE K 1.0 STATO XKLl/lTALIA UNITA
erano in tutto privi questi Comuni, mentre eccezionalmente se ne
conservava qualclie traccia nei municipi senza facoltà di suffragio.
I cittadini in possesso di questa facoltà esercitavano i loro di-
ritti x^olitici in Roma in forza della loro iscrizione nelle tribù. In
o-enerale quando s'incorporava un Comune nello Stato romano non
si creava per esso una nuova tribù (1): sarebbe stato dar troppa
importanza ai nuovi cittadini; e poi il distinguersi di tribù di
nuovi e tribù di vecchi cittadini poteva esser pericoloso per la
pubblica concordia. Nuove tribù non s' istituirono per solito se
non quando in un dato distretto s'erano fatte larghe assegnazioni
vintane ai cittadini romani. Invece 1 Comuni incorporati si ascris-
sero di regola a tribù vicine al loro confine: cosi Tuscolo alla
Papiria, Lanuvio alla Mecia, Alicia, alla Grazia, Priverno, quando
ebbe la piena cittadinanza romana, alla Ufentina. S'intende che non
fu questa ujia regola senza eccezione. Quando si diede la cittadinanza
con pieni diritti ai Sabini, si dovette non molto do^DO provvedere
alla creazione di due nuove tribù in quella regione, la Quirina,
in cui s'iscrissero quasi tutti i Comuni sabini, e la Velina, in cui
votarono specialmente i Picenti (2). Del resto in x^roceder di tempo
la contiguità locale tra i distretti, forniti o no d'autonomia comu-
nale, appartenenti ad una data tribù non potè più essere rigo-
rosamente mantenuta. Infatti a quel modo, mentre le tribù poste
alla periferia del territorio romano si dilatavano indefinitamente,
rimanevano stazionarie quelle x^oste nel centro, di guisa che tra
i vari collegi d'elettori si venivano a formare differenze notevoli.
E quantunque ciò nel tutt'insieme avvantaggiasse le condizioni
delle tribù x^oste al centro dello Stato, ossia delle più antiche, è
evidente che non si poteva, insistendo di soverchio in questo
modo di fare, introdiuTe fra le tribù Una disparità troppo stri-
dente. Cosi, x^er es., quando nel 188 si diede la cittadinanza con
Xileni diritti a Fundi ed a Formie, si iscrissero nella tribù Emilia,
quantunque non x^otesse estendersi in alcun modo fin là il terri-
torio della Emilia, una delle antiche tribù rustiche.
Le colonie cittadine (3), anche quando fu sux)erata \a difficoltà
(1) Belocu It. Bund p. 28 segg.
(2) Liv. epit. 18. Fest. p. 254. Sulla tribù Velina v. Kubitschek De Roman, tri-
buum origine ac proj). p. 25 seg.
(3) Beloch It. Bund p. Ili segg. Mommsen Staatsreclit IP p. 624 segg. Gli
ordini delle colonie cittadine per un'età alquanto più recente ci son noti dalla
legge rinvenuta ad Osuna (Tirso) della colonia Julia Genetiva, spettante all'a. 44
av. Cr., su cui vedasi soprattutto il magistrale commentario del Mommsex Gca.
Schriften I p. 194 segg.
('t)l.(K\'lK CITTA UIXE ■ 447
di conciliare il possesso dei diritti civici con l'autonomia comunale,
incontrarono al loro moltiplicarsi una difficoltà pratica che i Ro-
mani non superarono mai. L'esercizio reale dei diritti cittadini in
Roma andava infatti perduto per la maggior parte dei coloni,
quantunque in teoria si conservasse; e cosi fino alla guerra anni-
balica si dedussero sempre ijoclie colonie romane. I Romani stessi
preferivano d'essere inviati in colonie latine, perchè in compenso
dei diritti di cittadinanza che in effetto non avrebbero potuto
esercitare, acquistavano il diritto di costituire un proprio Stato au-
tonomo. Ma dopo la guerra annibalica, quando l'esser cittadino
romano portava con sé una quantità di vantaggi in specie finan-
ziari, anche se i diritti politici di fatto non si esercitavano, e quando
la condizione degli alleati si faceva sempre meno tollerabile e
sempre minor difesa trovavano contro gli atti d'arbitrio dei ma-
gistrati romani, pochi si poterono più acconciare a perdere i di-
ritti di cittadinanza romana per diventare cittadini d'una colonia
latina che di diritto era uno Stato sovrano, ma di fatto i)oteva
essere trattata come paese di conquista. Allora cominciò pertanto
una larga deduzione di colonie cittadine. Ma prima di quella
guerra le colonie di cittadini non furono che sette od otto e cioè,
oltre Ostia ed Anzio, Tarracina (329) nel paese dei Volsci., Minturne
e Sinuessa (296) nel paese degli Aurunci, Sena Gallica (289 circa)
nel paese dei Senoni, Castro Novo (289) nell'Etruria meridionale
e un'altra Castro Novo (264) nel Piceno (1). Tutte codeste erano
colonie marittime. Infatti mentre Roma aveva per terra un eser-
cito formidabile, non era possibile né conveniente che per mare
dipendesse interamente dal buon volere dei suoi alleati, onde le
convenne occupare una serie di porti per servirsene come base
d'operazione e arsenali per la sua marina militare. Quanto ai co-
loni stessi, troppo scarsi perché potessero bastare ai bisogni della
marina da guerra romana, servivano soltanto a occupare militar-
mente i porti che potevano esserle indispensabili.
Per la deduzione d'una colonia (2) si richiedeva una legge
speciale che determinasse il luogo, il numero dei coloni e la gran-
dezza dei lotti da distribuire. I magistrati incaricati di fondare la
colonia si eleggevano nei comizi, in generale in numero di ti-e
{triumviri coloniae dediicendae), ma talvolta anche in numero
assai maggiore. La deduzione si faceva con grande solennità. I
(1) Sulle due ultime v. sopra p. 368 n. 1.
(2) V. Marquarut L'ainmin. romanu I p. 133 segg. Rudori-i- Feldmesser II
p. 229 segg.
448 CAPO XXII. - IL COMUNE E LO STATO XKLl'itaLIA UNITA
coloni entravano in ordine militare sotto la guida dei triumviri nel
territorio ad essi destinato. Allora con rito solenne uno dei triumviri,
coperto il capo della toga, tracciava il solco del pomerio, ossia la
linea ideale che doveva separare la città dal contado, con un aratro
cui era aggiogato a- destra un toro, a sinistra una vacca. Si aveva
cura che la terra sollevata dall'aratro cadesse all'interno simboleg-
giando in certo modo l'elevazione delle mura: dove poi dovevano
corrispondere le porte o le vie uscenti da esse si alzava la stiva
dell'aratro, in modo che si avesse una interruzione del solco (1).
Gli agrimensori avevano già innanzi alla solenne fondazione mi-
surato e diviso il territorio a fine di preparare i lotti pei coloni,
prendendo per i3unto di partenza, quando il terreno era piano e
la città era da edificare di pianta, quel punto che doveva esserne
il centro. Di lì essi conducevano due linee che si tagliavano ad
angoli retti, una da occidente ad oriente, che si diceva decumano
massimo (2), la via principale, l'altra da tramontana a mezzo-
giorno, che era detta cardine massimo, dividendo così il terri-
torio della colonia in quattro quadrangoli. La colonia si conside-
rava come orientata verso occidente: la parte a settentrione del
decumano si chiamava destra, la ]Darte a mezzogiorno sinistra, la
parte ad occidente del cardine ulteriore {ultra Z;.), la parte ad
oriente citeriore {citra k.). Parallele alle due linee principali ne
erano condotte tante altre, dette genericamente limiti e specifica-
mente cardini o decumani, che s'intersecavano anch'esse ad angolo
retto (3). Fuori della città, per mezzo dei limiti, il territorio era
(1) Varrò de l. l. V 143. Dionys. 1 88. Ovm. fast. IV 825. Plut. q. R. 24. Fest.
p. 237. 302. Cass. Dio LXXII 15. Serv. Aen. V 755. Sul concetto del pomerio
V. 1 p. 188 seg.
(2) FuoNTiN. de limit. p. 27 seg.: limitum prima origo sicut Varrò descripsit
a disciplina Etnisca ab hoc fimdamento maiores nostri in agrorum mensura
videntur constituisse rationem, primo duo Umites duxenint , unum ab oriente in
occasum quem vocaverunt decimanum, alter nm a meridiano ad septentrionem quem
vocaverunt cardinem. decimanus autem dividebat agrum dextra et sinistra, cardo
citra et ultra. Che la colonia sia orientata verso occidente secondo la optima ac
rationalis agrorum constitutio si ha da Frontin. p. 31 e da molti altri testi. Non è
questo il luogo di insistere sulle alterazioni che subì di poi siffatta norma: delle
quali discute ottimamente il Valeton ' Mnemosyne ' XXI (1893) p. 410 segg.
(3) Per avere un'idea di ciò che fosse una colonia romana costruita di sana
pianta giova soprattutto studiare la pianta dell'antica Torino e quella del-
l'antica Aosta col sussidio degli scritti di C. Promis Storia dell'antica Torino
(Torino 1869) e Le antichità di Aosta ' Mem. dell' Accad. delle scienze di To-
rino ', ser. I t. XXI (1864) p. 2\
COLONIE CITTADINE 449
diviso in tanti quadrati di duecento iugeri in media per ciascuno,
detti centui'ie, che alla lor volta si dividevano in lotti {sortes) da
sorteggiare tra i coloni. Rimanevano indivise le parti boscose od
incolte {loca relieta od extra elusa) e le parti coltive che per la
conformazione del suolo non si erano potute sottoporre ad una
mism-azione precisa (subseeiva). Le origini di questo rito e di
questo modo di dividere i campi si riferivano dagli antichi alla
disciplina etrusca; né s'allontanarono essi dal vero, perchè le ter-
remare della valle del Po, che vanno ritenute d'origine etrusca
(sopra cap. TV), sono evidentemente fondate con riti assai simili a
quelli delle colonie romane (1).
I coloni, servendo a presidiare il luogo ove erano inviati, erano
esenti dal servizio nelle legioni {vaeatio rei ìnilitaris) e tenuti
invece in tempo di guerra a non allontanarsi più di pochi giorni
dalle mura delle colonie (2). Per la stessa ragione e perchè quando
queste furono fondate una marina militare romana o non esisteva
o era appena a' suoi primordi, erano anche esenti dal servizio ma-
rittimo. Queste che erano eque concessioni in origine, si trasforma-
rono in privilegi scevri d'ogni ragione d'essere quando, pacificata
appieno la penisola, le colonie avevano cessato di costituire dei
presidi nel iDaese vinto; e si dovette cercare, a partire dalla se-
conda punica, il modo d'abolirli o di ridurli (3).
Per ciò che s'appartiene alla misui'a d'autonomia concessa alle
colonie, essa era pari a quella dei municipi forniti di pieni diritti ;
per modo che com'essi le colonie potevano essere ordinate a pre-
fettura o incorporate nel distretto d'altre xjrefettm'e. I magistrati
supremi delle colonie, prescindendo dalla antichissima Ostia (4),
pare che in generale fossero due col titolo di pretori (5) o di
duoviri (6), titolo questo che divenne poi caratteristico dei Comuni
ordinati a colonia.
(1) V. anche sulla limitazione sacra I p. 304 seg.
(2) Liv. XXVII 38.
(3) Liv. 1. e. e XXXVI 3.
(4) Sui magistrati di Ostia v. I p. 384 n. 1. p. 405 n. 2.
(5) Così ad Osimo, CIL. IX 5838-41. 48. 45. 49, a Castrum Novum Piceni, CIL.
IX 5145, e a Capua dopo la colonizzazione dell'SS, Cic. de l. agr. II 31, 86.
(6) Così, almeno nell'età imperiale, ad Anzio, Cic. ad Att. II 6, 1. CIL. X
6661. 6680, Tarracina, CIL. X 6318. 30, Minturne, Vell. II 19. CIL. X 6012.
13. 15. 19, Sinuessa, CIL. X 4727. 36. 11 piìi antico documento in cui appaiano
magistrati col titolo di duoviri è la lex parieti faciundo di Puteoli del 105 av. Cr.
CIL.V-bll =X 1781.
G. De Sanctis, Storia dei Romani. II. '-^
450 CAPO XXII. - IL COMUNE E LO STATO NKLL'iTALIA UNITA
Municipi, colonie o prefetture son tutti distretti dello Stato ro-
mano aventi centri cittadini e in possesso di maggiore o minore
autonomia comunale. Ma vi erano molti altri distretti popolati di
cittadini romani, i cui abitanti senza avere un centro cittadino si
radunavano però in qualche punto del territorio che si designava
col nome di conciliabolo o di foro per provvedere ai loro interessi
locali, specialmente sacri, per tenere dei mercati, per ricevere co-
municazione delle leggi del popolo e degli ordini dei magistrati
romani (1). La prima menzione di essi è nella legge Petilia sul-
l'ambito del 358, che vietava ai candidati di accaparrarsi i voti
girando pei mercati e pei conciliaboli (2) ; legge che ha un con-
trassegno d'antichità in ciò ch'essa suppone non esservi ancora
che pochi municipi o nessuno nello Stato romano, come di fatto
nel 358 v'era quello solo di Tuscolo. Al tempo della guerra anni-
balica son ricordati quei conciliaboli che si trovavano entro un
raggio di cinquanta miglia attorno a Roma (3) con termini tali
da mostrare che già ve n'erano altri al di là. I più antichi conci-
liaboli debbono essere i distretti delle antichissime tribù rustiche ;
al di là se ne formarono dovunque si fecero in certa misura asse-
gnazioni viritane di territorio a cittadini, e moltissimi, per es., se ne
costituirono nella valle padana quando fu occupata dai Romani, ai
quali debbono la loro origine non pochi municipi di quella regione.
Privi affatto in origine di giurisdizione, i capi dei conciliaboli, i
magistri, dovettero necessariamente averne in certo grado quando
cominciarono a formarsene a grandi distanze da Roma, perchè
non era possibile obbligare i cittadini che abitavano nel Piceno o
sul Po a ricorrere per ogni minuzia al pretore urbano; e si aprì
per tal modo la via alla trasformazione dei conciliaboli, che spa-
ru-ono tutti sul chiudersi dell'età repubblicana o incorporati nei
Comuni jdìù vicini o riconosciuti come municipi, sia che si fossero
dato o no col tempo un centro cittadino (4).
,(1) Fest. epit. p. 38 : concili abidum locus ubi hi concilium convenitur.
(2) Liv. VII 15.
(3) Intra quinquagesimum lapidem, Liv. XXV 5.
(4) Beloch It. Bund p. 102 segg. Schulten in Pauly-Wissowa ' R.-E. ' IV
p. 779 segg. L'ultimo testo che menzioni i conciliaboli come esistenti è quello
della lex lulia mnnicijìalis, CIL. V 206. Per la loro sorte ulteriore cfr. Frontin.
' Gromat. ' p. 19: ea (Interamna) conciliahulum fuisse fertur et postea in mu-
nicipii ius relatum. p. 55 : sunt autem loca puhlica coloniarum uhi prius fuere
conciliàbula et postea sunt in municipii ius relata.
FORI E CONCILIABOLI. GLI ALLEATI ITALICI 451
Al pari dei conciliaboli dall' assegnazione viiitana sorsero i
fori, ma non spontaneamente come in genere quelli, né per deli-
berazione del senato e del poi)olo, come le colonie, si per opera
del magistrato cui era affidata l'assegnazione. E cosi portano in
generale, a cominciare dal più antico, il Foro d'Appio, che prese
nome dal censore Appio Claudio Ceco, il nome del fondatore, che
li costituì come stazioni postali e come mercati presso le grandi
vie: in modo clie hanno sempre un rudimento almeno di centro
cittadino, e possono dirsi colonie costituite con minore solennità,
a differenza dei conciliaboli cui somigliano del resto per le istitu-
zioni e per la storia (1).
Da Rimini e da Pisa sino allo stretto di Messina, quelle città
e quelle popolazioni che non fanno parte dello Stato romano sono
però alleate con esso (2). Ma la federazione che si raccoglie attorno
a Roma ha questa nota caratteristica, che i singoli alleati non sono
stretti da alcun legame federale tra loro: il solo legame che li
unisce è il iDatto d'alleanza che ciascuno di essi ha con Roma. Tra
l'uno e l'altro di tali patti corre molto divario secondo che i con-
traenti si sono alleati spontaneamente con Roma o vi sono stati
costretti per forza d'armi, e secondo la loro potenza e i maggiori
o minori riguardi che Roma credeva opportuno d'usare.- Ma nel
tutt'insieme i trattati d'alleanza dei Romani possono dividersi in
due categorie : trattati con parità di diritti {foedera aequa) e trat-
tati con diseguaglianza di diritti. Nei primi, teoricamente parlando,
non si afferma punto la supremazia di Roma sulla città alleata;
negli altri la supremazia romana è apertamente riconosciuta (3).
La differenza di fatto più rilevante ammessa da alcuni (4) tra le
due categorie di trattati, è che i primi son solo leghe difensive
come il trattato di Cassio. Ma par difficile a credere che i Romani
quando più ebbero bisogno di forze nella lotta pel jirimato d'Italia,
(1) Beloch It. Band p. 108 segg. Fest. p. 84: forum... negotiatoris est locus
ut Forum Flaminium, Forum Icilium ab eorum nominibus qui ea fora consti-
iuenda curarunt. — Nella Gallia Cisalpina si trovano in generale come magi-
strati dei fori i li viri i. d.; e quindi almeno colà i fori debbono aver goduto
una parziale autonomia giudiziaria.
(2j Beloch Ital. Band p. 194 segg. Makquardt Amm. Romana I p. 47 segg.
Madvig Verfasfiung und Verwaltung p. 39 segg. Mommsen Staatsrecht III 645 segg.
(3) Con la formula maiestatem populi Romani comiter conservanto. Id habet
hanc vim (così Cic. prò Balbo 16, 35) ut sit ille (l'altro contraente) in foedere
inferior.
(4) Come il Beloch It. Band p. 197.
452 CAPO XXTI. - IL COMUNE E LO STATO NELL'iTALIA UNITA
si siano appagati di pattuire la pura difesa del loro territorio. Se
a condizione di semplice difesa reciproca patteggiarono talora i
Romani con alcuni alleati fuori d'Italia (1), nulla ]duò inferirsene
rispetto agli alleati italiani: perchè il fulcro della potenza militare
romana fino ad Augusto rimase l'Italia. Ne del resto la ilarità di
diritti era teoricamente menomata dall'obbligo di cooperare non
solo alla difesa, ma anche alla offesa, perchè questo era reciproco.
S'intende che in fatto la facoltà di guerreggiare per proprio conto
e d'invocare in tal caso l'aiuto romano, se non in origine, certo
in proceder di tempo divenne illusoria, quando le città che gode-
vano di questo dhitto rimasero circondate da territorio romano o
d'alleati romani. Pochi del resto sono i trattati con parità di di-
ritti di cui abbiamo menzione, cioè quelli soltanto con Camerino
e con Eraclea (2), ai quali deve probabilmente unksi il trattato con
Napoli, che, sebbene la obbligasse a partecipare alle guerre offen-
sive dei Romani (3), era tanto favorevole da lasciar persino dubbiosi
i Napoletani al tempo della guerra sociale se non fosse preferibile
alla stessa cittadinanza romana (sopra p. 301).
Gli alleati italici erano soprattutto tenuti ad inviar contingenti
all'esercito romano. La misura precisa dei loro contingenti dev'es-
sere stata determinata o dal trattato j^rimitivo o per mezzo di
convenzioni successive nell'interesse degli alleati pei quali sarebbe
stato un sacrifizio troppo gravoso, come del resto superfluo nel-
l'interesse dei Romani, quello di venire al soccorso con tutte le
loro forze. Dalla determinazione del contingente si poteva pre-
scindere per gli alleati tenuti soltanto a concorrere alla guerra
difensiva, al cui aiuto di fatto non si ricorreva che eccezionalmente,
ossia per gli alleati che ebbero di poi i Romani fuori d'Italia.
Quanto agli alleati italici, per fissare la misura delle truppe ausi-
liarie che avevano a fornire, si potevano obbligare a contribuire
all'esercito federale con una data percentuale della intera popola-
zione 0 degli adulti tenuti al servizio militare (4). Ma questo pre-
supponeva, oltre a censimenti forniti con unità di criteri, inge-
(1) Così nel 105 con Astipalea, /. Gr. Ins. Ili 173, v. anche CicnoRius
' Rh. M. ' XLIV (1889) p. 444 segg.; così pure con Metimna, J. Gr. Ins. U 510.
(2) Il primo sanctissimum atqiie aequissiinum secondo Cic. prò Balbo 20, 46
(v. sopra p. 331 n. 2), il secondo prope singulare, ibid. 22, 50 (sopra p. 411 n. 3).
È nota la iscrizione onoraria posta nel 210 d. Cr. dai Camerti a Settimio Severo
iure aequi foederis sibi confirmato, CIL. XI 5681.
(3) PoLYB. I 20. Cfr. sopra p. 301 n. 4.
(4) Su ciò V. soprattutto Beloch 1. e.
OLI ALLEATI ITALICI 453
renza dell'aTitorità centrale nel censimento, perchè il singolo Stato
avrebbe potuto far comparire le sue forze inferiori al vero per
riduiTe i suoi doveri federali. Ora, sia l'unità di criteri nel censi-
mento sia la sorveglianza romana, avrebbero ristretto d'assai la
piena sovranità degli alleati, e però si preferì di stabilire una
volta per sempre la somma massima dei soccorsi che ciascuna città
alleata doveva fornire (1). Ciò non toglieva che a quando a quando
Roma d'accordo coi singoli Stati alleati potesse procedere alla
revisione di quelle liste. Una di queste revisioni ebbe luogo nel 225
in occasione del pericolo della guerra gallica, e i risultamenti ne
son conservati da Polibio, che li attinse da Fabio Pittore (2). In-
fatti doveva accadere che si avverassero accrescimenti o diminu-
zioni delle forze dei singoli alleati. Nel 177 ad esempio i Sanniti ed
i Peligni mossero lagnanze che 4000 loro famiglie si erano stabilite
a Fregelle (ricevendovi, come par detto implicitamente, la cittadi-
nanza) e che tuttavia il loro contingente non era stato ridotto né
quello dei Fregellani accresciuto (3). E tuttavia le revisioni, seb-
bene indispensabili, non si potevano fare che di rado e quando
gli alleati stessi le avessero accettate (4), il che in generale non
si dava se non in caso di qualche gravissimo pericolo comune. È
quindi i)robabile che la revisione del 225, almeno come revisione
collettiva, sia stata la prima e l'ultima. Degli eserciti alleati sin
dalla fine del sec. V il comando spettava sempre ai supremi magi-
strati romani, perchè la lega italica, come non aveva proprie as-
semblee, cosi non aveva altri magistrati federali che i consoli e i
pretori romani e poi anche i quattro questori classici che si isti-
tuirono nel 267 per le cose navali (5) ; e questi pm-e solo in quanto
(1) La lista di questi contingenti era detta la formula dei togati. Gli alleati
si chiamavano ufficialmente sodi nominisve Latini quibus ex formula togatorum
milites in terra Italia inperare solent, v. la legge agraria del 111, CIL. ^ 200
V. 21. 50. Cfr. Liv. XXII 57, 10. XXVII 9, 3.
(2) PoLYB. II 24. MoMMSEN Rom. Forschiingen li 382 segg. Beloch Bevolkerung I
p. 353 segg.
(3) Liv. XLI 8, 8 : Fregellas quoque milia quattuor familiarum transisne ab se
Samnites Paelignique querebantur neque eo minus aut hos aut illos in dilectu mi-
litum dare.
(4) Ossia, secondo l'espressione consacrata per la libera adesione ad una
legge 0 disposizione romana, si funài facti essent. Per la frase cfr. Cic. prò Balbo
8, 21. Fest. s. V. fundus.
(5) Lyd. de mag. I 27. Cfr. Tac. ann. XI 22. Liv. epit. 15. Momusen Staatsrecht
Il •■' p. 570 segg.
45J: CAPO XXII. - IL COMUNE E LO STATO NELLlTALIA UNITA
presiedevano alle guerre comuni. Gli alleati del resto erano tenuti
non solo a fornire milizie di terra, ma anche in parte ad armare
navi, di cui il numero e la qualità erano precisamente regolati (1).
Si fa questione se quelli clie avevano l'obbligo di allestir navi do-
vessero altresì inviare truppe di terra. Ma sebbene per questo ri-
spetto non si abbiano clie scarse informazioni, saj)piamo clie alcuni
alleati, come i Sallentini, erano tenuti alFuna cosa ed all'altra (2).
E Roma j)oteva inoltre servii'si per mare delle forze degli Italici
anche se il loro trattato non li obbligava a fornire navi da guerra;
si poteva infatti chiedere alle città marittime che invece del loro
contingente militare inviassero ciurme altrettanto numerose per
le navi (3), il che è probabile abbiano preferito, e per la più lieve
spesa e pel minor disagio che recava alla classe possidente, gli
stessi alleati. Cosi si spiega l'espressione " soci navali „ con cui s'in-
dicavano gli equipaggi delle navi da guerra, onde risulta che vi
era un tempo in cui le ciurme si componevano soprattutto d'alleati.
In caso di guerra, il governo romano indicava agli Stati alleati
la quantità di soldati da inviare, il dove e il quando; e quegli Stati
dovevano provvedere ad arrolarli, ad equipaggiarli e a stipen-
diarli (4), e in cambio erano liberi da qualsiasi tributo e in pos-
sesso della ]3Ìù piena autonomia finanziaria. I contingenti federali,
a differenza di quelli dei municipi, formavano distaccamenti sepa-
rati (cohortes) al comando di ufficiali appartenenti agli Stati che
li inviavano; queste coorti si aggregavano in ale forti all'incirca
quanto la legione romana cui ciascuna ala veniva unita, e i con-
soli designavano a capitanarle tre ufficiali romani per ala col
nome di prefetti dei soci (5). Ciò si conciliava perfino con l'esistenza
(1) Cic. Verr. V 19, 50: Mamertinis in ipso foedere sanctum utque praescriptum
ut navem dare necesse sit. V 24, 60: sumptum omnem in classem frumento sti-
pendio ceterisque rebus suo quaeque navarcho semjìer civitas dare solebat ... erat
hoc ut dico factitatum semper ... etiam in sociorum Latinorum stipendio ac sumptit
tum cum illorum auxiliis uti solebamus.
(2) PoLYB. II 24, 11. Liv. XLII 48. Della cosa giudica rettamente Beloch It.
Bund p. 207.
(3) Liv. XLII 27. 31.
(4) PoLYB. VI 21, 5 : ai bè iróXeK; ^KTréiuTrouaiv dpxovTO auoxriaaaai koì
luiaBobÓTiiv.
(5) Tre parrebbero almeno stando alla lettera di Polyb. VI 26, 5. Il Mommsen
suppose con qualche ragione che fossero sei come i tribuni della legione,
Staatsrecht III p. 675 n. 1. Sull' ordinamento militare dei soci v. Marquardt
Staatsverwaltung II ^ p. 389 segg. Madvig Verfassung und Verwaltung II 520 segg.
GLI ALLEATI ITALICI 455
di trattati a parità di diritti ; perchè le alleanze affidavano sempre
il comando a quel popolo per cui conto si combatteva; e le con-
dizioni di fatto erano tali che sempre la guerra era mossa dai Ro-
mani o contro i Romani.
Questione grave e controversa rispetto agli alleati di Roma è
quella del loro diritto di batter moneta. Non è sicuro che questo
venisse tolto agli alleati quanto ai metalli preziosi intorno al 268,
quando cominciarono a coniar moneta d'argento anche i Romani (1) ;
e pare dimostrato anzi che qualche città alleata abbia continuato
a batter moneta d'argento anche dopo quella data. Ad ogni modo
non par che potesse trattarsi d'una imposizione di chiuder le zecche
locali. Si debbono esser chiuse presto o tardi di per sé, poiché la
moneta romana, ricevuta natiu^almente dappertutto e in isxjecie
dov'erano eserciti romani, eliminava dal mercato la moneta delle
città alleate; e cosi non trovando queste abbastanza rimunerativa
l'emissione di moneta in metallo prezioso, cessarono in generale
di batterne limitandosi alla moneta divisionaria opportuna per
l'uso locale.
La maggior parte delle città alleate erano libere da presidi ro-
mani tranne il caso che ne facessero richiesta esse stesse. Alcune
peraltro, meno favorite dalle loro convenzioni con Roma, erano
permanentemente presidiate, come Taranto, e sempre, a richiesta
del senato, erano tenute a fornù-e a Roma ostaggi (2). Anche delle
grandi strade militari romane le più antiche fm^ono aperte, tolti
piccolissimi tratti, in territorio interamente romano, come l'Appia,
o in teiTitorio in parte romano, in x^arte di colonie latine; né per
tal rispetto le cose cambiarono che dopo la guerra annibalica.
Pel resto la sovi^anità degli Stati alleati era limitata soprattutto
in questo che, sorgendo litigi tra l'uno e l'altro, il tribunale arbi-
trale non poteva essere che quello di Roma (3). E inoltre , non
tanto in forza della lettera delle convenzioni, quanto per la supre-
mazia che di fatto Roma esercitava su tutti gli alleati , quando
concludeva trattati con una potenza estera, li stringeva anche a
nome di quelli ; di che primo esempio è la convenzione tra Roma
(1) MoMMSEN Rom. Milnzwesen p. 317. V. però le riserve del Beloch It. Burnì
p. 213. Sul prolungarsi p. es. della monetazione napoletana entro il sec. Ili
V. Evans Horseman of Tarentum p. 171.
(2) V. sopra p. 419 n. 2 e p. 421 n. 4.
(3) V. De Ruggiero L'arbitrato pubblico in relazione col privato presso i Ro-
mani (Roma 1893) p. 68 segg. 268 segg.
456 CAPO XXII. - IL COMUNE E LO STATO NELL'iTALIA UNITA
e Cartagine conclusa circa la metà del IV sec. av. C. Altra limi-
tazione alla sovranità degli alleati era che non avevano facoltà
di stringere accordi politici o commerciali tra loro, salvo i pocliis-
simi in possesso di trattati a parità di diritti, pei quali del resto,
pochi e isolati com'erano, tale facoltà riusciva del tutto illusoria.
Cosi è probabile che se a Fregelle si accolsero nella cittadinanza
tutti quei Sanniti e Peligni che vi si stabilirono sul principio del
sec. n, non fosse in forza d'un trattato, ma solo j)er la tolleranza
dei magistrati locali: tolleranza non irragionevole, perchè la pre-
senza degli immigranti rendeva meno gravoso l'adempimento dei
doveri federali verso Roma. Come la cittadinanza, cosi il dii^itto
di possedere e la facoltà di connubio poteva verisimilmente essere
accordata a piacimento a chicchessia da città alleate, in qualunque
condizione esse fossero, nella loro qualità di Stati sovrani; ma è
difficile ammettere che fosse loro concesso di concludere a vicenda
trattati in materia, che avrebbero permesso d'unirsi più strettamente
tra loro che con lo Stato romano (1). Con privilegi individuali è
quindi da spiegare come il poeta Pacuvio, che era un Latino di
Brindisi, fosse figlio d'una sorella del poeta Ennio, nativo della
città alleata di Rudie; e in modo analogo come il poeta Archia
difeso da Cicerone avesse avuto prima della guerra sociale la cit-
tadinanza in Napoli, Eraclea, Regio e Taranto (2), città di cui se
le due prime avevano trattati favorevoli con Roma, l'ultima invece
aveva dovuto accordarsi a condizioni assai umilianti.
Nel diritto civile e negli ordinamenti interni in generale gli
alleati godevano piena indipendenza, né ci risulta che i Romani
prima della guerra annibalica vi s'ingerissero, almeno diretta-
mente (3). S'intende che gli amici zelanti di Roma, se tendevano
a trasformare il governo in modo che vi avesse parte soprattutto
(1) Credo che in questo senso debbano limitarsi le asserzioni del Beloch
It. Bund p. 221. Di notizie esplicite in materia non abbiamo che quella di
Liv. Vili 14 (a. 338) : ceteris Latinis popidis (deve intendersi quelli a cui fu
lasciata l'indipendenza) conubia commerciaque et concilia inter se ademerunt
(ossia abolirono i trattati che li legavano scambievolmente); e l'altra pur di
Livio IX 43, 23 (a. 306): conubiumque inter ijìsos (Alatri, Ferentino e Veroli)
quod aliquamdiii soli Hernicorum habuerunt permissum; ossia aboliti i trattati
scambievoli d'alleanza e di commercio fu riconosciuta la facoltà di connubio
tra essi nel trattato che ciascuna di queste città segnò con Roma.
(2) Cic. prò Arch. 3, 5.
(3) Ciò s'esprimeva dicendo che agli alleati era concesso suis legibus uti,
V. Liv. TX 43, 23. XXIX 21, 7. Mommsen Staatsrecht III 692 n. 1.
OLI ALLEATI ITALICI 457
la classe possidente, potevano sempre contare sull'appoggio indi-
retto dei Romani; e del resto non è impossibile che qualche ri-
forma a favore di quella classe s'introducesse quando si stringeva
il patto d'alleanza. Che se una prova della cautela usata per questo
rispetto dai Romani è nell'essersi talora conservate anche costitu-
zioni democratiche, come a Nola fino al 216 (1), ciò non esclude
che gli alleati stessi venissero lentamente modificando i loro or-
dinamenti sull'esempio di quelli di Roma, adottando a poco a poco
gli edili, i censori, i questori, i iDretori e fìnanco i tribuni della
plebe e ricopiando in generale dal romano il loro diritto pub-
blico e privato (2).
Ciò che spiega la saldezza dell'alleanza è che, mentre richiedeva
relativamente pochi sacrifizi e rispettava quanto era possibile le
tradizioni di autonomia, guarentiva anche vantaggi non lievi. Un
vantaggio ragguardevolissimo era per esemx)io la parte che si
aveva al bottino. Come pel trattato cassiano ai Latini toccava nella
preda una parte eguale a quella dei Romani (3), cosi, anche abo-
lito quel trattato, i soldati romani non ebbero fin dopo la guerra
annibalica nessmi privilegio pel bottino a confronto degli alleati (4).
Invece per ciò che si riferisce ai territori confiscati, essi, doiDO che
cessò d'aver vigore il trattato di Cassio, furono incorporati normal-
mente allo Stato romano, quando il popolo non avesse deliberato
di ordinarli a colonie latine. E tuttavia anche per questo rispetto
non si trascurarono al tutto i commilitoni italici. Alle colonie latine
essi ebbero facoltà di i^render parte come i cittadini romani (5); e
anche alle colonie cittadine pare che potessero essere iscritti se non
tutti, almeno quegli alleati a cui Roma aveva fatto migliori con-
dizioni (6). Inoltre di essi si tenne conto qualche volta pur nelle
assegnazioni vmtane (7). E infine alla occupazione di agro pub-
blico non assegnato parteciparono i Latini e gli alleati al pari
(1) Liv. XXIII 17.
(2) Esempio caratteristico della trasformazione delle istituzioni nelle città
alleate ad imitazione di Roma è la legge osca della città federata di Banzia
nella Lucania, Zvetajeff Syll. inscr. Oscantm p. 75 segg., dove sono appunto
ricordate tutte quelle magistrature.
(3) V. sopra p. 97 seg.
(4) Liv. XL 43, 7. XLl 7, 3. Il primo esempio di trattamento diseguale è
del 177, Liv. XLI 13, 8.
(5) P. es. Liv. XXXIIl 24.
(6) Liv. XXXIV 42.
(7) Liv. XLII 4, 4.
458 CAPO XXII. - IL COMUNE E LO STATO NELL'iTALIA UNITA
dei cittadini romani, come risulta dalla agitazione che provocò tra
essi la legge agraria di Ti. Grracco (1). Queste occupazioni del resto
provano che gli alleati avevano coi Romani, almeno parzialmente,
facoltà di commercio. Certo il i3Ìeno diritto di commercio come
quello di connubio non era in generale concesso agli alleati ro-
mani in forza dei trattati (2) ; ma molte concessioni di tal fatta
largite in via di privilegio a singoli individui o a singole città
servirono a legarli maggiormente agli interessi di Roma.
Le città latine che pel trattato cassiano erano entrate colletti-
vamente in lega a parità di diritti con Roma, rescisso quel trat-
tato nel 338, furono o incorporate nel territorio romano o ridotte
in condizioni per qualche rispetto inferiori a quelle delle altre
città alleate. Disciolta tra esse ogni lega, furono infatti non solo pri-
vate del diritto di stringere accordi tra loro, ma x^ersino, in modo,
com'è da credere, transitorio, del vicendevole connubio e com-
mercio (3) : patti in cui s'esprimeva chiaro il riconoscimento del-
l'alta sovranità di Roma. La medesima condizione di Tivoli, Pre-
neste e Cora si fece alle colonie che Romani e Latini avevano
fino allora fondato insieme e alle colonie dedotte d'allora in poi
con diritto latino per iniziativa di Roma, come pure, dopo la dis-
soluzione della lega ernica, alle città di Alatri, Ferentino e Veroli (4).
Ma se i Latini erano per qualche rispetto inferiori, per altri erano
d'assai superiori ai rimanenti alleati. Li legava più strettamente
(1) App. b. e. I 36, cfr. Cic. de re p. Ili 29, 41.
(2) Veramente le nostre testimonianze su ciò son dell'età imperiale: Gai. II
110: cum alioquin peregrini quidem ratione civili prohibeantur capere heredi-
tatem legataque. Qlpian. 5, 4: conubium habent cives Romani cum civibus Ro-
manis, cum Latinis autem et peregrinis ita si concessum sit. 19, 4: manciptatio
locum habet inter cives Romanos et Latinos eosque peregrinos quibus com-
mcrcium datum est. Però di fatto agli alleati italici tale privilegio doveva es-
sere dato frequentemente, cfr. Diod. XXVII 15 nel suo racconto della guerra
sociale: auxvoùq bè oÌKeiouq koì auYTeveli; KaTCvóouv ouq ó ttì<; liriyaiuia^ \o\xoc,
è-rreiToiriKei Koivuuvfiaai Tf)<; TOiauTn<; qpiXia^. Con Diodoro s'accordano le espres-
sioni più generiche di Cic. de re p. II 37, 63: diiunctis popnlis tribui solent co-
nubia e di Liv. IV 3, 4.
(3) Sopra p. 280 n. 1.
(4) Testimonianza esplicita abbiamo solo per la latinità di Ferentino (Liv.
XXXIV 42, 5); ma è da credere che le altre due città fossero nelle medesime
condizioni. Il Mommsen Staatsrecht III 622 ritiene che a parecchie città italiche
prima della guerra sociale siano stati concessi i diritti latini, e un indizio se
ne trovi nelle monete battute con leggenda latina ; l'indizio e di scarso valore,
e la ipotesi par priva di fondamento.
I LATINI 459
a Roma e li rendeva più. sicuri di riguardi da parte dei Romani
prima di tutto il sentimento che nasceva dairaffinità della stirpe,
delle istituzioni e delle fortune, e dall'esser Roma la madi-epatria
della maggior parte delle città latine indipendenti, che erano ap-
punto quasi tutte colonie ; talché anche quando per l'appresso più
pesò sugli alleati la prepotenza romana, a L. Opimio che nel 125
distrusse Fregelle non si volle concedere il trionfo, mettendo la
sua vittoria a pari di quelle riportate nelle guerre civili per cui
il trionfo non si dava (1). Conferivano a rincalzare quel senti-
mento ragioni d'interesse, perchè a nessun Romano rimaneva na-
scosto quanto vigore traesse Roma dalla inconcussa fedeltà dei La-
tini ; e anche ai Latini giovava sommamente di stringersi a Roma,
sia perchè le loro città, fondate per la più parte in territorio tolto
dai Romani al nemico , nell'aiuto romano avevano la guarentia
della esistenza, sia pei loro privilegi personaK che risalivano ad
età più antica ijersino del trattato di Cassio, ma che in proceder
di tempo, col crescere della j)otenza romana, avevano acquistato
un'importanza che in origine nessuno poteva prevedere (2). I La-
tini possedevano infatti piena facoltà di connubio e di commercio
coi Romani, fino al punto che potevano adottare un Romano ed
esserne adottati, ereditare per testamento e possedere nel territorio
romano beni stabili con diritto quiritario. Ma il privilegio princi-
pale dei Latini era la facilità con cui potevano acquistare il di-
ritto di cittadinanza in Roma. Questo privilegio era ben lontano
dall'avere in origine il valore che ebbe di poi; tanto che persino
nella guerra annibalica una coorte prenestina rifiutò la offertale
cittadinanza romana (3). Ma era sem.pre non piccolo vantaggio per
quei Latini che, prendendo per qualsiasi ragione domicilio in Roma,
divenivano con ciò stesso cittadini romani, e non avevano che a
dichiarare dinanzi al censore la loro latinità e il fatto del domi-
cilio preso in Roma per essere registrati nelle liste dei cittadini
con pieni diritti. V'era certo per questo rispetto piena reciprocità,
nel senso che un Romano stabilitosi a Preneste o a Tivoli dive-
niva del pari cittadino prenestino o tiburtino. Ma tale reciprocità
se compensava in origine il privilegio in Roma, divenne quasi del
tutto illusoria «pando Roma soverchiò di gran lunga col suo me-
raviglioso sviluppo le altre città latine; e non le rimase una certa
(1) Val. Max. II 8, 7. Mommsen Staatsrecht P p. 133 n. 1.
(2) V. I p. 388.
(3) Liv. XXIII 20.
460 CAPO xxn. - il comune e lo stato nell'ttalia unita
importanza se non nel caso di quei Romani che credevano bene di
volger le spalle alla patria per timore di condanna, per evitare per-
secuzioni politiche o per trarsi da un malessere economico che non
valessero a sopportare. Questo privilegio latino, dal quale, checché
abbiano creduto alcuni moderni, erano affatto esclusi gli alleati ita-
lici (1), poteva coU'andar del temjDO divenire persino pericoloso al
buon ordine in Roma; e tuttavia non aveva in origine che un li-
mite, in quel diritto che ha sempre avuto ogni Stato d'espellere
sommariamente per pro"\'^edere all'ordine pubblico i non cittadini,
che in Roma s'applicava tanto agli altri peregrini, quanto ai La-
tini non ancora iscritti nelle liste civiche (2). S'introdussero poi
altri limiti che tendevano a menomare o ad annullare il privilegio,
ma ciò non fu che dopo la guerra annibalica. Quelle espulsioni
IDoliziesche i^otevano rendere inefficace anche l'altro privilegio dei
Latini, x>ur ragguardevole, tuttoché praticamente assai meno im-
portante del primo, per cui, anche senza ])ossedere la cittadinanza,
quando si trovavano in Roma avevano diritto di voto nei comizi
in un collegio che si sorteggiava volta per volta.
Le colonie latine (3) si distinguevano dalle antiche città latine
solo per la loro origine e perchè la loro costituzione s'accostava
di più a quella di Roma. Cosi invece del dittatore ebbero come
magistrati supremi usualmente due pretori; il loro consiglio co-
munale fu detto in generale senato; la divisione più usuale del
popolo pare fosse in trenta curie; e alle liste civiche provvidero
come in Roma dei censori. Assai intensa fu in Italia la coloniz-
zazione latina. Mentre fino al principio delle guerre puniche non
furono fondate che sette od otto colonie romane, se ne istituirono
non meno di 25 latine: e mentre nelle romane s'inviavano, pare,
trecento coloni per ciascuna, nelle latine se ne conducevano in
generale di più. Certo non tutte le notizie che si hanno in materia
son degne di fede. Ma da quando aijpaiono tali , i coloni latini
sono talora in numero di 2500 come per Cales e Lucerla (4), talora
di 4000 come a Interamna sul Liri, a Sora ed a Carseoli (5), ta-
lora di 6000 come ad Alba Fucente (6). E si parla persino di 20 mila
(1) MoMMSEN Staatsrecht III 637 n. 2
(2) Cic. j?;ro Sest. 13, 30: ni}iil acerbius sodi et Latini feì-re soliti siint guani se,
id quod perraro accidit, ex nrhe exire a consulihns iuhevi. È noto il caso del 122.
(3) Beloch It. Btind p. 135 segg. Marquardt Amm. romana I 51 segg.
(4) Liv. VIII 16. IX 26.
(5) Liv. IX 28. X 1. 13.
(6) Liv. X 1.
I LATINI. - LEGHE 461
coloni inviati a Venosa (1) : il numero dei quali potrebbe essere
alquanto esagerato, ma potrebbe anche spiegarsi con la importanza
grandissima di quella posizione. Quanto all'area occupata da tutte le
colonie latine dedotte lino al jìrincipio della prima punica, comprese
le antiche città latine che s'erano conservate autonome, essa può-
computarsi a un dodicimila km"^ area assai considerevole che corri-
sponde alla metà circa del territorio romano xjroprianiente detto.
Tra le città latine come tra le città erniche non sussisteva più
alcuna lega. Se pui-e gii Umbri avevano mai costituito una lega,
questa non esisteva più quando si allearono con Roma. Le leghe
tra i Sabini, i Pretuttii ed i Picenti debbono essere state natural-
mente disciolte quando (salvo Ascoli) fm'ono incorporati nello Stato
romano. Invece i Marrucini, i Peligni, i Marsi, i Vestini e i Fren-
tani sembra si sieno uniti a Roma non coi singoli loro Commii,
ma come altrettante leghe. Lo stesso pare debba dii'si di Nuceria
con le città ad essa alleate (sopra p. 268). Nel Sannio, disciolta
la grande lega sannitica (2), rimasero due almeno delle leghe
minori che la costituivano, quella degli L;pini, che tutti insieme
si ribellarono nella guerra annibalica e tutti insieme presero poi
parte alla guerra sociale, e quella dei Pentri, cui si applicò spe-
cialmente d'allora in x^oi il nome di Sanniti. Invece i Caudini si
scissero, pare, in tanti Comuni, ognuno dei quali strinse sepa-
ratamente alleanza con Roma. Qualche menzione posteriore dei
Caudini x)ar debba iDrendersi in senso etnografico o riferirsi esclu-
sivamente a Caudio. Anche i Lucani continuarono a costituù'e una
vasta lega, che però col tempo, nel corso delle guerre puniche, o
fu disciolta o perdette ogni importanza (3). Il Bruzio pur esso era
entrato come confederazione di dodici distretti con capitale a Con-
senzia nell'alleanza romana, ma la lega non dui'ò che fino a quando
il paese perdette la sua indipendenza i3er effetto della guerra an-
nibalica. Quanto alla Apulia, nella parte settentrionale non vi esi-
steva più, pare, alcuna lega quando essa entrò in relazione con
Roma. Una lega abbastanza compatta esisteva invece a mezzo-
giorno tra i Sallentini, come par provare la loro tenace resistenza
a Roma ; ma sembra che anche questa lega sia stata disciolta
quando essi dovettero allearsi con i Romani. Infine la lega etrusca,
che solo nella seconda metà del IV secolo acquistò anche impor-
(1) DioNYS. XVI-XVII 5. Cfr. sopra p. 363 n. 3.
(2) V. sopra p. 420.
(8) Ciò risulta dalla iscrizione di Banzia citata s. a p. 457 n. 2. Cfr. Beloch
It. Bund p. 172.
462 CAPO XXII. - IL roMuxE E LO STATO xell'italia uxita
tanza politica, non sappiamo se fosse disciolta dai Romani, certo
se si conservò sopravvisse soltanto come lega religiosa. Nell'età
imperiale sussisteva una lega unicamente religiosa di non più do-
dici, bensì quindici popoli d'Etruria, clie tutti avevano la cittadi-
nanza romana; ma non sappiamo se fosse una sopravvivenza del-
l'antica lega etrusca ovvero se l'avesse ricluamata artificiosamente
in vita Augusto, conforme a ciò clie tentò sj^esso con le vetuste
istituzioni religiose (1).
Gli alleati italici, per agevolare la coscrizione delle milizie au-
siliarie, erano stati distribuiti dai Romani in sette grandi distretti di
leva. Le forze che essi erano tenuti a mettere a disposizione di
Roma sommavano secondo la formola dei togati in vigore dopo
il 225 (2), clie possiamo ricostituire con sufficiente sicurezza , ad
80 mila fanti e 5 mila cavalli Latini, 70 mila fanti e 7 mila ca-
valli Sanniti, 50 mila fanti e 6 mila cavalli Apuli e Sallentini (3),
30 mila fanti e 3 mila cavalli Lucani, 40 mila fanti e 4 mila ca-
valli dei Marsi e d'altre popolazioni sabelliclie , 50 mila fanti e
4 mila cavalli Etruschi e Sabini , 20 mila fanti e 2 mila cavalli
Umbri compresi i Sarsinati (4) : in tutto 340 mila fanti e 31 mila
cavalli. Questi 371 mila uomini rapj)resentano evidentemente solo
l'esercito attivo costituito dai più giovani , perchè i veterani non
potevano esser mandati fuori di paese, ma dovevano servhe alla
difesa territoriale; e dei giovani stessi il computo sarà stato piut-
tosto parco, perchè Tinteresse degli alleati era naturalmente in
genere di spendere quanto meno fosse possibile le loro energie a
profìtto di Roma. Ad essi aggiungendo i Bruzì ed i Greci, che
per la diversità degli ordinamenti e della disciplina e forse per la
scarsa fiducia che in loro s'aveva non erano compresi nella for-
mula dei togati, e computando la milizia territoriale alla metà
dell'esercito attivo, dovremo ritenere che gli alleati italici dispo-
nessero d'almeno 600 mila uomini atti alle armi. Tenuto conto del
resto della popolazione libera e degli schiavi, che dovevano abbon-
ii) BoRMANN ' Arch. - epigr. Mitteil. aus Oesterreich ' XI (1887) p. 112 segg.
(2) V. sopra p. 385 n. 1. La provenienza da Fabio Pittore risulta da Eutrop.
Ili 5 ed Oros. IV 13.
(3) Così vanno tradotti gli '\àn\}fe<; Kai Meoaómoi di Polibio. 11 numero di
16 mila cavalli va corretto con Belocu Bevulkerung I 359 seg. in 6 mila. Lo
stesso Beloch osserva pure giustamente che 20 mila fanti son di gran lunga
troppo pochi pei Marsi, Marrucini, Frentani, Vestini (e Peligni).
(4) Il numero dei cavalli manca in Polibio, ed è supplito secondo la propor-
zione più usuale tra la fanteria e la cavalleria.
FORMOLA DEI TOC ATI. NAZIONALITÀ 463
dare in Etruiia e nelle città greche, converrà computare la popo-
lazione delle regioni italiche alleate a Roma a circa due milioni
di abitanti, di cui poco meno d"un quarto dimorava nelle colonie e
nelle altre città di diritto latino. Soltanto la metà circa di quella
degli Stati alleati, intorno ad un milione, era la popolazione dello
Stato romano (1). Ma gli alleati si distribuivano in non meno di
120-150 Stati sovrani di varia estensione ed importanza, una doz-
zina in Etrui'ia, sedici circa nell'Umbria, uno nel Piceno, una dcr
cina in Campania e nelle vicinanze, una cinquantina nelle Puglie
e neiritalia greca, venticinque colonie latine, sei antiche città la-
tine ed erniche, dieci confederazioni (Marsi, Peligni, A^ estini, Mar-
rucini, Frentani, Nucerini, Pentri, IrjDini, Lucani, Bruzì). In media
ciascuno di questi Stati aveva, con una superficie inferiore a 700 km-,
una popolazione assoluta di 13.000 abitanti e relativa di 18 abi-
tanti per km^ Ma non tanto la inferiorità numerica di ciascuno e
la difficoltà di unii'si per un'azione comune assicurava i Romani
della fedeltà degli alleati quanto il trattamento che ad essi Roma
faceva rispettandone l'autonomia, non gravandoli di tributi, trat-
tandone le milizie come le sue proprie, legandoli ai cittadini coi
vincoli della fratellanza militare e dei vantaggi d'ogni maniera
che procedevano dalle comuni vittorie.
Quattro nazionalità diverse Roma aveva raccolte ad unità poli-
tica nella penisola, tre indoem-opee, Italici, Iapigi e Grreci, ed una
che non era tale, gli Etruschi. E tanto ]3Ìù valido e duratm"0 fu
il dominio romano in quanto Roma non cercò una assimilazione
violenta dei popoli sottomessi, che anzi essa, con l'arte consueta
dei conquistatori di appoggiarsi ai più deboli, sostenne le nazionalità
minori contro gii aiDiDetiti di quella che era di gran lunga la più
densa e invadente di tutte le altre, l'italica, e però ebbe spesso dalle
nazionalità minori soccorso efficace contro gli altri Italici riluttanti
ad accogliere la sua egemonia. Come difese gli Iapigi di Arpi contro
l'espansione sannitica e i Greci di Turi contro i Lucani, cosi anche
l'aristocrazia etnisca contro la classe iJopolare che, parlante o no
lingua etrusca, apparteneva alla stirpe soggiogata cui gli Etruschi si
erano sovrapposti. Senza l'intervento romano la lingua greca e la
iapigia avrebbero cessato assai più presto d'esser parlate in Italia ;
(1) Cfr. Beloch Bevolkerung 1 p. 367 e sopra p. 425. La popolazione italica
del 225/4 doveva essere a un dipresso eguale a quella della prima metà del
secolo anteriormente alla prima punica. I Romani e Campani atti alle armi
erano infatti secondo Polibio (Fabio) nel 225 in numero di 273 mila, all'incirca
quanti nel 276/5 secondo Liv. epit. 14.
464 CAPO xxir. - il comune e lo stato nell'Italia unita
e in Etrui'ia 1' aristocrazia conquistatrice sarebbe stata spazzata
via dalla ribellione dei dominati italici , se pur la lingua etrusca
fosse rimasta la lingua del paese. Cosi i Romani, cui la maggiore
nazionalità della penisola era legata coi vincoli dell'affinità di
lingua, di carattere, di coltura e d'istituzioni, seppero anche con-
ciliare a sé le nazionalità minori col vincolo dell'interesse e, se
ritardarono momentaneamente, resero tanto più sicm'o e dm^evole
il trionfo dei loro connazionali sugli altri popoli d'Italia. Tra i
quali i meno provati dalle guerre e in possesso di maggior di-
stesa di territorio e maggior benessere materiale erano senza dubbio
gli Etruschi. Ma la guerra di Volsini (sopra p. 425) rivela quale
fosse il punto debole degli Etruschi e perchè si acconciassero volen-
tieri al dominio romano : la classe dominatrice aveva infatti contro
di sé tutta la popolazione italica soggetta e si trovava assai con-
tenta dell'appoggio interessato che le prestavano i Romani.
Tuttavia non poteva restar nascosto ai Romani stessi che il
vero sostegno della loro potenza, i cittadini forniti del diritto di
suffragio, era troppo debole in proporzione dell'immenso territorio
su cui s'estendeva l'egemonia romana ; solo 5000 km^ erano privi-
legiati su 130.000. E andò poco in là che s'accinsero a rimuovere
il pericolo dando nel 268 il diritto di suffragio ai Sabini (1), che
nel 290 si erano incorporati nello Stato romano. Cominciarono
dalla Sabina perchè per la sua poca coesione, per la mancanza di
grandi centri, per la molta affinità di istituzioni e di religione, per
non avere grandi tradizioni di lotta con Roma offriva minor re-
sistenza alla romanizzazione; e anche in vista delle larghe asse-
gnazioni a cittadini romani che s' erano fatte nell' agro sabino.
Con questa concessione dei pieni dmtti che assicui'ò a Roma la
fedeltà d'una bellicosa tribù italica ricominciò quella lenta pari-
ficazione tra i cittadini romani che pareva essersi arrestata e che
condusse a poco a poco alla concessione dei pieni diritti a tutti i
cittadini. E fu gran ventura per Roma. Un procedere più gretto
avrebbe potuto indurre ad unirsi ai Campani ribelli nell'ora del
pericolo dopo Canne anche molti e molti altri di quelli che aiu-
tarono invece le legioni romane a domarli: al modo stesso che la
condotta liberale tenuta verso gli alleati fece che non molti imitatori
trovassero quelli cui eccezionalmente s'erano imposte condizioni più
dure, come Taranto, quando tentarono di scuotere il giogo.
(1) Vell. I 14, 7.
CAPO xxni.
Condizioni sociali ed economiche.
Quando gl'Italici pervennero nella nostra penisola, già conosce-
vano e praticavano da molto tempo accanto alla pastorizia l'agri-
coltni'a. Questa poi prese in Italia il soprav^'^ento su quella, quanto
maggiore diveniva la stabilità nelle sedi e più numerosa la popo-
lazione, non senza però che qua e là per effetto delle condizioni
locali la pastorizia conservasse sull'agTicoltm-a l'antico predominio.
Perciò la questione che suol farsi se i primi Latini che occuparono
il Palatino fossero pastori o agricoltori (1) andrebbe trasformata
nell'altra se colà nel momento ignoto in cui quell'occupazione si
fece prevalesse l'agricoltura sulla pastorizia o viceversa : questione
insolubile, sebbene sembri favorire l'ultima ipotesi la tradizione che
considera Romolo e Remo come pastori delle greggie dei re d'Alba.
Ma questa, se pure è tradizione vera e non v'è commista specula-
zione sul succedersi originario delle industrie umane, proverebbe
al più che un languido ricordo della precedenza cronologica della
pastorizia s'era conservato presso gl'Italici; e troppo ardito sarebbe
cavarne induzioni pel luogo e pel tempo preciso cui essa si rife-
risce. Il nome poi del Palatino che sembra collegarsi con la dea
pastorale Pale, l'antichissima festa pure pastorale delle Parilie e
il culto di Luperco non bastano davvero a mostrare che il Palatino
fosse soprattutto sede di pastori, dacché antichissimo è pure il culto
di Censo, dio agricolo in cui onore si celebravano le Consualia, che
aveva un altare ai piedi del Palatino. In età storica del resto il
(1) V. p. e. I. Guidi ' Bull. arch. comunale ' IX (1881) p. 64 segg.
G. De Sa.nctis, Storia dei Romani, II. 80
466 CAPO XXIII. - CONDIZIONI SOCIALI ED ECONOMICHE
popolo romano era un popolo di robusti agricoltori che cercavano
di far fruttificare con l'opera indefessa il suolo mediocremente fer-
tile della campagna, procurando di salvarsi dalla malaria con
suppliche alla dea Febre e con continui lavori di prosciuga-
mento (1).
Grli agricoltori romani coltivavano principalmente il f arre (spelta),
di cui si nutrivano essi stessi, e l'orzo, che serviva pei loro cavalli,
mentre pare invece che non coltivassero in origine, o in scarsa mism-a,
il frumento {triticum). E cosi il loro nutrimento era formato so-
prattutto dalla polta (puìs), una specie di polenta XDreparata di
farre cotto con acqua e sale (2), che si mangiava insieme con quel
che noi diremmo il companatico (piilmentarium)^ consistente al-
lora di latticini e di erbaggi, come la fava, la cipolla e la rapa (3).
Solo quando si diffuse la coltivazione del frumento, ossia dopo
la metà del sec. V, cominciarono i Romani ad avere il pane (4),
ma senza smettere per lungo tempo la loro j)redilezione per la
polta di farre. Quanto alla carne, se ne mangiava ordinariamente
assai poca, riservandola alle solenni occasioni di feste o di sacrifizi,
e anche minor consumo si faceva di pesce. Il parco cibo si condiva
con olio, sale, aceto e miele, che teneva le veci dello zucchero. G-li
aromi x^redominanti, che rimasero caratteristici del Romano del
buon tempo antico, dovevano essere quelli dell'aglio e della ci-
polla (5).
n modo che tenevano i Romani nel coltivare il grano era assai
primitivo : un anno il campo lavorava, un anno riposava, e solo
più tardi, forse sotto linfluenza, più che dell'agricoltura greca, di
quella assai diligente dei Cartaginesi, si cominciarono a introdui're
rotazioni j)er cui i campi, dopo aver prodotto per due anni, per
un anno riposavano. Coi terreni non troppo grassi della campagna
(1) Sulle condizioni economico-sociali dei Prisci Latini v. Fk. Cipolla ' Riv.
di fil. • VII (1878) p. 54 segg.
(2) Plin. n. h. XVIII 83: primiis antiqui Latti cibus (far) ^;ì<?^^ autem,
non patte, vixisse longo tempore Romanos manifestum est. Cfr. Marquardt Pri-
vatleben V p. 298 n. 4. La polta si faceva anche di miglio. Cfr. Plin. «. h.
XVIII 100.
(3) Maequaedt ibid. n. 5.
(4) Plin. ibid. 62: populum Romanuni farre tantum e frumento CCC annis
usum Verrius tradit. La notizia era forse ricavata dal parlarsi soltanto di farre
nelle dodici tavole.
(5j Varrò ap. Non. p. 201 : avi et atavi nostri cum allium et cepe eorum verba
olerent, tamen optime animati erant.
AGRICOLTURA E PASTORIZIA 467
romana, con l'aratro imperfetto, con l'uso insufficiente del concime
è da credere che il prodotto medio del terreno coltivato a frumento
fosse inferiore persino a quello già scarso che si ottiene in media
nell'Italia odierna, che è di circa undici ettolitri per ettaro. Molto
inferiore peraltro non poteva essere, altrimenti un campicello di
sette iugeri non sarebbe bastato a sfamare una famiglinola, come
certo doveva insieme con quel po' di bestiame il cui p)Ossesso an-
dava normalmente unito con quello di sette iugeri di terreno. Ad
ogni modo all'agricoltore romano, se mancava in jìaxte la perizia,
non mancava la buona volontà, e s'affannava a solcare il terreno
con l'aratro (1) e ad iiTigarlo, non senza accapigliarsi coi vicini
(rivales) j)el possesso delle povere vene d'acqua della campagna.
Le coltm-e nobili non erano ignote ai Latini, ma erano meno
diffuse di quelle dei cereali, perchè^ in difetto d'un fiorente com-
mercio di scambi, occorreva anzitutto al contadino trarre diretta-
mente dal suolo il suo sostentamento (2). La coltura della vite,
sebbene posteriore cronologicamente presso gii Arii a quella del
grano, era già praticata da parecchio tempo cenando penetrarono
nel Lazio. Se la religione romana conserva traccio di quei tempi
in cui il vino era ignoto, ne' sacrifizi x^iù arcaici ove non era lecito
usar vino e in mia norma pontificia attribuita k Numa che -vietava
di spargere vino sul rogo (3), tuttavia la festa delle vinalia, rico-
nosciuta dal feriale romano dell'età dei decemviri, l'uso clie al
flamine diale spettasse di consacrare e d'iniziare la vendemmia (4),
la consuetudine, di cui si ascriveva pur l'origine a Numa, di non
libare agii dèi se non da una vite clie si fosse x^otata (5), conferma
l'anticliità che la filologia conij^arata ascrive all'industria vinicola :
la quale fin dalla seconda metà del sec. V assume una certa im-
Xjortanza, se non nel resto della xjenisola, almeno nei territori delle
colonie greclie del Ionio (6j. A queste colonie s^^etta il vanto di
(1) Cato de agric. 61, 1 : quid est bene agriim colere ? bene arare, quid secu?idutn?
arare, quid tertiuni ? stercorare.
(2) In questo penso non si allontana dal vero Plin. n. h. XVIll 24: a2}ud
Bomanos multo serior vitium cultura esse coepit, primoque, ut necesse erat, arva
tantum coluere.
(3) Plin. n. h. XIV 88.
(4j Varrò de l. l. VI 16.
(5j Plin. 1. cit.
(6) SoPHocL. Antig. 1117, dove 'IraXia va intesa nel senso che questo ter-
mine aveva nel V sec. 11 vino laziale del resto anche parecchio più tardi spia-
ceva per la sua asprezza ai buongustai. Vedasi il motto attribuito a Cinea presso
Plin. n. h. XIV 12.
468 CAPO XXIII, - CONDIZIONI SOCIALI ED ECONOMICHE
aver introdotto in Italia la coltivazione dell'olivo, come mostrano
molti termini latini d'origine evidentemente greca concernenti
quella coltivazione (1); e appunto alla Magna Grecia e in particolare
alla regione turina si riferisce la prima menzione pervenutaci di
olio italiano, che risale alla seconda metà del IV secolo. Anche la
tradizione conservò memoria del tardo introdm-si dell'ulivo nel
Lazio, quantunque la notizia data dagli antichi che non si coltivasse
in Italia quell'albero fino al tempo di Tarquinio Prisco sia, per la
sua soverchia precisione, degna di fede mediocre (2). D'altri alberi
fruttiferi^ indigeni od importati, che si coltivassero in Italia prima
delle guerre puniche sono da menzionare il pero, il melo, il mela-
grano e il fico ; quest'ultimo in specie che, sebbene d'origine stra-
niera (3), era divenuto cosi caratteristico della penisola da apparire
appunto come tale nelle leggende sulla invasione celtica (sopra
p. 160j : ne tra le piante utili va dimenticato il lino, la cui coltiva-
zione risale in Italia ad età antichissima (4).
Sebbene di minor conto dell' agricoltm-a, non mancava d'impor-
tanza nel Lazio la pastorizia. Il suo fiorire è dimostrato dai culti
pastorali, dalla frequenza relativa dei sacrifizi cruenti, dall'uso di
considerare il bestiame come misura del valore e da quello d'im-
porre multe in capi di bestiame. In ijarticolare poi la scarsa esten-
sione che spesso avevano le parcelle attribuite in assoluta proprietà
sia nelle colonie sia nelle assegnazioni viritane presuppone un co-
mune terreno pascolativo di mism^a non troppo ristretta che per-
mettesse al contadino proprietario di provvedere con l'aiuto dei
prodotti delle greggie a quel sostentamento che il campicello era
da solo insufficiente a fornirgli : di che è pure argomento il nome
di pascolare (pascua), rimasto anche più tardi all' agro pubblico
in generale.
Degli animali domestici del resto si avevano nel Lazio, oltre
tutti quelli già conosciuti in età antichissima dagli Arii, anche
gli animali del cortile che quelli non conoscevano e che erano
stati importati in Italia dai Greci in età abbastanza remota. L'an-
(1) Kretschmer Einleitung p. 112 segg. Hkhn Kitlfurpflanzen und Haustìnere '
(Berlin 1902) p. 112 segg.
(2) Plin. n. h. XV 1.
(3) Cfr. SoLMS Laubach ' Abhancllungen der Ges. der Wiss. zu Gottingen
XXVIII (1881).
(4) Sull'agricoltura degli anticlii Italici v. in generale A. Dickson The hiisbandnj
of the ancients (Edinburg 1788), utilissimo, sebbene antiquato. Dureau de la
Malle Economie politique des Romains II (Paris 1840) 1 segg.
AtilUrOLTUKA E PASTORIZIA. ESPROPRIAZIONI E COLONIE 469
tichità delFoca domestica in Roma è attestata dalla leggenda delle
oche capitoline ; quella del pollame dall'uso che se ne faceva nelle
spedizioni militari ijer gli auspici (1). Per la Magna Grrecia poi e
per la Sicilia ne fa testimonianza per età anche più antica, oltre
la leggenda che i Sibariti non tollerassero galli in città per non
essere destati dal loro canto (2) , 1' apparire del gallo come em-
blema su monete di città greche al principio del secolo Y o alla
fine del A^ (3).
Mentre nell'età regia e nei primordi della repubblica l'aumentar
della xiopolazione nel territorio ristretto favoriva il dissodamento
dei terreni incolti e lo sfruttamento semi3re più intenso dei colti-
vati, l'accrescersi smisuratamente dell'agro pubblico dalla metà
del sec. TV doveva, se pur non ancora favorire l'incremento della
pastorizia a danno dell'agricoltura, almeno segnare un arresto nel
progresso di questa: nonché dissodar nuovi terreni era infatti già
molto se tra i vincitori si trovavano braccia e capitali sufficienti
per sostituir sempre nei campi, coltivati le ijopolazioni distrutte o
spossessate ; e diffìcile era resistere alla tentazione di lasciare i
terreni magri e male irrigati su cui s'erano affaticati i padri, per
i nuovi terreni che s'offrivano in ogni parte d'Italia ; come pure
era difficile che in quella parte dell'agro pubblico che non si di-
stribuiva, ma si lasciava occupare a chi volesse, il ricco occupante
rinunciasse ad usare il terreno in quel modo che gli assicurava
con minima spesa un considerevole profitto, ossia riducendolo a
pascolo. A ciò si aggiungevano i mali che seguono necessariamente
ad un'alterazione violenta della distribuzione della proprietà fon-
diaria qual'era quella che aveva tenuto dietro non di rado alla
conquista romana. Forse da più di un decimo della penisola gli
antichi proprietari erano stati cacciati violentemente; e quanto ciò
dovesse esser dannoso alla stessa agricoltura non è chi non veda :
poiché coi coltivatori espulsi od uccisi venivano meno tradizioni
d'esperienza e vecchie relazioni d'affetto tra la famiglia ed il
suolo; e si richiedeva tempo perchè il nuovo proprietario prendesse
ad amare e a conoscere il terreno per lui nuovo. Né certo doveva
essere molto favorevole all'agricoltura il modo violento e quasi bru-
ii) Uso per altro non antichissimo, come ben sapeva 1' aufjnre Cicerone de
divin. II 35, 73.
(2) Athen. XII 518 d.
(3) Hehn Kultiirpflanzen and Hausthieve^ p. 327 segg. Ct'r. Krktschmek nella
' Zeitschrift ' del Kuhn XXXIII (1893) p. 560.
470 CAPO xxni. - coxdtzioxi socfau ed px'oxomtche
tale con cui gli agTimensori romani procedevano all'assegnazione
del terreno conquistato mettendo ogni studio a superare, per quanto
era xjossibile, nel dividerlo in regolari appezzamenti quadrilateri,
gì' impedimenti che opponeva la natm-a del terreno e ignorando
il riguardo agli interessi della coltivazione e della irrigazione clie
a\T.'ebbe spesso suggerito un modo di procedere meno matematico,
ma più ragionevole. E^opure non è dubbio che questi inconvenienti,
inseparabili da Ciualsiasi periodo di transizione, sarebbero stati su-
perati se, chiuso col iDeriodo della conquista quello dei mutamenti
violenti nella distribuzione della proprietà fondiaria, fossero rimaste
le stesse le condizioni economico-sociali della penisola. ■ Il duro
tirocinio che gli agricoltori latini avevano fatto nella pianura la-
ziale li rendeva atti a continuar dappertutto con la stessa tenacità
a lavorare i campi che eran loro toccati in sorte. E la natura
stessa della divisione dei campi assegnati per opera degli agrimen-
sori e il concetto amplissimo che della proprietà fondiaria s'aveva
nel Lazio giovava in un certo senso ad instaurare una nuova rela-
zione d'affetto tra la famiglia e il terreno ch'essa coltivava; poiché
in quegli appezzamenti regolari e compatti, separati da sentieri e
da strade condotte secondo norme precise dirette a ridurre al mi-
nimo possibile le reciproche servitù d'acqua o di via, uno doveva
sentirsi assai più padrone del campo toccatogli che oggi in gene-
rale non accada (1); e la sicurezza del dominio s'attingeva alla
stabilità degli ordini di Roma e alla costanza delle sue vittorie.
Vedremo perchè rimasero invece in buona parte infecondi questi
germi promettenti di un nuovo ed intenso sviluppo agricolo nella
Ijenisola.
L'industria agricola del Lazio, anche quando bastò al consumo
degli abitanti, non fu mai in grado d'esportare i suoi prodotti. Le
regioni d'Italia onde s'esportavano i cereali sia in altre parti
della penisola sia all'estero erano, oltre i territori d'alcune città
greche, la Campania e l'Etruria (2); ed anche dalla regione padana
pare che i Greci traessero granaglie fin dal IV secolo (3). Ma il
crescere della popolazione e il diffondersi delle colture nobili nelle
regioni più progredite fece si che, probabilmente già nella prima
metà del terzo secolo, l'Italia cessasse di esportar frumento al-
(1) Cfr. Weber Roni. Agrargeschichtp. p. 104 seg.
(2) V. sopra p. 14.
(3) La colonia ateniese ek 'Abpiav (CIA. II 809), che venne deliberatane! 325/4,
aveva anche lo scopo di provvedere alla criTOTTO|HTt(a. Cfr. Rostoffzkw art. Fru-
nientum in Pacly-Wissowa VI.
ESPROPRIAZIONI E COLONIE. INDUSTRIA 471
Testerò ; quanto airolio e al vino, questi cominciarono dal V o dal
IV secolo a prodursi in copia nelle colonie greche del mezzo-
giorno (1); ma non sappiamo clie x^er allora la produzione superasse
il consumo che se ne faceva presso i coloni o x)resso gì' indigeni
confinanti ; e i trovamenti archeologici dimostrano che in parte al-
meno della penisola continuò anche nel V secolo ad introdursi olio
greco.
Del resto come i Latini non avevano modo in questo periodo
d'arricchirsi esportando prodotti agricoli, cosi neppure in massima
la loro industria era in grado di lavorare per la esportazione (2). Non
era favorevole al suo sviluppo la mancanza nel Lazio di materie
prime, come metalli o marmi, e il difetto di capitali. E scarseg-
giava inoltre la mano d'opera ; perchè fortunatamente pochi erano
i liberi che non avessero avuto in retaggio o per via d'assegnazione
un pezzo di terra, per piccolo che fosse; e gli schiavi cominciarono
ad abbondare solo con le guerre condotte fuori d'Italia. Sicché
l'industria aveva nel Lazio scarsa importanza e non lavorava che
per soddisfare alla richiesta locale ; e nulla v'era che si accostasse
alle fabbriche di Corinto, di Cartagine o anche di Taranto per la
ciualità del ijrodotto e pel capitale impiegato. Otto nomi ci sono
stati tramandati di corporazioni operaie che sarebbero state isti-
tuite in Roma da Numa Pompilio, i flautisti {tibicines), gli orefici
ifabri aurarii)^ i calderai {fahri aerarli) , i falegnami {fabri ti-
(jnarìi). i conciatori (coriarìi)^ i calzolai (sutores), i vasai (figuli),
ì tintori [infectores) (3). Questa lista non risale certo a re Numa;
ma non è difficile che sia attinta ad una fonte antica, p. e. alle
dodici tavole. E degno di nota infatti che vi mancano i fabbri
(fabri ferra?'ii), i quali si separarono dai calderai quando cominciò
a diffondersi maggiormente l'uso delle suppellettili di ferro ; i
fornai (pistores)j che non sono anteriori in Roma al secondo se-
colo, quando cominciò a smettersi l'uso generale di farsi in casa
(1) V. la menzione dell'olio turino in un fr. del poeta comico Ampdis (2* metà
del IV sec.) presso Athen. I 30.
(2) Sulle industi-ie dell'Italia media in generale v. Bluemner Die gewerbliche
Thatigkeit der Volker des kl. Alterthums (Leipzig 1869) p. 103 segg. V. anche
BuECHSENSCHUETz Die Hauptstatten des Getverbfleisses ini klassischen Alterthume
(Leipzig 1869), in specie p. 24 segg. 45 segg. 76.
(3) Plut. Nam. 17: >ìv he. ^ h\avo\xr\ kotò xàq réxvoi; aùXriTuùv xpuaoxóuuv re-
KTÓvotv 3otTpéujv aKUTOTÓuujv aKUTobei|JÓ)v \akKé.u)v Kepa)aéujv. Plin. n. h. XXXIV 1.
XXXV 159.
472 CAPO XXIII. - CONDIZIONI SOCIALI ED ECONOMICHE
il pane (1) , i gualchierai (fidlones)^ piu" tanto frequentemente
ricordati dalle fonti classiche, i quali ]3eraltro non debbono spet-
tare all'età più antica, quando si lavavano sempre i panni in casa,
i macellai (laìiii), che sorsero quando crebbe il consumo della carne
e non si mangiarono soltanto gli animali sacrificati, i suonatori
di corno 6 di tromba (titbicines e co?mlcines), che pui- costituivano
due delle quattro ceiitmie di mestieranti deirordinamento serviano,
perchè, a differenza dei fabri che costituivano le altre due centurie,
il loro non era tanto un mestiere quanto un ufficio da prestare
temporaneamente nell'esercito. Cosi dobbiamo ritenere che quella
lista di corporazioni operaie ci fornisca un' idea adeguata delle
condizioni primitive dell'industria romana nella metà del V secolo.
Forse le sole industrie romane che, sia pure scarsamente, lavoras-
sero fin da quell'età perla esportazione nelle regioni vicine, come
la Sabina o il jDaese dei Volsci, erano la ceramica, i cui prodotti
rozzi, ma solidi e a buon mercato, pare incontrassero il favore dei
contadini italici (2), e l'industria dell'estrazione del sale, che dalle
saline alla foce del Tevere traeva non solo quel ch'era necessario
al consumo locale^ ma tanto da sjjedire carichi di sale ai popoli
deirinterno che n'erano privi, per quella via ch'ebbe il nome di
Salaria (3).
Ma assai più che l'industria arricchì i Romani il commercio di
transito. Vedemmo infatti come per la via di Roma dovesse in-
camminarsi il commercio terrestre tra l'Etruria e l'Italia meridio-
nale; e mentre dall'Etrmia, dall'Umbria e dalla Sabina per mezzo
del Tevere potevano facilmente trasportarsi a Roma carichi di
legname e ogni maniera di prodotti dell'agricoltura e deirindustria
indigena, le navi greche e fenicie potevano senza difficoltà risalire
il Tevere e offrire in cambio di quelli i prodotti ricercati delle
più raffinate industrie straniere. Questo importante commercio
spiega pm-e la presenza in Roma d'una piccola colonia di mer-
canti etruschi attestata dal vico Tusco presso il Foro. Né man-
cavano, per favorire il commercio, grandi fiere in occasione di
(1) Varr. ap. Non. 152. Plin. n. h. XVIII 107: pistores Romae non fuisse ad
Persicum usqite hellum annis ab urbe condita siqyra DLXXX : ipsi ixmem fa-
eiebant Quirites.
(2) Peraltro non ne abbiamo nelle fonti testimonianza più antica di quella
di Catone de agric. 135. Ma prodotti dell'industria latina del III sec. av. Cr. deb-
bono essere anche alcuni vasi con iscrizioni latine graffite {CIL. I ' 43-50)
trovati in massima parte in Etruria.
(3) Plin. n. h. XXI 89.
COiLMEKCIO 473
sacrifizi, oltre le quali v'erano anche, ben noti a tutti i vicini, i
giorni usuali di mercato delle nundine. Comune infatti con gli
Etruschi (1) avevano i Latini una divisione del tempo in periodi
di otto giorni che s'iniziavano con un giorno di mercato. Siffatta
divisione, che è ritenuta tarda e di provenienza orientale (2), ma
che probabilmente è antica e d'origine indigena, nulla avendo di
comune con la settimana degli orientali, serviva a far si che, in-
dipendentemente dai calendari, diversissimi da città a città, si j^o-
tesse conoscere da ciascuno la ricorrenza periodica dei giorni di
mercato ; e non è difficile che si colleghi con la divisione in quattro,
propria degli Etruschi, del tempo celeste e del terrestre (3).
Il diretto commercio dei Latini coi Grreci ebbe per effetto, tra
altro, che l'arte del navigare si trasformasse sull'esempio di quella
greca, com'è dimostrato dall'abbondare in latino di termini mari-
nareschi attinti dal greco (4). Non mancano del resto neppur molti
termini d'origine indigena (5) ; e questi e il più antico trattato con
Cartagine e la stessa prora di nave che i- Romani posero come
emblema nella più antica loro moneta mostrano che essi, anche
prima delle guerre puniche, non furono cosi ignari del mare come
li ra^jpresenta qualche tradizione. Certo è però che, per quanto
in-aticassero con Grreci e Fenici e per quanto non mancassero di
attitudini al progresso, non potè attecchire nel Lazio un'industria
atta ad imitare e ad emulare i prodotti dell'industria greca e fe-
nicia, come per effetto delle ricchezze minerarie e del benessere
economico che cagionò il loro commercio si svolse in Etruria (6).
Un commercio di scambi, sia pur rudimentale, presuppone l'uso
di unità di peso e di misura. Ora per saper misurare conviene
saper fare di conti, un'arte che è noto quanto sia poco avanzata
(1) Per gli Etruschi v. Macrob. sat. I 15, 13.
(2) Così MoMMSEiN EoìH. Cìifonologie '^ 255. Ma v. Soltau Rom. Chronol. 38.
(3) Il materiale sulla settimana e sui periodi analoghi presso gli antichi è
raccolto dal Roscher Die enneadischen und hebdomadischen Fristen und ÌVochen
nelle ' Abhandl. der silchs. Gesellsch. der Wiss. ' philol.- histor. Klasse XXI
(1903) e Die Sieben- und Neimzahl im Kultus und Mythus der Griechen ibid. XXIV
(1906). Non seml)ra peraltro accettabile la sua ipotesi che la scelta dei periodi
ottonari per parte dei Romani si del)ba ad una superstiziosa avversione al nu-
mero sette (v. a p. 72 dell'ultimo scritto cit.).
(4) Vedili p. e. in Schradek Reallexikon p. 714.
(5j Come velum, malus, carina, puppis, riidens.
(6) Cfr. per la fama che godeva dal V secolo l'industria etrusca in Grrecia
i testi di Cratino, Ferecrate e Crizia il tiranno ap. Poll. VII 86. Atuen. XV
700 e. I 28 e. Muellek-Deecke Etrusker il 258.
474 CAPO XXIII. - CONDIZIONI SOCIALI ED ECONOMICHE^
presso i selvaggi. Contare, però, sapevano fino a un certo punto
già gli Arii X3rimitivi, usando d'un sistema di numerazione fondato
sul dieci (1), che ha riscontro presso svariate tribù selvaggie e che
evidentemente ha origine dal computo sulle dita delle mani. Anche
d'un sistema di numerazione fondato sul venti non manca qualche
traccia presso popoli indoeuropei, p. e. jDresso i Francesi, ed è
sistema che anch'esso ha riscontro presso i selvaggi, originato
com'è dal doppio computo sulle dita delle mani e su quelle dei
piedi, ma non è sicui'o se ]3resso gli Arii debba ascriversi a so-
pravvivenza d'usi estremamente primitivi o ad imitazione d'usi di
popoli non Arii. Traccie maggiori ha lasciato a ogni modo fra gli
indoeuropei una numerazione a base dodici. Si prese infatti a
numerare per dozzine quando si osservò che un'apparente rivolu-
zione del sole, ossia im anno, comprende approssimativamente
dodici lunazioni; ma ciò stesso mostra che questa numerazione
non poteva essere adottata se non da popoli relativamente pro-
grediti. E si sono in effetto serviti di essa popoli d'antichissima
civiltà come i Babilonesi. Le traccie che se ne hanno presso gli
Arii d'Europa, p. e. nella divisione della libbra romana in dodici
oncie, possono esser dovute a influssi orientali apertisi comechessia
la strada nell'Occidente ; ma può anche darsi che presso vari po-
poli, dal momento che cominciarono ad avere qualche nozione di
astronomia, quest'uso di contare per dozzine, che del resto rimase
in generale assai liraitato, s'introducesse indi^jendentemente, come
il contare per gruppi di cinque, di dieci o di venti s'è introdotto
indipendentemente presso i i)iù lontani popoli selvaggi.
La natura del resto non solo fornisce le basi delle varie nume-
razioni, ma anche, specialmente per le lunghezze, svariate unità
di misura, quali il pollice, il palmo, il piede, il braccio, la spanna,
il passo. Quanto alle lunghezze maggiori, non era difficile compu-
tarle anche a popoli in condizioni poco progredite dal trar d'arco
o dalla giornata di marcia. Queste e simili misure erano usate già
dagli Indoeuropei primitivi, ma non vi son traccie fra essi d\m
sistema che stabilisse in m.odo preciso il valore assoluto e relativo
del piede, del braccio e del passo come mism^e lineari e molto
meno d'un sistema per le misure di peso o di capacità. Tale
passaggio dall'approssimativo alla precisione del sistema si fece
in età posteriore separatamente presso i vari popoli (2). Tra i
(1) Cfr. ScHRADER Reallexikon p. 967 segg. Tylor Primitive culture I 244 segg.
(2) HoLTScH Grìeckische und romische Metrologie^ (Berlin 1882). Nissen Griech.
und rum. Metrologie in ' Handbuch der klass. Alterturaswissenschaft ' I* (1892j.
l'KSf E ilISUKK 475
Greci come primo introduttore di un sistema di misure vien ri-
cordato re Fidone di Argo (1), tra i Romani Servio Tullio, l'autore
leggendàrio delle istituzioni principali della Roma repubblicana ('2):
nelle quali leggende s'esprimeva il netto ricordo che l'ordinamento
sistematico delle misure era di parecchio posteriore al periodo
remoto delle origini. In Glrecia del resto rispetto ai pesi e fors'anche
rispetto alle altre mism^e siffatto ordinamento si compi sotto l'in-
fluenza del più progredito Oriente, come mostra il rapporto tra il
talento, la mina e il siclo o staterò, che è ricopiato su quello in
uso nell'Asia anteriore (3). Non pare invece che gli Italici ripetes-
sero dall'Oriente i loro sistemi di pesi e misure: almeno il talento
con la sua partizione in mine ed in sicli è estraneo alla metrologia
italica ; né l'uso della divisione duodecimale adottato non solo per
le misure di peso, ma anche per le lineari è argomento sicui'O d'in-
flussi orientali. Ciò non toglie che in proceder di tempo i pesi e
le misui'e italiche potessero venir alterati alquanto per metterli
in rapporti semplici con quelli piii usuali tra i Grreci ed i Fenici;
ma questo è un procedimento che può appena dubbiosamente in-
travedersi.
Base del sistema romano di misui'e lineari era il piede di
m. 0,2957, detto i^iede monetale, perchè un esemplare doveva con-
servarsene nel tempio di Griunone Moneta (4). Cotesto piede si
divideva o in dodici parti dette oncie, come le parti della libbra,
ovvero anche in quattro palmi e sedici pollici (digiti). L'ultima
divisione dev'essere ricopiata dai Grreci, altrimenti sarebbe difficile
spiegare come Romani e Greci potessero incontrarsi con tanta pre-
cisione nello stabilire siffatto ragguaglio ; e la stessa provenienza
ha pure verisimilmente il ragguaglio del cubito, che del resto è
usato di rado e soprattutto traducendo dal greco, a una volta e
mezzo il piede. Invece nazionale par la misura del grado, il passo
semplice di due piedi e mezzo, e quella del passo, il passo doppio
di cinque piedi, come pur quella della pertica, la canna usata a
misurare, che è di dieci piedi e perciò è anche detta decempeda,
e finalmente la misura usuale per le vie, i mille passi ossia il
miglio di m. 1479. Ma più che la origine di queste misure deri-
vate dal piede, im[)orterel3be stabilire se la determinazione precisa
(1) Herod. vi 127. Ki'HOK. ap. Straiì. VIIF p. 358. M. Parium ep. 30.
(2) AucT. de vir. ili. 7, 8: mensuras pondera... constituit.
(8) Su ciò J. Brandis Das Miinz-, Mass- itnd Geivichtssystem in Vorderasien
(Berlin 1866).
(4) HuLTScH ^ p. 88 sesrf?. Hygin. Gromat. ed. Laciimann p. 123.
476 CAPO XXIII. - CONDIZIONI SOCIALI ED ECONOMICHE
della misura del piede in uso presso i Romani sia o no dipendente
da sistemi gTeci. Per tal rispetto si è osservato che il peso d'un
volume d'acqua eguale al cubo del piede romano è a un dipresso
quello del talento attico di circa 26 kgr. In realtà questa coinci-
denza non è punto precisa e potrebbe anche, almeno in un certo
senso, esser casuale o doversi a qualche tardo ritocco fatto a bella
posta nel sistema; e non solo non è dimostrato che gli Ateniesi
si siano serviti neiretà classica di un piede di cii'ca m. 0,296, ma
anzi pare assodato che non l'adoperassero punto (1). Che del resto
quando un sistema ammesso da tutti non c'era, ma molti Stati
avevano proprie mism-e che di poco differivano da quelle degli
Stati vicini, potesse esservi qualche parte di Grecia in cui la mi-
sura ufficialmente ricevuta del piede s'accostasse a quella in uso
a Roma, deve apparir naturale anche a chi non creda di attribuire
origine orientale o greca al piede romano, poiché nel determinare
quella unità doveva muoversi sempre dalla effettiva lunghezza
d'un piede d'uomo: ed era difficile che tra tante determinazioni
di essa, alcune approssimativamente non s'incontrassero. L'esame
della distanza usuale tra i pali delle terremare ha suggerito Tipo-
tesi che già da quella età fosse in uso il piede romano (2), al
quale converrebbe cosi ascrivere origine etrusca, ammettendo che
si fosse introdotto in Roma insieme con la limitazione e col
tempio ; e l'ipotesi, sebbene non possa considerarsi come dimosti*ata,
non ha nulla d' inverisimile, tanto più che costruzioni come le
terremare, pur essendo antichissime, sembra presuppongano già
l'uso d'una unità di mism-a precisamente determinata. Tutto ciò
se non basta a chiarire al tutto l'origine del piede romano, basta
almeno a dimostrar destituita di fondamento la congettura che il
piede romano di 0,2957 sia stato introdotto dai decemviri rico-
piando il piede soloniaiio d'Atene: come del resto è anche assai
malsicm-a l'ipotesi dell'esistenza d'un antico piede italico di m. 0,278
che alcuni hanno creduto riscontrare nelle misure d'edifizì pom-
peiani (3) e che a torto poi a ogni modo s'è pensato di riconoscere
nelle mism-e del tem])io di Giove Capitolino (4).
(1) DuRi'FELu ' Athen. Mittheil. ' XV (1890) p. 167 segg., in cui distrugge
sostanziahnente quanto aveva cercato di dimostrare ibid. VII (1882) p. 277 segg.
(2) PiGOKiNi ' Bull, di pai. ' XXI (1895) p. 5 segg.
(3) NissEN Pompeiati. Studien p. 70 segg.
(4) V. RicHTER 'Hermes' XVIII (1883) p. 616 segg., con le assennate o.sser-
vazioni del Mommsen ' Hermes ' XXI (1886) p. 421 seg.
l'Esr E :mtsi;KK 477
Base delle misure romane di superficie è la " spinta ,, (actiis)
ossia la lunghezza d' un solco tracciato senza interruzione dal-
l' aratro preso clie abbia F abbrivo, lunghezza che si computa
presso i Romani a 120 piedi ossia a m. 35,48. Il quadrato che ha
quella misura per lato {actus quadratus) rappresenta la superficie
che un xiaio di buoi può arare in mezza giornata (ett. 0,126); e il
doppio di siffatto quadrato (ett. 0,252) è il terreno che con un paio
di buoi si può arare in un giorno, ed ha per ciò il nome di iugero.
Diversa dalla romana era l'unità di misura per le superfìcie usata
dagli Oschi e dagli Umbri il " verso „ {versus o vorsus)^ un qua-
drato di cento piedi di lato (1).
La normale unità di misura per il peso era tra gli Italici la
libbra (2); di cui lo stesso nome è schiettamente italico e designa
propriamente ciò che fa equilibrio nella bilancia all'oggetto pesato.
Dagli indigeni italici di Sicilia conobbero poi i coloni greci questa
mism-a, di cui alterarono il nome in quello di litra (3). Del resto
non dappertutto ne sempre in Italia il peso normale della libbra
fu quello della libbra romana dell'età storica di gr. 327,45. In
Sicilia la libbra veniva ragguagliata alla metà d'una mina attica
e quindi corrispondeva a due terzi soltanto della libbra romana;
né d'una simile libbra mancano tr accie anche fuori di Sicilia (4) ;
altre traccie sembrano aversi d'una libbra italica corrispondente
a cinque sesti circa della romana. La libbra romana si raggua-
gliava nell'uso comune all'ottantesimo del talento euboico (5), ma
la corrispondenza era soltanto approssimativa; e fosse anche più
rigorosa di quel che non è, proverebbe non che è di origine greca
la libbra, ma che forse s'è modificato di qualche grammo il peso
originario di essa per metterla in rapporto semplice con la più
diffusa tra le misure greche di peso (6).
(1) Va URO de re r. I 10, 1. Frontin. de Umit. p. 30 Lachmann.
(2) Unità di peso maggiori di questa, com'era tra i Greci il talento, gli Ita-
lici non avevano e s' accontentavano computando i multipli della libbra fino
al centusse che ne pesa cento.
(3) Sulla derivazione del greco \ÌTpo dall'italico v. le giuste osservazioni di
W. ScuuLZE nella ' Zeitschrift ' del Kuhn XXXIII (1893) p. 226.
(4) Cfr. Gamurrini ' Mon. Ant. ' I p. 157 segg.
(5) HuLTscii Metrologie * p. 208.
(6) Forse a questo modo è anche da spiegare il rapporto semplice che s'è
creduto di notare tra la libbra romana ed una delle tante mine babilonesi,
V. p. e. Leumann ' Hermes ' XXVII (1892) p. 548. ' Beitriige zur alten Geschichte '
VI (1906) p. 525 segg.
478 CAPO XXIII. - CONDIZIONI SOCIALI ED ECONOMICHE
Il piede, lo iug-ero, la libbra hanno denominazioni di carattere
primitivo elle ne dimostrano l'anticliità; artificiale affatto appare
invece anche nella sua denominazione l'unità di misura della ca-
pacità pei liquidi, il " quadi"antal „, che può computarsi in
litri 26,26, il quale teoricamente è, come dice lo stesso nome, il
cubo del piede, praticamente, secondo il ragguaglio stabilito dal
Ijlebiscito Silio, una misura cai)ace di contenere ottanta libbre di
vino (1). Questa misura, che era conosciuta al tempo di Cicerone
soprattutto col nome derivato dal greco di anfora, corrispondeva
alla metà del medimno attico e ai due terzi del metrete; e nome
derivato dal greco avevano i suoi sottomultipli, il congio corri-
spondente alla chus, il ciato (KuaGo^), Tacetabulo, il cui nome tra-
duce quello greco di oxybaphon. Per gli aridi la misura più usata
era il moggio {ìnodius)^ pari ad un terzo dell'anfora e quindi ad
un sesto del medimno, ossia all'attico hekteus. Da tutto ciò par
debba trarsi che gli Italici quando cominciarono a usare coi Grreci
avevano già propri sistemi di misure lineari, di superficie e di
peso che avevan formato, se non di jier sé, con l'aiuto degli
Etruschi, ma non avevano ancora sentito Tesigenza d'un sistema
di misure di capacità (2), e perciò presero queste dai Greci e le
innestarono artificialmente sui sistemi preesistenti di x)esi e misure
per mezzo del '' quadrantal „, introducendo forse al tempo stesso
in quei sistemi le piccole modificazioni opportune.
Una specie di misura del valore non mancava presso gli Indo-
em'opei primitivi ed era costituita dai buoi e dalle pecore : di che
lirove evidenti si hanno per i Grreci nei poemi omerici e una traccia
presso i Latini nella parola pecunia, con cui s' indica la moneta,
e nell'uso, sopravvissuto a lungo, di fissare nominalmente le multe
in capi di bestiame (3).
Ma col diffondersi dei metalli servirono questi come mezzi di
scambio e misura del valore; senonchè la rarità dei metalli pre-
ziosi fece sì che nella nostra penisola tale ufficio toccasse al ramo
ed al bronzo: e questo stesso non potè avvenire prima che il
rame cominciasse ad estrarsi in Italia, o almeno ad imi^ortarvisi
(1) Fkst. p. 246 M secondo la lettura del Hultsch Metrologici scriptores II
p. 78 seg. : ex ponderibus publicis quibus Iute tempestate populxs oetier solet co-
aeguator se dolo malo idi quadrantal vitti octoginta pondo siet. Cfr. Hlltsch
Metrologie^ p. 113 n. 4.
(2) Cfr. Brandis op. cit. p. 27.
(3) Varrò de re r. II 1, 9: multa etiam nunc ex retere instituto biibus et oribus
dicitur. Sulle norme secondo cui si faceva la riduzione v. sopra p. 55.
MISURE DKL VALORI-:. AKS RUDE 479
in pani per essere lavorato. Pani di rame fuso in forma di pia-
strelle si rinvengono fin dalla età del bronzo ; e nei ripostigli poi
della più antica età del ferro si hanno pani di rame e di bronzo
in forma, oltrecliè di piastrelle, anche di lame di picconi, di bar-
chette e di quadrilateri (1), Or certo siffatti pani non eran solo né
sempre mezzi di scambio ; ma appunto perchè potevano adoperarsi
e si adoperavano in effetto a scopo industriale (2), servirono anche
come equivalente di qualsiasi altro oggetto. Di ciò fa prova la
tradizione, la quale asserisce esplicitamente che il metallo senza
contrassegno {aes rude) fu adoperato dai Romani come moneta
prima di quello fornito di una marca a cura dello Stato {aes si-
gnatum) (3). E prova chiarissima n' è pure la ceremonia della
mancipazione col rame e la bilancia, dove, per simboleggiare il
metallo che si sarebbe dovuto pesare, si toccava la bilancia con
un pezzo di rame non segnato {raudus o raudusculum). Codesto
uso del metallo senza impronta come mezzo di scambio dev'essersi
protratto per molto tempo anche dopo introdotta la moneta vera
e prop)ria, i30Ìchè accanto a questa si trova in copia di quello nei
ripostigli. E come un equivalente della moneta lo consideravano
senza dubbio i soldati di Annibale quando ne accumulavano reli-
giosamente acervi nel bosco sacro di Feronia (4) o i devoti pel-
legrini che, cercando la salute alle Acque ApoUinari j)resso Vica-
rello, vi lasciarono un diecimila pezzi di metallo non segnato (5).
Col procedere della età del ferro cominciano ad apparu-e pani
quadrilateri di rame o di bronzo fusi mediante due matrici im-
l^erfettamente combacianti, prima anch'essi senz'alcun contrassegno,
poi con una nervatura mediana a cui di frequente se ne aggiun-
gono altre oblique, dandole l'aspetto d'un ramo secco o d'una
s^jina di pesce. Questi pani, che non si rinvengono mai interi,
vanno giudicati certo alla stessa stregua dei precedenti ; non cosi
però le sbarre quadrangolari di metallo fuse più regolarmente tra
due matrici e fornite d'impronta che cominciano ad apparire al-
quanto più tardi, forse non prima del IV sec. o al più dal termine
(1) PiGORiNi 'B. di P. ' XXI (1895) p. 5 segg.
(2) Entro questi limiti si può aderire alla teoria del Chierici ' B. P. ' V (1879)
p. 148 segg.
(3) Plin. n. h. XXXIII 43: Servius rex primus signuvit aes. antea rudi usos
Romae Timaeiis tradii.
(4) Liv. XXVII 11, 9.
(5) Marchi e Tkssikri La stipe tributata alle divinità delle Acque ApoUinari
(Ptoma 1852).
480 CAPO xxnr. - condizioni sociali ed economiche
del V. I tipi svariatissimi clie presentano neiruna e nell'altra faccia,
p. e. tripode ed àncora, spada e guaina, aquila con fulmine e
spada, aquila e trij)ode, elefante e scrofa, polli augurali e rostri
di navi, aquila con fulmine a pegaso, permettono di distinguerli
in parecchie serie d'origine diversa pel tempo e pel luogo (1). A
giudicare appunto dai tipi, la emissione di questi quadrilateri s'è
protratta fino al 250 circa , perchè la serie con l'elefante e la
scrofa suppone la conoscenza di quell'animale che in Italia fu
ignoto fino alla guerra di PiiTO, e la serie con polli augurali e
rostri di navi sembra collegarsi con le vicende della, prima pu-
nica (2). Non v'ha dubbio pertanto che, mentre non son molto
anteriori nell'Italia media alle emissioni di vera e propria moneta,
i quadi'ilateri con impronta si sien continuati per lungo tempo a
fabbricare insieme con la moneta, pur dovendo tenersi per fanta-
stici i tentativi di scoprire precise attinenze tra serie di quadrila-
teri e serie determinate di monete librali. Ciò rende anche più
diffìcile assodar la natura di questi 23ezzi di bronzo (3) : X3ani per
fondere non possono essere, che a tal uopo era inutile contrasse-
gnarli con figure talora non prive di valore artistico; che si emet-
tessero soltanto a scopo sacro è difficile ritenere, né ben si con-
cilia con l'epigrafe che alcuni di essi hanno, la quale presuppone
che fossero fatti per cura e per uso dello Stato. Né possono dirsi
propriamente moneta pel peso variabilissimo, per l'assenza di un
segno indicante il valore, per la frequenza con cui se ne rinven-
gono frammenti, la quale sembra provare che si pesavano anch'essi,
non si contavano. Va pertanto ritenuto che prima d'adottar, 'sul-
l'esempio dei Greci, vera e prox^ria moneta, Roma ed altri Stati
dell'Italia centrale (4) presero ad emettere per la paga delle mi-
lizie o per usi simili codesti quadrilateri, senza però ancor prov-
vedere a guarentirne d'ufficio il peso ed il valore (5). Il natm-ale
(1) V. le riproduzioni non sempre eseguite nel modo migliore di Garrdcci
Le monete dell'Italia antica 1 (Roma 1885) tav. XIII-XXIV. Alcuni quadrilateri
hanno la epigrafe ROMANOM: uno, che però probabilmente non è autentico,
reca H(ummus ?) ROMANOM cfr. Babelon Monnaies de la Rép. Romainel p. 8.
(2) Su tutto ciò è da vedere la memoria del Milani in parte fantastica, ma
ricca di osservazioni importanti: Aes rude, signatum e grave rinvenuto alla
Bruna presso Spoleto nella ' Riv. ital. di numismatica' IV (1891) p. 27 segg.
(3) Sulla questione v. anche Baurfeldt Das Milnzfund von Mainz (Berlin 1901,i.
(4) In Dalmazia, dove se ne son trovati in copia, sono certamente importati.
(5) Questo è Vaes signatum di cui ci ha conservato ricordo la tradizione,
v. Plin. M. h. XVIII 12: Servius rex ovium bounique effigie pr ini um aes signavif.
AES SIGNATUM. ORIGINE DELLA MONETA 481
conservativismo delle popolazioni poco civili fece che continuas-
sero ad esser ricliiesti e perciò anche fabbricati pur quando poteva
aversi invece vera moneta.
Mentre in queste condizioni primitive continuava a provvedersi
nel Lazio ai pagamenti ed agli scambi fino alla metà del sec. IV,
da tempo assai remoto vi si provvedeva in maniera assai meno
imperfetta nel più progredito Oriente (1). I Babilonesi usavano a
tale effetto verghe d'oro e d'argento, e almeno dal sec. XV ave-
vano stabilito fra le due specie metalliche una relazione fissa, per
cui a parità di peso l'oro valeva 13 volte e '/s più dell'argento (2j.
Ma neppm-e essi giunsero a creare la moneta, ossia a guarentire,
per mezzo di una marca impressa a cm-a dello Stato, il peso e la
pm-ezza del metallo. A questo si venne intorno al principio del
sec. Vn in territorio ellenico o sottoposto agli influssi benefici
della civiltà ellenica, vale a dire nella Lidia (3) e nelle più fiorenti
colonie greche dell'Asia Minore. Le prime monete fm'ono in elettro,
ossia in una lega d'argento e d'oro (4); ma presto si prese a co-
niai-e in argento e poi, per opera di Creso o di Cii'o, sulla metà del
sec. VI, in oro: coniazione che servi di base al sistema bimetallico
adottato da Dario per tutto l'impero persiano intorno al 500. Le
città ioniche avevano in questo mezzo trovato imitatori nella
madrepatria greca, dove fin dal sec. VII si aprirono le prime
zecche che coniassero in Europa moneta d'argento, quelle di Egina
e di Calcide nell'Eubea. Nella penisola ellenica si fecero d'allora
in poi concorrenza due sistemi monetari: quello eginetico fondato
sulla di'amma d'argento pesante (jiaxeia) di gr. 6,2 e quello eu-
boico, adottato in Atene, fondato sulla dramma leggera (Xeniri)
di gr. 4,36, che presto si ridusse a gr. 4,32: all'ultimo s'accostava
il sistema corinzio, sol che esso divideva lo staterò d'argento non
in due, ma in tre dramme, per modo che la sua dramma era pari
a due terzi della dramma euboica.
Vabro de re r. II 1, 9. de vita pop. Rom. ap. Non. p. 189: aut bovem aut ovem
aut vervecem habet signiim. Plut. Popi. 11. Altri testi si vedano presso Mar-
QUARDT Staatsverwaltung IP p. 6 n.
(1) Per la storia della moneta in generale v. Mommsen Gescìiichtc des rom.
Milnztvesens (Berlin 1860), trad. francese del duca di Blacas MV (Paris 1865-75).
Fr. Lenormant La mannaie dans l'antiquité I-Ill (Paris 1878-1879). Head Hi-
storia numorum (Oxford 1887). Babelon Tratte' des inonnaies t/rer<fiies et ro-
maines (Paris, in corso di pubblicazione).
(2) Brandis op. cit. p. 91 segg.
(3) Cfr. Xenopuan. ap. Poll. IX 83. Hekod. 1 94.
(4) Cfr. Plin. n. h. XXXIII 23.
G. De Sa.notis, Storia dei Romani, li. 31
482 CAPO XXIII. - CONDIZIONI SOCIALI KD ECONOMICHI-;
L'esempio delle città più progredite dell'Eliade fu seguito
dopo qualche tempo dalle colonie greche d'Occidente (1). Già nella
seconda metà del sec. VI cominciarono a coniar moneta in argento
alcune città della Magna Grecia, tra cui, e questo è imiDortante
indizio cronologico, Siri e Sibari, distrutte nel corso di quel se-
colo. Il sistema generalmente seguito dalle città del Ionio era il
corinzio, e solo intorno al 500 Taranto sostituì al corinzio l'euboico,
dividendo in due anziché in tre lo staterò. In Sicilia, dove si co-
minciò a coniare forse alquanto più tardi, sebbene pur sempre
entro il sec. VI, le città calcidesi seguirono sul principio, ed è
singolare, non il sistema euboico, ma quello eginetico, e solo col
tempo adottarono il primo; Siracusa invece, sebbene colonia co-
rinzia e con essa le altre città doriche, le quali in generale co-
minciarono ad emetter moneta dopo le colonie calcidesi, fin dal
principio si attennero al sistema euboico. Cosi, mentre questo si-
stema si diffondeva in Sicilia, nella calcidese Regio ed a Taranto,
scompariva interamente da quelle regioni la valuta eginetica e solo
nell'Italia achea rimaneva in vigore un sistema diverso, ma facil-
mente riducibile al primo, il corinzio. Diversamente procedevano
peraltro le cose sulla sponda tirrenica d' Italia. Ivi il predominio
commerciale dei coloni focesi di Velia e più di Marsiglia fece si
che Cuma, dopo aver coniato secondo il sistema eginetico e se-
condo l'euboico, vi sostituisse uno staterò argenteo che aveva
riscontro nell'Asia Minore, ma non nella penisola ellenica, del
peso di gr. 7,30 e che allo stesso sistema, il quale suol designarsi
come sistema fenicio, si attenesse più tardi Napoli.
I Greci giungendo in Sicilia avevano trovato colà in uso come
misura del valore il bronzo, che si pesava a libbre pari ad otto
oncie della libbra romana. Onde si dovette tosto stabilire un rag-
guaglio tra il bronzo e l'argento con cui misui-avano il valore i
coloni; e si fece fissando, a parità di peso, il valore dell'argento
a 250 volte quello del bronzo. Perciò la libbra di bronzo o, come
dicevano i Greci, la litra siciliana, che pesava la metà della mina
(1) Sulla numismatica d'Italia in generale v., oltre le opere citate a p. 480
D. 1 e p. 481 n. 1, Carelli Niimoruin Italiae veteris tahulas CCII ed. Cave-
DONi (Lipsiae 1850), antiquato. A catalogne of the Greek coins in the Br. Mu-
seum. Italy (London 1873). Beschreibung der antikcn Miinzen der konigl. Mu-
seen zu Berlin III 1 (Italien) Berlin 1894. Un'abbondante raccolta di monete
italiane è pure in Macdonald Catalogne of Greek coins in the Hunterian col-
lection (Glasgow 1899). Come lavoro riassuntivo è da citare Sambon Les mon-
naies antiques de l'Italie (Paris, in corso di pubblicazione).
ORIGINK DELLA MONKTA 483
attica di cento dramme, era valutata ad un quinto della dram.ma,
di guisa che il didrammo d'argento equivaleva a dieci libbre di
bronzo e si chiamava anche decalitro (1). Per facilitare i ragguagli
tra le due specie m.etalliche, la dramma, anziché in sei oboli, come
si faceva in Grecia, fu divisa in cinque, equivalenti ciascuno ad
una litra , e l'obolo si chiamò nomos, con termine che corrisponde
al latino numnius (2). Anche in Taranto l'obolo si considerò, come
pare, equivalente alla libbra, sol che il ragguaglio tra le due di-
verse specie metalliche dovette essere alquanto diverso o forse
diversa la libbra di bronzo a cui paragonarono la loro moneta
argentea i Tarentini, perchè si conservò a Taranto la divisione
della dramma in sei anziché in cinque oboli (3). Ad ogni modo
queste condizioni del mercato monetario occidentale spiegano come
in Sicilia per la x^rima volta, forse intorno al 425, si prendesse a
coniar moneta spicciola in bronzo, moneta che poco dopo si co-
minciò a diffondere in Grecia: e in ciò può in un certo senso
vedersi uno dei primi esempì di reazione della civiltà italica sulla
greca.
Frattanto la moneta aurea persiana aveva da molto tempo
trovato buona accoglienza sul mercato greco prima che nella pe-
nisola ellenica si cominciasse a coniare in oro. L'esempio ne fu
dato da Atene verso il termine del sec. V, e quasi contemporanea-
mente prese a batter moneta aurea Siracusa. Ma nell'Italia oc-
cidentale le relazioni dirette con gli Ioni dell'Asia Minore avevano
fatto sì che già si coniasse in oro prima della Grecia propria. Così
qualche rarissima moneta d'oro sembra aver emesso Cuma; ed è
poi indubitato che già dal principio del sec. V ne coniarono al-
cune città etrusche (4). Un prodromo quasi a siffatta coniazione
(1) Aristot. ap. PoLL. IV 174 seg.: oi IiKeXuÙTai toù<; |uèv òùo xc^koOi; éSàvxo
KaXoOoi, TÒv bè èva oòykiov, tolk; òè rpeì^ rpiàvra, rovc, òè ?S ì^iaiXixpov, tòv bè
òPoXòv Xirpav, tòv òè KopivGiov OTarfjpa òeKÓXixpov.
(2) V. HoLTscH^ p. 659 segg. Questo è da ricavare da Aristot. ap. Poll. IX 87:
òùvaaQai òè tòv voO|U|uov (siceliotico) Tpia i*||LiiujpóXia. Non c'è ragione suffi-
ciente per stimare con Willers ' Rhein. Mus.' LX (1905) p. 351 che si tratti
di un equivoco. Che però in Taranto il termine vó|uo<; o voOmuoc; denotasse
invece lo staterò era già noto da Aristot. ap. Poll. IX 80, cfr. Hultsch Me-
trologie'^ p. 675, ed è ora confermato dalla epigrafe delfica edita dal Bourguet
'Bull, de corr. Hell. ' XXVII (1903), che ragguaglia 100 vÓ|lioi 'iTaXiwTiKoi ver-
sati dagli Eracleoti d'Italia a 124 dramme eginetiche e 4 oboli.
(3) Hultsch p. 674 segg.
(4) Per la moneta etrusca v. Deecke D(tfi etrui^kische Miimiresen in ' Etrus-
kische Forschungen ' II (Stuttgart 1876).
484 CAPO XXIII. - CONDIZIONI SOCIALI ED ECONOMICHE
costituiscono disclietti d'oro a f accie lisce clie si rinvengono in
Toscana già nel sec. VI, ai quali seguono almeno due serie di vere
e proprie monete in oro con testa di leone d'aspetto arcaico e
rovescio liscio ovvero con rovescio liscio e testa giovanile, fornite
le une e le altre di marche indicanti il valore, donde si trae che
la moneta di gr. 1,40-1,42 equivaleva a 25 libbre di bronzo. Ma
queste emissioni etrusche, che si protrassero forse sino alla metà
del secolo IV, furono scarsissime. Importanti emissioni di mo-
neta am^ea in Europa non cominciarono che con Filippo II di
Macedonia; e nella nostra penisola, tuttoché già Taranto avesse
coniato in oro con una certa abbondanza, non se ne ebbero di tali
se non in età assai i^iù avanzata.
Ma se scarsa importanza ebbe la coniazione dell'oro, non cosi,
anche presso gli indigeni d'Italia, la coniazione dell'argento. Essi
infatti accolsero con grande favore come mezzo di scambio la
moneta greca; così la moneta tarentina^ coniata con tale abbon-
danza che vi si distinsero non meno di 896 tipi diversi (1), gua-
dagnò i mercati dell' Apulia e dell'interno del Sannio ; del pari in
Etruria ebbero larga diffusione le monete dell'Asia Minore e le
massaliote, e in Campania e nel Sannio le napoletane. Perciò si
spiega come presto gli indigeni pensassero a batter moneta d'ar-
gento essi stessi. Ciò accadde intorno al 450 tanto in Sicilia, dove
aprirono zecche varie città elime e sicule, quanto in Etrm-ia. Qui la
diversità dei tipi mostra che si coniò per parecchio tempo, forse per
due secoli, e in varie città, senza che ci sia dato se non di rado
giungere a conclusioni sicure e per la cronologia e per la topo-
grafìa. I sistemi monetari in uso erano due, Tattico-euboico ed un
altro la cui unità era una dramma di gr. 5,70, introdotto probabil-
mente per effetto delle relazioni commerciali con 1' Asia Minore.
Ma tolta l'Etruria • e le colonie greche, nessun' altra regione
della penisola coniò moneta nel sec. V ; segno evidente della infe-
riorità economica di cui cercammo altrove le cagioni. Solo nel
IV secolo cominciò a battersi moneta d'argento e scarsamente, in
poche città indigene del mezzogiorno, nella messapica Alezio, nella
ignota Fistelia e ad Hja'ia (Nola) dapprima, poi ad Allife presso
il Volturno, tra il Sannio e la Campania, nella ignota Fensernia,
e nella poco meno ignota Irnthi. Come monete indigene vanno
altresì considerate quelle col nome dei Campani, che risalgono
(1) Cfr. Evans The Horsemau of Tarent nel " Num. Chronicle ' ser. Ili voi. IX
(1889) p. 1 segg.
ORiaiNE DELLA MONETA. AES GRAVE 485
ancli'esse al 400 circa, dato pm-e che siano state coniate in una
zecca greca.
Tali erano le condizioni monetarie dell'Italia quando i Romani
poco dopo la metà del IV sec. si aprirono la via della Campania.
Il parziale dominio d'una regione economicamente assai più i3ro-
gredita, dove la misura del valore era costituita dalla moneta
d'argento greca od indigena, e il frequente soggiornare colà dei
loro soldati indusse i Romani a coniare per la prima volta mo-
neta. Moneta d'argento peraltro essi non vollero o non poterono
emettere direttamente e per la scarsezza dei metalli preziosi in
Roma e per lo spirito conservativo dei contadini romani che fece
ad essi prediligere i j)ezzi di bronzo senza marca o i quadrilateri
segnati anche lungo tempo dopo introdotta la moneta. Si credette
di trovare un opportuno temperamento tra l'uso antico e le esi-
genze nuove introducendo la moneta di bronzo non come moneta
divisionaria o di credito, ma con un valore corrispondente al va-
lore commerciale di quel metallo, guarentito dalla impronta po-
stavi a cura dello Stato. Cominciò cosi ad emettersi allora l'asse
librale fuso di forma lenticolare (aes grave) (1). Questa prima
moneta romana s'attribuiva da alcuni all'età regia o j^ersino ai
tempi mitici delle origini; ma altri già nell'anticliità sapevano
che non era molto anteriore alla, metà del V secolo; e alla metà
di quel secolo (2) e più proj) ri amente alle dodici tavole credette
di riferirla qualche moderno. Ma un attento esame delle varie re-
dazioni in cui ci sono stati trasmessi i frammenti di quelle leggi
dimostra che i decemviri vi registravano l'importar delle multe
non in moneta, ma in libbre di rame. E conforme a ciò alla se-
conda metà del IV secolo ci riporta sia il tipo del Giano bifronte
che appare sul diritto dell'asse librale romano e che nulla ha di
arcaico, sia quello, che compare sul rovescio, della prora fornita
di rostro, che diffìcilmente poteva essere adottato prima della de-
duzione della colonia in Anzio e prima che in mano dei Romani
cadessero le navi degli Anziati e coi rostri di esse fosse ornato il
(1) Fest. epit. p. 98 M: grave aes dictum a pondere quia deni asses, singuli
pondo libras, efficiebant denarium. Per la data v. Samwer Geschichte des illteren
rom. Milnzwesens herausg. v. Bahri-eldt (Wien 1883). Manca una raccolta del-
l'ars grave romano che corrisponda alle esigenze della scienza. Se ne attende
una dallo HAEnERLix. Ma le classificazioni da lui proposte nello scritto Zum
corpus numorum aeris gravis (Berlin 1905) non paiono del tutto soddisfacenti.
(2) MoMMSEN Rom. Milnzivesen 175.
486 CAPO XXIII. - CONDIZIONI SOCIALI ED ECONOMICHE
suggesto degli oratori nel Foro. E così pare evidente die la fab-
bricazione dell'asse pesante romano debba collegarsi coi primordi
delle guerre sanniticlie.
Introdotto in Roma l'asse pesante, se ne diffuse l'uso in buona
parte d'Italia da Venosa a sud a Todi ed a Volterra a nord, come
mostrano le numerose serie che s'banno di queste monete, fornite
in parte del nome della città che le emetteva, in parte, e special-
mente le più antiche, senza alcun nome. Certo non ijuò dal solo
esame dei tipi dimostrarsi che la serie più antica sia quella ro-
mana; ma come tutto fa credere che le altre non possano in
nessun caso essere state emesse molto prima, la posizione emi-
nente che ebbe Roma nell'Italia media alla metà del sec. R"^ par
che sola possa darci una spiegazione adeguata della diffusione di
questo genere di monete in regioni tra cui, per le condizioni eco-
nomiche e civili diversissime, era profondo divario e dove in parte
i mezzi di scambio, locali o importati, erano assai superiori
al rozzo asse librale, come a Volterra. E chiaro infatti che il
dover praticare frequentemente per le ragioni più varie coi Romani
e il dovere inviar loro del continuo milizie ausiliarie potesse far
stimare opportuna a città alleate o a colonie latine l'introduzione
d'una moneta analoga a quella usata in Roma.
Ma questa moneta di bronzo non bastava agli usi di tutti i
cittadini romani e in particolare dei Campani, il cui sviluppo eco-
nomico era assai superiore a quello degli abitanti del Lazio ; e non
provvedendo in qualche modo alle loro esigenze, si lasciava libero
il campo in territorio romano alla moneta greca. D'altra parte
gli eserciti romani stanziavano assai frequentemente presso popoli
avvezzi alla valuta argentea; e le relazioni economiche che era
indispensabile stringere pel vettovagliamento degli eserciti, per
compensare informazioni ricevute o per vendere il bottino esige-
vano anch'esse l'uso di quella. A siffatte esigenze debbono la loro
origine monete d'argento, cui si collegano serie in bronzo battuto,
con la leggenda Romano o Roma^ che, cominciate a coniarsi,
come pare, nella seconda metà del IV secolo, si continuarono ad
emettere nella prima metà del seguente e che si rinvengono in
abbondanza nel Sannio e in altre regioni dell'Italia media ed
inferiore (1). Sulla origine precisa di queste monete si è molto
(Ij V. Babklon Monnaies de la rép. romaine I p. 10 segg. con le aggiunte
e correzioni del Bahrfeldt ' Riv. ital. di numismatica ' XII (1899) p. 387 segg.
XIII (1900) p. 11 segg.
MONETA ROMANO-CAMPANA 487
incerti. Da una parte i tipi e la notizia antica che fa risalire
la coniazione argentea romana all'a. 269 mostrano che non pos-
sono essere state coniate in Roma per conto dello Stato. Che fos-
sero battute dai comandanti d'esercito romani come moneta mili-
tare (1), sebbene non manchi d'analogie, offre pur gravi difficoltà;
perchè di rado assai i comandanti romani potevano in quell'età
disporre, sia pm-e tenendo conto del bottino, di somme tali da
poter provvedere ad abbondanti emissioni di moneta d'argento.
Par più verisimile l'ipotesi che si desse invece facoltà di coniarne
per proprio uso ed a proprio conto a Capua e ad altre città
della lega cami^ana (2), e sembra favorir tale opinione la so-
miglianza che è tra i tipi di questi coni e quelli in uso a Cales,
Benevento e Teano. Non si tratterebbe di vere emissioni governa-
tive romane, fatte soltanto in Capua anziché a Roma, sia perchè
potrebbero in parte opporvisi le ragioni già dette sia perchè in tal
caso j)rima cura del governo romano sarebbe stata quella di sta-
bilire un rapporto semplice e preciso tra le monete d'argento e
quelle di bronzo: ma non è escluso né che il governo romano in
compenso della importante concessione fatta ai sudditi campani
si riserbasse su di essa qualche guadagno, né che per mezzo di
opportune convenzioni provvedesse a fornire i comandanti romani
nell'Italia meridionale di una quantità di moneta campana suffi-
ciente agli usi della guerra. Quanto simili emissioni fossero indi-
spensabili è anche dimostrato dalle nuove zecche che s'aprirono
intorno al 300 nella Campania e nel Lazio per la coniazione di
moneta d'argento ; prova di cresciuto benessere e di progresso eco-
nomico. Cosi mentre continuavano le loro emissioni Napoli e Nola,
prendevano a seguù-ne l'esempio le città alleate di Teano Sidicino
e di Nuceria Alfaterna e le colonie latine di Suessa, Cales, iVlba
Fucente, Signi a e Cora. Più a mezzogiorno poi cominciarono a
batter moneta d'argento le confederazioni dei Lucani e dei Bruzì
e le città apule di Teano, Arpi, Canusio, Rubi (Ruvo) e Celia
(Ceglie). La diffusione della valuta argentea è pur presupposta
dall'uso che andò diffondendosi anche in altre città, che esse stesse
non coniavano in metalli preziosi, della moneta divisionaria in
bronzo. E sembra pei'fino che, se non una vera e projjria conven-
zione, almeno un accordo di fatto per l'omogeneità di siffatta mo-
neta, fondato sui comuni interessi economici, si stabilisse nel se-
(1) È la ipotesi del Babelon Monnaies de la rép. rom. I p. XXIX segg.
(2) Cfr. MoMMSEN Rom. Miimioesen 114 segg. 212 segg. 340 segg.
488 CAPO xxrii. - coedizioni sociali ed economiche
colo IH fra quattro città di condizione politica e di nazionalità
diversa, la greca Napoli, la sannitica Compulteria e le colonie
latine di Suessa e di Esernia.
Questo stato di cose non poteva non avere efficacia sulla mo-
netazione romana di bronzo. Grià sul principio gli assi librali, seb-
bene molti di essi pesino più di dieci oncie, raggiungono assai di
rado il peso della libbra. Ma anche prescindendo da questo calo,
elle potrebbe dipendere da una specie di diritto di conio, presto
l'asse fu ridotto di non poco, talché intorno al 300 divenne trien-
tale, ossia del peso di quattro oncie (1). In ciò si manifesta evi-
dente la tendenza a trasformarlo in semplice moneta di credito,
tendenza che doveva dipendere dal diffondersi anche in Roma
della moneta d'argento; inoltre ridotto a questo modo l'asse si
potè ora anche col bronzo provvedere al bisogno sempre crescente
di monete che rappresentassero un valore maggiore: e mentre
prima non s'erano emessi che i sottomultipli dell'asse, ora si fu in
grado di fabbricarne i multipli sino al decusse. Né le cose pote-
vano arrestarsi a questo pmito: all'asse trientale fu presto sosti-
tuito il sestantario, del x>eso di due oncie, durante la prima guerra
punica secondo le nostre fonti (2), o piuttosto qualche anno prima,
come sembra dimostrare l'esame di queste monete. Infatti il con-
fronto tra certi segni di zecca che si riscontrano nell'asse sestan-
tario e nella più antica moneta d'argento romana (3) fa ritenere che
l'asse sestantario s'introducesse nello stesso anno 269 o 268 in cui si
prese per la prima volta in Roma a coniar moneta d'argento (4).
Pertanto, compiuta la conquista d'Itaha, pochi anni prima d'iniziare
(1) La riduzione ineritale non è menzionata dagli antichi, pei quali dall'asse
librale si passò senza transizione al sestantario.
(2) Fest. epit. p. 98 M: sed bello Punico popuhis Romanus pressus aere alieno
ex singuUs asaibus librariis senos fecit qui tantundem ut illi valerent. Cfr. p. 347.
Plin. n. h. XXXIII 44 : librale nutem pondus aeris imminutiim est bello Punico
primo Clini inpensis res p. non sufficeret constitutumque ut asses sextantario pon-
dere ferirentur.... postea Hannibale urguente Q. Fabio Maximo dictatore asses
iinciales facti. V. anche Mommsen Rorn. Munzivesen p. 288 n. 14.
(3) Questa osservazione è del Samwer. V. la tavola da lui data a p. 90 segg.
della mem. cit. Sulla questione complessa delle riduzioni dell'asse romano
V. anche lo scritto citato dal Haeberlin e K. Reglixg Zum alteren rom. und
ital. Miimwesen ' Beitriige zur a. Geschichte ' VI (1906) p. 489 segg.
(4) Plin. 1. cit.: argentum signatum anno urbis CCCCLXXXV Q. Ogulnio
C. Fabio COS. (a. 269). Liv. epit. 15 ne parla dopo la deduzione delle colonie
di Arimino e di Benevento.
KTDUZIOXE dell'asse. IL DENARO 489
la grande lotta con Cartagine, lo Stato romano avverti la neces-
sità di rinunciare al suo monometallismo, pur attenuato com'era
dalla coniazione romano- campana, ed emise contemporaneamente
moneta di bronzo e d'argento con rapporto fìsso. Nel nuovo sistema
la maggior moneta d'argento, del peso originario di gr. 4,55 ossia
di V72 della libbra romana (1), fu riconosciuta come equivalente
a dieci assi (sestantarì)' e detta perciò denaro (2). E cosi questo si-
stema può considerarsi a buon diritto come bimetallico; perchè il
valore dell'argento vi era ragguagliato a parità di peso a 120
volte quello del rame, il rapj)orto stesso che esisteva allora nel-
TEgitto tolemaico e che non si discostava probabilmente dal rap-
porto effettivo tra il valore commerciale dei due metalli. Ciò
mostra che la tendenza a trasformare l'asse in moneta di credito
ri ducendone il peso era stata controbilanciata fino allora dall'altra
a svalutare l'asse man mano che il peso ne diminuiva; di guisa
che al nuovo asse era riconosciuto ben minor valore che all'antico:
tanto ciò è vero che nelle multe fissate da leggi anteriori in libbre
di rame o in assi, non si considerò ])m Tasse come pari al decimo
del denaro, ma, con opportuno temperamento, come equivalente al
sesterzio, moneta eguale ad un quarto di denaro che, come dice il
suo stesso nome, valeva due assi e mezzo della nuova valuta di
bronzo. Solo al periodo seguente era riservato di veder la ridu-
zione del bronzo a vera moneta di credito e al tempo stesso la
prima emissione aurea per parte dello Stato romano. Quanto alla
moneta d'argento, il suo peso nel 269 era stato scelto evidente-
mente per metterla in corrispondenza con la dramma di valuta
attica dei successori di Alessandro; e il j)iccolo soprappiù era
destinato ad agevolarle la conquista del mercato mondiale. Ad
altro periodo spetta e la sua riduzione e il pieno svolgimento
degli effetti della coniazione argentea romana; perchè se è da
credere che tosto Roma sospendesse la coniazione della moneta
d'argento romano-campana, pur compensando in qualche modo i
Campani del danno che ne ebbero, solo a poco a poco, inabili a
reggere alla formidabile concorrenza romana, si chiusero le zecche
delle città alleate e delle colonie latine.
L'insufficiente sviluppo della circolazione metallica in Roma
(1) Questo ragguaglio fu rilevato per la prima volta dal Borghesi Oeuvres
11 p. 288. Cfr. HuLTSCH Metrologie^ p. 270 n. 1.
(2) Plin. 1. cit.: et placuit denarium prò X libris aeris valere, qiiinarium
prò V, sestertium prò dupondio ac semisse.
490 CAPO xxin. - condizioni sociali ed economiche
fino alla metà del sec. IV fu una delle cagioni delle sofferenze
della plebe e promosse l'abuso dell'usura (sopra p. 2 segg.) e per
naturale reazione le leggi che la restrinsero e poi l'abolirono. Di
siffatte leggi proibitive la più antica sarebbe stata già nelle
dodici tavole, le quali avrebbero permesso soltanto l'interesse un-
ciario (fenus unciariwm)^ ossia quello che non superava ^/u annuo
del calcitale (8 '/a P- %) (1)? o persino avrebbero del tutto vietato
il prestito ad interesse condannando il creditore a restituii'e il
quadruplo degli interessi ricevuti (2). Le due notizie son forse da
conciliare nel senso che la condanna del quadniplo colpiva sol-
tanto clii avesse oltrepassato il saggio legale dell'interesse; e del
resto, sebbene i prestiti dovessero farsi circa la metà del sec. V
in natura e non in denaro, non è x)untó inverisimile che il legis-
latore cercasse fin d' allora di attenuare una delle più gravi ca-
gioni del malessere della plebe : lo sfruttamento di essa per parte
degli incettatori di granaglie. Questa legge delle dodici tavole,
se pur fu realmente ]3romulgata e non è un' anticijD azione delle
posteriori leggi proibitive, dovette peraltro cadere in disuso quando
i prestiti in natura per cui essa era fatta cominciarono ad essere
sostituiti dai più agevoli e più pratici prestiti in metallo. Allora
la relativa facilità di questi prestiti era un incentivo a contrarre
debiti, mentre la insufficienza della cii^colazione metallica teneva
alto il saggio dell'interesse, e il debitore che non riusciva a pa-
garlo sottostava agli effetti gravissimi del "nexum,,.
Ciò spiega come la storia e la leggenda del IV secolo siano
piene di notizie intorno ai debiti. Cosi l' aver cercato di far can-
cellare i debiti della plebe è additato come una delle ragioni
della condanna di Manlio (3) ; e tra le leggi Licinie Sestie se ne
menziona una secondo cui gii interessi pagati dai debitori si sa-
rebbero dovuti detrarre dal capitale; ma di queste due notizie
(1) Tac. ann. VI 16: nam primo diiodecim tabulis sanctum ne qiiis unciario
fenore amplìus exerceret, cum antea ex libidine locupletium agitaretur, dein roga-
tione tribunicia ad seniuncias redactum, postremo vetita versura.
(2) Cato de agricult. 1 : maiores nostri sic habuerunt et ita in legibus posi-
verunt furem dupli condemnari feneratorem quadrupli: dove sembra evidente
che Catone voglia riferirsi alle dodici tavole. Della questione tratta assai ac-
curatamente BiLLETER Geschichte des Zinsfusses in griechisch-romischen Altertum
(Leipzig 1898) p. 114 segg., col quale in generale non convengo nelle conclusioni.
(3) Appian. Ital. 9: èpoùXeuaev xpeiwv àiroKOTidn. V. anche Liv. VI 14. Auct.
de vir. ili. 24, 5,
IL SAGGIO dell'interesse 491
nessuna fede merita la prima (sopra p. 195) e ben poca la seconda
(p. 217). E invece sicuramente storico il plebiscito Duillio Menenio
del 357 che permetteva soltanto l'interesse unciario (1), sia che
rinnovasse con altra sanzione, cioè una multa imposta dagli edili (2),
il divieto delle dodici tavole caduto in disuso pel mutar delle
condizioni, sia che per la prima volta ponesse all'usuila quel li-
mite che per anticipazione si sarebbe attribuito ai decemviri. Né
v'è ragione per dubitare che si creassero nel 352, conforme asse-
risce la tradizione, cinque magistrati straordinari {quinqueviri
mensarii) incaricati di fornire per conto dello Stato, ma su mal-
leveria, anticipazioni pei debitori morosi (3). Senonchè lo stesso
interesse unciario, per quanto, in XDroporzione della scarsezza del
denaro, non soverchio, era ancor tropiDO jDei dottrinari plebei, i
quali credevano di vedere il rimedio a tutti i mali nell'abolizione
dell'interesse; e mirava già evidentemente a questo scox)o il ple-
biscito che riduceva nel 347 l'interesse alla mezza oncia {fenus
semuììciarium)^ ossia ad V24 annuo del capitale (4 Ve P- %) (4),
preparando il plebiscito G-enucio che nel 342 aboliva addirittm-a
il prestito ad interesse (5). Se questa abolizione fosse stata effi-
cace, avi^ebbe avuto per effetto di distruggere il credito e quindi
di rovinare senza rimedio i piccoli x3roprietari privi di riserve in
denaro a cui per un anno fosse andato a male il raccolto. In
realtà essa ebbe il solo effetto di far si che il creditore si salva-
guardasse per mezzo d'un prestanome latino 0 peregrino, e prati-
(1) Liv. VII 16, 1. Sul significato del fenus unciarium v. Billeter op. cit.
p. 137 segg. Beloch art. Zinsfuss nel ' Handworterbuch der Staatswissen-
schaften ' del Conrad Supplbd. II 1002 segg.
(2) I primi processi edilizi contro gli usurai son ricordati pel 345, Liv. VII
28, 9. Cfr. Plin n. h. XXXIII 19: Flavius ex multaticia (pecunia) faeneratoribus
condemnatis aediculam aeream fecit. Liv. X 23. XXXV 41.
(3) Liv. VII 21. Questo provvedimento si ripetè anche dopo la battaglia di
Canne. Contrassegno di verità è che tra i quinqueviri per omnium anncdium
monumenta celehres non ricorre nessun Valerio e nessun Licinio. V. Mommsen
Staatsrecht III ' p. 640 segg.
(4) Liv. VII 27, 3: semunciarium tantum ex unciario fenus factum et in pen-
siones aequas triennii ita ut quarta praesens esset solutio aeris alieni dispensata
est. Che si trattasse di un plebiscito dimostra non solo l'analogia, ma anche
la testimonianza esplicita di Tacito, v. sopra p. 490 n. 1.
(5) Sopra p. 225 n. 1. Che questo plebiscito sia stato approvato è detto im-
plicitamente da Livio, esplicitamente da Tacito, v. Billkteu op. cit. pa-
492 CAPO XXIII. - CONDIZIONI SOCIALI ED ECONOMICHE
casse a questo modo Fiisura con piena libertà (1). Più efficace a
favore dei debitori, X3er quanto di natura affatto diversa, fu una
legge promulgata intorno ai tempi della seconda sannitica (2).
che se non vietò il contratto sotto la forma del " nexum „, almeno
ne attenuò di molto le conseguenze, e se non abolì la esecuzione
personale, la subordinò almeno a restrizioni e cautele (3), Del
resto le dissensioni provocate dai debiti non cessarono con queste
leggi : sappiamo infatti che anche sul principio del sec. Ili il mal-
contento dei debitori fu una delle cagioni della secessione della
plebe sul Gianicolo sedata dal dittatore Ortensio (sopra p. 231).
Ma non quelle leggi inefficaci rialzarono il medio ceto romano,
si il miglioramento generale delle condizioni economiche e pei
naturale progresso e più per l'effetto delle guerre fortunate con
le assegnazioni di terreno e Taffluii'e di capitali in Roma che ne
fui'ono la conseguenza. Tale affluire di capitali cominciò ad esser
sentito poco prima che si prendesse a coniarvi in argento, ed è
nel vero Fabio Pittore quando dice che i Romani ebbero a cono-
scere la ricchezza dopo la sottomissione dei Sabini, ossia, come
deve intendersi, dei Sanniti (4). Il fatto indubitabile, per quanto
possa sembrare aneddotico, della espulsione dal senato di P. Cor-
nelio Rufino console nel 290 e nel 277 e uomo di sperimentato
valore, che fu pronunciata da C. Fabricio come censore nel 275,
(1) Molto dopo, nel 193, si cercò di ovviarvi col plebiscito Sempronio ut citm
sociis ac nomine Latino creditae pecuniae ius idem quod cnm civihus Romanis
esset (Liv. XXXV 7). Ma un simile provvedimento sarebbe stato impossibile
nel IV secolo, date le relazioni affatto diverse che allora stringevano i Romani
con gli alleati.
(2) Secondo Liv. Vili 28 proposta dai consoli C. Petelio e L. Papirio nel
326, secondo altri posteriore al disastro caudino (Dionys. XVI 4, 8 = Suid. s. v.
rdioq AaiTd;pio<;. Val. Max. VI 1, 9). Cfr. Varrò del. l. VII 105. La cronologia
di Livio sembra preferibile: l'altra non pare avere altro fondamento che un
particolare aneddotico senza valore.
(3) Liv. 1. e: ne quis nisi qui noxam meruisset donec poenam lueret in com-
jìedibns aut in nervo teneretur, pecuniae creditae bona dehitoris non corpus ob-
noxium esse. Cfr. Varrò 1. e. Cic. de re p. Il 34, 59. Vi sono però non pochi testi
i quali dimostrano che le asserzioni delle fonti vanno prese anche qui cum
grano salis e che la esecuzione personale non fu abolita. V. Sall. Catti. 88.
Gell. n. A. XV 1, 51. Cfr. la così detta lex Rubria e. 21 e 22. Lex col. Gene-
tivaeQl, etc. V. Padelletti-Cogliolo St. del dir. Romano p. 257 n. /" e p. 841 seg.
(4) Fr. 20 Peter ap. Strab. V p. 228 C: 'PuJiaaiouc aìoGéaSai toO ttXoùtou
TÓT6 TTpuJTov ÒTE ToO ?9vou^ TOÙTOu (dci Sabini) KOT^arriaav KÙpioi.
PROCJRKSSO ECONOMICO. CENTRI DI ]>OPOLAZIONE 493
perchè s'era creduto lecito di tenere per dieci lib})re di vasellame
d'argento sulla sua tavola (1), mostra da una parte come pren-
desse ad accrescersi l'uso dei metalli preziosi in Roma, dall'altra
come questa necessaria conseguenza delle guerre vinte dai Romani
scandolezzasse quelli cli'eran più tenaci del costume antico. Aned-
dotico, ma pur caratteristico è ciò che si narra del contempo-
raneo M'. Curio (2). Ambasciatori sanniti andati a visitarlo nel mo-
desto poderetto, che aveva nel paese dei Sabini da lui conquistato,
lo trovarono seduto accanto al focolare, che s'allestiva da sé il suo
pasto frugale; e alla loro offerta d'oro egli rispose che non ne
aveva bisogno e preferiva comandare a quelli che ne possedevano.
Vero o no, questo aneddoto mostra come la pensassero allora i più
rigidi tra i Romani e come al tempo stesso la loro semplicità co-
minciasse a parere antiquata. Ma l'affluenza di denaro fu gra-
duale e misurata, poiché non v'erano in Italia popoli che si sfrut-
tassero per mezzo di tributi. E perciò non ebbe quegli effetti
esiziali che ha l'improvviso e smodato arricchimento presso gl'in-
dividui come presso i popoli quand'esso non è in proporzione col
crescere delle esigenze di carattere più elevato per effetto della
cultura, n moderato affluire di capitali finché viveva e prospe-
rava il robusto medio ceto agricolo latino, anziché dare origine ad
un cai^italismo avido e sfruttatore, poteva preparare il progresso
dell'agricoltura e deirindustria, mentre lo sviluppo della circola-
zione ijermetteva anche al contadino d'accumulare risicarmi che
valessero a salvarlo dall'usura meglio dei divieti legali facili ad
eludersi giocando di sotterfugi.
Il progresso economico dell'Italia in questa età si dimostra
anche neirincremento che vennero prendendo i centri cittadini, in-
cremento a cui contribuirono del resto in larga misura i Romani
con la frequente fondazione di colonie latine (3). Il formarsi delle
prime città in Italia é anteriore probabilmente alle più antiche
colonie greche nella penisola. Infatti eran già piccole città alcune
delle più ampie terremare (I p. 122) , e anche a maggior diritto
può chiamarsi tale l'antichissima Felsina, sin dai primordi della
età villanoviana (I p. 154). Il rapido sviluppo del commercio e
(1) Val. Max. II 9, 4. Gell. «. A. IV 8, 7. Dionys. XX 13 etc.
(2) Val. Max. IV 3, 5. Plin. n. h. XIX 87. XXXVI 111. Flou. I 13, 22. Lo
stesso aneddoto viene narrato di C. Fabricio da Frontin. strat. IV 3, 2. Cfr.
anche Hygin. fr. 3 Peter. Moltissimi altri accenni sono sparsi nelle fonti
(ilassiche.
(3) V. Beloch Le città dell'Italia antica in 'Atene e Roma' 1(1898) nr. 6.
494 CAPO XXIII. - COXDIZIOXl SOCIALI ED ECOXOMICHE
della industria in Etrmna fece sì che ivi già dal VII o dal VI se-
colo cominciassero a formarsi città relativamente considerevoli, che
sul principio potevano competere con le maggiori colonie greche.
Cosi già prima del sec. V Cere si estendeva per 120 ettari, Vetu-
lonia pure per 120, Volterra per 130, Tarqninì i^er 150, Volci per 180
(I p. 151) e forse sopra un'area anche più grande Veì (II ]). 125).
Eguale o maggiore ampiezza raggiunsero nel V e nel IV secolo
le colonie della Magna Grecia. Di queste la dorica Taranto al
tempo di Pirro primeggiava per estensione fra le città della pe-
nisola italiana racchiudendo entro le sue mura non meno di 570
ettari di terreno, che del resto, non tutto coperto di case, s'era
dovuto in parte comprendere nelle fortificazioni per semplici ra-
gioni militari (1). Soltanto il secondo posto aveva Roma tra le
città italiane per lo spazio racchiuso entro le mura, che dalla
metà del sec. IV saliva a circa 430 ettari. Non giungeva ad oc-
cupare neppure il terzo Capua con 180 ettari, essendo superata
anche da altre città greche. Nessuna città della penisola poteva
poi paragonarsi con Siracusa, che racchiudeva entro le mura co-
struite da Dionisio il Vecchio 1800 ettari, di cui peraltro solo una
quarta parte erano abitati.
Qualsiasi calcolo sulla popolazione di queste città non può riu-
scii'e che assai malsicuro x)er difetto di dati. Tuttavia non ci al-
lontaneremo molto dal vero attribuendo centomila abitanti a
Roma cù^ca il tempo della guerra di Pirro, e ritenendo che le
fossero di parecchio inferiori le due altre più popolose città ita-
liane, Taranto e Capua ; delle quali Capua contava verisimilmente
75.000 abitanti al tempo della guerra annibalica (2), Taranto
50-60 mila (3); e poiché è probabile che dalla guerra di Pirro la
popolazione di Capua dovesse essere aumentata, diminuita quella
di Taranto, è verisimile che si debbano ascrivere intorno al 280
70.000 abitanti circa a ciascuna di esse. Un po' meno erano jjopolate
Arpi e Canosa nelle Puglie, importanti peraltro anch'esse tanto
che superavano per estensione, a quel che ci vien detto, tutte le
(1) PoLYB. Vili 30, 5-8.
(2) La prefettura campana contava 34.000 maschi adulti secondo Liv. XXIII 5
cfr. Beloch Bevolkerung p. 419. Tenuto conto degli schiavi e dei peregrini
vi saranno stati almeno 150.000 abitanti, di cui la metà forse in Capua, la sola
grande città che vi era compresa.
(3) Dacché Q. Fabio Massimo conquistandola nel 209 potè vendere schiavi
80.000 de' suoi abitanti.
C'KXTKI DI POI'OLAZIONK 495
città italiche prescindendo dalle colonie greche (1) ; sicché ad esse
e alla potente colonia latina di Venosa (sopra p. 363) converrà
ascrivere un 50.000 abitanti o poco meno:, altrettanti o quasi do-
vevano pure averne le etrusche Cere e .Volterra, e, innanzi alla
guerra del 265, Volsini. Volci e Tarquinì, che prima avranno pro-
babilmente raggiunto una tal popolazione, private di buona parte
del territorio e danneggiate dalle guerre sostenute ripetutamente
con Roma, dovevano essere in decadenza. Fiorivano invece a sud
di Roma, accostandosi verisimilmente anch'esse a quel numero di
abitanti, la sidicina Teano e Fregelle che si preparava a divenire
la prima tra le colonie latine.
Oltre questi centri maggiori non mancavano nell'Etruria, nella
Campania e nella Magna Grrecia centri minori di notevole impor-
tanza : ne difettava invece il Lazio antico in cui, doxjo Roma, non
v'era che un altro centro di qualche conto, Ardea (I p. 182), il Sannio,
fatta eccezione per Benevento, la Sabina e il Piceno, dove sola
città un po' considerevole era Ancona. A settentrione poi, in ter-
ritorio non soggetto al predominio romano, i centri cittadini erano
scarsissimi; talché forse innanzi al princiiDÌo della prima punica
al nord di Rimini e di Pisa meritavano nome di città sul versante
adriatico soltanto l'italica Ravenna, la gallica Bononia, l'etrusca
Mantova, le venete Ateste, Adria e Patavio e sul versante .tirreno
al più la ligui'e Grenova.
Frattanto la unificazione d'Italia, assicurando piena pace per
la prima volta agli, abitanti della penisola e facilitando le comu-
nicazioni e gli scambi tra essi, pareva dover favorire il progresso
economico di tutti : tanto più che a Roma, ormai riconosciuta
come grande potenza, non era diffìcile con buoni trattati metter
gli Italici in grado di praticare anche all'estero in condizioni fa-
vorevoli il commercio. Sicché non minacciati apparentemente da
alcuno, i j)opoli italici, ridottisi a concordia dopo tante lotte, po-
tevano muovere lieti di speranze incontro all'avvenire.
(1) Strab. vi p. 383.
'MéhÀ A#M: <^k)hìÀd%jh §^ft)^A£-^fe^ J^kjh ^AA
CAPO XXIV.
Coltura e religione.
Fin dagl'inizi della storia romana, i Latini avevano nel proprio
alfabeto un ragguardevole istrumento di coltura. Semplici e pre-
cisi, i caratteri latini hanno reso ai Romani ed a tutti quelli cui
i Romani hanno trasmesso la propria civiltà assai meno laboriosa
la lettura e la scrittura, e quindi assai più facile lo scambio delle
idee tra i contemjDoranei e il tramandare le conquiste del pensièro
ai posteri di quel che non sia presso i popoli che significano le
idee o le sillabe in modo spesso impreciso ed ambiguo con centi-
naia e centinaia di caratteri. Ma non da sé si son procacciati questo
istrumento di coltui'a i Latini, sì l'hanno ricevuto già maestrevol-
mente foggiato dai Greci: i Greci stessi del resto lo debbono in
buona parte ai Tenici ed i Fenici in buona parte ad altri popoli
orientali. In Oriente già in età assai remota si erano formati ac-
canto ai sistemi di scrittura in tutto o in parte ideografici , altri
interamente fonetici con caratteri esprimenti le varie sillabe. I
Fenici, prima del mille av. Cr., semplificarono questi sillabari
indicando con lo stesso segno la consonante seguita da qualsiasi
vocale. Ma il rischio d'essere fraintesi attenuava il beneficio dèlia
notevolissima semplificazione, favorita del resto dal carattere oscil-
lante che avevano nelle lingue semitiche le vocali. Senonchè i
Greci, adottando il sistema fenicio di scrittura, vi introdussero una
modificazione in apparenza di poco conto, ma in realtà d'im-
portanza capitale; adoperarono cioè le semivocali e alcune delle
aspirate fenicie ad esprimere le loro vocali: e cosi significando
ormai con l'alfabeto tutti i suoni, consonanti e {Vocali, lo resero
un istrumento perfetto a fissare con la scrittm'a la parola o, per
Gì A ALFABETI LT ALICI 49/
dir meglio, lo crearono, giacche i caratteri fenici non costituivano
che un sillabario perfezionato.
Gli alfabeti italici derivano tutti dal fenicio pel tramite del
greco (1); infatti non solo adoperano conforme al greco a signi-
ficar le vocali i segni delle semivocali od aspirate fenicie, ma
possiedono anche segni aggiunti dai Grreci all'alfabeto fenicio
come Y (V) e X. Gli alfabeti greci si distinguono in due grandi
gruppi, 1" uno dei quali adopera il segno X per indicare la gut-
turale aspii^ata eh e il segno Y per la doppia ps^ V altro quello
per indicare la doppia x e questo per la gutturale aspirata eh. Al
primo gru])po, detto orientale, appartengono gli alfabeti della Ionia
d'Asia, d" una parte delle isole e dell' Argolide con le sue colonie ;
al secondo , detto occidentale, quelli della penisola ellenica, tolta
l'Argolide e l'Attica e compresa l'Eubea. Questa divisione in grujDpi
è anteriore alla fondazione delle colonie greche dell' Italia meri-
dionale e della Sicilia; poiché gli emigranti greci vi recarono con
se gli alfabeti diversi della madrepatria; per modo che mentre
nelle colonie corinzie, come a Siracusa, s' adox^erava un alfabeto
orientale, nelle colonie calcidesi, per esempio a Cuma, s'adoperava
un alfabeto occidentale, finché nel sec. IV non fu adottato in tutti
o quasi i paesi ellenici d'Oriente e d'Occidente l'alfabeto ionico. Gli
indigeni d'Italia sulle prime adoperavano senz'altro l'alfabeto delle
colonie greche più ijrossime. Cosi i Siculi presero ad usare l'alfa-
beto siracusano (2) , i Messapì il tarentino o il locrese (3) , gì' in-
digeni dell' Italia centrale il calcidese di Cuma ; ma nelF Italia
centrale 1' assimilazione della civiltà greca fu più lenta e più li-
bera: di guisa che a poco a poco l'alfabeto calcidése venne tras-
formato e adattato. Un punto di contatto hanno tutti gli alfabeti
indigeni dell'Italia centrale, che mostra coni' essi procedano da
un comune capostipite pure indigeno, l'uso nei documenti più
antichi dei due segni F0 per esprimere la labiodentale / (4). In
(1) Il fondamento per lo studio degli alfabeti italici fu posto dal Mommsen
Die unteritalifchen Dialekte (Leipzig 1850). La derivazione di gran parte di
essi dal calcidese fu dimostrata dal Kirchhoff Studien zur Geschichte des grie-
chischen Alphabets (4* ed. Gutersloh 1887). Sugli alfabeti dell'Italia settentrionale
V. Pauli ' Altitalische Forschungen ' I e III, le cui conclusioni sono spesso
tutt'altro che sicure.
(2) Thurneysen ' Zeitschrift f. vergleichende Sprachforschung ' XXXV (1897)
p. 212 segg. Cfr. I p. 99 n. 3.
(3) La prima è l'opinione del Kirchhoff, la seconda del Pauli.
(4) Sull'uso di FB anche nell'etrusco primitivo, v. Pauli ' Altital. Forschungen '
III 100 segg. Per la origine calcidese dell'alfabeto etrusco v. anche I p. 130 n. 1.
G-. De Sanctis, Storia dei Romani, II. 32
498 CAPO XXIV. - COLTURA E KELIOIOXE
procedere "di tempo si distinsero due alfabeti diversi. Uno di essi
è l'etrusco, da cui derivano Tosco e T umbro, che lia per nota
caratteristica 1" uso del nuovo segno 8 per la labiodentale e la
caduta dell' O. La provenienza non solo dell' alfabeto umbro, ma
anche dell'osco dall'etrusco (1) è provata dalla mancanza in essi
dell' O, mentre non mancava a quei due dialetti italici, come al-
l'etrusco, la vocale corrispondente, tanto che gii Oschi cercarono
poi d'esprimerla distinguendo IV con un segno diacritico (V).
Invece indipendente dall^etrusco è 1' altro alfabeto , il latino, che
sostituisce presto a FB il semplice segno F per esprimere la
labiodentale, adopera il segno V non solo per la vocale ?/, ma
anche per la labiale spirante v\ e al tempo stesso conserva il
segno O e lascia cadere quelli delle aspii'ate dentale, guttiu^ale e
labiale e della s', quest'ultimo reintegrato più tardi per le parole
desunte dal greco. Dal V al IH secolo del resto nell'alfabeto la-
tino s'introdussero varie modificazioni. Dapprima esso col calcidese
usava C (f) per la gutturale media e K per la guttm-ale tenue,
poi dal 400 circa, sull' esempio dell' etrusco e forse per opera di
scribi o di scalpellini etruschi, lasciò cadere a poco a poco il K
e adoperò C per ambedue le gutturali, infine dalla prima metà
del m sec. distinse novamente le due gutturali modificando per
esprimere la media il segno C in G, che prese il posto della Z
caduta (2).
Assai più spinosa è la questione della origine degli alfabeti
dell'Italia settentrionale, di cui abbiamo vari documenti che non
sono anteriori al IV o al più alla fine del V sec. av. Cr. Sembra
che possa distinguersi un alfabeto gallico , adoperato nelle iscri-
zioni del territorio di Lugano, delle provincie di Novara e di Mi-
lano (3), in una epigrafe di Todi e in leggende di monete della
Provenza e della Svizzera; un alfabeto retico, adoperato nei ter-
ritori di Matrey, di Bolzano e di Trento; un alfabeto veneto, ado-
perato ad Ateste, nella Venezia, nell'Istria e nella Carinzia. Il far
difetto le medie a tutti e tre questi alfabeti , 1' uso per esprimere
una sibilante del segno X] che può documentarsi nell' alfabeto
gallico , nel veneto , come nel campano-etrusco e nel falisco , e
(1) V. I p. 443 n. 6.
i2) RiTscHL Zur Ge-fchichte des lateinischen Alphabefs in Opiisculn IV p. 691 segg.
(3) Per alcune iscrizioni recentemente scoperte v. Kretschmer nella ' Zeit-
schrift ' del Kuhn XXXVIII (1902) p. 97 segg. (I p. 63 n. 1) e Lattes ' Atti
dell' Acc. delle scienze di Torino' XXXI (1896) p. 102 segg. XXXIX (1904)
p. 449 segg.
GLI ALP^ ABETI ITALICI 499
inliiie (luello di F i|' (=FB) nel veneto per la labiodentale /
sembrano indicare che questi alfabeti derivano dall'etrusco; né
par da credere che sia diversa 1" origine di un alfabeto adoperato
in varie iscrizioni scoperte intorno a Sondrio, in cui si riscontra
la media B : poiché forse questo se n ' è staccato , come 1' umbro,
in un momento in cui non aveva ancor perduto i segni delle
medie. Dalla stessa fonte proviene probabilmente 1' alfabeto così
detto sabellico, rappresentato da iscrizioni rinvenute soprattutto
nel Piceno (1), uno de' cui segni più caratteristici è appunto M.
Questo alfabeto peraltro accozza caratteri d'origine calcidese con
caratteri d'altra provenienza; poiché dall'alfabeto di Corinto e
delle sue colonie esso ha attinto almeno il segno della dentale
media i^^— • ; né ciò può recar meraviglia, dato lo sviluppo del com-
mercio corcirese e siracusano sulle coste deir Adriatico.
Degli alfabeti italici il più antico documento che si abbia non
è posteriore al sec. VII (2); dell'alfabeto latino in particolare il
documento più antico a noi conservato spetta al sec. VI ; ma non
è escluso, benché non sia dimostrato, che nell'età augustea se ne
conservassero anche di anteriori. Certo però la scrittura fu ado-
perata fino al 500 con estrema parsimonia; e solo nel V sec. co-
minciò ad usarsene con un po' più di larghezza. Ma anche allora
null'altro in Roma si scriveva se non liste di magistrati, trattati,
brevi dediche agii dèi di carattere pubblico o privato, qualche
legge, forse qualche breve epigrafe sepolcrale. Il principale ri-
cordo scritto che il V secolo trasmise alle età successive, fu il
codice delle dodici tavole. Le memorie dei pontefici e le liste di
cittadini atti alle armi non é provato che siano anteriori alla fine
del sec. V; forse, ma non sappiamo, già prima che ricordi storici,
i pontefici avevano cominciato a notare norme, di diritto sacro, riti
religiosi, formole di preghiera. Ma tutti questi documenti scritti
avevano fini pratici. Il lavorio poetico di quell'età remota, in
quanto non s' esplicò nella composizione di carmi rituali, che
furono, più o meno presto, registrati dai sacerdoti, non ha lasciato
alcuna traccia scritta. E con ciò sono perite le testimonianze di-
rette della maggior parte del movimento intellettuale della l\oma
(1) V. 1 p. 72 n. 1.
(2) Son certe marche di fabbrica in parte aventi carattere evidentemente
di lettere che si son rinvenute su bronzi del deposito trovato presso la chiesa
di San Francesco a Bologna (Montklius Civ. jìrim. en Italie I tav. 70 n. 19-20).
I segni impressi su frammenti di vasi in terracotta della necropoli Arnoaldi
(Montklius 1 tav. 84 n. 10-24) non son certo segni alfabetici.
500 CAPO XXIV. - COLTUltA E KELIGIONE
Ijrimitiva, poiché prescindendo dall'opera che si spende nell'ela-
borazione delle leggi, finché non esiste scienza nò riflessione filo-
sofica, il movimento intellettuale si esplica soprattutto nella poesia
e nella evoluzione del pensiero religioso: strettamente connesse
tra loro, quella essendo anche il veicolo di questo.
Il popolo italiano è forse uno dei più forniti di attitudini poe-
tiche, poiché sposa un senso mirabile dell'armonia e della mism-a
alla profondità e originalità del sentimento, come prova la storia
della moderna poesia italiana da Dante al Manzoni, dal Leopardi
al Carducci. Ma non c'è dubbio che la profondità del sentimento
e la freschezza della fantasia difettano in generale alla poesia
classica latina per quanto essa raggiunga talora una rara perfe-
zione di forma; di che la ragione sta nell'imitazione greca la
quale uccise nel Lazio lo sviluppo originale della poesia, che pui'
s"era iniziato in modo assai promettente con l'epopea popolare.
Rispetto a questa poesia anteriore alla imitazione greca, si suol
dire che gli antichi Latini erano troppo intenti alla lotta per l'esi-
stenza per potersi occupare con profitto d'arte. Ma in realtà la
poesia popolare nasce e sorge a ragguardevole altezza presso po-
poli primitivi, quando non manchino di genio poetico, proprio in
mezzo alle battaglie per l'esistenza. E cosi nacque indubitata-
mente presso i Latini. Soltanto a noi nulla o quasi rimane della
primitiva poesia latina, poiché prima d'esser fissata per mezzo
della scrittura cadde in dimenticanza non appena sorse la poesia
d'arte e di riflessione ad imitazione della greca.
Se nulla o quasi, prescindendo dai riassunti in prosa d' alcune
leggende ad essi attinte, ci é pervenuto dei carmi più antichi, ab-
biamo almeno qualche saggio del verso di cui i Romani si servi-
vano nel comporli, il saturnio (1). Non par dubbio che questo
verso sia fondato, al pari di tutta la poesia classica latina, sulla
diversa quantità delle sillabe che lo compongono, non sull'accento
tonico delle parole. Certo non v'é alcuna continuità tra esso e la
(1) La letteratura sulla questione del saturnio è raccolta con assennate con-
siderazioni dallo ScHANz Geschichte der rimi. Litteratur 1 P (1907) p. 14 segg.
Vedasi soprattutto L. Muf.llek Der saturnische Vers nnd scine Denkmahr (.Leipzig
1885). Baehrens nella prefazione ai suoi Fragmenta poetaruin Romanoniin
(Lipsiae 1886). I documenti epigrafici trascurati da L. Mueller son raccolti
dal BuECHELER nella Anth. Latina (ed. Teubneri li (carmina epigraphiea). Per
le analogie cfr. Usener Altgriech. Versbau (Bonn 1881). Leo Der Saturnische
Vers nelle ' Abhandlungen des Ges. der Wiss. zu Gòttingen ' pliilol. - histor. Kl
n. s. Vili (1905) nr. 5.
IL TERSO SATURNIO. LA POESIA ANTICHISSIMA 501
poesia ritmica della bassa latinità: e poi se la poesia quantita-
tiva fosse rimasta ignota prima della metà del secolo III ai Ro-
mani, non si capirebbe come si adottasse tanto facilmente da
poeti quali erano Livio Andronico o Nevio in x^roduzioni destinate
appunto al xjopolo. Del resto il saturnio non è un verso primi-
tivo : esso consta di due parti, in ciascuna delle quali si distin-
guono tre arsi; e con ciò si accosta a quei brevi versi di otto
sillabe con tre o quattro arsi, che sono probabilmente i più an-
tichi versi greci e quelli da cui nacque l'esametro; onde anche
Tanalogia dei più antichi versi greci come pure degli indiani, cui
i suoi elementi somigliano, conferma che debba scandersi secondo
la quantità. Questo verso pertanto, che s' abbellisce solo di fre-
quenti allitterazioni, e il cui schema metrico è spesso difficilmente
riconoscibile tra le dure e molteplici licenze, era l'istrumento del-
l'antica poesia popolare latina: istrumento certo difettoso al con-
fronto del mirabilmente armonico e vario esametro greco, uno dei
versi più perfetti che il genio umano abbia foggiato. In questa
differenza tra i metri usuali nel!' età più antica nella Grecia ed
in Roma si rispecchia il precoce grandeggiare del sentimento
estetico presso gli EUeni con cui per tale rispetto non può com-
petere alcun popolo ario : favorito dall' aver in Grecia -per la
prima volta gli Indoeuropei, mentre sperimentavano i benefici di
un clima meridionale, praticato davvicino, ma non cosi che ne
rimanesse danneggiata l'autonomia del loro sviluppo, con popoli
in possesso di civiltà più progredita. E tuttavia parecchie ana-
logie e più quei riassunti in prosa cui già s'è accennato mostrano
che sarebbe errato giudicare senz'altro del valore della poesia ro-
mana antichissima dalla imperfezione dell' istrumento di cui si
valeva (1).
Dei prodotti della primitiva poesia romana i carmi sacri, come
del resto i più antichi inni sacri ellenici, mancavano di impeto vero
di sentimento, consistendo, per quanto può giudicarsene, in poco
poetiche litanie, di cui a noi sono pervenuti scarsi e non molto
intelligibili resti in qualche verso del carme saliare (2), in altri
(1) Ramorino La poesia in Roma nei primi cinque secoli in ' Riv. di tìlologia
classica ' XI (1883) p. 417 segg. Affatto insufficienti son le poche pagine che
dedica a questa poesia il Ribbeck nella Geschichte der rom. Dichtitmj I - (1894\
(2) MAunENHRECHER Carminum Saliariinn reliqidae in ' Jahrbb. f. Phil.' Supplhd.
XXI (1894) p. 313 segg. Sulla oscurità di questi carmi v. Quintil. inst. I 6, 40 :
snliorum carmina vix sacerdotibus suis satis intellecta. Hor. epist. II 186 segg.
502 CAPO XXTV. - COLTURA E RELIGIONE
che erano cantati dai fratelli arvali (1) , e in certi adagi che ac-
compagnavano alcnni incantesimi (2). Degli antichissimi vaticini
poi non ci è dato pronunciare alcun giudizio, nulla essendone ri-
masto che possa riguardarsi come autentico (3). Possiamo formarci
invece un concetto della epopea popolare: poiché è dato ricosti-
tuire più d'uno degli antichi carmi epici dai racconti tradizionali
eliminandone soltanto le falsificazioni o le amplificazioni annali-
stiche. Or tutti questi carmi non mancano né d'ispirazione, né d'al-
tezza di sentimento. Certo, a giudicare da quel che di essi rimane,
la fantasia non vi lussureggiava, rotto ogni freno d'arte e di ra-
gione, come nei carmi indiani; e nexDpure, come nella epo^Dca greca,
vi rifulgeva tra invenzioni mirabili di semplicità e di ]3otenza, di
ardimento e di misura. E tuttavia la serietà e sincerità del senti-
mento e la ingenua efficacia della rappresentazione, dovuta all'esser
quei carmi vissuti in certo modo dal popolo che li creava, il quale
compiva nella realtà della vita imprese non inferiori a quelle in
essi celebrate , e forse anche più 1' elevato e pure ingenuo senso
d'umanità a cui s'ispiravano, fece si che attraverso ai rifacimenti
prosaici in cui ci son giunti, essi formino parte integrante del
patrimonio spirituale dei popoli inciviliti, i quali, come non dimen-
ticheranno mai Ettore, Achille ed Agamennone, cosi serberanno
sempre vive le immagini certo meno divine, ma apjjunto perciò
più veramente umane di Cincinnato e di Coriolano, dei Fabì e di
Porsenna, di Lucrezia e di Verginia (4).
(1) Riportati nei verbali degli Arvali del 29 maggio '218 d. Cr. Per la in-
terpretazione V. GoiwANicii Studi di latino arcaico in ' Studi italiani di filo-
logia classica' X (1902) p. 270 segg.
(2) P. e. Varrò de re r. I 2, 27 : ctim homini pedes dolere coepissent, qui fui
meininisset, ei mederi posse, ego fui memini, medere meis pedibus, ' ferra peste»!
teneto, salus hic maneto ' [in meis pedibus]. hoc ter noviens cantare iubet, terram
tangere, despuere, ieiutium cantare. Heim Incantamenta magica Graeca Latina
'Jahrb. f. Phil. ' Supplbd. XIX (1893) p. 465 segg.
(3) Il vaticinio sul lago albano riferito da Livio al 397 av. Cr. (V 16) non
è anteriore all'età di Livio Andronico e d'Ennio (Bakhkens FPR. p. 21). I va-
ticini dei Marcì che circolavano al tempo della seconda punica (Liv. XXV 12)
non sono anteriori a quella guerra, e per di più Livio ne ha parafrasato non
il testo originale, ma una tarda elaborazione. Ciò non esclude che negli annosa
volumina vatum di cui parla Orazio epist. II 1, 26 potesse trovarsi qualche va-
ticinio autentico del V o del IV sec.
(4) Sulla esistenza di questi carmi epici v. le prove addotte 1 p. 22 segg.
Esempì I p. 367 seg. 373 seg. 398. 446 segg. TI p. 45 seg. 109 segg. 116 segg.
i
EPOPEA POPOLARE. NENIE. CAKMI TRIONFALI 503
Elementi fantastici e mitici eran del resto fusi indubitatamente
nella epopea x^opol^-i"® con elementi storici, né è escluso che in
qualche parte l'epopea popolare risentisse l'influenza di due sorta
di carmi d'occasione che allora usavano, e in cui si discorreva di
fatti e d' uomini contemporanei , le nenie e i carmi trionfali. La
nenia era una lamentazione fùnebre poetica, fatta in origine da
donne della parentela del defunto e più tardi da donne all'uopo
salariate, che praticavano il mestiere tuttora esistente in certe parti
d'Italia di piagnone o prefiche. A partire però dalla seconda pu-
nica sembra che, in ispecie nei centri più progrediti e per le
famiglie più importanti, quelle primitive lamentazioni fossero so-
stituite da carmi corali elaborati artisticamente ad imitazione dei
treni greci, che conservarono il nome stesso di nenie (1). I carmi
trionfali erano cantati da cori di soldati che accompagnavano il
cocchio del duce trionfante, e s'alternavano nel celebrarne le lodi
o nel pungerlo con scherzi talora estremamente mordaci (2). Son
frequenti accenni a simili carmi nella nostra tradizione sulla più
antica storia romana , e per quanto ciò che vien detto su carmi
comx^osti pei trionfi di Romolo, Cincinnato e Camillo (3) sia evi-
dentemente inventato dagli annalisti valendosi di ciò che vedevano
accadere nei trionfi del II e I secolo, e possa quindi servirci sol-
tanto per integrare il concetto che per altra via laossiamo farci
dei carmi trionfali degli ultimi tempi della repubblica, va ritenuto
che l'uso di siffatti carmi, i quali anche in età progredita erano
sommamente rozzi per la forma e per la sostanza, risalga ad una
remota antichità.
In questi carmi aveva ampio sfogo lo spirito satirico. L'elemento
satii-ico, che ha in generale larga parte nella poesia primitiva di
tutti i popoli, ne ha x^oi una larghissima nella i^oesia italiana di
ogni tempo x^er la lucidità della mente italica che sa coglier su-
bito il lato ridicolo delle cose dovuto al perenne contrasto tra il
reale e l'ideale. Lo sx>irito satirico s'esplicava in modo anche più
libero nei versi fescennini, specie di tenzoni x^oetiche di carattere
giocoso che si usavano nelle feste rurali ed anche in occasione di
'1) Con queste limitazioni pare vada inteso il testo di Varrone ap. Non.
p. 66 s. V. praefica. Sulle nenie v. Wehr De Romana nenia in ' Abschiedschr. f.
E. Curtius' (Gottingen 1868) p. 11 segg. Amatucci Neniae e laiidationes funehres
in ' Riv. di fi]. ' XXXII (1904) p. 625 segcr.
(2) V. l'importante memoria di E. Stampini Alcune osservazioni sui carmi
trionfali romani in 'Riv. di Fil. ' XXVI (1898 p. 230 segg.
{3} DioNYs. TI 84. Liv. Ili 29, 5. V 49, 7. Cfr. FV 20. r,3. VII 38, 3. X 30, 9.
504 CAPO XXIV. - COLTURA E RELIGIONE
matrimoni: versi dove non mancavano scherzi maligni ed osceni
cui la legge cercò col tempo, non sappiamo con quanta efficacia,
di porre un limite (1). Prendevano nome da Fescennia, terra del
paese falisco, non perchè avessero avuto origine colà, ma perchè
colà Titalico aceto di quei carmi richiamò per la prima volta l'at-
tenzione degli Etruschi che s'erano impadroniti di Falerì (2).
Nei versi alternati dei carmi fescennini e dei carmi trionfali era
già un principio di drammatica. Ma non fu dato ai Romani di
elaborare originalmente questi rudimenti drammatici e creare un
dramma nazionale (3). Il nome stesso delle più antiche composi-
zioni drammatiche romane, le sature (4), mostra che assai presto
(1) Mediante una interpretazione della legge delle dodici tavole contro la
occentatio di malum Carmen aliena dallo spirito de' suoi autori, i quali mira-
vano a colpire con essa non l'ingiuria verbale, ma l'incantesimo. V. la me-
moria del HuvELiN citata sopra a p. 80 n. 6.
(2) A questo modo mi sembra che l'etimologia da Fescennia non possa pre-
sentare alcuna difficoltà, e che non sia quindi necessario ricorrere all'altra pivi
forzata da fascimcm. Ambedue sono state proposte già dagli antichi : Fest.
epit. p. 85 s. v. Fescennini versus.
(3) Sulla storia della drammatica romana la testimonianza antica più im-
poTtante è quella di Liv. VII 2. Punto di partenza di questa ricostruzione
storica è che nel 364 in occasione d'una epidemia per la prima volta si sa-
rebbero fatti ludi scenici in cui ballerini etruschi avrebbero eseguito dani^e
al suono del flauto. In realtà di questi particolari per un'età sì remota è dif-
ficilissimo che si conservasse un ricordo documentale: e possiamo ritenere
soltanto che dai solenni ludi scenici del 364 (fossero o no per davvero i primi),
per essere i primi registrati con un semplice accenno negli annali dei ponte-
fici, prendessero le mosse le ipotesi degli antichi storici della letteratura. Ma
queste ipotesi hanno ben poco valore. Basti citare il passo seguente : imitari
deinde eos (gli artefici etruschi) iuventus simul inconditis inter se iocularia fun-
dentes versibus coepere nec absoni, a voce moti erant, dove si dimentica che il
canto e la danza al suono degli istrumenti musicali sono antichissimi presso
tutti i popoli e che i Romani non avevano bisogno d'impararli dagli Etruschi.
(4) Della satura drammatica unica testimonianza è quella di Livio 1. e. dove
dice che gli scherzi verseggiati originarono inpìetas modis saturas descripto
iam ad tibicinem catitu motuque congruenti. Or come qui la storia della satura
è fatta movendo da una congettura (e congettura verisimil mente errata), al-
cuni son giunti a negare ogni valore a questa notizia sulla esistenza d'una
satura drammatica. Così Leo Varrò und die Satire in ' Hermes ' -XXIV (1889)
p. 77 segg. Ma fu osservato giustamente che non si spiega come mai i critici,
se non vi fosse stato documento d'una satira drammatica, avrebbero potuto
inventarla. Rispetto alla etimologia, è noto che alcuni tengono la satura come
una poesia infarcita di ogni sorta di versi o di scherzi {lanx satura), altri
VEllSI FKSCEXXIXI. SATURE. ATELLANE 505
si risenti in Roma, probabilmente per mediazione etrusca, l'efficacia
della di'ammatica greca; poiché non par dubbio che la satura era
foggiata sul dramma satirico greco, e prendeva nome come quello
dal coro dei satiri. Le sature rim.asero poi oscurate dalle atellane,
in cui ai satiri erano sostituite le maschere fìsse (1) ; tra cui più
note Macco, il contadino zotico, Pappo, il vecchio stolido, il ghiotto
Buccone e il gibboso Dossenno. Anche le atellane dipendevano
dal dramma greco, e in particolare dai fliaci (qpXùaKeq) della Magna
Grecia; ed anche questa produzione drammatica non pervenne in
Roma direttamente dai Grreci, si, come attesta il nome, dalla Cam-
pania; poiché Tessersi continuate a recitare a Roma fino all'età
augustea produzioni in dialetto osco (2) mostra che il nome deve
sxjiegarsi dal luogo d'origine, e non iDerchè vi fossero messi in
ridicolo gii Oschi d' Atalia (3). Certo è del resto che entro i ter-
mini del periodo di cui trattiamo cominciarono a recitarsi in Roma
le atellane, sebbene solo assai più tardi avessero forma letteraria.
Infatti gii attori delle atellane non perdevano come gii altri attori
la onorabilità né potevano èssere obbligati a deporre la maschera
dinanzi al pubblico, sicché Tatellana fu accolta in Roma quando era
possibile bensì trovarvi filodrammatici volenterosi, ma non ancora
attori di professione, dunque prima della metà del secolo TTI. Cosi
mentre la epopea primitiva e la primitiva poesia sacra furono in
Roma schiettamente nazionali, la i:)oesia drammatica non si svolse
se non sotto gli influssi del dramma greco, anche prima che le
traduzioni o le imitazioni servili della commedia e della tragedia
greca cominciassero a dominare sulla scena.
come il dramma delle persone sazie. Ma par di gran lunga preferibile 1' eti-
mologia dai satiri: perché sarebbe strano che in Grecia ed in Roma fossero
state contemporaneamente in uso due composizioni drammatiche di nome
eguale e di natura diversa, v. Hendkickson The dramatic Satura and the old
Comedy at Rome in ' American Journal of Philology ' XV (1894) p. 1 segg.
Il) MuxK De fabulis Atellanis (con raccolta dei frammenti) Lipsiae 1840.
SiTTL I personaggi dell' AteUana in ' Riv. di st. ant. ' I (1890) fase. 3. Oraziani
' Riv. di Fil. ' XXIV (1896) p. 388 segg. e soprattutto Diktkkicu Pidcinella (Leipzig
1897) p. 84 segg.
(2) Strab. V p. 233: lòiov ^é ti toT; 'OaKoi<;... ouuPépriKe. tuùv m^v ròp 'OaKUjv
^KXeXoiTTÓTUJv ri òidXeKToe; |u^v€i uapà Toìq 'Pujmoìok; iIiaTe Kaì -noiniuaTa OKr|vo-
paxeioGai Kord riva à-fuJva Trdxpiov Kai |ui|uoXofeìo0ai. Gre. ad fam. VII 1, 2.
(3) Cfr. Liv. 1. e. e Diomkuk (Keil Gr. L. I 389): tertia spccies est fabtt-
lariun Latinarum quae a civitate Oscorum Atella in qua primum coeptue appel-
latae sunt Atellanae.
500 CAPO XXIV. - COLTURA E KKLKUONE
Avevasi dunque in questa età in Roma una letteratura poetica,
per quanto non fissata se non in parte minima per mezzo della
scrittura. La letteratui^a prosastica invece, a Roma come altrove, è
nei suoi inizi assai posteriore. Non erano scritte con intenzione
d'arte né le note storielle dei pontefici, né gli atti dei vari collegi
sacerdotali, e nepx3ui'e i commentari dei magistrati, i libri clie ne
contenevano le liste, le tavole dei censori, documenti tutti non po-
steriori nelle loro origini al IV secolo, e cosi dicasi degli alberi ge-
nealogici e delle iscrizioni clie si collocavano sotto le imagini degli
avi, ricordando gli onori da essi raggiunti, documenti privati che
debbono risalire anch'essi all'incirca alla medesima età. Avevano
invece carattere letterario, per quanto a Cicerone potessero sembrar
disadorni ed arcaici (1), i panegirici che i parenti recitavano nel
Foro pei defunti illustri {laudationes) (2); ma sebbene abbiamo
ragione di ritenere che l'uso di questi panegirici sia assai antico,
non si può davvero prestar fede alla tradizione che riguarda come
il primo tra essi quello di Bruto (3), ed è incerto quanto Tuso
di siffatte laudazioni fosse anteriore alla più antica di cui abbiamo
notizia che si conservasse qualche secolo di poi, quella di Q. Ce-
cilie Metello pel suo padre Lucio (221) (4).
Il primo degli scrittori romani fu Ap. Claudio Ceco, il censore
del 312 (sópra p. 226 segg.), uomo che in letteratm-a, come in po-
litica, precorse i suoi tempi. Non vi sono argomenti fondati per
ritenere non autentica quella sua orazione contro la pace con Pirro
(sopra p. 404) che si conservava ancora al tempo di Cicerone (5).
Lo scarso valore letterario che, a giudizio di Cicerone, essa aveva.
(1) Cic. de orai. II 84, 341.
(2) VoLLMER Laudationum funebrium Romanorum historia et reliquianon editio
' Jahrbb. f. ci. Phil. ' Supplbd. XVIII (1892) p. 506 segg.
(3) DioNYS. V 17. Plot. Popi. 9. Adct. de vir. ili. 10. Lyd. de mag. I 33.
(4) Plin. n.h. VII 139,
(5) Cic. Brut. 16, 61. Caio in. 6, 16. Cfr. Senec. epist. 114, 13. Tacit.
dial. 18. 21. Cima L'eloquenza latina prima di Cicerone p. 9 n. 3. ' Boll, di fil.
classica' XI (1904-5) p. 60 segg. Niese 'Hermes' XXXI (1896) p. 493 seg. La
osservazione del Niese che Cicerone avrebbe dovuto menzionar già quella
orazione nel de oratore e che perciò presumibilmente essa è stata falsificata
in vita di Cicerone pare assai arbitraria. Certo la orazione di Appio non può
aver che fare con la concione che gli è attribuita da Plut. Pijrrh. 19, e piut-
tosto è da credere che un riassunto abbastanza fedele ne fosse dato da Ennio,
del quale riassunto i primi versi son citati da Cic. Caio m. 1. e. e differiscono
notevolmente dall'esordio plutarcheo.
LAUDAZIONI. APPIO CI.ArDIO CKCO 507
al pari delle altre orazioni arcaiche a lui note, ne conferma la ge-
nninità. Era senza dubbio molto anteriore a tutti gli altri discorsi
politici romani che Cicerone potè leggere, i quali non risalivano
che al sec. II, ed anche alla più antica delle laudazioni funebri
allora conservate di cui abbiamo sicura notizia. Ma non è escluso
che altre laudazioni anteriori sopravvivessero sullo scorcio dell'età
repubblicana e che altre orazioni politiche edite fossero andate
jierdute pel minore interesse che avevano in confronto con quella
di Appio; e ad ogni modo questo argomento varrebbe se Appio
non fosse stato in ogni cosa un ardito novatore. A lui si^etta anche
la gloria d'aver per la j)rinia volta pubblicato un'opera poetica
latina o per dir meglio un' opera latina scritta in versi. Eran sen-
tenze in saturni, di cui non son conservate che tre e fra queste la
scultoria: ciascuno è fabbro della propria fortuna. Cicerone diceva
pitagoreo questo carme d'Appio, e la sua oj)inione si allontana
forse dal vero meno di quella moderna che crede vedervi gl'in-
flussi della nuova commedia attica, perchè quelle sentenze, più che
con le ultime produzioni dell'arte ellenica, si collegano probabil-
mente con le più antiche raccolte di gnome venute alla luce nella
Grecia d'Occidente. Ma mentre e per l'orazione da lui scritta e per
le sentenze da lui raccolte, conoscesse o no egli stesso il. greco,
dipendeva, forse inconsapevolmente, da esemplari greci, al tutto ori-
ginale fu Appio come iniziatore della letteratura giuridica romana:
che se pure l'opera sulle usm-p azioni attribuitagli da un giure-
consulto molto posteriore non dovesse origine che ad un malinteso,
certo sotto il suo patrocinio fu pubblicata la raccolta di azioni
composta da Cn. Flavio, uno tra i primi scritti gimndici a scopo di
divulgazione che vedessero la luce in Occidente (sopra p. 230),
Queste opere d' Appio e di Flavio come tutte le più antiche
opere romane di prosa e di poesia, per le frasi brevi e sintattica-
mente indipendenti conforme all'uso più generale delle letterature
jirimitive, per la mancanza cosi caratteristica in latino degli arti-
coli e per l'attitudine che il latino ereditò dalla primitiva lingua
indoeuropea ad esprimere senza il soccorso di pronomi, d'ausiliari
e di particelle per mezzo di semplici forme verbali e nominali
ogni maniera di relazioni di dipendenza , di modo e di tempo,
dovevan rassomigliare assai a costruzioni ciclopiche a grandi
blocchi senza cemento (1). Tale rude energi;i della frase arcaica
(1) Il paragone è dello Skutsch nella sua eccellente caratteristica della let-
teratura arcaica latina nel volume ' Griechische und lateinischn Litteratur unti
Sprache ' (' Kultur der Gegenwart ' I 8, Berlin und Leipzig 1905).
508 CAPO XXIV. - COLTURA Y. Kf-:LTf;iOXE
era resa ancor più rude da 11" impoverimento dei dittonghi e delle
vocali che dovette esser molto notevole presso i Latini nelllnter-
vallo com]3reso tra T incisione della arcaica epigrafe del cippo e
la pubblicazione dell'Odissea di Livio Andronico.
Con Ai^pio Claudio Ceco si chiude il periodo delle origini della
letteratura latina; nel quale essa aveva dimostrato e vigoria d'ispi-
razione originale e attitudine ad assimilare la tecnica delle formo
letterarie già svolte presso i Grreci. Questa tendenza imitativa era
inevitabile che prendesse nuova forza quanto più si usò col popolo
vicino e meglio se ne conobbe la letteratura. Ma poteva forse esser
contenuta in limiti tali da non fiaccare ogni ispirazione originale
sol che il movimento iniziato procedesse a gradi e fosse dato agli
Italici ed ai Grreci di continuare ad atteggiare liberamente la loro
vita e la loro arte senza che né il popolo meno civile imponessi^
politicamente al più civile il suo giogo , né si mettesse appunto
con ciò in condizione di esserne intellettualmente soggiogato.
Musica e danza rallegravano certo presso gli Indoeuropei pri-
mitivi le feste religiose ed esprimevano la gioia per le vittorie sul
nemico, pel moltiplicarsi delle greggie o pel tornare della' prima-
vera, come il lutto o l'amarezza per la sconfìtta, pel disseccarsi
della vegetazione al soffìo del rovaio, per la morte delle persone
care. Ma nessun istrumento musicale avendo un nome che possa
risalire all' età protoaria (1), va ritenuto che solo con istrumenti
assai primitivi x^rima della loro separazione accompagnassero gli
Arii il loro canto: forse solo con rozzi tamburi, forse anche con
zampogne di canne di varia lunghezza. Questo spiega anche come
la musica avesse presso i vari popoli indoeuropei assai diverso
sviluppo. Mentre fra i Greci, ad esempio, la musica nazionale pre-
feriva gl'istrmnenti a corde, presso gl'Italici si prediligevano e si
perfezionavano gl'istrumenti a fiato. E in Italia per la prima volta
s'adoperarono largamente pei segnali militari quegristrumenti che
paiono a noi ormai cosi inseparabili dall'idea di guerra o di mi-
lizia, le trombe, sia nella forma d'un tubo diritto e svasato {tuba),
sia ripiegate a foggia di corno ibiicina da bovicino?}. Dove poi
l)iù che mirare ad un fine pratico s'aveva una certa intenzione
d'arte, si usò la tibia semplice o doppia, ossia il flauto o piuttosto
il clarinetto (2), tibia che in origine era corta e con quattro fori,
fatta d'un osso cavo onde ebbe il suo nome latino, poi fu sempre
(1) Cfr. ScHUADER Reallexikon p. 360 segg.
(2) V. su questo antico istrumento Jan in Pati.v-Wissowa ' R.-E. ' II 2416 ^egg.
iirSKA K DANZA 509
più perfezionata ad imitazione del flauto greco od etrusco. Nei sa-
crifizi come negli accompagni funebri, nelle pompe trionfali come
nei lieti convi\a in cui si cantavano le glorie dei maggiori, non
mancava mai il suono delle tibie, accanto alle quali s'introdusse
dall'Oriente ellenico la lira, o, come la dissero i Romani, " le corde „
{fides da (Jqpiòri minugia), ma si tenne sempre come istrumento stra-
niero in confronto con la prediletta tibia nazionale che aveva ral-
legrato col suono i banclietti degli avi. Ciò spiega i singolari ri-
guardi che si usarono in Roma al vecchio collegio dei sonatori di
tibia (tibicines), riguardi consacrati persino dal mito. H censore
Ap. Claudio Ceco (cosi si narrava) aveva tolto loro il diritto di
banchettare nel tempio di Giove Capitolino; per cui sdegnati si
erano recati in esilio volontario a Tivoli. Ma i sacrifizi romani ri-
schiavano di non riuscire più accetti agii dèi, non accompagnati dal
rituale suono delle tibie. Onde, col favore dei Tiburtini, si prov^dde
a ricondurre in Roma gl'irritati tibicini placandoli con abrogare
il divieto del loro solenne banchetto nel tempio di G-iove alle idi
di giugno e permettere che per tre giorni all'anno passeggiassero
mascherati liberamente per la città. Questo non è che un mito di-
retto a spiegare la licenza singolare a fronte della romana seve-
rità che si lasciava ai tibicini, e lo si è datato dalla censura d'Appio
Claudio solo perchè per la leggendaria severità e arditezza dei
Claudi era natui^ale che s'attribuisse ad un Claudio il tentativo non
riuscito di sopprimere quella licenza. Ciò prova ad ogni modo
quanto s'indulgesse con la corporazione dei tibicini : alla quale era
assai inferiore la più recente dei sonatori di lira (fidicines), sebbene
anche questi si fossero assicurata la partecipazione a importanti.
per quanto meno antiche ceremonie religiose, quali i lettisternì.
Come della musica, cosi della danza non erano tanto sprezzanti
i Romani anticlii quanto poi si mostrarono in età più recente: di
che son jjrova le danze in uso nel collegio degli arvali e più quelle
armate dell'aristocratico sacerdozio dei salii, che ne prendeva il
nome,' come pure quelle che si accompagnavano alla processiono
solenne dei ludi romani, dove non mancavano danzatori giovani
e vecchi, seri e faceti (1). Ma con tutto ciò musica e danza furono
ben lontane dall'avere nella educazione romana quella [)arte che
diedero ad esse i Greci, ritenendo anche queste arti indispensabili
all'armonico sviluppo della personalità umana.
Né del tutto trascm^àte, né coltivate molto di i)roposito erano
pm-e in (luella età le arti del disegno. La pittura, a quanto ci vien
(ì) DioxYs. VII 72.
510 CAPO XXIV. - COi/njlA i; itKLKiiOXl-:
detto, sottostava appieno agii influssi etruschi fino al tempo in cui
Daniofilo e Gorgaso decorarono il tempio di Cerere eretto sul prin-
cipio del sec. V (1). Né par clie l'opera di questi artisti sia da met-
tere in dubbio; solo ne rimane incerta Fetà, perchè ignoriamo se
le loro pitture siano antiche quanto il tempio stesso di Cerere, e
in particolare non ci è dato sapere se il Damofilo che dipinse in
Roma sia lo stesso pittore Demofilo d'Imera ritenuto il maestro di
Zeusi, che fiori nella seconda metà del sec. V (2). Del pari rima-
niamo incerti su quelle pittui'e che Plinio ammirava per la loro
pertinace freschezza ad Ardea, Lanuvio e Cere e che egli riteneva
più antiche delle origini di Roma (3) ; certo se per Ardea si trattava
di quelle opere d'un pittore greco dell'Asia Minore che n'ebbe in
premio la cittadinanza ardeate e che celebrò in esametri col suo
nome latino di M. Plauzio la ricompensa ottenuta (4), l'erudito ro-
mano avrebbe preso un grave abbaglio, poiché, come mostra il verso
nsato da Plauzio, questi non fu anteriore alla età di Ennio; ma
se non è sicuro che tra gli errori del vecchio Plinio si debba an-
noverare pm" questo, perchè abbiamo notizia anche d'altre antiche
pitture famose in un altro tempio d' Ardea (5), è da ritenere ad
ogni modo che le pitture da lui viste sian diffìcilmente anteriori al
VI e fors'anche al V secolo. Ad antiche pitture murali attinte alla
leggenda greca si riferivano pure le iscrizioni Alexanter, Cassantra,
Hecoba, Pulixena (6) , che il retore Quintiliano reca come esempì
della primitiva ortografia latina, dicendo d'averle tratte da vetusti
monumenti e dalle pareti di tempi famosi. Ma non soltanto le leg-
gende greche davano il tema alle arcaiche pitture latine, si anche,
almeno dal 300 circa, le glorie dei duci romani. Cosi nel tempio di
Conso eretto nel 272 era dipinto il trionfo di L. Papirio Cursore, e il
trionfo di M. Fulvio Fiacco in quello di Vortumno eretto nel 264
da Fulvio dopo la sottomissione di Volsinì (7) ; e poco dopo M.' Va-
li) Plin, n. h. XXXV 154.
(2) Ibid. 61.
(3) Ibid. 17 seg. : extant certe hodìeque antiquiores urbe picturae Ardeae in
aedibus sacris quibtis ego quidem nullas aeque mirar, tam longo aevo durantifi
in orbitate tedi velati recentis, similiter Lanivi ubi Atalante et Heìena coinminus
pidae sunt nudae ab eodem artifice utraque excellentissima forma... durant et
Caere antiquiores et ipsae.
(4) Ibid. 115.
(5) Serv. Aen. 1 44.
(6) QuiNTiL. inst. I 4, 16.
(7) Fest. p. 209 s. V. pietà.
l'ITTLIKA. SC'OLTUKA 511
lerio Messalla espose sul fianco della Curia un quadro clie cele-
brava la sua vittoria su lerone e i Cartaginesi (1). Simili a queste
dovevano essere le tavole con cui un patrizio romano che si dilet-
tava di pittura, Fabio Pittore, decorò sullo scorcio del sec. IV il
tempio della Salute dedicato nel 302 da C. Griunio Bubulco (2), ta-
vole che per la sicurezza del disegno e per l'armonia dei colori
aliena da ogni ricercatezza non dispiacevano neppure ai Grreci del-
l'età augustea (3). Di queste pitture può darci un' idea un affresco
delle tombe esquiline, alquanto più tardo, ma difficilmente poste-
riore al sec. m, in cui è rappresentato un chiomato duce romano
col nome di Q. Fabio, che par ricevere la sottomissione d'mi co-
mandante nemico, M. Fannio; probabilmente rappresentazione
d'uno dei fatti gloriosi del prode Rulliano o del figlio suo (4). Delle
attitudini al disegno che possedevano gii artisti dell'Italia media
fanno pure testimonianza assai favorevole i graffiti delle ciste pre-
nestine; tra cui è segnata in latino dall'artista iSTovio Plauzio, pro-
babilmente un Prenestino, che, come dice egli stesso, lavorava in
Roma, la bellissima cista Ficoroni , non molto più recente della
fine di questo periodo, dov' è raxjpresentato , certo seguendo mo-
delli greci, ma con libertà e con singolare finezza nella esecuzione,
l'arrivo degli Argonauti nel paese dei Bebrici (5).
La scoltura, prescindendo dalle rozze figurine primitive, s'iniziò
in Roma coi simulacri di legno e d'argilla e le decorazioni pla-
stiche in ceramica dei fastigi dei tempi. Non è dubbio che lavori
siffatti cominciassero ad eseguh'si in Roma ad imitazione degli
Etruschi fin dall'età regia. Ma ninno se ne conservava sul termine
dell'età repubblicana che potesse ritenersi con qualche fondamento
anteriore ai tempi di Servio Tullio : questo è il significato della te-
stimonianza di Varrone, secondo cui per 170 anni dalhi fondazione
(1) Plin. n. h. XXXV 22.
(2) Ibid. 19.
(3) DioNYs. XVI 3 : ai ^vxoixioi fpaqpal xaiq re YPCMMaìq iràvu àKptPeì<; f\aa-v
Kol Toìq |ui^|uaaiv l'ibeìai, ttovtòc; d-rrrìWaTluévov ?xou(Jai toO KoXou.uévou ^ujttoO
TÒ (iv6r|póv. Che in questo frammento si alluda a Fabio Pittore fu riconosciuto
per primo da E. Q. Visconti Op. varie III p. 334.
(4) C. L. Visconti ' Bull, archeol. comunale ' XVII (1889) p. 340 segg. tav.
XI-XII. Cfr. Helbig Fuhrer durch die offentlichen Sammlungen in Roni I ' (Leipzig
1899) p. 420 seg.
(5) Letteratura presso Helbk; Fiihrer I^ p. 428 segg. CIL. XIV 3112. L'ipotesi
proposta dal Mommsen e accolta da molti che Novio forse un Campano venne
•ritirata da lui stesso, Rum. G. I** p. 447 n.
512 CAPO XXIV. - COLTURA E REl.KilONE
della città i Romani non fecero immagini dei loro dèi ( i). Checché
ne sia, a remota antichità dovevano certamente risalire la statua
in legno in cui si credeva di ravvisare quel re (I p. 358) e la statua
di Diana Aventinense che si diceva simile all'Artemide dei Mas-
salioti (2) e che riproduceva in realtà l'idolo efesino della dea (3),
la statua fittile di Giove nel tempio capitolino attribuita a Vulca
di Veì e quella pur fittile d'Ercole sul foro Boario attribuita allo
stesso artefice (4). Sia dai monumenti etruschi, sia anche da qualche
frammento fittile romano e laziale (5) possiamo farci qualche idea
di questa maniera d'arte, che ha stretta attinenza con la greca
arcaica ; arte che più tardi ebbe una rifioritura alquanto meno di-
pendente dai modelli greci coi rilievi in terracotta dipinti conosciuti
col nome di rilie\à Campana e con quelli che ad essi si collegano.
Assai presto all'idolo del dio segui la statua destinata a rap-
presentare l'uomo. A ciò diede occasione ed impulso l'uso delle
maschere che si prendevano sul Anso del defunto, uso che, diffu-
sissimo presso i iDopoli più diversi, assunse imxDortanza speciale
presso un popolo aristocratico e conservatore come i Romani (6).
Le maschere colorate e montate sopra busti s'esi3onevano presso
l'atrio nelle case signorili ; e la famiglia più nobile era quella che
poteva mostrare maggior copia di queste immagini annerite dal
fumo del focolare che ardeva nell'atrio. La vista continua di sif-
fatte immàgini e il conto che se ne teneva fece si che il ritratto
avesse nella scoltura romana fin dall'origine una importanza re-
lativa che non ha riscontro nella più ideale arte greca. Già nel
sec. rV il Foro e il Campidoglio cominciavano a popolarsi di statue,
alcune delle quali certamente ideali e molto posteriori ai perso-
(1) Varrò ap. Augustin. de civ. Dei IV 31 : dicit etiani ( Varrò) antiqiios Ro-
manos plus annos . centum et septuaginta deos sine simulacro coluisse. Plut.
Num. 8. Clem. Alex. Strom. I 15, 71. Pel significato di questi passi vedi
Detlefsen de arte Rem. antiquissima (Gluckstadt 1861) p. 3 seg.
(2) Strab. IV 180.
(3) Cfr. ibid. p. 179.
(4) Plin. «. h. XXXV 157.
(5) ìÌEVBiG Fiihrer ì- p. 419. Fortwaengler Meister werke der griech. Plastik
(Leipzig-Berlin 1893) p. 250 segg.
(6) Marquarut Privatleben I ^ p. 242 segg. Qui basti citare Polyh. VI 53, 4:
Tieéaoi Tf]v eÌKÓva toO |U€TaXX(iEavTO^ eie, tòv ^TTKpavéffTaxov tóttov rf]<, oIkìoc;,
EùXiva vaibia TrepiTiGévreq. ì) òè elKiijv éari irpóaujiiov eie; ó|uoiÓTr|Ta biacpepóvruji;
èEeipYao|aévov koì Kaxà xr^v irXdaiv koI koxò tì)v ÙTTOYpoqpnv. Per la diffusione
di quest'uso v. Benndorf Antike Gesichtshelme und Sepiilcralmasken (Wien 1878).
SCOLTURA. ARCHITETTUKA 518
naggi rappresentati, se piu' questi avevano avuto realtà storica,
come quelle dei re di Roma, ma altre, a cominciar da quelle dei
legati romani uccisi dai Fidenati, imitanti certo il vero quanto la
perizia degli scultori lo permetteva. Della relativa altezza cui
giunse nel IV secolo la scoltm-a romana può darci un' idea il tipo
del Griano bifronte, che risale probabilmente a quella età, sebbene
venga ascritto a re Numa (1). Quel tipo, quale è riprodotto nei
più arcaici assi romani, è certo una imitazione e un adattamento
delle doppie erme usuali in Grrecia; ma non può negarsi che l'adat-
tamento fosse felice e che per esso s'esprimesse plasticamente'assai
bene il concetto del nume che apre e che chiude, che dalla porta
guarda l'esterno e l'interno e che appunto per ciò divenne il sim-
bolo del tempo che dal passato si protende verso l'awenù-e. Non
può citarsi invece come monumento della scoltura romana del 300
circa la lupa capitolina, poiché essa non è punto quella lupa di
bronzo che nel 296 dedicarono gli Ogulnì (2) , si va giudicata
opera arcaica -del 500 cii'ca, greca d'origine o fors' anche eseguita
in Italia, ma in stretta dipendenza da esemx3lari greci (3).
L'architettura romana (4) più che crear grandiose opere d'arte
si occupò in questi secoli, fin circa al 300, di lavori d'utilità pratica,
sperimentandosi nella costruzione di mura, di ponti e di cloache.
Venne inoltre costituendosi stabilmente fin dagl' inizi di questo
periodo ne' suoi elementi essenziah la casa romana. La casa ro-
mana più antica, con le sue m.ura poco o nulla aperte sulla via,
tranne che per la porta d'ingresso, e destinate ad assicurare gl'in-
quilini dalla indiscreta curiosità degli estranei , col suo tetto in
pendio verso l'interno, forato da una grande apertura {impluvium)
che le dava la luce e per cui l'acqua piovana scendeva in un ba-
cino centrale {conipluvium)^ differisce assai dalla casa moderna,
la cui vita gTavita in certo modo più verso l'esterno che verso
l'interno e che cerca luce ed aria dalle grandi apertm-e onde s'af-
(1) Plin. n. h. XXXV 157. Si credeva che la disposizione delle dita di questa
statua indicasse il numero dei giorni dell'anno, 365 : Plin. «. h. XXXIV 33.
Macrob. sat. I 9, 10. Lyd. de mens. IV 1. Ma questa, che è una congettura ar-
bitraria di qualche antico, non deve farci creder davvero che la statua fosse
tarda. E non può certo dirsi felice la ipotesi del Wissowa Religion und
Kultus der ROiner p. 93 che il Giano bifronte sia stato creato ci.mo tipo mo-
netario.
(2) Liv. X 23, 12.
(3j Helbig Filhrer 1' p. 429 segg. Petkr Vom alien Rom p. 17 seg.
(4) DuRM Die Baukunst der Etrusker und Riìmer' (Stuttgart 1905).
(t. De Sancti.s, Storia dei Romani, II. 83
514 CAPO XXTY. - COLTURA E RRLIOIOXE
faccia sulla via. Invece il cortile, l'atrio, è il centro della vita ca-
salinga in Roma. Nei corridoi coperti che lo circondano s'aprono le
stanzuccie della famiglia e quelle ove si serbano gli arredi; presso
l'atrio si conservano le immagini fumose dei maggiori, e in esso è
il focolare attorno a cui si celebrano i conviti e sul quale si venera
il Lare domestico; al fondo, di faccia alla porta d'entrata, sta al
posto d'onore la camera matrimoniale del padrone di casa. Questa
corte che, insieme col talamo, divenuto poi il fablinum, costituisce
la jìarte essenziale della casa romana, si è voluta riguardare come
una trasformazione della antichissima capanna , nel cui tetto si
sarebbe praticata una grande apertui^a, e si sono addotte a riprova
testimonianze, prive peraltro d'ogni conferma monumentale, su atri
interamente coperti. Checché ne sia di siffatti atri, è certo che
l'atrio deve la sua origine non alla capanna, ma al recinto qua-
drangolare con cui la capanna si prese a cingere, e che la capanna
stessa si continua piuttosto nel tablino; X3erciò l'origine della casa
romana non differisce sostanzialmente da quella della casa greca:
il che non implica provenienza genetica della prima dalla seconda,
potendo le affinità spiegarsi dalle somiglianze del clima e delle
esigenze e dall'indirizzo parallelo dello sviluppo civile (1).
Nessuna tomba veramente monumentale è conservata di questa
età nel Lazio, per quanto se ne siano rinvenute con suppellettile
assai ricca, in ispecie a Preneste. La tomba cosi detta degli Orazi
e Cui^azi presso Ai'icia (2) sembra appartenere allo scorcio della età
repubblicana. In Roma si seppelliva in semplici pozzi o fosse,
in arche di pietra, in camere sepolcrali. Al termine di questo pe-
riodo spetta il più antico e al tempo stesso il più elegante sarco-
fago romano conservato, quello di L. Cornelio Scipione Barbato.
Mentre però così modeste erano in Roma le case dei morti e
dei vivi e scarsi e di meschina apparenza eran gli edifizì pubblici,
come la Curia e la Regia, si cominciarono ad innalzare in certo
numero edifìzi destinati al culto (3), Non pochi ne attribuisce la
tradizione al V e al IV secolo, dei quali se anche non a pieno
sicure, una per una, son le date tradizionali, esse son però nel
(1) Seguo sulle origini della domus romana la ipotesi geniale svolta dal
Patroni ' Rend. dei Lincei ' ser. V voi XI (1902) p. 467 segg., pur respingendo
e la sua interpretazione errata del testo di Varr. ap. Non. p. 63 e le sue in-
duzioni arbitrarie sulle relazioni della casa romana con la micenea.
(2) Attribuita ad Arunte in base a Liv. II 14. Dionys. V 36. VII 5; a
Pompeo Magno in base a Plut. Pomp. 80.
(3) Adst De aedihus sacris pop. Romani (Marpurgi 1889, diss.).
ARCHITETTURA 515
tutto insieme fededegne. Intorno al 300 poi il desiderio di cele-
brare i prosperi successi delle guerre e di eternare la gratitudine
agli dèi protettori di Roma insieme col ]3rogredire del sentimento
estetico elle faceva desiderare di abbellire la città con edilizi arti-
stici tali da poter competere con quelli clie si cominciavano a co-
noscere delle città etrusclie, della Campania e delle colonie greche
diede alla costruzione dei tempi un impulso straordinario : al quale
molto conferi anche F affluire di ricchezze per effetto delle vittorie
e delle conquiste. A quegli anni spettano i tempi della Salute (302),
di Bellona ('296), di Giove Vincitore (295), di Venere (295), della
Vittoria (294), di Giove Statore (294), di Quirino (293), di Escu-
lapio (291), di Summano (272), di Conso (272), di Tellm^e (268), di
Pale (267), di Vortumno (264). Nessmio di questi tempi era ancora
costruito in marmo: soli materiali adoperati erano il tufo e più
tardi il peperino. Di questi arcaici tempi eli Roma nessuno rimane
in piedi. Di alcuni peraltro ci è noto il piano e le dimensioni, come
del tempio di Giove Capitolino, il più antico tempio monumentale
romano, perchè ricostruito poi ]3er motivi religiosi esattamente
sulle vestigia del tempio originario (1). Dobbiamo a ogni modo
immaginarli non dissimili dai tempi etruschi, con la loro ricca de-
corazione fìttile variopinta nella parte più elevata, della quale non
è impossibile farci in particolare un'idea pel tempio di Giove Ca-
pitohno dalle notizie che ne abbiamo presso gli scrittori antichi (2).
Non possiamo dire però in qual mism^a cominciasse ad affermarsi
in questi tempi quella che fu poi la nota caratteristica della archi-
tettura monumentale romana, l'uso dell'arco e della volta, non più
come espediente pratico di costruttori per le porte, i ponti e le
cloache , ma come mezzo artistico largamente e sapientemente
messo a profitto. Ad ogni modo accanto ai santuari quadrangolari
costruirono fin da questa età i Romani quei sacri edifìzì rotondi
che forse son trasformazioni artistiche dell'antichissima capanna:
tale era fin dalle sue origini il tempio di Vesta, che non è difficile
riproducesse nella sua struttura l'antico santuario di Caca sul Pa-
latino (3).
Vera scienza in questa età non esisteva. Ma non mancavano
norme sicm-e e precise per lavori d'ingegneria; e anche gli agri-
mensori romani {(/roniatici) sapevano assai bene misurare e divi-
dere e s'aiutavano nei lavori con lo squadi-o {(froma) da cui appunto
(1) DioNYS. IV 61. Martha Vart étranque p. 269 segg.
(2) Cfr. Milani ' Mus. Ital. di ant. classica' I (1888) p. 90 n.
(3) ìNltmann Die itulienischen Rundbauten (Berlin 1906).
516 CAPO XXIV. - COLTUKA E RELKilOXE
prendono il nome (1). In condizioni assai inferiori era la medicina;
in cui ancora sui precetti fondati nella esperienza predominavano
quelli fondati nella superstizione (2). Anche l' astronomia non si
coltivava che a scopo pratico. E delle imperfette nozioni che se
n'avevano fa testimonianza la imperfezione del calendario romano :
del quale è necessario far qui un cenno speciale, a guisa di paren-
tesi, affinchè appaia chiaro quale è il valore che possono avere per
noi le date sul giorno d'una battaglia o dell'entrata in carica d"un
console che, scarsissime in questo periodo, più abbondanti nei pe-
riodi successivi, ci son trasmesse dagli antichi (3).
La natui'a stessa fornisce all'uomo una misura del tempo nei
giorni, nelle lunazioni e nelle rivoluzioni del sole, che determinano
(1) Gli scritti a noi pervenuti degli agrimensori romani, editi ed illustrati
da Blumk, Lachjiann e Rudorff Die Schriften der róm. Feldmesser I. II (Bei'lin
1848. 1852), non sono anteriori al I sec. di C, e risentono la efficacia della
matematica alessandrina. Cfr. Cantor Die rom. Agrimensoren und ihre Stelhing
in der Geschichte der Feldmesslcunst (Leipzig 1875). Tuttavia la pratica della
loro disciplina era senza dubbio antichissima in Roma, e non dai Greci, ma
probabilmente dagli Etruschi avevano ricevuto già in età assai remota i Ro-
mani la grama, il cui nome non par punto collegarsi cól greco Yviiiiuuuv. V. su
quell'istrumento G. Rossi Gronia e squadro ovvero storia dell'agrimensura- ita-
liana (Torino 1877) p. 34 segg.
(2) Plinio n. h. XXIX 11 dice che il popolo romano visse per seicento anni
sine medicis nec tamen sine medicina; e cita poi secondo Cassio Emina Arca-
gato Peloponnesiaco come il primo medico venuto a Roma nel 217. Che del
resto presso i Romani non potesse mancare già prima qualche pratica di
medicina e di chirurgia è per se evidente, anche prescindendo da quel testa
di Plinio e da una legge attribuita a re Numa [dig. XI 8, 2); che poi già
prima d'Ai'cagato vi fossero in Roma, più o meno onorati, professionisti in-
digeni che esei'citavano quell'arte, par dimostrato dal nome d' origine italica
che ebbero in latino i medici. Fa d'uopo appena notare de) resto che testi
come quello di Dionys. X 53, 1 o simili, che pur si son citati per dimostrare
l'antichità dei. medici in Roma, hanno assai poco valore. Non molto critica è
la memoria del Briau L'introdiiction de la medicine dans le Latium et à Rome
' Revue Archéol. ' ser. Ili t. VI (1885) p. 385 segg. VII (1885) p. 192 segg.
(3) La letteratui'a sulla cronologia romana è smisurata. Citerò solo Mommsen
Rihn. Chronologie'^ (Berlin 1859). Huschke Das alte rom. Jahr und seine Tage
(Berlin 1869). Hartmann Der rom. Kalender herausg. v. Lange (Leipzig 1882).
Matzat RìJm. Chronologie (Berlin 1883-4). Soltau Prolegomena zìi einer ri'un.
Chronologie ('Histor. Untersuchungen ' herausg. v. Jastrow III, Berlin 1886).
Rom. Chronologie (Freiburg i. B. 1889). Holzapfel Rom. Chronologie (Leipzig
18851 Unger Zeitrechnung der Griechen und Romer nel ' Handbuch ' di
I. MuELLKR r (Munchen 1892).
SCIENZE. CALENDARIO 517
il giro delle stagioni. Dodici lunazioni corrispondono approssima-
tivamente a una rivoluzione solare; e però dopo trascorse dodici
lunazioni si torna press'a poco alla stessa stagione che coiTeva
prima di esse. Cosi è che presso moltissimi popoli, come presso
i Greci ed i Romani, il calendario comincia con l'anno di dodici
mesi lunari (1). Gli antichi parlano, è vero, di un anno di dieci
mesi attribuito a Romolo^ a cui Numa avrebbe poi aggiunto i due
mancanti. E vi sono moderni che, prescindendo da Romolo e da
Numa, hanno prestato fede a questa assurda leggenda. Ma è assai
facile spiegare com'essa sia sórta. Il primo mese dell'anno romano
era infatti in origine il marzo, e dal marzo cominciava il computo
dei mesi, sicché il (plinto mese si chiamava quintile e il decimo
decembre. Ma ritenuto poi primo giorno dell'anno il primo del mese
sacro a Giano, il gennaio, com'era forse in altri calendari latini,
e consacrata questa ox3Ìnione dall'uso civile quando il primo gen-
naio presero ad entrare in carica i consoli , quintile divenne il
settimo mese e decembre il dodicesimo. Questo diede occasione al
mito che i mesi in origine fossero dieci e che gennaio e febbraio,
non compresi in quel computo, fossero un'aggiunta posteriore (2).
L'anno di dodici mesi lunari presenta alcuni gravi inconve-
nienti. Anzi tutto la lunazione dura circa 29 giorni e mezzo (3);
e quindi i mesi non possono avere eguale durata, ma debbono al-
ternarsi mesi di 29 e mesi di 30 giorni. Inoltre quell'anno è di oltre
dieci giorni più breve dell'anno solare (4), in modo che adottan-
dolo, deve x^resto verificarsi uno spostamento delle stagioni in rap-
porto coi mesi. A questo inconveniente si poteva peraltro rimediare
anche empiricamente pmx;hè lo spostamento si avvertisse, proce-
dendo ogni tanto alla inserzione di un mese intercalare per rista-
bilire la corrispondenza tra i mesi e le stagioni. Ad avvertire poi
(1) È noto che il nome di mensis o ^xr\v vuol dire appunto lunazione, e si
collega con M'ivri, mond ete. Varrò de l. l. VI 10: mensis a lunae motii dictus
diim a sole profecta rursus redit ad eum. lana quod graece olim dieta MÓvr) unde
illorum Mf)V€<;, ab eo nostri.
(2) Censobin. rfe die nat. 22. 9-14 (secondo M. Fulvio Nobiliore, Giunio Grac-
cano e Varrone). Plut. Num. 18. Fkst. p. 150 s. v. Martius. Gell. n. A. HI
16, 16. SuETON. fr. 119 R. Mackor. .sat. I 12, 3. Sembrano assai poco convin-
centi anche le prove che adducono per l'esistenza di questo anno di dieci mesi
i moderni, raccolte p. es. presso Holzapkel Chron. p. 287 seg-
(.3) Più precisamente il mese sinodico, cioè il tempo che la luna impiega
per tornare in opposizione al sole, è di 29 giorni 12 oro 44 minuti e 8 secondi.
(4) Il quale ha una durata di 365 giorni 6 ore 9 minuti 9.5 secondi (anno
siderale) o di 365 giorni 5 ore 48 minuti 46.1 secondi (anno tropico).
518 CAPO XXIV. - COLTl'KA E RELIGIONE
lo spostamento giovavano alcune feste lisse che si collegavano
condeterminate stagioni: ad esempio le Cerialia (19 aprile), che
dovevano cadere in primavera, e le Robigalia (25 aprile), in cui
s'invocava la liberazione del grano dalla golpe, che dovevano cader
pm-e in primavera quando il pericolo della golpe è maggiore. Or
come la data di queste feste era fissata nel feriale dei decemviri
(I p. 265), è pm" chiaro che almeno dai decemviri in poi V anno
romano uou ijotè essere un anno vago, perchè in un anno vago
le feste rurali debbono essere feste mobili.
E presumibile che in origine di procedere alla aggimita di un
mese intercalare si siano occupati, in modo affatto empirico, i pon-
tefici, ogni qual volta cominciavano ad avvedersi che date feste
non cadevano più nel momento in cui avrebbero dovuto esser ce-
lebrate. Ai pontefici era appunto affidata dai tempi più remoti la
cura del calendario, sia per le cognizioni astronomiche che essi
dovevano avere , sia per la imxjortanza che aveva il calendario
rispetto al culto. E sappiamo di fatto che il pontefice minore os-
servava l'apparire della prima falce della luna nuova e, osserva-
tala, annunziava al re dei sacrifizi, e quindi in origine al capo
dello Stato, il principio del mese, che prendeva aijpunto per ciò
il nome di calende, e avvertiva il popolo quale sarebbe stato il
giorno del primo quarto ossia le none, invitando la luna a pre-
sentarsi in quel giorno (1). Certo è che, com'è naturale, l'interca-
lazione è molto antica, tanto che neppur si avevano documenti
della sua origine, onde essa veniva attribuita ad arbitrio a Romolo,
a Numa ed a Servio Tullio (2\ Della sua antichità è confermi»
(1) Macrob. sat. I 15, 8 seg.: priscis ergo temporibus anteqiiam fasti a Cn.
Flavio scriba invitis patribìis in omnium notitìam proderentur pontifici minori
haec provincia delegabatur ut novae lumie primum observaret aspectum visamque
regi sacrificulo nuntiaret. itaque sacrifìcio a rege et minore pontifìce celebrato,
idem pontifex, calata id est vocata in Capitolium plebe... quot numero dies a ka-
lendis ad nonas snperessent pronuntiabat et quintanas quidem dicto quinquies
verbo koXù), septimanas repetito septies praedicabat. Varrò de l. l. VI 27.
(2) Macroh. .fat. I 13, 20 seg.: quando aufem primum intercalatum sit varie
refertur. et Macer quidem Licinius eius rei originem liomulo adsignaf, Antias
libro secando Numam Pompilium sacrorum causa id invenisse contendit. lunius
(Graccano) Servium Tullium regem primo intercalasse commemorai. ..Tuditantis refert
libro tertio magistratuum decemviros qui decem tabulis duas addiderunt de inter-
calando populum rogasse. Cassius eosdem scribit auctores. Fidvius autem id egisse
M'. Acilium consulem dicit... inito mox bello Aetolico. sed hoc arguii Varrò scribendo
uniiquissimam legem fuisse incisam in columna aerea a L. Binario et Furio consu-
libus cui menlio (così i codd. : si "e congetturato mensis) intercalaris adscribitur.
CAI.ENDAIUO 519
ima legge ricordata da Varrone, che era stata incisa in una co-
lonna di bronzo sotto il consolato di L. Pinario e di Furio (472),
dov'era menzionato il mese intercalare. Questa legge, della cui au-
tenticità si è dubitato da qualche moderno, ma senza ragione al-
cuna, non prova peraltro che fin d'allora nell'intercalare si seguisse
una norma costante. Pare invece indubitato che norme concer-
nenti la intercalazione fossero già nelle dodici tavole, e più preci-
samente nelle due ultime di esse. Dopo il decemvirato gli antichi
non sapevano citare altra legge sull'intercalazione che quella del
console M'. Acilio Glabrione (191), il vincitore di Antioco. Alcuni
moderni però hanno creduto di inserire nelle lacune della tradi-
zione una legge sul calendario dell'edile Cn. Flavio. Questa ipotesi
non può accettarsi tenuto conto del silenzio delle fonti che pur hanno
rintracciato quanti documenti s'avevano sulla intercalazione a co-
minciare dalla legge di Fm^io e di Pinario, e più ancora della sem-
Ijlice considerazione che un edile curale non poteva far proposte
di leggi, mancandogli il dn-itto di trattare col popolo; che se pur
si volesse supporre che prima della edilità egli avesse presentato
la sua xDroposta da tribuno della plebe per farla approvare come ple-
biscito, sarebbe da opporre essere impossibile che la plebe si occu-
passe di propria autorità di cose attinenti al diritto sacro come il
calendario, quando ancora non aveva osato introdurre un . plebeo
nel collegio dei pontefici. Fondamento di questa errata ipotesi mo-
derna è che uno scrittore antico collegava il termine dell'arcaica
ceremonia della proclamazione delle calende e delle none con la
divulgazione dei fasti fatta da Cn. Flavio. Ora s'intende benissimo
come con tal divulgazione (della cui importanza fu detto altrove)
venisse congetturalmente collegata la fine di quella ceremonia di
cui al tempo dei più antichi annalisti non si conservava che la
memoria. Ma è singolare che autoschediasmi annalistici di questa
fatta possano esser presi come punto di partenza di complesse
teorie cronologiche; poiché nessuno vorrà sostenere che nelle re-
gistrazioni dei pontefici fosse notato quando s'omise del tutto quella
ceremonia, che a poco a poco doveva essersi trasformata in una
pura formalità priva d'importanza. Tutto ciò mostra non solo che
non può parlarsi in alcun modo d'un calendario flaviano, ma altresì
che alla infondata congettura moderna sopra una riforma del ca-
lendario sullo scorcio del IV secolo va i)referita la tradizione antica
che non sa di riforme del calendario tra i decemviri ed Acilio.
Per giudicare in che (pieste riforme consistessero, conviene
prendere le mosse dalle condizioni del calendario romano anterior-
mente a Cesare. L'anno romano comune aveva allora 355 giorni.
520 CAPO X.XIV. - COLTURA K RELTOIONE
Dopo le Termiualia, che cadevano il 23 febbraio, s'intercalava un
anno sì ed uno no un mese di 22 o di 23 giorni, il cosi detto mer-
cedonio. Base del calendario era una tetraeteride composta di due
anni comuni alternati con due intercalari, uno col mercedonio di 22
ed uno col mercedonio di 23 giorni (1). Senonchè i difetti di questo
ciclo non erano rimasti nascosti ai Romani, i quali vi provvede-
vano con alcune norme clie certo debbono essere state fissate
dalla legge Acilia. Convien quindi ritenere che il ciclo della te-
traeteride, cosi imperfetto com'esso era prima delle correzioni aci-
liane, spetti alla legislazione decem virale (2).
La tetraeteride romana implicava un'assoluta rinuncia a quella
corrispondenza tra il mese e la lunazione che i Greci tentarono
invece a lungo di conservare. E appunto perchè essa importava
l'abbandono del mese lunare si è esitato da alcuni moderni a rife-
rirla ad età si remota. Ma convien riflettere che ai Grreci era indi-
spensabile conservare il mese lunare per potersi in qualche modo
intendere tra loro pel computo del tempo in mezzo ai calendari
disparati delle varie città, mentre i Romani avevano facile modo
d'intendersi coi vicini per mezzo del computo delle nundine (sopra
p. 473). E poi conciliare il mese lunare con l'anno solare non è
facile, e il ciclo di diciannove anni escogitato all'uopo da Metone,
che rappresenta il miglior calendario lunisolare e il cui computo
l^artiva dal 433/2 (3), era certo ignoto ai legislatori romani, i quali,
trovandosi innanzi ad un problema che non valevano a risolvere
e volendo d'altra parte por termine ad ogni arbitrio nell'interca-
lazione, troncarono il nodo invece di scioglierlo. Par singolare che
mentre rinunciavano al tutto al mese lunare, introducessero nel-
l'anno divisioni incomode ed ineguali, quando sarebbe stato facile
liberarsi dai mesi intercalari dividendo l'anno in mesi di trenta
e di trentun giorni. Ma com'essi non esitarono a una riforma ardita
(1) Cf,n60rin. de die naf. 20, 6 : denique ciim intercalariiim mcnsem vigiliti duum
vel viginti trium dieriim nlternis annis addi placitisset ut civilis annus ad natii-
ralem exaequarettir, in mense potissimumfehrnario Inter terniinalia et regifugium
intercalatum est idque diu factum prius quani sentiretur annos ciriles aliquanto
naturalihus esse maiores. Macrob. sat. I 13, 12.
(2) Non par possibile riportare questo ciclo fino a Servio Tullio con Hart-
mann p. 26 e HoLZAPFEL p. 283. È già molto se si attribuisce ai decemviri
r abbandono reciso del mese lunare quale è presupposto dalla tetraeteride
romana. E forse si esiterebbe se la eclissi di Ennio (1 p. 20 n. 1) non dimo-
strasse che già intorno al 400 il mese non era più in rapporto con la lunazione.
(3) DioD. XII 36.
CALENDARIO 521
dove si trattava di por termine ad arbitri pericolosi, cosi non
vollero romperla con la tradizione per pm'o amore di simmetria
rendendo più difficile a mantenersi la riforma introdotta. Cosi,
perchè per ragioni superstiziose i Romani preferivano il numero
dispari al pari, i mesi avevano parte 29 (1), parte 31 giorni (2),
fuori di uno, il febbraio, che ne aveva un numero pari (28), senza
di che Tanno non avrebbe potuto avere i 355 giorni richiesti. Sif-
fatte concessioni alla tradizione e soprattutto il conservarsi del
mese intercalare quando non ve n'era più bisogno confermano che
alla riforma decemvirale dev'essere preceduto un lungo periodo in
cui per mezzo di intercalazioni fatte empiricamente i pontefici
avevano cercato F accordo tra l'anno solare ed il mese lunare.
Ma una più grave imperfezione poteva apporsi a tale tetra-
eteride, e questo pur ne dimostra l'anticliitcì. : che cioè l'anno veniva
ad avere per essa in media 366 giorni e V4, ossia quattro giorni di
più del dovere ogni quadriennio ; in modo che se non si avvertiva
r inconveniente e non vi si provvedeva, dox^o due secoli dal decemvi-
rato, circa .la metà del sec. Ili av, C, il principio dell'anno romano
si sarebbe sxDostato di sei mesi e venti giorni; onde se intorno al 450
av. C. il primo marzo romano corrispondeva al primo marzo giu-
liano (né certo può esserne stato molto lontano in virtù delle feste
rurali che erano appunto fissate nel calendario decemvirale), intorno
al 250 a Roma sarebbe cominciato il marzo quando secondo il ca-
lendario giuliano si sarebbe dovuto avviare al termine il settembre.
In realtà questo non era, come si trae dallo studio del calendario
nell'età della prima guerra punica (3). Quindi è chiaro che l'incon-
veniente si avverti, e non si mancò di correggerlo empiricamente.
S'intende che a questo modo l'arbitrio dei pontefici, che i decèmviri
avevano voluto torre di mezzo, riprendeva 1' antico dominio. In-
fatti la tetraeteride dovette essere alterata tosto dopo introdotta,
e i pontefici che si arrogavano il diritto di omettere a tempo de-
l)ito uno dei mesi intercalari previsti dal ciclo non possono aver
mancato di usarne arbitrariamente, sia talora in perfetta buona
fede per motivi religiosi o superstiziosi, sia anche per ragioni po-
litiche, volendo accorciare Tanno di carica di magistrati mal visti:
che se pure, come certo non fu, i pontefici si fossero lasciati gui-
(1) Cioè gennaio, aprile, giugno, sestile, settembre, novembre, decembre, in
modo che le none cadevano in essi il ^) e le idi il 13.
(2) Cioè marzo, maggio, quintile ed ottobre, che avevano le none il 7 e le
idi il 15.
(3) V. sopra p. 390 n. 2.
522 CAPO XXIV. - COLTURA E RELICflONE
dare dal solo desiderio di correggere la imperfezione della tetra -
eteride deceinvii'ale, regolandosi empiricamente, essi non avrebbero
potuto evitare qualche spostamento nel calendario. A siffatti spo-
stamenti si aveva peraltro un correttivo permanente nelle feste
rurali fisse, correttivo il quale doveva dal V al III secolo essere
ancor più efficace di quel che non fosse più tardi quando la santità
di quelle feste era assai meno sentita dall'anima popolare. Queste
considerazioni dimostrano che ogni tentativo per ricostruire l'an-
damento del calendario romano fino alla legge Acilia non è che
vano giuoco d' ingegno, e che è un grave errore di critica in os-
sequio ad un sistema cronologico qualsiasi fare violenza ai dati
delle fonti, mentre il calendario non era regolato secondo un
procedimento sistematico, e p)rima, come del resto anche dopo la
legge Acilia, a periodi di grave disordine dovevano seguire periodi
in cui omettendo o accumulando le intercalazioni si ristabiliva
approssimativamente la voluta corrisiDondenza tra i mesi e le sta-
gioni (1).
Questo disordine doveva suscitare desiderio di riforme quando
più si praticò coi Grreci e meglio se ne conobbe la scienza astro-
nomica. E abbiamo infatti notizia che prima di Cesare ogni venti-
quattro anni fosse regola d'intercalare un merce.donio di meno e
degli undici mesi intercalari rimanenti farne sette di 22 e quattro
soltanto di 23 giorni, riducendo cosi l'anno ad una media di 365
giorni e ^j^. Questa norma dev'essere stata introdotta con la legge
di Acilio. Ma neppure cosi si potè segnare un limite all'arbitrio dei
pontefici. Infatti anzitutto non c'era ragione j)er omettere più l'uno
che l'altro dei mercedoni e per distribuire in un modo o nell'altro
i mercedoni di 22 o di 23 giorni, e non potevano mancare ragioni
religiose, vere o pretese, che inducessero i pontefici a variarne la
distribuzione; sicché non è meraviglia che declinando la religione
(1) Nel modo che è indicato nel testo è da conciliare il passo di Macrok.
sat. I 13, 13: hoc quoque erì'ore iamcognito (quello di cui a p. 520 n. 1) haec
species emendationis inducta est. tertio quoque octennio ita intercalandos dispen-
sahant dies ut non nonaginta sed sexagintu sex intercalarent compensatis viginti
et quattuor diebus prò illis qui per totidem annos supra Graecorum numerum
creverant, con Censorin. de die nat. 20, 6 seo[. : quod delictum ut corrigeretur,
pontificibus datum negotium eorumque arbitrio intercalandi ratio permissa, sed
horum jìlerique ob odiiim vel gratiam quo quis magistratus citius abiret diutiusve
fungeretur aut publici redemtor ex anni magnitudine in lucro damnove esset plus
minusve ex libidine intercalando rem sibi ad corrigendum mandata ultro quod
depravarunt.
CALENDARIO. DIVINITÀ GKECHE: ERCOLE 523
e imperversando le discordie civili, il calendario fosse trattato in
modo più arbitrario di primf (1). In sostanza, nonostante le riforme
dei decemvii'i e di Acilio, il calendario romano continuò ad essere
soggetto airempirismo ed all'arbitrio: dai quali non lo liberò che,
assai più tardi, Griulio Cesare.
Al contatto coi Greci si trasformò come la coltura, cosi anche la
religione romana; il mondo degli dèi cambiò d'aspetto, e s'arricchì
di nuovi riti il culto. Ma l'efficacia della religione greca fu risen-
tita in questa età nel Lazio ad intervalli. Alcuni culti e miti vi
penetrarono con la scrittura e con altri germi di civiltà in età re-
mota, quando erano contigue, a quel che pare, le sedi dei Grreci
d'Italia e quelle delle stirpi italiche affini alla latina; parecchi
quando la lotta comune contro gli Etruschi ravvicinò i Latini ai
Greci della Opicia; infine altri ancora quando, ijenetrate con le
guerre sannitiche le armi romane nella Campania e nell'Italia me-
ridionale, cominciò anche nel campo religioso quella rapida assi-
milazione d'elementi greci che continuò con vigore crescente nel
periodo successivo.
I culti greci più anticamente adottati nel Lazio furono quelli di
Vesta e d'Ercole. Ercole aveva la sua ara, l'ara massima, alle falde
del Palatino entro il pomerio della Roma anticliissima, in cui sino
al II secolo non penetrò alcun' altra divinità straniera. E' questa
posizione singolare che egli tiene fra gli dèi stranieri ha fatto cre-
dere ad alcuni che fosse invece un muue indigeno, immedesimato
poi per la somigUanza del nome col greco Eracle (2) ; ma il nome
osco del dio, Hereklos, che sta di mezzo tra il greco ed il latino,
mostra che questo deriva indubitatamente da quello. La ipotesi poi
da altri messa innanzi che Ercole fosse semphcemente il nome
greco dato a un nume indigeno, il Dio Eidio o il Genio (3), sembra
anch'essa priva di fondamento. La ragione del precoce diffondersi
(1) Cfr. SuET. Caes. 40. Cass. Dio XL 62.
(2) Così anche il Mommsen, il quale dopo aver tentato di spiegare Hercules
da hercere {herciscere), ha poi ritirato egli stesso la sua ipotesi, Unterit. Dia-
lekte p. 262. Rom. Geschichte I " p. 177.
(3) V. R. Peter nel ' Mythol. Lexikon' del Roscuek 1 2259 segg., con le as-
sennate obbiezioni del Wissowa Religion nnd Kultiis der RiJmer p. 225 segg.
È possibile del resto che, come ritiene il Wissowa, i Romani abbiano ricevuto
il culto d'Ercole da altri Italici che l'avessero adottato prima di loro e non
dai Greci, ma non è dimostrato in alcun modo. E ad ogni modo una distin-
zione tra divinità greche importate direttamente e ricevute per via indiretta
non può farsi, prima d'Esculapio, che in modo del tutto arbitrario.
5'2J: CAPO XXIY. - COLTURA E, RELIGIONE
del culto d'Eracle in ogni angolo d'Italia (1) è da cercarsi piut-
tosto nel penetrare tra gl'indigeni dei miti greci clie narravano
delle sue peregrinazioni nelF Occidente e nel carattere stesso di
questo eroe come se lo figui'ava il j^opolo greco, tenero e prode,
feroce e bonario, quindi eminentemente atto a guadagnarsi le sim-
patie di popoli rozzi e guerrieri ; onde il suo culto si diffuse, so-
vrapponendosi a quello di (pialclie divinità indigena, anche presso i
Germani durante l'età imperiale. Quanto X30Ì al singolare indirizzo
che prese tra gl'Italici il culto d'Ercole, per cui alla sua protezione
veniva riferito ogni insperato guadagno, forse è da sjDiegare per
mezzo di concetti fenici trasmessi a Roma dagli Etruschi; perchè
Greci e Fenici assimilarono ad Eracle il dio fenicio Melqart (2),
che è impossibile non fosse presto conosciuto dai commercianti
etruschi (3). Del resto la posizione cospicua dell'ara massima e la
popolarità del culto di Ercole, testificata altresì dal comune giura-
mento per quel dio imeliercle), dimostrano che il culto dell'ara
massima di cui furono ministri fino al termine del sec. IV i Potizì
ed i Pinarì non era un culto gentilizio, ma un culto pubblico anche
prima che, i^er una riforma attribuita dalla tradizione ad Ap. Claudio
Ceco, ne assumesse direttamente la cura lo Stato a mezzo del
pretore (4),
Remotissima è pure la introduzione del culto di Vesta. Perocché
non v'ha dubbio che Vesta è la greca Hestia, la dea che prendeva
nome dal focolare (5). Soltanto presso i Greci Hestia ha una j^artc
considerevole nel culto privato, mentre presso i Romani la impor-
tanza che Vesta ha per la vita dello Stato soverchia di gran lunga
il suo culto domestico. Questo culto d'Hestia sembra del resto che
sia in Grecia posteriore all'età omerica, e da ciò scende che i La-
tini debbono averlo ricevuto dai coloni greci. Ma la religione di
Vesta di cui per gli altri popoli italici, prescindendo dni Tiiitini.
(1) DioNYS. I 40, 6: airaviuit; fiv eupoi tk; 'IraXia^ x^l'pov èv9a iia'l tutxóvci ti-
(aibiuevo^ ó 9€Ó^ : asserzione che ha la conferma dei monumenti e delle epigrafi.
(2) Philo ajD. Euser, j^rar^. ev. I 10, 22: MeXKà0poq ó «ai HpaxXfjq. Cfr. IGS.
et I. 600. "
(3) Cfr. I p. 456 n. 3.
(4) Liv. IX 29. Machob. snt. Ili 6, 13. Altri testi presso S(.'h\veglek Rom.
Geschichte 1 p. 354 n. 6.
(5) Così Kretschmer Einleitung in die Geschidifc der griech. Spracìie p. 162.
Invece fanno di Vesta una divinità delie origini greco-italiche Pkeuner Hestia-
Vesta (Tubingen 1864). Jordan Der Tempel der Vesta (Berlin 1886). Wissowa
Religion der Romer p. 142.
VESTA. 1 LIBPU SllìlLLlXl o2o
non abbiamo traccie siciu'e, deve probabilmente la sua importanza
in Roma al suo innestarsi sopra un culto indigeno, quello di Caca,
che pare fosse venerata nell'antichissima città palatina (1); e l'esser
fuori dei limiti della Roma Quadrata il pubblico focolare posto
sotto la protezione di Ves^ta e la custodia delle Vestali conferma
la posteriorità di Vesta a fronte di Caca. Tuttavia che il culto
di Vesta fosse assai antico è dimostrato non tanto dall' arcaicità
di molti riti ed usi che vi si riferiscono, che in parte possono ri-
copiare i riti usati un tempo per Caca, quanto dalla relazione in
cui erano le vestali col re dei sacrifizi, il successore dell'antico re
di Roma (2).
Il secondo periodo della importazione di culti gTeci s'inizia, a
quel che pare, con la introduzione dei libri sibillini. Narra la leg-
genda che una donna si presentò a un re Tarquinio (ora il fatto
viene attribuito al Prisco, ora al Superbo) (3), e gli offerse per
un dato prezzo alcuni libri pieni di oracoli greci. Avendo il re ri-
fiutato di pagare la somma ricliiesta, la donna ne bruciò alcuni e
gli offerse per lo stesso prezzo i rimanenti; ed avendo il re rifiu-
tato ancora, ne bruciò altri e offerse novamente al prezzo stesso
quanto restava; onde il re, vinto da tanta pertinacia, ne fece
acquisto pagandoli quel che la donna voleva, e li affidò alla custodia
di due funzionari sacri. Il conservarsi in età storica i libri sibillini
nei sotterranei del tempio capitolino s^aiega j)ercliè la leggenda li
abbia messi in relazione coi re cui s'attribuivano le origini di quel
tempio. Ma la concordia della tradizione nell'ascrivere agli oracoli
sibillini origine cumana, concordia avvalorata anche da quel poco
che per induzione ci è dato asserire sul loro contenuto, fa ritener
probabile che l'adozione di essi coincida cogli anni in cui la lotta
comune contro gli Etruschi rinvigorì l'influenza cumana nel Lazio,
circa il 500 av. Cr. Certo è ad ogni modo che essi sono anteriori
alla caduta di Cuma in mano degli Oschi intorno al 420 av. Cr.
(p. 188j.
CtU oracoli sibillini presuppongono il culto di Apollo, poiché le
sibille non si consideravano che come interpreti di quel nume. E
non v'ha dubbio che il culto di Apollo si diffuse nell'Italia media
in età abbastanza remota; non tanto peraltro da competere in aii-
(1) Cfr. I p. 298.
(2) Serv. Aen. X 228 : virgines vestales certa die ibant ad riyem sacrorum et
dicebunt : ' vigilasne rex ? vigila '.
(3) I p. 374 n. 2.
526 CAPO xKiv. - cor/ruiiA e helkìioxk
ticliità con quelli cVErcole e di Vesta, jjoicliè non era ignoto ai
Romani che nei loro rituali più vetusti mancava o forse ricorreva
assai di rado il nome di Apollo (1), pm- essendo questo dio invo-
cato coi titoli di medico e di Peana nelle preghiere delle Vestali (2,i.
Il primo tempio d'Apollo in Roma fu votato nel 433 e dedicato
nel 431 o, secondo una testimonianza contraddittoria, fu consacrato
nel 353(3). Ma. deirantichità del culto d'Apollo fa prova anche il
dono votivo inviato a Delfi con la preda di Veì (sopra p. 146 segg.) ;
e perciò non la data del 353, malsicura com' è, deve indm'ci a ri-
tenere posteriore alla metà del sec. IV l'iiitroduzione dei libri si-
billini; ma l'introdursi di quei libri, anteriore certo alla distruzione
di Cuma e probabilmente anche alla invasione volsca nel Lazio,
deve farci ritenere che già ben prima del 353 esistesse in Roma
un' ara o un recinto sacro ad Apollo, Apollo del resto non penetrò
in Roma come il dio della cetra che guida il coro delle Muse o
come il tipo immortale di virile bellezza creato dai Greci, ma come
dio dei vaticini e come medico per soddisfare due esigenze pratiche
che sentiva vivamente il Romano, di conservare cioè la salute e d'as-
sicurarsi coi mezzi opportuni la protezione divina nelle sue imprese.
Grli oracoli sibillini di Roma non eran certo apografi d'oracoli
che la città di Cum.a conservasse a cura de' suoi magistrati; se i
Cumani avessero posseduti oracoli simili, li avrebbero tenuti gelosa-
mente nascosti e non ne avrebbero fatto cojDia agli stranieri. Erano
invece raccolte d'origine privata, forse composte a somiglianza di
raccolte ufficiali, d'oracoli più o meno autentici, redatti in cattivi
ed oscuri esametri greci. Nulla j)m'troppo ce n'è pervenuto, perchè
quei libri bruciarono nell'83 av. C, essendo andato in fiamme il
tempio di Giove Capitolino (4), e si dovette mettere insieme una
nuova raccolta di vaticini per mezzo d'una commissione che molto
viaggiò per rintracciarne (5) ; onde ciò che sappiamo sugli oracoli
conservati dopo l'83 non ha importanza per la questione della
forma che aveva primitivamente la raccolta profetica. Ci fui'ono
trasmessi, è vero, due oracoli che sarebbero stati desunti da queHa
antica collezione per espiare un prodigio avvenuto nel 125 a. C. (6).
(1) Arnob. II 73 (cfr. I p. 258 n. 1).
(2) Macrob. sat. I 17, 15.
(3) Liv. IV 25, 3. 29, 7. VII 20, 9.
(4) DioNYs. IV 62. Cass. Dio fr. 102, 2. Cfr. Skrv. Aen. VI 36. 221.
(5) DioNYs. I. e. Tac. ann. VI 12. Lact. inst. l 6, 11. 14; f?(? ira dei 22, 6.
(6) Ap. Phlegon mirai). 10, con la eccellente illustrazione del Diels Sibylli-
nische BUitter (Berlin 1890).
Al'OI.I.O. CASTOIJK K POLl.rCK
Ma se non c'è dubbio che allora essi furono pubblicati come at-
tinti ai libri sibillini, è pure indubitato che son recenti e che nulla
hanno a fare con la raccolta che esisteva nel V e nel IV secolo.
Gli è che, essendo tenuti segreti i vaticini della Sibilla, si poteva-
facilmente, quando se ne presentasse il caso, con una pia frode
inserirvene dei nuovi. Quei frammenti ci danno quindi soltanto
una qualche idea della oscurità e del misero contenuto degli au-
tentici oracoli sibillini, da cui debbono essere stati imitati. Ma le
traccie della efficacia di quegli oracoli nello sviluppo della reli-
gione romana appaiono ad ogni modo evidenti in quanto, redatti
in greco, parlavano di numi greci, suggerendo sacrifizi a questo o
a quello tra essi: e favorivano cosi e affrettavano la diffusione
del culto delle divinità elleniche.
Aijpunto intorno al 500 sembra che di dèi greci se ne introdu-
cessero in Roma parecchi. Circa quel tempo si diffuse nel Lazio
il culto dei due Dioscuri, Castore e Polideuce, che i Romani chia-
marono Polluce , ossia , come si disse a Roma, dei due Castori.
Secondo la leggenda il loro tempio fu votato dal dittatore A. Po -
stumio nel 499 durante la battaglia del lago Regillod); e prova
ad ogni modo il conto in cui i Dioscuri eran tenuti Tesser dedi-
cato il tempio entro il pomerio, sul Foro, presso il lago di Giu-
turna, che fu i^erciò collegata dalla leggenda con la loro epifania
in occasione di quella, battaglia. L'importanza e Fantichità del
culto dei Dioscuri si spiega facilmente in uno Stato guerriero e
aristocratico come il Romano: essi erano del resto in Roma so-
prattutto patroni dei cavalieri, mentre gli altri elementi della
loro venerazione jDresso i Greci non ebbero popolarità in generale
tra i Latini che i)iù tardi per mezzo della letteratura.
La tradizione riferisce che nel secondo decennio della repub-
blica, mentre infieriva una carestia, si ricorse ai libri sibillini, e
(piesti ordinarono di placare Demeter, Dioniso e Cora; onde nel 496
il dittatore A. Postumio iniziò presso il Circo Massimo la costru-
zione d'un tempio a quelle divinità, che fu compiuto nel 493 da
Sp. Cassio (2). Il culto di quella triade in Roma fu riguardato corno
jìroveniente dalla Sicilia e in particolare da Enna, l'ombellico del-
(1) Liv. II 20, 12. Il tempio sarebbe stato poi consacrato nel 484. Liv.
II 42, 5. Cfr. DioNYS. VI 13, 4. Questo è precisamente il Upòv AioaKOupuuv èv
rfi àYopqk di cui avrebbe fatto menzione un'ambasceria di Demetrio Poliorcete
(sopra p. 427); e in errore cade a tal proposito il Jokdan Topof/t-aphic der
Stadi Rom I 2 p. 370 n. 77.
(2) DioNYS. VI 17. 94.
528 CAPO XXIV. - COLTUKA E RELIGIONE
risola, dov" era un tempio famoso di Demeter e Persefone [1). Ma.
è im.possibile che in età cosi antica si stabilissero relazioni tra
l'Italia media ed una città indigena del centro della Sicilia ; e come
sapj)iamo che le sacerdotesse di Cerere in Roma erano iDrese spe-
cialmente da Napoli e da Velia (2), va ritenuto che dalle città
greche del versante tirreno sia stato trasmesso ai Latini il culto
delle divinità di quella triade, le quali del resto non conservarono
il loro nome greco come AjdoUo, Castore, Ercole e Vesta ma, -equi-
parate a tre antiche divinità indigene, Cerere, Libero e Libera, po-
terono in certa guisa impadronirsi della venerazione che queste
già riscuotevano (3).
Come Cerere, Libero e Libera, altri numi, ma tanto secondari
nell'antica religione romana che si hanno appena testimonianze
del loro culto, si trasformarono allora e crebbero d'importanza as-
similandosi a divinità greche : così Venere quando vi si riconobbe
la greca Afrodite, Mercurio quando sotto, quel nome si prese ad
onorare il greco Hermes e Nettuno quando si assimilò a Posidone.
In parte siffatte assimilazioni erano cosi piene che il rito greco
sopraffaceva e aboliva nel culto di questi dèi il rito latino e che
essi erano onorati all'uso greco per mezzo di lettisternì.
Di pari jjasso col crescere d' importanza d'alcuni dèi andav.i
frattanto il decadere di altri, tanto più agevole in , quanto, come
vedemmo, manca ad ogni religione senza dèi personali un fonda-
mento di stabilità (I p. 88). A questa decadenza si cercò in parte
di porre rimedio. E forse i tempi eretti tra la venuta di Pirro in
Italia e la metà del sec. HI a Summano, Conso, Tellure, Pale <■
Giano (sopra p. 515) son dovuti ad un tentativo di reazione na-
zionale contro l'invadenza dei numi stranieri. Ma non valse questo
tentativo ad arrestare la trasformazione : che anzi proprio nel HI
secolo gl'influssi greci presero di nuovo a moltiplicarsi nella reli-
gione latina. Cosi appunto in principio di quel secolo fu introdotto
da Epidauro il culto di Asclepio (4j ; e una sacra leggenda santificò
tosto le origini del tempio che venne eretto al dio nell'isola Tibe-
rina narrando come il dio stesso sotto forma di serpente fosse sa-
lito ad Epidauro nolhi nave romana mandatavi coiì la sacra am-
(1) Cic. Verr. acL sec. IV 49, 108.
(2) Cic prò Balbo 24, 55.
(3) Cfr. J p. 276. 278.
(4) In occasione d'una epidemia scoppiata nel 293 e dopo aver consultato
libri sibillini : Liv. X 47.
CKRERE. ESCULAPIO. DITK 529
basceria e da sé avesse scelto la sua sede dalla nave discendendo
nell'isola, a cui più tardi fu data, appunto in memoria dell'avveni-
mento, forma di nave (1). Alla metà del secolo stesso poi, se pur non
fu introdotto, i^rese a ogni modo nuovo sviluppo il culto di Dite
e di Proserpina, ossia di Plutone e di Persefone, con la celebrazione
dei primi ludi tarentini, destinati ad essere ripetuti a distanza di
un secolo (2). Per altro, se è certo che i precedenti ludi secolari
del 348 e del 449 sono invenzioni annalisticlie (3), assai difficile è
die sia cosi recente il culto delle maggiori divinità greche del
mondo sotterraneo, e il nome stesso di Proserpina e quel che nar-
rava Varrone sul culto di Dite presso gli Aborigeni (4) confermano
che i due culti sono assai più antichi; e la sacra leggenda su quel
Valesio da Ereto, che avrebbe sacrificato per primo sull'ara di Dite
nel Tarento, come era chiamato il luogo ove l'ara si trovava nel
campo di Marte (5), diffìcilmente può ritenersi come una j)m'a e
semplice invenzione di Valerio Anziate.
Insieme con le divinità greche il pantheon romano veniva acco-
gliendo quelle dei popoli indigeni d'Italia che Roma sottometteva.
Certo è impresa vana in generale cercar di sceverare, come pur s'è
tentato, quel che nella religione romana è veramente indigeno da
quel che è attinto a Tivoli e a Tuscolo: perchè in luoghi vicini
abitati dalla stessa stirpe nel medesimo grado d'incivilimento non
poteva mancare che si diffondessero gli stessi culti. MegUo può
distinguersi quel che i Romani debbono agii Etruschi: cosi da Veì
par che prendessero il culto di Giunone Regina (6j, che non
doveva differire del resto in modo sostanziale dai culti già praticati
di quella dea; e cosi nel 264 dopo la presa di Volsinì fu introdotto
ufficialmente il culto di Vortumno (7), dio che già, com'è da cré-
dere . doveva avere in Roma i suoi adoratori (8) , e anche prima
(1) OviD. metani. XV 622 segg. Val. Max. I 8, 2. Aucx. de vir. ili. 22. Besnier
Vile Tiberine dans l'antiquité lib. III.
(2) Nel 249: Liv. epit. 49. Censorin. de die ned. 17, 8. Acg. de eie. Dei III 18.
ScHOL. Cruq. ad Hor. carm. saec. 1. Zosim. 114, 1.
(3) Cfr. I p. 16 n. 2.
(4) Macrob. sai. 1 7, -30. 11. 48. Arnoh. II 68.
(b) Val. Max. II 4, 5. Zosim. 11 1. Cfr. De-Marchi II culto privato II pa-
gina 30 segg. Sul luogo v. Lanciami ' Mon. antichi' 1 (1889) p. 540 segg.
(6) Liv. V 21, 3. 23, 7. 31, 3. Diony.s. XllI 3.
(7) Prof. V 2, 3 seg., cfr. Fest. p. 209.
(8) Cfr. Varrò de l. l. V 74, che attribuisce le origini del culto a Tazio, e
la antica statua del dio nel Vico Tusco, su cui v. Varrò de l. l. V 46. Cic. Verr.
ad. sec. I 59, 154. Liv. XLIV 6, 10.
G. De Sanctis, Storia dei Ronumi, II. 34
530 CAPO XXIV. - COLTURA E rp:lig]oxe
dai Capenati era stato trasmesso probabilmente ai Romani il culto
di Feronia (1). Non deve far meraviglia a tale proposito che non
si ammettessero tanti nuovi numi italici quanti se ne accolsero
di greci nell'olimpo romano: perchè i numi indigeni in molte re-
gioni d'Italia in buona parte erano gli stessi dèi romani , in parte
s'erano con più o meno d'arbitrio identificati a questa o a quella
divinità latina; in parte poi il loro culto avea carattere stretta-
mente locale, e il comandante o il gregario che aveva appreso
nelle sue spedizioni a tenere in qualche conto Vesuna che era ve-
nerata nel Reatino (2), Angizia dea dei Marsi (3), Marica onorata in
quel di Minturne (4), aveva facilmente occasione di testimoniar di
persona a queste divinità la sua devozione ne' loro vetusti santuai'ì.
Non è dubbio del resto, che non solo trasmettendo ai Romani
qualche loro nume gli altri popoli d'Italia influii'ono sulla religione
romana, si anche più, per mezzo della identificazione tra divinità
romane e altre etrusche o campane, facendovi quasi inavvertita-
mente penetrare concetti o leggende che le erano originariamente
estranei; ma qui pm-e l'opera degli Etruschi o dei Campani fu più
che altro opera di mediazione: perchè i loro concetti religiosi
avevano già risentito più di quelli del Lazio l'influenza greca ; ed
è presumibile che l'identificazione ad es. di Volcano con l'etrusco
Sethlans, che può forse datar dal VI o dal V secolo, non abbia fatto
che prepararlo alla identificazione j)iena con Efesto, che già do-
veva aver foggiato Sethlans a sua immagine.
In sostanza la trasformazione religiosa per cui, oltre all'intro-
dm'si molti dèi greci, in altri casi, pur rimanendo latini i nomi,
divennero greci gli dèi, era in questo periodo bene avviata: e la
ragione della facilità con cui avvenne deve cercarsi in ciò che a
questo modo non fu tolta agli dèi una personalità che già avessero,
ma fu data apiDunto quella piena personalità che non avevano,
sicché allora soltanto, e non per virtù propria, la religione romana
raggiunse quello stadio di sviluppo cui prima non era potuta per-
venire, lo stadio in cui agli dèi connessi con determinati ordini di
fenomeni sovrastano e in buona parte si sostituiscono dèi dotati
(1) WissowA Rei. der Romer p. 231 segg. Il terminus ante quein per l'intro-
duzione del suo culto in Roma e il 217 (Liv. XXII 1, 18). Ma il testo di Varrò
de l. l. V 74 sembra provarne, se non l'origine sabina, la remota antichità.
(2) Plin. n. h. Ili 109. CIL. IX 4751 segg.
(3) Vkr(;. Aen. VII 759. CTL. IX 3885.
(4) Liv. XXVIl 37, 2. Strab. V p. 233. Plut. Mar. 39.
DIVINITÀ ETKL'SC'HE ED ITALICHE. NUOVI DÈI CERTI 531
d'una vera personalità e ritenuti atti ad esercitare a favore del
devoto un'azione larga e molteplice. Ben altra resistenza alla pe-
netrazione della mitologia greca opposero miti e concetti religiosi
d'altri popoli antichi: basti citare l'Egitto, dove pm^e i Greci eb-
bero dominio ; ma non solo popoli in possesso di vetusta civiltà, sì
anche barbari, come i Traci e gli Sciti, si mostrarono più dei Ro-
mani atti non che a resistere alla penetrazione religiosa ellenica,
ad influire altresì sulla religione stessa dei Grreci: mentre scarsa,
per non dire nulla, fu la efficacia che ebbero anche più tardi sui
Greci gli elementi primitivi della religione romana.
Non è a dire però che in questa età rimanesse del tutto inattiva
la spontanea ideazione religiosa. Dèi certi continuarono a crearsi,
sebbene, come pare, in minor numero. Se pur non è sicm'O che
Aio Locuzio abbia avuto un altare perchè una voce divina aveva
predetto l'avanzata dei Galli (1), certo è che fin nella seconda
punica, quando Annibale presso la porta Capena voltò il tergo
alle mura di Roma, vi si eresse un sacrario al dio Rediculo (2). Ma
in generale la ideazione religiosa di questa età si esplicò di pre-
ferenza considerando sotto vari aspetti la personalità ormai ricca
ed ampia degli dèi maggiori e specificando questi asx^etti per
mezzo di attributi, che talora erano nomi di antichi dèi cèrti dal
ristretto campo d'azione, sui quali le divinità maggiori esercita-
vano una specie d'attrazione e d'assimilazione. Dal culto diverso
che in diversi sacrari si prestava ad una divinità con vari epiteti,
per esempio a Giunone come consigliera (Moneta), come guerriera
(Quirite), come soccorritrice nel parto (Lucina), scendeva poi per
una specie di reazione della forma meno progredita d' ideazione
religiosa che la divinità unica venisse quasi spezzata in tante di-
vinità quanti erano gli epiteti, e che per l'anima popolare Giunone
Moneta apparisse in certo modo come una dea diversa da Giu-
none Lucina; reagiva però a questa tendenza la religione ufficiale
serbando rigorosamente l'unità di quelle persone divine (;3), o vi
reagiva parimente il più elevato modo di concepire delle classi
colte.
Ma di divinità scialbe come Rediculo non ])uò appagarsi l'idea-
zione religiosa in età progredita; e grandi divinità personali come
Apollo possono accogliersi d'un tratto, (juando c'è una religione
(1) Cic. de divin. I 45, 101. II 32, 69. Vakro ap. Gell. n. A. XVI 17,2. Lit.
V 36, 6. 50, 5. 52, 11. Plut. Cam. U. 30. de fort. Roin. 5. Arnob. I 28.
(2) PuN. n. h. X 122. Fest. p. 282 M. Varko saf. Menipp. fr. 213.
(3j Cfr. WissowA Rei. der Romer p. 47.
532 CAPO XXIY. - COLTURA E RELICilONE
superiore clie le trasmetta, ma assai lentamente si creano e in modo
inconsapevole. Onde quella perenne irrequietezza ignara d'appa-
gamento, die è la caratteristica delle religioni realmente vissute
dai loro devoti, e tale era, nonostante la povertà del suo conte-
nuto, la religione romana nel IV o IH secolo, condusse a deificare
sempre in numero crescente i concetti astratti. Dèi siffatti non
erano ignoti all'età più antica; ma il tempio della Concordia, le
cui origini son dalla tradizione attribuite al dittatore Camillo
(sopra p. 215), quello della Salute (302), quello della Vittoria (29-1),
quelli die si dedicarono a divinità simili dui^ante la prima guerra
punica o poco dopo, mostrano quanto fosse ora vivace in questo
campo, che quasi solo le rimaneva libero, la ideazione religiosa (1).
Non solo però gli dèi greci penetravano nell'olimpo romano, sì
anche si trasformava di pari passo il culto in parte per gl'influssi
greci, in parte per effetto necessario del i3rogTedii'e della civiltà. La
processione dei Luj)erci che, cinti d'un sol perizoma di pelle, cor-
revano attorno al Palatino armati di strisele di cuoio con cui per-
cuotevano qualsiasi donna in cui s'imbattessero nella fiducia che
quelle battiture la rendessero feconda, le danze armate dei salii,
le corse dei muli nella festa di Coiiso parevano ormai, benché non
si tralasciassero, rozza e misera cosa, e non bastavano più né al-
l'uno né all'altro dei fini cui soddisfacevano in origine ad esube-
ranza: di dare adeguata manifestazione al sentimento religioso <•
di divertire il popolo che riposava nei giorni di festa. Tra le ce-
remonie che ora s'introdussero vanno citati anzitutto i lettisternì,
in cui a varie divinità maschili e femminili rappresentate da fan-
tocci si offriva un banchetto su tavole disposte innanzi ai letti nei
quali i fantocci erano adagiati (2). Nuovo sviluppo presero anche,
adottando forme nuove, le supplicazioni in cui il popolo coronato
e con rami d'alloro in mano andava dall'uno all'altro tempio li-
bando vino e bruciando incenso (3), e le matrone si trascinavano
intorno alle are in ginocchio coi capelli disciolti levando le mani
agli dèi (4). Al tempo stesso si moltiplicavano e si perfezionavano
(1) WissowA p. 271 segg. Cfr. Usener Gotternamen p. 364 segg.
(2) Marquardt Roin. Staatsverw. Ili '^ p. 44 segg. 11 primo lettistcnnu i- ri-
cordato pel 399, Liv. V 13. Dionys. XII 9.
(3) P. e. Liv. X 23, 1 : puhlice vinum ac tus pvaehitum, siipplicatKm iere fre-
qtientes viri feminaeque. XL 37, 3: maiores dtiodecim annis oinnes coronati et
laiiream in manti tenentes supplicaverunf.
(4) Liv. XXVI 9, 7 : undique matronac in piiblicn»! effusae circa deum delubra
discurrunt crinibus passis aras verrentes nixae genibus supinas mantts ad caelum
ac deos tendentes.
ASTKAZIONI. 8 Ul'PLlC AZIONI. LUDI 533
i divertimenti dati al popolo in occasione di feste; ma in questo
i divertimenti nuovi differiscono dagli antichi, che si distaccano
ormai dal culto; e mentre il luperco e il salio ha ancora coscienza
di compiere col suo rito bizzarro un atto di religione, ora i ludi,
pur servendo a solennizzare le feste degli dèi, non possono dh'si e
non appaiono alla coscienza dei devoti atti di culto se non in via
mediata e indiretta.
In questa età non vi sono altri ludi stabili che i ludi Magni o
Romani, anch'essi i3rima celebrati straordinariamente in onore di
Giove in ringraziamento di ottenute vittorie, poi divenuti annui,
forse dal 366 (1). Nei giorni seguenti alle idi di settembre, tolto il
giorno postriduano che è giorno infausto (ater), avevano luogo
corse di quadrighe e corse a cavallo; e il premio era una corona,
che nel 293 fu sostituita da un ramo di palma (2). Prima delle
corse si faceva una solenne processione (pompa), che dal tempio
capitolino scendeva al Cù-co Massimo. Precedeva, ordinata militar-
mente, la gioventù romana loarte a cavallo e parte a piedi. Segui-
vano gli auiighi coi cavalli e coi cocchi, poi i lottatori, poi i dan-
zatori armati distribuiti nelle tre classi degli adulti, dei giovani e
dei fanciulli, accompagnati da flautisti e (certo non da età troppo
remota) da suonatori di lira. Venivano poi i danzatori faceti, gli
uni vestiti di pelli di pecora, gli altri di pelli di capra, seguiti da
un buon numero di flautisti e di fìdicini e dai portatori d'incenso
e di vasi sacri. Cliiudevano la processione le immagini degli dèi
recate da ijortatòri su lettighe (3). Terminata la pompa, i magi-
strati che l'avevano guidata vestiti delle insegne trionfali proce-
devano ai sacrifizi di rito ; dopo di che s' iniziavano sotto la loro
direzione i giuochi del circo. In origine gli spettatori si sedevano
sull'erba per le pendici dei due colli Aventino e Palatino^ e in
basso nella valle, ov'era un'ara sotterranea di Conso che solo in
giorni determinati si disseppelliva, correvano i cavalli e le qua-
drighe: poi a iDoco a poco il luogo venne ricoprendosi di costru-
ii) Sulla origine di questi ludi v. Mommsen Rodi. Forschungen II 45 segg. La
tradizione li ascriveva a Tarquinio Prisco, Liv. I 35, 9: sollemnes deinde annui
mansere ludi Romani magnique riarie appellati. Cic. de rep. II 20, 36. Eutrop.
l 6. Son detti per la prima volta ludi Romani da Liv. Vili 40, 2 all'a. 322.
Nel 366 secondo Liv. VI 42, 12 il numero dei giorni destinati ai ludi fu por-
tato a quattro.
(2) Liv. X 47, 8: paltnaeqite titm pritnuin translato e Graecia more victoribus
datae.
(3) Questa descrizione è desunta da FAnio Pittork ap. Dionys. VII 72.
534 CAPO XXIV. - COLTURA E RELIGIONE
zioni che lo resero degno di esser chiamato ^' Circo Massimo „ (1),
di cui 1' origine prima è riferita dalla tradizione ai Tarqiiini. Ma
sia questa tradizione sia gli accenni che più d'una volta abbiamo
nelle fonti intorno a ulteriori costruzioni o a restauri, non sono
sufficienti a darci un'idea chiara di quel che fosse il Circo Massimo
prima de* restami di Cesare, e molto meno cu'ca il 300 av. Cr,
Altri ludi circensi in altri circhi del resto allora non v'erano, e
(quindi è più tardo anche il nome stesso di Circo Massimo dato al
circo destinato ai ludi romani. Ai giuochi circensi s'accompagnavano
nella stessa occasione, almeno dalla metà del sec. IV, ludi scenici (2),
dapprima di scarsa importanza, e della durata d"un sol giorno, poi,
da quando nel corso del HI sec. cominciarono a rappresentarsi
produzioni drammatiche all'uso greco, sempre di maggior durata,
per modo che già nel 214 si prolungavano per non meno di (luattro
giorni (8).
Nonostante lo sviluppo che vennero prendendo i ludi Romani,
non può dirsi davvero che innanzi alla prima guerra punica il po-
polo di Roma abusasse di feste e di divertimenti. Anche i combat-
timenti di gladiatori, se pur v'erano, per la scarsezza degli schiavi
non potevano avere la solennità e l'importanza ch'ebbero di poi,
né, come fecero più tardi, contribuire all' abbassaimento morale del
popolo romano. La j)rima menzione che di essi abbiamo spetta
del resto al 264. Ma probabilmente gii spettacoli gladiatori che
come ludi funebri in onore del padre diedero (piell'anno M. e
D. Bruto (4) non furono i primi che avessero luogo in Roma, bensì
soltanto i primi di cui si conservasse ricordo scritto.
Il modificarsi del concetto della divinità mediante lintrodu-
zione degli dèi personali preparava anche un'altra trasformazione
che si effettuò appieno solo nell'età seguente, il diffondersi d\ma
vera e propria divinazione. Il popolo cominciava a non acconten-
tarsi più dei segni che cercavano gli augmi, sopratutto per mezzo
della osservazione degli uccelli, del favore o dello sfavore degli
dèi, in parte per la ingenuità che in mezzo alla singolare minuzia
delle sue pratiche contraddistingueva Tauspicazione romana, in
parte per la insufficienza di essa dinanzi alla coscienza religiosa
(1) RiciiTER Bom. Topographie'^ p. 174 segg. Gilbert Gesch. nini Top. der Stadi
Rom III 313 segg. Jordan-Huelsen Top. der Stadt Rovi I 3 (Berlin 1907) pa-
gina 120 segg.
(2) Liv. VII 2 (ad a. 364). Cfr. sopra p. 504 ni.
(3) Liv. XXIV43.
(4) Liv. epit. 16. Val. Max. II 4, 17.
LIDI. DIVINAZIONE^ 535
progi'edita che credeva ormai gii dèi dotati della facoltà di cono-
scere il futuro e quindi disposti a trasmetterne la cognizione ai
devoti. Già la fede nei libri sibillini rispecchiava la tendenza nuova;
poiché essa implicava la credenza che gii dèi avessero preveduto
i fatti per cui quei libri si consultavano e li avessero rivelati, in-
sieme coi sacrilizì che sarebbero stati opportuni quando quei fatti
si fossero avverati, alla profetessa ispirata. E tuttavia i duoviri
e poi i decemviri sacrificatori isacris facimidis) cui era affidata
la custodia di quei libri e che dovevano consultarli quando ne
avessero ordine dal senato, non ne traevano presagi determinati
ì)el futuro: bensì si contentavano di trovarvi accenni intorno a
([uegli avvenimenti e in particolare a quei prodigi per cui la co-
scienza popolare turbata aveva imposto di consultare la scienza
profetica della Sibilla, e intorno alla maniera di placare gli dèi
che manifestavano a quel modo la loro irritazione (1). Affatto
eccezionalmente ebbero ricorso i Romani in questa età, se pur vi
ricorsero, alla vera divinazione, e in ogni caso sempre per mezzo
di ministri stranieri. Cosi non ijuò dirsi certo, benché non sia im-
possibile, che fin dall'età delle guerre sannitiche abbiano consul-
tato Apollo Delfico (sopra ^. 426) ; benché sia certo a ogni modo
che dal principio del sec. IV essi fecero pubblico omaggio colà al
dio degli oracoli (sopra p. 148). Ed è pur possibile che si siano
chieste fin dal IV secolo rivelazioni agii aruspici etruschi, benché
le notizie che abbiamo in tal proposito non diano troppo affida-
mento di storicità (2), e l'usuale ricorso all'aruspicina etrusca non
dati che dalla seconda guerra punica. E ad ogni modo catteristico
come dimostrazione delle tendenze che s' affermano intorno al
chiudersi di questa età a favore della divinazione e come esempio
della resistenza che ad esse opjDoneva il conservativismo romano
il caso di C. Lutazio Catulo (242) : al quale il senato impedì di
consultare l'oracolo della Fortuna Primigenia di Preneste (3), che
dava, per mezzo delle sorti, indicazioni determinate sul futuro.
Non é dubbio peraltro che insieme col conservativismo religioso
contribuisse al diniego del senato il timore che siffatte divina-
zioni esercitate con l'aiuto di stranieri e spesso in città straniero
riuscissero pericolose allo Stato romano.
Progrediva pertanto lentamente la religione i-omana, a dir vero
più per dirozzamento della ideazione che per ek^vazionc thila co-
li) Cfr. WissowA p. 465 segg.
(2) Liv. I 55. V 15. 17. Vili 6. 9.
(3) Val. Mxx.epit. I 3, 2.
536 CAPO XXIV. - COLTURA E RELIGIONE
scienza religiosa; e appunto perciò essa si trovò poi così inetta a
resistere alla critica demolitrice della filosofia greca, come in questa
età non era riuscita a reagire contro la j)enetrazione di miti e di
concetti ellenici. Quanto s'affinasse frattanto il sentimento mo-
rale nel periodo compreso tra il decemvirato e la prima j)unica è
diffìcile determinare per mancanza di fonti. La compagine della
famiglia rimaneva ancora ben salda, pm' mentre il dù'itto fami-
liare si andava spogliando della sua arcaica rigidità (1). In ordine
poi alle relazioni civili rispecchia un progresso non solo giuridico
ma anche etico il riconoscimento della solenne promessa (sponsio),
alla quale intorno al 300 jDer mezzo d'un'azione si diede efficacia
legale, se pm* non era accompagnata da una ceremonia simile a
quella in uso nella mancipazione. E fanno anche testimonianza
dell'avvivarsi del sentimento umanitario la legge che moderava il
rigore contro i debitori insolvibili (sopra p. 492) e quella che tu-
telava il cittadino più efficacemente che prima non si facesse da
condanne capitali arbitrarie (sopra p. 231). E pur da attribuire
j)rob abilmente al chiudersi di questa età. il trasformarsi in una in-
nocua iDrocessione dell' orribile sacrifìcio degli Argei (I p. 287),
tuttoché dopo ciò non si cessasse ancora d' immolare a quando a
quando vittime umane.
I vinti si trattarono in generale durante le guerre sannitiche
con assai minor crudeltà di quella che non si usasse poi verso Grreci,
Fenici e Spagnuoli nell' età seguente. Esempì di ferocia, a dir
vero , non mancano , come la distruzione del piccolo popolo degli
Aui'unci (sopra p. 322) ; ma l'implacabile severità dei Romani verso
di essi non era priva di qualche attenuante, e più ancora ne aveva
la distruzione dei Senoni (sopra p. 377). E poi degno di nota che,
dopo la caduta di Vai, nonostante le molte guerre e le molte ri-
bellioni, nessuna città etrusca, campana o greca d'una certa impor-
tanza fu trattata con tutto il rigore dell'usuale diritto di guerra.
Fanno eccezione Regio (p. 422) e Volsinì (p. 425); ma a Regio i
Romani restituirono la città agli antichi abitanti, e avevano ben
ragione del resto di trattare come delinquenti i Campani che se ne
erano impadroniti; a Volsinì misero la loro spada al servizio d'uno
dei partiti locali, e non distrussero a ogni modo politicamente quella
città etrusca, per quanto la trasportassero dal monte alla pianura.
Peraltro la ragione di questa relativa mitezza dei vincitori
stava sopratutto nell' aver saputo riconoscere quale era il loro
(1) Cfr. sopra p. 65 segg.
irò R A LE 537
interesse ben inteso (cfr. sopra p. 281). Per di più, oltre ad essere
legati ai popoli italici per affinità di coltura e di religione e per re-
lazioni di commercio, i Romani trovavano in essi avversari degni
di sé; e il rispetto pel nemico che sa combattere è maestro pm'
esso di sentimenti umani; per quanto siffatti sentimenti, clie non
sgorgavano da un elevamento interiore, dovessero riuscire assai
meno efficaci non appena i Romani si trovarono a fronte di ne-
mici clie non sapevano farsi ris2)ettare con una difesa vuoile o che,
pur essendo valorosi, per l'inferiorità degli ordinamenti militari
lasciavano guadagnare airavversario troppo facili vittorie.
Anche in questa età era certamente dm'a la sorte del prigio-
niero di guerra (1). Se in virtù di speciale convenzione non era
rimandato doxDO aver sofferto la umiliazione del giogo e se, quando
fosse tollerato il riscatto, non veniva riscattato da' suoi, era ven-
duto schiavo o serbato all' onta d'essere trascinato in catene nel
trionfo del vincitore e talora anche messo a morte mentre la
pomiDa trionfale ascendeva il colle capitolino. E tuttavia a questa
età ferrea era ancora estranea una delle macchie j)iù orribili della
civiltà romana. Certo era illimitato il dmtto del padrone sullo
scliiavo. Ma il dis^^rezzo i^ei vinti imbelli e le immense razzie nei
territori che si stendevano indifesi dinanzi all'avidità dei conqui-
statori romani non avevano popolato le campagne di schiavi che
lavoravano di giorno con la catena al piede per essere chiusi di
notte negli ergastoli.
In somma agli incrementi esterni dello Stato, al perfezionarsi
de' suoi ordinamenti e al cresciuto benessere economico s'era ac-
compagnato presso i Romani un lento progresso della coltm-a,
della religione e della morale. La graduale evoluzione che aveva
trasformato a questo modo la coscienza dei barbari eneolitici , la
loro civiltà esterna e le loro associazioni rudimentali s' era com-
piuta, tra lotte d'ogni maniera, senza ch'essi ne fossero consapevoli.
E però tanto più vi aijpare manifesta la efficacia di quella forza
che sospinge costantemente l'umanità da una forma di vita ad
un'altra in cui più penetra e risplende l'idea del bene, senza che
l'una forma sia pienamente determinata dalla ijrecedente, non ])o-
tendo il più jDerfetto avere nel meno perfetto un'adeguata spiega-
gazione; di quella forza che lo scienziato cristiano designa col
nome di Provvidenza.
(1) KoESER De cnptirif; Rom. (Gissae 1903, diss.V
IiNDICE ALFABETICO
Abella, relazioni con Nola li 268 ; al-
leanza con Roma II 325.
Abolani, nella lega albana 378 n. 5
nr. 5.
Aborigeni, significato del nome 174
segg. ; leggende 172 segg.
Abruzzo, 175.
Acarnani, relazioni con Roma 202.
Acca Larenzia, divinità 216. 281. 307
seg.
Accensi, centuria II 197.
Acciensi , nella lega albana 378 n. 5
nr. 4.
Acculeia, curia 240 n. 7.
Acerre (.Traspadana), 436.
Acerre (Campania), II 268; riceve la
cittadinanza II 286; nella prefettura
campana II 444.
Achei, d'Italia 319 segg.; loro civiltà
337 seg.
0. Acilio, annalista 32.
M'. Acilio Glabrione (cos. 191) II 519.
Acqua Cutilia, Ferentina etc, v. Cuti-
lia, Ferentina etc.
Acre, colonia siracusana, fondazione
316 n. 1.
Acrotato, in Sicilia II 346. 368.
Acttt.s; misura li 477.
Adozione, 243. II 75.
Adrano, colonia di Dionisio il Vecchio
Il 188.
Adria, sue origini italiche 102; città
veneta 155 seg.; commercio 326; do-
minio etrusco (?) 437; dominio greco
li 190; importanza II 495.
Adriatico, mare 54. 325. II 190.
Adrogatio, 243.
Aefula, V. Efula.
Aes, equestre II 206 — grave II 485
segg. — hordiarium II 206 — rude II
479 — signatum II 479 segg.
Aesolani, nella lega albana li 378 n. 5
nr. 3.
Afri, 329.
Afrodite, madre d'Enea 196 seg.; eri-
cina 198; assimilata a Venere 277.
II 528.
Agatocle, storico, su Enea 198; sulle
origini di Roma 207.
Agatocle, sue prime imprese in Italia
II 317; signore di Siracusa II 368
segg.; combattuto da Acrotato II
346; libera Corcira da Cleonimo II
347; intervento in Italia II 369 segg.;
estensione del suo impero II 343.
Agatocle, figlio del precedente II 372
seg.
Agide, stratego tarentino II 389.
Agirlo, città di Sicilia II 406.
Agonalia, festa 266.
Agonio, festa 269. 309 n. 2.
Agricoltura, presso gl'Indoeuropei pri-
mitivi 74. 94. 101 ; presso i terra-
maricoli 122 ; presso i Romani II
466 segg.
Agrigento, fondazione 822. 316 n. 1 ; ti-
540
INDICE ALFABETICO
rannide 322; repubblica II 177; coii-
• tro Ducezio II 178 seg. ; distrutta
dai Cartaginesi II 186; sotto Finzia
Il 406; si dà a Pirro II 409; gli si
ribella II 411; tempi 320. II 182.
Agrimensori, v. Gromatici.
Agrio, re dei Tirreni 106 n. 4. 209.
Agrippa, re d'Alba 205.
Agro centuriato, II 71 n. 1 ; pubblico,
li 7. 216. 469.
Agylla, V. Cere.
Aharna, città umbra II 355 n. 2.
Aio Locuzio, dio II 531.
Ala, nella legione II 454.
Alalia, colonia focese 335. .
Alatri, città ernica II 102; alleanza
con Roma II, 337. 342. 458.
Alba Fucente, colonia latina II 340.
487; numero dei coloni II 460; ter-
ritorio II 343.
Alba Longa, posizione 180 seg.; serie
de' suoi re 204 seg.; nella lega al-
bana 878 n. 5 nr. 2; guerra con
Roma 367 segg.; sua caduta 381.
Albano, lago II 142.
Albano, monte 180. 200. 267.
Albensi, nella lega albana 378 n. 5
nr. 1.
C. Albinio, tribuno della plebe II 31
n. 1.
L. Albinio, tribuno della plebe II 31
n. 1.
Albiona, dea 303.
Albione, Il 159 n. 2.
Alcibiade, sua statua nel Comizio II
184.
Alcimo, storico, sulle origini di Roma
207.
Alcmeone, di Crotone 337 n. 1.
Aleso, eponimo di Falerì 107.
Alessandro I d'Epiro, in Italia II 292
segg.; in lega con Roma II 294. 427.
Alessandro, figlio di Pirro II 390 n. 2.
409. 458.
Alessandro Magno, relazioni con Roma
li 426 seg.; efifetti della sua morte in
Italia II 318.
Alezio, città, monete II 484.
Alfabeti, italici II 96 segg.; etrusco
130 n. 1; relazione tra l'etrusco e
l'osco 443; dell'Italia settentrionale
125.
Algido, monte, posizione 181. II 119
seg.; rotta degli Equi II 121 seg.;
incorporato nel territorio romano II
152.
Alicie, città, occupata da Pirro II 409.
Alico, fiume II 262.
Allia, fiume, battaglia li 167 segg.;
altra battaglia II 249.
Allife, occupata dai Romani II 299.
330; combattimento II 335; nello
Stato romano II 420; suo monete II
484.
Allodio (sic), re d'Alba 205 n. 1.
Ambarvalia, festa 268. 377.
Ambito, II 235 segg.
Ameriola, città latina 372 n. 10.
Amilcare, morto ad Imera 342.
Amiterno (Terni), in lega coi Sanniti
II 349; occupata dai Romani II 360;
prefettura II 444.
Ampelo, colonia di Massalia 333.
Amulio, re d'Alba 191. 205.
Anagnia, città ernica II 102; incorpo-
rata nello Stato romano II 337; con-
dizione politica II 486. 439. 440. 442;
pretori II 443; Pirro presso A. II 397
seg.
Anamari, tribù gallica 11 162.
Anassilao, tiranno di Regio e di Mes-
sana 342; sua dinastia II 177 seg.
Anelli, scudi sacri 263 n. 7.
Anco Marcio, v. Marcio.
Ancona, colonia greca, fondazione 173
n. 10. II 190. 264; alleanza con
Roma II 423.
Anello, dei cavalieri II 209 n. 5.
Angerona, dea 278.
Angizia, dea II 530.
Aniense, tribù II 366. 341.
Anima, secondo gl'Indoeuropei primi-
tivi 91 segg.; secondo i Romani 309.
L. Annio, pretore latino li 273,
INDICE ALFABETICO
541
Annali massimi, 16 aegg.
Anna Perenna, dea 268. 271. 281.
Antemne, origini sicule (?) 173.
Antenore, nel Veneto 157.
Antioco, storico, sulle tribù italiche
107 segg.; sui Messapì 164; sugli
Elimi 198; su Roma 173; sulla fon-
dazione delle colonie greche 316 n. 1 ;
sul nome d'Italia 110 n. 1, 111 n. 8.
Antioco I, Sotere II 180.
Antipoli (Gianicolo), 395 n. 6.
Antipoli, colonia di Massalia 333.
Autisti, gente gabina 389.
T. Antonio, decemviro II 49 n. 1.
Anxur, II 108 n. 5. 123, v. Tarracina.
Sp. Anzio, II 136.
Anzio, città volsca II 106 seg.; colonia
romana nel sec. V (?) II 118; dopo
la invasione gallica II 245 seg.; nella
nuova lega latina II 251; nel trat-
tato romano-cartaginese II 252; nella
guerra latina II 276. 278; colonia
romana li 282 seg.; autonomia co-
munale II 434; piraterie II 427; ter-
ritorio II 153 n. 1.
Apiole, 371.
Aplu, V. Apollo.
Apollo, delfico, consultato e onorato
dai Romani II 142. 145 segg. 535;
culto in Roma II 525 seg.; tempio
sul Palatino 188 ; culto in Etruria
(Aplu) 147; archegete, a Nasso 315.
Apollonia, li 428.
Appia, acqvia 228.
Appia, via 228.
Appiano, storico 47 seg.
Appio Erdonio, v. Erdonio.
Apuani, tribìi ligure 441.
Apuli, loro alleanza con Roma II 303 j
seg.; nella terza sannitica II 353
n. 3; loro forze li 462; v. anche Ia-
pigi, Arpi, Teano.
Aquilonia (Lacedonia), Il 360 n. 1.
Aquino, incorporata nello Stato ro-
mano II 324.
Ara massima, 194. Il 523 seg.
Arcadi, nel Lazio 191.
Arcagato, figlio d'Agatocle II 373.
Arcagato, nepote d'Agatocle II 369. 373.
374.
Arcagato, medico II 516 n. 2.
Archidamo, in Italia li 264. 292.
Archiloco, siculo 173.
Architettura, in Sicilia e Magna Grecia
323 seg. II 182; etrusca 432 seg.; ro-
mana Il 513 segg.
Arconide, re siculo 344 n. 2.
Ardea, posizione 181; lotte con Lavi-
nio 203; suo re Lucerò 223; nella
lega albana 378 n. 5 nr. 85; nella
lista di Dionisio II 100 n. 2; in lotta
coi Volsci II 115; leggenda della
vergine d'A. II 48; colonia latina II
115; dopo la invasione gallica II
245; dopo la guerra latina li 280.
342 ; nel trattato romano-cartaginese
II 252; territorio II 342 n. 1 ; im-
portanza II 495; pitture II 510.
Aremulo, re d'Alba 288 n. 5.
Arezzo, posizione 151 ; nella lega etru-
sca 435 n. 3; pace con Roma II 331;
sedizioni lì 841 n. 6. 349 seg.; al-
leanza II 359; fedele a Roma II 376.
Argantonio, re di Tartesso 333.
Argei 201 seg. 287. 391 seg. II 536.
Argentino, dio 258.
Argileto 391. 894, v. Cassio Argillo.
Argo Ippio, V. Arpi.
Argyrippa, v. Arpi.
Aricia, posizione 181 ; origini siculo (?)
173; nella lega albana 378 n. 5 nr.
38; nella nuova lega latina II 92:
nella lista di Dionisio II 100 n. 2;
battaglia di A. 450 seg.; dopo la ca-
lata dei Galli II 245; nella guerra
latina li 276. 280; municipio II 281 ;
m. federato (?) II 482 n. 7; dittatori
423. II 438. 445; tribù Grazia II 446;
culti II 439; tomba presso A. II 514.
Arii, v. Indoeuropei.
Arimino, città umbra 102.
Aristodemo di Cuma, 451 seg. 457. II 14.
Armilustrio, festa 269 n. 2.
Arna, v. Aharna.
542
INDICE ALFABETICO
Arpi, origini 166; lotta con Alessandro
d'Epiro II 293; alleanza con Roma II
303; potenza II 304; popolazione II
494; monete II 487.
Arpino, occupata dai Sanniti II 295
n. 5. 335; presa dai Romani II 338;
municipio II 437 n. 1; riceve il di-
ritto di suffragio II 366 n. 3; edili
II 443; patria dei Mari 233 n. 1.
Arsia, selva II 126; battaglia 407.
Artemide, assimilata a Diana 214.
Artena, distruzione II 123 n. 3.
Arunte, mercante di Chiusi II 159 seg.
Arunte, figlio di Porsenna 408. 450 i
seg. 455; pretesa tomba II 514 n. 2.
Arunte Tarquinio, v. Tarquinio.
Arutini, campi II 414 n. 1.
Arvali 276; loro carmi 268. II 502.
Ascanio, figlio d'Enea 191. 202. 205.
Asclepio, V. Esculapio.
Ascoli Apulo, alleata di Roma II 293;
battaglia 11 400 segg.
Ascoli Piceno, alleata di Roma II 423.
Asdrubale, in Sardegna 334.
Asili, popolo del Piceno 71. 103.
Asilo, in Roma 217 segg.
Assemblea popolare, presso gl'Indoeu-
ropei 83 ; v. Comizi.
Astura, fiume, battaglia II 276.
Atella, nella lega campana II 268;
sottomessa a Roma II 325 n. 2 ; nella
prefettura campana II 444; moneta
II 440 seg. ; v. Atellane.
Atellane, II 505.
Atena, assimilata a Minerva 272.
Atene, suo intervento nell'Occidente
II 182 segg. ; pretesa ambasceria ro-
mana Il 44.
A. Aternio, (cos. 454) 11. Il 54.
Aterno, fiume II 360 n. 4.
Ateste, città veneta 155. II 16. 495.
L. Atilio, (tribuno militare 445) li 57.
M. Atilio Regolo, (cos. 294) II 359 n. 2.
M. Atilio Regolo, (cos. 267. 256) II 200.
Atina, occupata dai Sanniti II 295 n. 2;
dai Romani II 325; nello Stato ro-
mano II 364 n. 1. 420.
Atto C'iauso, V. Clauso.
Atto Navio, V. Navio.
Atria, colonia latina II 364 ; territorio
Il 366.
Atrio romano, II 514.
Aucno 436.
Aufido (Ofanto), II 399.
Auguri, 301 seg.; portati a nove II
223.
Auguri, oblativi e impetrativi 293 seg.;
II 534.
Auleste, 436.
Q. Aulio Cerretano, (maestro dei cava-
lieri 315) II 320.
Aurunca, II 265; v. Suessa Aurunca.
Aurunci, in lotta con Roma II 105 n. 1 ;
relazioni con Roma II 265 seg.; in
lotta coi Sidicini II 284; loro distru-
zione II 322. 536; v. Ausoni.
Ausoni, tribù italica 107.
Auspici, 295. 237.
Autorità dei padri, in origine 352; di-
minuita d'importanza II 221.
Auza, in Libia 331.
Aveia, si accorda coi Sanniti II 349;
incorporata allo Stato romano II 360
n. 5; prefettura II 444.
Aventino, colle 187; nelle leggende
regie 362 n. 4; nelle secessioni li
4 segg.; tardi abitato 394; tempio
di Diana 274; culto di Minerva 272
ara di Giove Eliclo 284 ; v. Remuria,
Legge Icilia.
Azi, gente 205.
Azioni di legge, secondo le dodici ta-
vole II 77 segg.; divulgate da Cn.
Flavio, V. Flavio.
B
Bacco, V. Libero.
Bai ari, tribìi sarda 114.
Baleari, occupate dai Cartaginesi 334,
Balzi Rossi, caverne 59.
Banzia, città lucana II 457.
Bellona, dea 271; tempio II 515.
Belloveso, duce gallico II 164.
INDICK ALFABKTTCO
54;j
Benevento, colonia latina II 420; bat-
taglia di B. II 413 segg. ; v. Male-
vento.
Boi, tribìi gallica, provenienza lì 168
seg.; sedi II 162.
Boia, posizione II 119 n. 3; nella lega
albana 378 n. 5 nr. 7 : nella lista di
Dionisio (?) II 100 n. 2; presa da
Coriolano II 113; nel territorio ro-
mano II 152; ricuperata dai Romani
II 248.
Bona Dea, 276.
Bononia, II 162. 495, v. Felsina.
Borigoni, v. Aborigeni.
Boviano (Pietrabbondante), 103.
Boviano (Boiano), capitale dei Pentri
II 103; presa dai Romani lì 329;
pretesa vittoria presso B. Il 353.
Boville, 386 seg.; nella lega albana
378 n. 5 nr. 34; nella lista di Dio-
nisio (?) II 100 n. 2; ara dei Giuli
309.
Brenno, duce gallico II 166.
Breonio (Verona), ritrovamenti prei-
storici 64.
Brindisi, nel mito di Diomede 166;
occupata dai Romani II 428.
Britannia, II 159 n. 1.
Brutulo Papio, Sannita 11 306.
Bruzi, sedi 103; leggende 219; loro
principi II 263; assediano Crotone li
317; guerra con Agatocle II 369 segg.;
ricuperano Ipponio II 375; contro
Roma II 376; si congiungono con
Pirro II 396; alleanza con Roma II
421; territorio II 343; forze II 385
n. 1 ; lega II 461 ; monete II 487.
Bubentani, nella lega albana 378 n. 5
nr. 6; nella lista di Dionisio II 100
n. 2.
Bucchero, 429.
Buccone, maschera II 505.
Butrio, città umbra 102.
Cabensi, sacerdoti 382 n. 3.
Cabo, 382 n. 2. 387; nella lega albana
378 n. 5 nr. 39; nella lista di Dio-
nisio II 100 n. 2.
Caca, dea 193. 216. II 515. 525.
Caco, 191. 193 seg. 308.
Caiazia, presa dai Romani II 325; ri-
presa dai Sanniti II 335 ; in lega con
Roma II 420.
Calabri, tribù messapica 165; sotto-
messi a Roma II 424.
Caiazia, nella lega campana II 268;
sottomessa a Roma II 355 n. 2; nella
prefettura campana II 268; moneta
Il 440 seg.
Calcide, colonie in Occidente 314 seg.
Calcidesi, d'Occidente, in lega con
Atene II 183.
Calendario romano II 516 segg.; di
Numa 265 segg.
Cales, colonia latina II 274. 284 ; ter-
ritorio li 342 ; numero dei coloni II
460; moneta II 487.
Caletrano, agro II 398.
Calila, storico, sulle origini latine 173;
su Romolo 208.
Callife, occupata dai Romani II 299
n. 2.
Calpeto, re d'Alba 205.
Calpurnì, gente 205.
L. Calpurnio Pisene, annalista 34.
Camarina, colonia di Siracusa 316
n. 1. 322; distrutta dai Cartaginesi
II 186; distrutta di nuovo dai Ma-
mertini II 405.
Camars, II 331 n. 2. 355 n. 2.
Camerino, alleanza con Roma 11 331.
334. 452.
Camerio, città latina 372 n. 10.
Camilia, tribù II 19.
Campana, rilievi lì 512.
Campani, 103; loro inizi II 188 seg.;
loro lega II 268. 287 seg.; pretesa
dedizione II 269 seg.; prefettura
II 443 seg.; middix tiitictts II 443 ;
òU
INDICE ALFABETICO
moneta II 484; monetazione romano-
campana II 486 segg. 489, v. Capua.
Campania, dominio etrusco 442 segg.;
condizioni alla metà del IV sec. II
267 seg.
Campidoglio, v. Capitolino.
Campo Marzio, 268. 355. 396.
Camunni, tribù euganea 65.
Cananei, 329.
Carine, tumulo di Toante 167.
C. Canaleio, tribuno della plebe II 5.
56.
Canusio, nel mito di Diomede 166 ;
alleata con Roma II 319; popola-
zione II 494; moneta II 487; iscri-
zione messapica (?) 168.
Capanne, v. Fondi di capanna.
Capena, porta di Roma 361. II 531.
-Capena, sua nazionalità 136; civiltà
esterna 160; soccorre i Veienti II
141 seg. ; sottomessa dai Romani
li 149; quando ordinata a comune
II 432; municipio federato, ibid.
Capeto, re d'Alba 205.
Capi, padre di Anchise 198.
Capi, re d'Alba 205.
Capitolino, colle, posizione 185. 190;
pretesa colonia greca 194; occupato
da Tazio 221 n. 3; nelle leggende
regie 362 n. 4; occupato da Erdonio
II 32. 124; nel pomerio 391 seg.;
culto di Giove 267; della triade ca-
pitolina 272 seg. 322.
Capitolio antico, sul Quirinale 272.
Capitello di Signia, 303 n. 2.
Caprea, palude 400.
Capri, isola 315 n. 2. II 188.
Caprotine, none 270. 400. II 242.
Capua, nome italico 109. 198; fonda-
zione 445; dominio etrusco 436. 443;
conquistata dai Sanniti II 188 ; a
capo della lega campana 11 268; si
allea con Roma II 269; si unisce
coi Latini ribelli II 274; si accorda
con Roma II 277 ; municipio senza suf-
fragio II 286 seg.; ribellione II 321 ;
viene a patti lì 323; fedele nella
guerra di Pirro li 397; nella pre-
fettura campana II 444; sue con-
dizioni politiche II 436. 439. 440;
estensione II 494; popolazione ibid.;
moneta II 440 seg. 442; meddices
II 443.
Caraceni, v. Carecini.
Carali, colonia fenicia 334.
Carcere, 365 n. 4.
Cardea, dea 259.
Cardine, II 448.
Carecini, tribìi sannitica 103 n. 3; sot-
tomessi a Roma II 421.
Carilao, napoletano li 300.
Carine, 391.
Carmenta, dea 277.
Carmentale, festa di Roma 277.
Carmentalia, festa 277.
Carmi trionfali, II 503.
Carna, dea 278.
Carnaria, festa 278.
Caronda, legislatore 340.
Caronte, presso gli Etruschi 147 seg.
Carseoli, colonia latina II 341 ; terri-
torio II 343; numero dei coloni II
460.
Cartagine, fondazione 381 seg.; po-
tenza nel sec. VI 333 ; primo inter-
vento in Sicilia 334; conquista della
Sardegna 334; lotta coi Focesi 334
seg.; rotta d'Imera 342; spedizioni
in Sicilia nel 409 e nel 406, li 185
seg.; nuove guerre con Dionisio II
187. 261 seg.; provincia cartaginese
in Sicilia II 187; relazioni con gli
Etruschi 456 ; trattati con Roma
II 248. 251 segg. 253 n. 3; assedio
di Siracusa II 406 ; alleanza con
Roma contro Pirro II 404 segg. ;
tentato intervento a Taranto II 419.
Carvento, posizione II 119 n. 3; nella
lega albana (?) 378 n. 5 nr. 8; nella
lista di Dionisio II 100 n. 2; presa
da Coriolano II 113; nello Stato ro-
mano lì 152.
Sp. Carvilio, (console 293) II 360 n. 5,
(legato 292) II 362 n. 2.
INDICE ALFABETICO
545
Sp. Carvilio Ruga, suo divorzio II 66
n. 5.
Casa romana, II 513 seg.
Casci (Latini), 171.
Casilino, nella lega campana II 268;
nella prefettura campana II 444.
Casino, occupata dai Sanniti II 295
n. 3 ; incorporata nello Stato romano
II 324. 420.
Casmene, colonia siracusana 316 n. 1.
Cassandro, in lotta con Agatocle II 370.
Cassio Argillo, II 12.
Cassio Bruto, II 12.
L. Cassio Emina, annalista 34.
Cassio Signifero, II 12.
Sp. Cassio Viscellino, II 212 n. 2; trat-
tato coi Latini 29. II 96 segg. ; trat-
tato con gli Ernici II 103; tempio di
Cerere II 37. 527; legge agraria II
9; sua morte II 10 seg.
Castori, II 527; culto a Tuscolo 366
n. 2. 426.
Castrimenio, nella lega albana (?) 378
n. 5 nr. 17.
Castro d'inuo, 181.
Castro Novo d'Etruria, colonia romana
lì 368. 447.
Castro Novo del Piceno, colonia ro-
mana II 368. 423. 447.
Catania, colonia calcidese 315 ; data
della fondazione 316 n. 1 ; legisla-
zione di Caronda 340; rifugio degli
Ateniesi II 185; colonia di Dionisio
II 187 seg.
Catillo, fonda Tivoli 201.
Caudini, sedi 104 ; nella lega sannitica
II 266 seg.; dissoluzione della loro
lega II 420. 461.
Gaudio, battaglia di, li 309 segg.; pace
di C. II 112 segg.; alleanza con
Roma II 420.
Caulonia, colonia di Crotone 321. Il
263; presa dai Campani di Regio II
421.
Cavalieri, nell'età regia 356; nell'or-
dinamento serviano II 205 segg. ;
trasformazione II 208 seg.
G. De Sanctis, Storia dei Romani, II.
Cecilia, V. Gaia Cecilia.
L. Cecilie Metello, (cos. 284) II 376.
Q. Cecilio Metello, sua laudazione II
506.
Ceeulo, fondatore di Preneste 274. 281.
Celeri, v. Cavalieri.
Celia, città apula, moneta II 487.
Celio, monte, nelle leggende regie 362
n. 4; stanziamento d'Albani 386 ;
Curie Nuove 240.
Celti, migrazioni e civiltà della Tene
II 168 segg.; passaggio delle Alpi
II 162 seg.; v. Calli.
Celtiberi, II 159.
Celtici, II 159.
Cenomani, provenienza II 163 ; sedi
II 161.
Censori, loro origine e poteri II 58
segg.; patrizi e plebei II 218; lectio
senatus II 227. 233; stendono liste
di municipi II 442; ingerenza nelle
finanze municipali II 440. 445; a
Cere II 442; a Banzia II 457.
Centuria, misui'a II 71 n. 1.
Centurie, equestri primitive 247 ; dei
fanti, tratte dalle curie 242. 356 ; nel-
l'ordinamento serviano II 193 segg.;
della fanteria II 204 seg.; della ca-
valleria lì 205 seg. ; v. Comizi cen-
turiati.
Ceramica, neolitica di Liguria 61 ; di
Breonio 64; di Pantelleria 67 ; dei
fondi di capanna 69; presicula di
Stentinello 72; eneolitica di Sicilia
97 segg.; delle palafitte 118; delle
terremare 133; villanoviana 153 seg.;
sicuhi progredita 325; etrusca 149.
429 seg. ; greca 325.
Cere, posizione 157; nella lega etru-
sca 485 n. 3 ; in relazione coi Fe-
nici 330; in lotta coi Galli lì 173;
con Dionisio II 190; relazioni più
antiche con Roma II 150; municipio
II 255 segg. 433; privata di metà
del territorio II 424; dittatura 423.
338; censura II 442; sarcofaghi 430 •
pitture II 510; estensione II 494;
86
546
INDICE ALFABETICO
popolazione II 495; tesoro in Delfi
326; V. Mezenzio.
Cerere, dea italica 276. 279 ; sacrifizi
258; vittime umane 288; tempio II
29. 37. 510. 527 segg.; archivio della
plebe nel suo tempio II 37 seg. 219.
Cerialia, festa 276.
Cermalo, monte 186. 187.
Certosa (fibula della), 438.
Cesennia, II 338 n. 4.
Chiusi, V. Clusio.
Cillirì, a Siracusa 341.
Cilnì, patrizi aretini II 341 n. 6. 350.
Cimetra, II 352.
Ciminì, monti II 330.
L. Cincio Alimento, annalista 32.
Cinea. tessalo II 389. 403. 407.
Cinna, II 321 n. 1.
Circe, 209. 336.
Circei, II 108 n. 5 ; colonia dei Tar-
quini (sic) II 252; nella lista di Dio-
nisio li 101 ; presa da Coriolano II
113; occupata dai Romani II 123;
colonia latina II 245 seg.; nel trat-
tato con Cartagine II 252; dopo la
guerra latina II 280. 342; territorio
II 153 n. 1.
Circeo, monte 336.
Circo Massimo, II 533; lapis albus II 10.
Cirene, 333.
Cisauna, nel Sannio II 352.
Cispio, monte 185.
Ciste, II 511.
Classi, dette serviane II 192 segg.;
loro censi II 198 segg.
Classici, II 192.
Clastidio, città II 162.
Claudi, gente, origine sabina 221; loro
clienti 228 n. 2; Marcelli, plebei 232.
Claudia, tribù II 19 seg. 124.
Ap. Claudio, decemviro II 43 segg.;
suoi intendimenti II 49 segg.
Ap. Claudio, (dittatore 362) II 254.
Ap. Claudio Ceco, censura II 226 segg.;
fonda Foro d'Appio II 451 ; riforme
nel culto d'Ercole II 524; questione
coi tibicini II 509; primo consolato
(307) II 335; secondo consolato (296)
II 354; orazione contro Pirro II 404.
606 seg. ; carme II 507.
Ap. Claudio Fulcro, (cos. 79) 31.
Atto Clauso, 221.
Clavus, II 208 n. 3.
Cieli, gente albana 385.
Clelia, leggenda 438 seg.
Tulio Clelio, II 136.
Clelio, v. Cluilio, Gracco.
Cleonimo, spartano, in Italia II 345 seg.;
a Corcira li 370; nell'Adriatico II
347.
Clientela, 226 segg.
Clitemestra, consorte di Archiloco 173.
P. Clodio, 232.
Cluilie, fosse 377.
Cluilio, duce Albano 367,
Cluilio, duce equo II 115. 118.
Clusio, posizione 151; nella lega etru-
sca 435 n. 3: sotto Porsenna II 446;
assediata dai Galli II 166 seg.; al-
leanza con Roma II 359; tomba, di
Porsenna 432; canopi 430.
Clustumerio, origini sicule (?) 173;
città latina 372 n. 10.
Clustumina, tribù 221 n. 1. II 20. 124.
Cluvie, città 103 n. 3.
Gnidi, in Occidente 334.
Coenzione, 237.
Coercizione, 415.
Collazia, città latina 373 n. 10.
Collegialità, 416 seg.
Collina, porta di Roma II 127. 132.
249.
Colonie, greche in Italia e Sicilia 314
segg.; fenicie 328 segg. ; latine II 457
seg. 460 seg. ; di cittadini romani II
446 segg.
Cominio, negli Equiculi II 360 n. 5.
Cominio Gerito, nel Sannio II 360
n. 5; occupata dai Romani II 363.
Postumo Cominio, (cos. 493) II 96.
110 seg.
Comizi, curiati, loro origine 244 seg.;
nell'età regia 354 segg.; nella re-
]3ubblica 427 — centuriati, nell'età
INDICE ALFABETICO
547
regia 355. 357; assistono al testa-
mento (?) 244; nei primordi della
repubblica 428; nell'ordinamento
serviano II 210 segg.; loro autorità
II 232 seg. — tributi, II 22.
Comizio, 186. 275; sepolcro di Romolo
208.
Commercio, dei Romani II 472 seg.
Compulteria, in lega con Roma lì 420;
moneta II 488.
Concili tributi, II 22 segg. 34.
Conciliaboli, II 450.
Concordia, tempio II 215. 532.
Confarreazione, 237.
Congiura, II 131.
Coni, tribù 107 n. 3. 108. 327.
Connubio, tra patrizi e plebei 236 seg.
II 56.
Consenzia, capitale dei Bruzì II 461 ;
presa da Alessandro d'Epiro II 293,
Conso, dio 275. 308; festa II 534; ara
303. II 533; tempio II 510. 515. 528.
Consoli, origine 403 segg. ; poteri 413
seg. ; collegialità 416; giurisdizione
II 82; relazione coi questori 419 seg.;
patrizi e plebei li 212. 214.
Consualia, festa 275. 290. II 465.
Coorte, II 454.
Cora, città latina 172 n. 2; nella lega
albana (?) 378 n. 5; nella nuova lega
latina II 92; nella lista di Dionisio (?)
II 100 n. 2; resiste ai Volsci II 105.
114; dopo la calata dei Galli II
245; città federata II 280. 342. 458;
monete II 487.
Corace, di Siracusa II 182.
Corbione, posizione lì 119 n. 3; nella
lega albana (?) 378 n. 5 nr. 45;
presa da Coriolano II 113.
Corcira, intervento a Siracusa 341 ;
sotto Cleonimo II 346; sotto Aga-
tocle lì 347. 370; sotto Pirro 11 370.
385.
Corcira Nera, colonia greca 326 n. 3.
Corinzi, loro colonie in Occidente 321;
intervento a Siracusa 341 ; nuovo
intervento II 264.
Corioli, nella lega albana 378 n. 5
nr. 9; presa dai Romani TI 110; oc-
cupata da Coriolano II 113.
Come, II 93 n. 2; nella lista di Dio-
nisio (?) II 100 n. 2.
Cornelia, tribìi II 19.
P. Cornelio Arvina, (cos. 306) II 336.
A. Cornelio Cosso, (cos. 428) 29; uccide
Tolunnio II 137.
A. Cornelio Cosso, (dittatore 385)11 192.
A. Cornelio Cosso, (cos. 343) II 269.
P. Cornelio Dolabella, (cos. 283) II 376
n. 3. 377 seg.
L. Cornelio Lentulo, (dittatore 320) II
816.
L. Cornelio Lentulo, (cos. 275) II 413
segg.
P. Cornelio Maluginense, (maestro dei
cavalieri 396) II 141 seg.
P. Cornelio Rufino, (cos. 290) II 363 ;
(cos. 273) II 411; espulso dal senato
II 492.
L. Cornelio Scipione Barbato, (cos. 298)
II 351 n. 1. 354 n. 2; (propretore
295) II 355 seg.; sarcofago lì 514;
iscrizione lì 351 n. 1.
Cornicini, centuria lì 197.
Corniculani, monti 171.
Corniculo, origini sicule (?) 173; città
latina 372 n. 10.
Corsi, lingua 74 n. 4; relazioni coi
Sardi 115.
Corsica, stazioni preistoriche 74; pre-
dominio etrusco 335. 436. 435; de-
vastata dai Siracusani II 179; rela-
zioni con Dionisio il vecchio II 190.
Cortona, posizione 152; città pelasgi-
ca (?) 132; nella lega etrusca 435
n. 3 ; alleanza con Roma II 331 seg.
Ti. Coruncanio, (cos. 280) II 390 n. 2 .
392 segg. 398.
Corupedio, battaglia, data II 390 n. 2.
Cosa, nei Volcienti. colonia latina 11
391.
Cossira (Pantelleria), antichità pre-
istoriche 67.
Craniti, monti II 412.
548
INDICE ALFABETICO
Grati, fiume II 294.
Cremazione (dei cadaveri), presso gli
Arii93; i palafitticoli 118; i Villa-
noviani 143; in Etruria 143 seg.; a
Timmari 139; presso i Latini 161.
Cremerà, battaglia II 126 segg.
Cretesi, in Sicilia e in Italia 165 ; a
Gela 322.
Crimiso, battaglia II 264.
Crono, assimilato a Saturno 275.
Cronologia, romana 13 segg.; v. Calen-
dario.
Crotone, in territorio iapigio (?) 169;
colonia achea 320; data della fon-
dazione 316 n. 1; sue colonie 321;
contro Siri, Sibari e Locri 338 ; de-
mocrazia II 178; combattuta da Dio-
nisio II 190; presa da D. II 262 ;
assediata dai Bruzì II 317; rivolgi-
mento costituzionale II 318; occu-
pata da Agatocle II 371 ; alleata dei
Romani II 412; presa dai Campani
di Regio II 421.
Crustumerio, v. Clustumerio.
Cuma, necropoli indigena 163; colonia
greca 316; data della fondazione
318 n. 1. 319; sotto Aristodemo 450
seg. Il 14; battaglia di C. 457 seg. ; in
mano dei Sanniti II 188; municipio
II 302; nella prefettura campana
II 444; meddices II 443; alfabeto II
497; moneta II 482 seg.; libri sibil-
lini II 525.
Cunina, dea 259.
Cupra, città picena 436.
Cupra, dea 436.
Curi, in Sabina 212 n. 4. 221 seg.
Curia Ostilia, 240. 364,
Curiazì, duello con gli Grazi 368;
gente albana 385.
P. Curiazio, decemviro II 43.
Curie, origine 239 segg.; nella milizia
242; nel culto 242; nel diritto fa-
miliare 243; Curie vecchie e nuove
240; V. Comizi curiati.
M'. Curio Dentato, (cos. 290) II 363 seg.;
(cos. 284) II 376 seg.; (cos. 275) II
411. 413 segg. ; sua povertà II 493.
Curione, capo della curia 242 n. 1.
Curzio, lago, sul Foro 222.
Cusuetani, nella lega albana 378 n. 5
nr. 8.
Cutilia, lago 104.
Cutilie, Acque (Rieti) 126.
D
Damaste, storico, su Enea 198; sulle
origini di Roma 207.
Damofilo, pittore II 510.
Danza, presso i Latini II 509.
Daunì, origine illirica 167 n. 7; tribù
iapigia 164; territorio li 343; v. Arpi.
Daunio, 164.
Dea Dia, 276.
Debiti, II 2 segg. 490 segg.
Decemviri legihiis scribendis, II 42 segg. t
loro leggi II 62 segg.; loro calen-
dario II 519. 521 — sacris faciiindis,
II 222. 535 — stUtibus iudicandis, II
39 segg. 220.
Decio lubellio, campano II 395.
P. Decio Mure, (trib. militare 343) II
269; (cos. 340) II 275 segg.
P. Decio Mure, (cos. 308) ; II 333 ; (cen-
sore 304) II 230 ; (cos. 297) II 353 ;
(cos. 295) II 355 segg. ; sua devotio II
357 n. 2.
P. Decio Mure, (cos. 279) II 399 segg.
(cos. 265 ?) II 425 n. 1.
Decumano, II 448.
Dèi, certi 257 ; consenti 147. 307 ; in-
certi 257 ; inferi 308 ; involuti 147 ;
novensidi 307 ; precipui 257 ; natu-
ristici 261 ; istantanei e pei'manenti
260 ; malefici 283 ; feticci 263 seg. ;
culto delle pietre 262 ; culto degli al-
beri 263 ; culto degli animali 262,
V. anche Totemismo; famiglie divine
269.
Delfi, oracolo consultato dai Romani
II 426 ; dono votivo romano II 146
INDICE ALFABETICO
549
segg. ; tesoro di Cere 226 ; di Spina
437; presa dai Galli II 402.
Demarato, padre di Tarquinio Prisco
430.
Demarchi, di Napoli II 300 n. 1.
Demeter, assimilata a Cerere 276. II 528.
Demetrio Poliorcete, relazioni con Aga-
tocle II 372 ; ambasceria ai Romani
[I 427.
Denaro, II 489.
Detestatio sacrorum, 243.
Diana, dea 273 seg.; suo tempio sul-
l'Aventino 31 n. 2. 218. 274. 303. 365 ;
simulacro II 512 ; sacra leggenda
375 ; sacrario nemorense 29. II 93.
218 ; attinenze con Virbio 308 ; sa-
crario tuscolano II 93.
Dicearchia, colonia di Samì 336 ; in po-
tere dei Sanniti II 188 ; v. Puteoli.
Dinomenidi, in Siracusa 341 segg.
Diocle di Pepareto, su Romolo 215.
Diocle, legislatore 340.
Diodoro Siculo, storico 43 segg.
Diomede, in Italia 166 seg. ; fonda
Lanuvio 201.
Diomedee, isole 127.
Dione, siracusano II 263.
Dionisio di Calcide, storico, sulle ori-
gini di Roma 207.
Dionisio di Alicarnasso, storico, 41
seg.; sulle origini etrusche 129; sua
lista di città latine II 100 n. 2.
Dionisio I di Siracusa, II 186 segg. ;
in lega coi Lucani 189; suoi ultimi
anni II 261 seg.
Dionisio II di Siracusa, II 262 segg.
Diopo, 430.
Dioscuri, II 527; attinenze coi Penati
278 ; epifania al Regillo II 94 seg.
Dite, assimilato a Manto 146; a Plu-
tone II 529.
Dittatori, origine e poteri 420 segg.;
superiorità sui tribuni della plebe II
.33; dittatori latini 422 ; in Alba 367;
a Tuscolo II 433 n. 8 ; ad Aricia,
Lanuvio, Nomento e Cere II 438;
patrizi e plebei II 218.
Divalla, festa 278.
Divinazione, 295. II 534 seg.
Dodici tavole, 30. II 62 segg.
Dolati (Umbri), 170.
Dolmen, in Corsica 74 n. 2; in Terra
d'Otranto n. 3 ; fuori d'Italia 96.
L. Domizio Aenobarbo, II 95.
Cn. Domizio Calvino, (cos. 283) II 376
n. 3. 378.
Domos de gianas, in Sardegna 112 seg.
Dorico, di Sparta, in Sicilia 339.
Dossenno, maschera II 505.
Dote, II 67.
Dramma, moneta, II 481.
Drammatica, poesia, in Roma II 504 seg.
Ducezio, re siculo II 178 seg.
Cesene Duillio, decemviro II 49 n. 1.
M. Duillio, tribuno della plebe li 26
n. 4. 35.
Duoviri, nelle colonie II 449.
Duoviri sacris faciimdis, II 222. 535.
Duronia, città II 360 n. 2.
E
T. Ebuzio, (cos. 449) II 94 n. 2.
Ecateo, logografo, sui Pelasgi 132.
Ecetra, città volsca II 106 seg. 245.
Edili, della plebe II 36 segg. II 219;
curuli II 219 ; a Tuscolo II 433 ; a
Fundi, Formie ed Arpino II 443: a
Banzia II 457.
Efesto, assimilato a Volcano 274. 530.
Eforo, storico, sui Sicani 99; sulle co-
lonie greche 316 n. 1.
Efula, nella lega albana (?) 378 n. 5
nr. 3; presa dai Romani II 122 n. 2.
Egeria, dea 361.
Egerio Levio, dittatore latino lì 91.
Egnazio, v. Gelilo.
Elba, isola, miniere 150 seg.; occupata
dai Siracusani 11 179; da Dionisio
li 190.
Elea, colonia focese 335. II 189; scuola
filosofica 323. II 180 seg.; v. Velia.
Elei, sul Campidoglio 194.
Eleno, figlio di Pirro li 390. 415. 418.
550
INDICE ALFABETICO
Elimi, popolo di Sicilia 66 ; pretese
origini troiane 198 ; lega con Atene
II 183 ; lega con Cartagine II 184 seg.
C. Elio, tribuno della plebe li 375 n. 1.
Sesto Elio Peto, giureconsulto II 41.
Ellanico, storico, su Enea 198; sulle
origini di Roma 207 ; sui Pelasgi
132; sui Siculi 100.
Elleporo, battaglia 13. II 190,
Eloro, battaglia 341.
Elpenore, tomba II 252 n. 3.
Emancipazione, II 68.
Emilì, origini troiane 201.
Emilia, tribù II 19. 446.
L. Emilio Barbula, (cos. 281) II 383.
389 seg. ; trionfa come proconsole
II 208 n. 1. 390 n. 1.
Q. Emilio Barbula, (cos. 311) lì 329 n. 2.
L. Emilio Mamercino, (cos. 341) II 269;
(cos. 329) II 273.
Mam. Emilio Mamercino, (dittatore 437.
426) II 137; (434) II 58.
Ti. Emilio Mamercino, (cos. 339) II
275 segg.
L. Emilio Mamerco, (cos. 478) II 126.
Q. Emilio Papo, (cos. 282) II 378;
(cos. 278) II 411.
M. Emilio PauUo (cos. 302) II 347.
Empedocle, di Agrigento li 181 seg.
Enaria (Ischia), 198 n. 5.
Enea, in Italia 194 segg.; nel Lazio
191. 209; lotta con Turno 203; fonda
le Ferie Latine 378.
Enea II, re d'Alba 205.
Eneti. in Italia (?) 156.
Enna, città sicula, occupata dai Car-
taginesi li 405; si dà a Pirro II 409;
culto di Cerere II 527 seg.
Ennio, di Rudie II 456; sopra un'eclissi
del 400 circa 19 seg.
Enotri, tribù italica 107 seg. 169. 327.
Enotro, 167.
Entella, città elima 66.
Eolie, isole 314 n. 3.
Epicarmo, poeta II 179 seg.
Epito, re d'Alba 205.
Epopea, romana 22 segg. II 502 seg.
Equi, tribù, II 115 seg.; lotte con Roma
Il 45. 116 seg. 248 segg.; lega coi
Volsci II 114; alleanza con Roma
(?) II 289 n. 3; ribellione II 333;
sottomissione II 340.
Equiculi, II 341.
Equimelio, II 16.
Equirria, festa 269 n. 2.
Equiti, V. Cavalieri.
Eqiius publicHs, II 206.
Era Lacinia, tempio II 182.
Eracle, v. Ercole.
Eraclea, d'Italia, nella lega italiota II
190; occupata da Alessandro d'Epiro
II 293; battaglia II 398; alleanza
con Roma II 411 seg. 452.
Eraclea Mìnoa, in potere dei Cartagi-
nesi li 262 seg.; occultata da Pirro
II 409.
Erari, Il 227 n. 1. 434.
Erario, nel tempio di Saturno II 219.
Ercolano, fondata da Ercole (?) 193 ;
dominio etrusco 443 ; nella lega nu-
cerina II 268.
Ercole, miti sulle sue peregrinazioni
192 seg.; culto nel Lazio 190. II
523 seg.; in Etruria (Hercle) 147;
attinenze con Giunone, Marte e Mi-
nerva 279 ; con Acca Larenzia 281 ;
ara 303; statua II 512.
Ap. Erdonio II 32. 124.
Erenni, patroni dei Mari 233 n. 1.
Erennio, sannita II 316.
Ereto, confine latino-sabino 172. 383.
II 124. 529.
Erice, città elima 66.
Erice, monte 66.
Ermocrate, di Siracusa li 187.
Ermodoro, d'Efeso II 44 seg.
Ernici, tribù italica li 102 segg.; al-
leanza con Roma II 9. 103; occu-
pano Ferentino II 123 n. 5. 152; dopo
la guerra gallica II 258 segg.; non
partecipano alla guerra latina II 277 ;
ribellione II 388 ; sottomissione II
337 seg.
INDICE ALFABETICO
551
Erodoto, sui Pelasgi 132; sulle origini
etrusche 128 ; sui Messapì 164.
Ersilia, sabina 222.
Escolano, dio 258.
Esculapio, II 528 seg.; tempio II 511.
Esernia, nel Sannio II 356 n. 1 ; colonia
latina, suo territorio II 420 ; moneta
II 468.
Esiodo, su Latino 209.
Esquilino, colle 185. 187; nelle leggende
regie 362 n. 4 ; sepolcreto 183.
Etalia, V. Elba.
Etoli, in Italia 167.
Etruschi, provenienza 124 segg. ; in
Toscana 145 segg.; lotta coi Focesi
395. 445; in Corsica 456; amicizia con
Cartagine 456 ; lotte coi re di Roma
872 ; nel Lazio 445. 452 segg.; in
Campania 442 segg. II 267 ; non
soccorrono i Veienti II 141 seg. ;
assalgono Sutrio e Nepi II 254 ;
nuove guerre con Roma II 255. 328
seg. 350 seg. 376 seg. ; pace II
398; soccorrono gli Ateniesi II 184!
Agatocle II 369 ; progressi econo-
mici 148 seg.; tombe a camera 149 ;
ceramica 430 seg.; pittura 431; archi-
tettura 432 seg.; ordinamenti civili
152 seg. 434; lega religiosa 435. II
143 seg.; sacrario federale 146 ; città
150 segg. II 494 seg.; forze II 462.
463 seg.; religione 146 seg.; sua effi-
cacia sulla religione romana II 529
seg.; alfabeto II 498; nundine II 473;
moneta II 473 seg.; piraterie II 179.
Euchire, 430.
Euganei, 65.
Eugrammo, 430.
Evandro, leggende 190 seg. 192. 194.
Fabì, numero dei loro clienti 228 n. 2;
al Cremerà II 126 aegg. ; nella leg-
genda dell'invasione gallica II 165
n. 1.
Fabia, tribù II 19.
Q. Fabio (RuUiano?), II 511.
C. Fabio Ambusto, (cos. 358) II 255.
M. Fabio Ambusto, II 213.
Fabio Dorsuone, II 131. 171.
Q. Fabio Massimo Gurgite, (cos. 292)
II 362 seg.; (cos. 276) II 411 seg.;
(cos. 265) II 425.
Q. Fabio Massimo Rulliano, (maestro
dei cavalieri 325) II 305; (dittatore
315) II 320; (cos. 310) II 330 segg.;
(cos. 308) II 335; (proconsole 307 j II
335; (censore 304) II 94 n. 2. 304;
(console 297) II 353; (console 295) II
355 segg. ; (legato 292) II 362 segg.
Q. Fabio Massimo Verrucoso (Cuncta-
tor), II 200.
C. Fabio Pittore, suoi dipinti II 511.
Q. Fabio Pittore, annalista 36; sue
fonti 21 segg. ; sulle origini latine
173; su Romolo 214 segg.
Cesone Fabio Vibulano, (cos. 479) II
126.
M. Fabio Vibulano, (cos. 480) II 126.
Q. Fabio Vibulano, II 127. 150.
Fabrateria, alleanza con Roma II 289
n. 3. 296 n. 3.
Fabri, centurie II 197.
C. Fabricio Luscino, (cos. 282) II 379;
sue trattative con Pirro II 404; (cos.
278) II 411; (censore 27.5) II 492.
Fabulino, dio 259.
Fagutale, monte 185.
Falacro, dio 278.
Falaride, tiranno di Agrigento 341.
Falerì, posizione 160; origini sicule
173; Pelasgi 176; sue lotte con Roma
II 128 seg.; soccorre i Veienti II 141
seg.; sottomessa da Camillo II 150;
guerra con Roma II 255 seg. ; alleata
romana II 349; ribellione II 362; ci-
viltà esterna 160; culto di Minerva
278; di Giunone 270; della triade
capitolina 273 n. 3; alfabeto II 498.
Falerna, tribù II 285. 288.
Falerno, agro II 268. 285.
Famiglia, indoeuropea 80; etrusca 148;
romana II 65 segg. 536.
552
INDICE ALFABETICO
C. Fannie, (cos. 122) II 10.
M. Fannie, II 511.
Faracida, navarco spartano II 187.
Faro di Messina, 330.
Farre, II 466.
Fasti, consolari 2 segg.; trionfali 15.
Fauna, dea 276.
Fauno, dio 276 ; attinenze con Evandro
192; con Numa 281; fonda le Ferie
Latine 378.
Faustolo, 215.
Febre, dea 288. II 466.
Fede, dea 199.
Federati, italici II 451 segg.
Felsina, leggenda sulle origini 436;
nell'età villanoviana 154 seg.; sua
importanza II 93; sepolcreto della
Certosa 488; cade in mano dei Boi
II 162; V. Bononia.
Fenectani, campi II 275 seg. 278.
Fenice, 329.
Fenici, in Occidente 327 segg.; v. Car-
tagine.
Fenicussa, isola 829.
Fensernia, monete II 484.
Ferecide, sugli Iapigi 167.
Ferentina (Acqua), assemblee federali
dei Latini 423. II 91; riunione dei
Volsci II 110.
Ferentino, tolta ai Volsci II 128; al-
leata II 337. 342. 852. 458.
Ferie, pubbliche 265; Latine 377 segg.
II 102; degli stolidi 246 n. 1.
Feritro, II 360.
Fescennia, nel territorio falisco II 504 ;
origini sicule 173; pelasgiche II 423.
Fescennini, versi II 504.
Feziali, 302. 367.
Ficana, città latina 370.
Fico ruminale, 213.
Ficoroni, cista II 511.
Ficulea, città latina 372 n. 10; origini
sicule 173; nella lega albana (?) 378
n. 5 nr. 44.
Fidene, posizione 182; latina o sabina
183 n. 1. 221 n. 1; nella lega albana
378 n. 5 nr, 10; alleata con Veì II
124 seg.; lotta con Roma 384. II 136
seg.; distrutta II 137.
Fidicini, II 509.
Fiesole, 152.
Filisto, storico, sui Siculi 174; sui Si-
cani 99.
Filolao, pitagorico 337 n. 1. II 181.
Finzia, di Agrigento II 406.
Finziade (Licata), II 406.
Firmo, colonia latina II 423.
Fistelia, monete II 188 n. 7. 484.
Flamini, 271; nome 90; maggiori e
minori 297; virbiali II 439.
Cn. Flavio, edile II 228; edicola della
Concordia 4 n. 2. 8 n. 5. II 215; sulle
azioni e sui fasti II 68 seg. 212 n. 2.
230 seg. 507. 519.
M. Flavio, II 244 n. 3.
Flora, dea 277.
Flumentana, porta 190.
Focesi, commerci e colonie in Occi-
dente 332 seg. 335; nell'Adriatico
326; in lotta con gli Etruschi 455.
Fondi di capanna, preistorici 69 segg.
Fondi, V. Fundi.
Fonte, dio 261.
Fonti, dee 261.
Fontinalia, festa 261.
Forche Caudine, v. Gaudio.
Forculo, dio 259.
Fordicidia, festa 242 ii. 4.
Foreti, popolo latino 378 n. 5 nr. 11.
Forcuto, Il 319.
Fori, II 451.
Foriense, curia 240 n. 3. 241.
Formie, nella lega latina II 265; mu-
nicipio senza suffragio II 284 ; riceve
il suffragio II 366 n. 3; tribù Emi-
lia II 446; edili II 443.
Fornacalia, festa 243 n. 2. 245.
Foro Boario (Roma), 194.
Foro d'Appio, II 451.
Foro Romano, posizione 186 ; prosciu-
gamento 372; nel pomerio 389 ; iscri-
zione arcaica 5 n. 3. 401 n. 3 ; lago
Curzio 222; sepolcreto 183.
indicp: alfabetico
553
Fortino, nella lista di Dionisio II 100
n. 2.
Fortuna, culto in Roma 277; a Pre-
neste 183; attinenze con re Servio
362; statua 358; Muliebre 277.11 110;
Primigenia 279. II 535.
Fregelle, distrutta dai Sanniti II 296
n. 1; colonia latina II 289 n. 3. 296
n. 4; occupata dai Sanniti II 314;
ricuperata dai Romani II 324; rico-
stituita a colonia II 327; al tempo
di Pirro II 397; migrazione di Pe-
ligni II 453. 456; distrutta da Opi-
mio II 458; tei-ritorio II 342; popo-
lazione II 495.
Frentani, territorio 103. II 343; sotto
il dominio sannitico II 266; alleanza
con Roma II 307 ; lotte con Roma
II 817. 337; lega II 461.
Fresilia, II 341 n. 6.
Fresinone, II 337; municipio II 338.
Frumentazioni, II 14.
Frumento, II 466.
Fruti (Venere), 200.
Fucino, lago II 104.
Fufiuns. divinità etrusea 146.
C. Fulcinio, II 136.
Fulginio, prefettura II 358 seg.
Cn. Fulvio Centumalo, (eos. 298) II
351 n. 1.353. 354 n. 2; (propretore
295) II 356 n. 2.
L. Fulvio Curvo, (cos. 322) II 244 n. 3.
M. Fulvio Curvo, (cos. 305) II 339.
M. Fulvio Fiacco, tribuno della plebe
II 422; (cos. 264) II 475; trionfo II
510.
Fundi, nella lega latina II 265; mu-
nicipio II 284 ; riceve il diritto di
suffragio II 366 n. 3; tribù Emilia
II 446 ; edili II 443.
L. Furio Camillo, (cos. 349) II 260 seg.
L. Furio Camillo, (cos. 338) II 276.
M. Furio Camillo, prende Veì II 141
segg.; sottomette Falerì II 150; salva
Roma II 172 segg.; vince a Mecio
II 246; vince gli Equi II 248; nella
sedizione manliana II 195; nelle di-
scordie tra patrizi e plebei II 214
seg.; ultima dittatura II 258 seg.
P. Furio Medullino, (cos. 472) II 519.
C. Furio Pacilo, (censore 435) II 58.
C. Furnio, tribuno della plebe II 56
n. 2.
Furrina, dea 218. 303. 308.
Furrinalia, festa 278.
G
Gabì, posizione 183; origini sicule 173
nella lega albana 878 n. 5 nr. 33
nella lista di Dionisio II 100 n. 2
trattato con Roma 29. 373. 389. II
431; fuori della lega politica latina
II 92. 151.
Gaia Cecilia, dea 307 seg. 361.
Galeria, tribìi II 19.
Galli, nome II 160 n. 1; assediano
Chiusi II 164; contro Roma II 165;
vittoria dell'Alila II 167 segg.; presa
di Roma 171 segg.; incendio di Roma
5; nuove invasioni II 258 segg. 350;
a Sentino II 354 segg. ; v. Celti, Se-
noni e Boi.
Gamori. a Siracusa 341.
Gaulo, V. Gozzo.
Gauro, monte II 269. 272.
Geganì, gente albana 385.
M. Geganio, (cos. 443) II 115; (censore
435) II 115.
Gela, colonia greca 322; data della
fondazione 316 n. 1; sedizioni II 6;
tirannide 341 ; sotto Gelone 342;
distrutta dai Cartaginesi II 186; di-
strutta dai Mamertini II 405; v. Fin-
ziade.
Gelilo Egnazio, duce sannitico II 354
segg.
Cn. Gellio, annalista 37.
Gelone, tiranno di Siracusa 341 seg.
Gemino Mecio, tuscolano II 275.
Geni, 260 segg.
Genova, 442. II 495.
Genti, 229 segg.; maggiori e minori
234. 248 seg.; plebee 234; culti 302.
554
INDICE ALFABETICO
Genuci, patrizi e plebei II 212 n, 2.
Cn. Genucio, (trib. mil. 399) II 254.
T. Genucio, decemviro II 43.
L. Genucio Aventinense, (cos. 362) II
253.
Gianicolo, occupato dai Romani 395
seg.; dagli Etruschi 446. II 127 seg. ;
secessioni II 5 seg. 231.
Giano, 264 seg. ; nel feriale 266; tempio
II 528; chiusura del tempio 17 seg.;
bifronte II 513; Curiazio 368 n. 2.
391; Gemino 264. 391; Giunonio 368
n. 2; Quirino 213. 271.
Gilippo, in Sicilia II 187.
Giove, presso gl'Indoeuropei 87 seg. ;
presso i Romani 266 seg. ; assimi-
lato a Tinia 146 ; padre di Minerva
e della Fortuna 279; ludi II 533;
santuario albano 200. 377; santuario
capitolino II 515; antichità 303 n. 2;
incendio II 526; statua II 60. 512;
G. Elicio 284; Fagutale 263 n. 6;
Feretrio 29. 263 n. 6. II 139; Impe-
ratore 31; Lapide 261; Ottimo Mas-
simo 267; Statore 222. II 515; Vin-
citore II 515.
Giuli, gente albana 385 ; origini tro-
iane 201 ; falsificazioni in loro onore
8 n. 3; ara a Boville 309.
C. Giulio, decemviro II 43.
Giuni, plebei 409. II 212 n. 2.
C. Giunio Bubulco Bruto , (dittatore
802) II 347 ; dedica il tempio della
Salute II 511.
C. Giunio Bruto Bubulco, (cos. 277) II
411 seg.
D. Giunio Bruto, II 634,
D. Giunio Bruto Sceva, (cos. 292) II
362.
L. Giunio Bruto, (cos. 509) 396. 407
seg.
L. Giunto Bruto, tribuno della plebe
409 n. 1. II 31 n. 1.
M. Giunio Bruto, II 534.
Giunone, 270; madre di Ercole 279; as-
similata ad Uni 146; culto a Falerì
106 seg.; a Vei II 142; Caprotina
II 242; Lucina II 531; Moneta II 196.
475. 531; Quirite 242 n. 2. II 531;
Sororia 264. 368 n. 2. 391; Sospita
270; Regina li 529.
Giuturna, dea 261; lago di G. II 95.
Gladiatori, II 534.
Glauco, di Regio II 180.
Gnathia, città 168.
Golasecca (Milano), necropoli 159.
Gorgaso, pittore II 510.
Gorgia, di Leontini II 182.
Gozzo, antichità preistoriche 116; co-
lonia fenicia 332.
Gracco Clelio, duce equo II 116.
Granio Liciniano, storico 46.
Greci, nome 319 n. 3; attinenze con
gl'Italici 101; in Sicilia ed in Italia
312 segg.
Gromatici, II 515.
H
Hammurabi, suo codice II 88 seg.
Herculaneum, nel Sannio (?) II 361 n. 2.
Heirkte, occupata da Pirro li 409.
Heredium, II 70 seg.
Hermes, assimilato a Mercurio 278. II
528.
Hestia, II 524, v. Vesta.
Hortenses, nella lega albana 378 n. 5
nr. 12.
Hostis, 84.
Hyria, monete II 484; v. Nola.
lacco, assimilato a Libero 278.
lanuale, porta 391.
lapige, 164.
Iapigi, origini e suddivisioni 163 segg.
167 seg.; in quel di Crotone 169; in
lotta coi Greci II 178; relazioni con
Alessandro d'Epiro II 293 ; lega con
Taranto II 295; loro forze II 385
n. 1; V. Apuli, Arpi.
lapigia, 163 seg.; colonie greche II 262.
lapodi, popolo illirico 168.
Ibico, poeta 322.
Ibleo, fiume, battaglia II 406.
INDICE ALFABETICO
555
Iceta, signore di Siracusa II 374. 406.
L. Icilio, (tribuno della plebe 456) II 45.
Sp. Icilio, (tribuno della plebe 471) II 26
n. 4. 35.
lerone, signore di Siracusa 457.
leronimo, di Cardia, storico 26.
Iguvio, trattato con Roma II 349.
Dia, 203. 216 seg.
Iliensi, tribìi sarda 114.
Illirì, nel Veneto 157 seg.; nella la-
pigia 167 seg.
Imbrinio, battaglia II 305.
Imera, colonia greca, fondazione 316
n. 1; sotto Terillo e Terone 342; bat-
taglia 342; distruzione II 186.
Imera settentrionale, fiume II 262.
Imperio, civile e militare 350. 353. 404.
Indigeti, dèi 307 n. 3.
Indigitamenti, 257 seg.
Indoeuropei, caratteri 77; patria 78;
pastorizia 79; agricoltura 80; civiltà
80 segg. ; religione 84 segg.; disper-
sione 94 segg.
Industria, in Roma II 471.
Ingiuria, secondo le dodici tavole II 80
n. 8.
Insubri, sedi II 161.
Interamna Lirina. colonia latina II 325
n. 1. 327 n. 3; minacciata dai San-
niti II 359; territorio II 343 n. 2;
numero dei coloni lì 328. 460.
Interamnio dei Pretuttii, II 349.
Intercessione, 416 seg.
Interesse, II 490 segg.
Interré, 353. II 219.
Ippaso, di Metapontio 337 n. 1.
Ippi, di Regio II 180.
Ippocrate, tiranno di Gela 341.
Ippolito, assimilato a Virbio 191. 308.
Ipponio, colonia locrese 320; ricosti-
tuita dai Cartaginesi II 262 ; presa
dai Bruzì II 263; conquistata da
Agatocle II 371; ricuperata dai Bruzì
II 375.
Irnthi, monete 444. II 484.
Irpini, tribù sannitica 104; nella fede-
razione sannitica II 266 seg.; al-
leanza con Roma II 420; loro lega II
461.
Ischia, occupata dai Siracusani e dai
Napoletani II 188 seg.; v. Pitecusse.
Italia, storia del nome 110 segg.
Itali, tribìi 109 segg.
Italioti, loro federazione li 189 seg.
II 261 segg. II 294.
Indices, denominazione dei consoli 403
n. 2. 414.
ludices decemviri, II 39 seg.
lugero, II 477.
K
Kabala, battaglia II 262.
Kronion, battaglia II 262.
Labici, posizione II 119 n. 3; nella
lega albana 378 n. 5 nr. 32 ; nella
lista di Dionisio II 100 n. 2 ; occu-
pata dagli Equi II 92 ; presa dai Ro-
mani II 152; quando ordinata a co-
mune II 431.
Lacinie, promontorio II 347.
Lanassa, figlia di Agatocle II 320 seg.
409.
Lanuvio, posizione 81 ; fondata da Dio-
mede 201 ; nella lega albana 378
n. 5 nr. 37; nella lista di Dionisio
II 100 n. 2; nella nuova lega latina
II 92; presa da Coriolano II 113;
dopo la calata dei Galli II 245;
nella guerra latina II 276; riceve
la cittadinanza II 280 seg. ; ditta-
tura 423. II 438. 445 ; tribù Mecia
II 446; culto di Giunone 270. II 281
n. 1 ; pitture II 510.
Lao, colonia di Sibari 321; presa dai
Lucani II 189; battaglia II 189 seg.
T. Larcio, (dittatore 501 o 498) 426
II 129.
Lare, padre di Servio Tullio 362.
Larenta, dea 308.
Larentalia, festa 216.
556
IXDICE ALFABETICO
Lari, 306 seg. 308.
Larve, 306. 310.
Latini, provenienza 200 seg.; sedi 106.
170 seg.; lega albana 378; lega ijoli-
tica II 90 seg. ; battaglia del Regillo
II 94 segg. ; trattato cassiano II 96
segg. ; diritti in Roma 388; dissolu-
zione della lega II 239 segg.; nuova
lega II 250 segg. ; sua estensione II
257 n. 6; guerra con Roma II 278
segg. ; dissoluzione de6nitiva II 280
seg. ; sotto il primato romano II 458
segg.; ordinamenti militari 179;
forze II 462; alfabeto II 498 seg.;
feziali 302. Y. Prisci e Casci.
Latiniensi, nella lega albana 378 n. 5
nr. 13.
Latino, in Esiodo 106 n. 4. 209; re 172.
Latino II, re d'Alba 205.
Laudazioni, 31. II 506. v
Laurento, posizione 181 ; sede di re
Latino 191; nelle leggende delle
origini latine 200 seg.; nella lega
albana 378 n. 5 nr. 36; nella lista
di Dionisio II 100 n. 2; nella lega
politica latina II 92; nel piùmo trat-
tato con Cartagine II 252; riceve la
cittadinanza II 281 n. 1 ; sacerdoti
II 439.
Lautule, battaglia II 320. 323 seg.
Laverna, dea 303.
Lavinia, figlia di Latino 191.
Lavinio, posizione 181; fondata da
Enea 191; reliquie troiane 202;
lotte con Ardea 203; nella lega al-
bana (?) 378 n. 5 nr. 46; nella lista
di Dionisio II 101; rifugio di Colla-
tino 409; presa da Coriolano II 113;
dopo la calata dei Galli II 245 ;
nella guerra latina II 276; riceve la
cittadinanza II 280 seg.
Laziare, v. Ferie Latine.
Lazio, nome 171 n. 1 ; topografia 177;
prima età del ferro 161 seg.; vil-
laggi latini 178.
Legati legionis, II 308 n. 1.
Leggi, Acilia (191)11 519; dell'ara di
Diana 303; Aternia Tarpeia (454)
12. II 54; Canuleia (445) II 24.
56 seg.; Duillia Menenia (357j II
490 seg. ; Emilia sulla censura (433)
II 58 seg.; Furia Pinaria (472) 29. II
519; Genucie (342) II 218. 225. 491;
Giulia Papiria (430) II 55; Icilia
sulla potestà tribunicia (492) II 23
n. 8; Icilia sull'Aventino (456) II 24.
370; Licinie Sestie (367)11 24. 215
segg. 222. 490; Menia II 232; Me-
nenia Bestia (452) II 54; Ogulnia
(300) S96. II 223. 231; Ortensia II
221. 231 seg.; Ovinia II 233 seg.;
Petelia (358) II 235 seg. 450; Porcia
sulla provocazione 419; Publilia di
Volerone (471) II 20 n. 4; Publilie
(339) II 20. 221. 225; regie 299 seg.;
sacrata militare (342) II 224; sa-
crate II 28 segg. 85 seg.; Terentilia
(462) II 42; Valeria (300) II 231;
Valerle (509) 411 seg.; Valerle Ora-
zie (449) II 28. 37 n. 1. 52.
Legione II 193 n. 3. 203.
Lemonia, tribù II 19.
Lemuri, 310.
Lemuria, festa 309.
Leontini, colonia calcidese 315; data
della fondazione 316 n. 1; tirannide
341; distrutta dai Siracusani II 163;
colonia militare di Dionisio II 181 seg.
Lepini, monti 171.
Leponzì, tribìi, sedi II 161 seg.
Lessini, monti 65.
C. Letorio, II 492 n. 2.
Lettisternì, II 532.
Levi, tribù, sedi II 161.
Egerio Levio, dittatore latino 422.
Libbra, II 477.
Libera, dea italica 278 seg.; assimi-
lata a Cora II 527 seg.
Liberalia, festa 278.
Libero, dio italico 278 seg. ; assimilato
a Fufluns 146; a Dioniso II 527 seg.
Liberti, 226. 228. II 227.
Libertini, II 227.
Libi, in Sardegna, 114.
INDICE ALFABETICO
557
Libici, provenienza II 163; sedi II 161.
Libri lintei, 30. II 16.
Liburni, in Italia 169.
Licaone, arcade 164.
C. Licinio, (trib. della plebe 494) II 31
n. 1.
P. Licinio, (trib. della plebe 494) II 31
n. 1.
P. Licinio Calvo, (trib. militare 400)
II 57.
C. Licinio Macro, annalista 37.
C. Licinio Stolone, (trib. della plebe
377-367) II 213.
Liguri, caratteri e sedi 61 segg. ; at-
tinenze con gli Elimi 66. 73 seg., coi
Corsi 74 seg.; nel Lazio 174; confine
con gli Etruschi 440 seg.; Apuani 441.
Liguria, abitazioni preistoriche 58 segg.;
nell'età del bronzo 119 seg.
Lilibeo , origini II 188; assalita da
Pirro II 409 segg.
Lima, dea 259.
Limentino, dio 259.
Limitazione, 126. 179 n. 3. 453 seg. II
448 seg.
Lingoni, provenienza II 163; sedi II
162.
Lino, presso i terramaricoli 122 ; presso
i Romani II 468.
Lipari, isole, colonia greca 334; lotte
con gli Etruschi 455; relazioni con
Roma II 147 seg.
Lira, II 309.
Liri, fiume II 295.
Litazione, 245.
Literno, colonia romana II 442.
Li tra, II 482 seg.
T. Livio, 37 segg.
Loca relieta, II 449; suhseciva, ibid.
Locri Epizefirì, colonia locrese 320;
data della fondazione 316 n. 1; lotta
con Crotone 338 ; condizioni politiche
li 178; presidiata dai Romani II 379;
si dà a Pirro II 395; assalita da
Magone II 407; ricuperata dai Ro-
mani II 412; ricuperata da Pirro II
413; alleanza con Roma II 421.
Longani, nella lega albana 378 n. 5
nr. 14.
Longula, nella lega albana (?) 378 n. 5
nr. 14; presa dai Romani II 110;
conquistata da Coriolano II 113.
Lua, dea 283.
Lucani, sedi 103; inizi II 189; atti-
nenze coi Bruzì 219; guerra con gli
Italioti II 189 ; contro Dionisio II,
II 263; contro Taranto II 292; pren-
dono Eraclea ibid.; contro Alessandro
d'Epiro II 293 seg.; contro Taranto
II 344; alleanza con Roma II 303 seg.
344; nella terza sannitica II 351.
353; contro Turi II 375: ribelli a
Roma II 376; si congiungono con
Piri'o II 396; nuova alleanza con
Roma II 421; loro lega II 461; ter-
ritorio II 343; forze II 385 n. 1.
462; moneta II 487 ; nel paese dei
Volsci (?) II 296 n. 3.
Luceri, tribù 223. 247; pretesa infe-
riorità 253.
Lucerla, attinenze con Diomede 166 ;
in relazione con Roma II 307; oc-
cupata dai Sanniti II 314; ricupe-
rata dai Romani II 322; colonia la-
tina II 327 seg.; numero dei coloni
II 460; minacciata dai Sanniti II
359; battaglia (294) 222. II 360; ter-
ritorio II 343.
Lucerò, re d'Ardea 223.
Lucore, dio 219 n. 4.
Lucrezia, leggenda 396 segg.; attinenza
con Vergini a II 48.
Sp. Lucrezio, (cos. 509) 396. 412.
Lucumone, soccorre Romolo 223. 247
n. 3; eponimo dei Luceri 247.
Lucumone, di Chiusi II 159.
Ludi, gladiatori II 534; Romani 290.
II 533 seg.
Luna, dea 261; assimilata a Tiv 146.
Luna, porto 441.
Lupa, nella leggenda di Romolo 208;
capitolina II 513.
Lupci-cale, 187.
Lupercalia, festa 287 n. 6.
558
INDICE ALFABP]TICO
Luperci, 188. 302. II 532.
Luperco, dio 262. II 465.
Lustrazioni, 293.
Lustro, II 59.
C. Lutazio Catulo, (cos. 242) II 535.
M
Macco, maschera II 505.
Macello, 206. II 12.
Macrina, colonia etrusca 443.
Mactorio, II 6.
Madre Matuta, dea 277; tempio di
Satrico II 247.
Madri, dee 278.
Magia, presso gl'Indoeuropei 89; in
Roma 284 seg.
Magister eqiiitum, 425.
Magister populi, denominazione del dit-
tatore 425.
Magistri fanorum, a Capua II 440.
Magone, in Sardegna 334.
Magone, contro Dionisio II 187.
Magone, nella guerra di Pirro II 404
seg. 407 seg.
Maia, dea 276.
Malco, in Sardegna 334.
Malevento, battaglie II 353. 413; v. Be-
nevento.
Malta, antichità preistoriche 116; co-
lonia fenicia 332.
Mamertini, a Messina II 374 seg. 405; si
accordano con Cartagine II 407 ; al-
leanza con Roma (264) II 454.
Marnili, di Tuscolo 201, v. Ottavio M.
Mamilia, torre 394.
Mamuralia, festa 268.
Mamurio Veturio, 268.
Manati, nella lega albana 378 n. 5
nr. 15.
Mancipazione, Il 72.
Manduria, battaglia II 292 n. 1.
Mani, 310.
Mania, dea 308.
Manipoli, II 314.
Manila, gente, suo decreto 230.
A. Manlio, decemviro II 43.
C. Manlio, (nella secessione del 342)
II 6.
Cn. Manlio, (cos. 480) II 126.
M. Manlio Capitolino, 230 ; salva Roma
II 172; tutela i debitori II 490; se-
dizione II 195.
P. Manlio Capitolino, (ditt. 368) II 214.
T. Manlio Torquato, combatte col
Gallo II 58 seg.
T. Manlio Torquato, (cos. 340) II 273
segg.
T. Manlio Torquato, (cos. 299) II 350
n. 2.
Manto, divinità etrusca 146.
Mantova, fondazione 128; etrusca II
161; importanza II 495; tribù 251
n. 1.
Manumissione, testamentaria II 68.
Marcio, battaglia II 68.
Anco Marcio, nome 360; tipo tradi-
zionale 369; conquiste 370; fonda
Ostia 370 seg.; occupa la Selva Me-
sia II 126; prende Fidene II 129.
Cn. Marcio Coriolano, leggenda II 109
segg.; processo II 32; carmi su di lui
22.
C. Marcio Rutilo, (ditt. 356) 370 II 218.
255 ; (censore 351) II 218.
C. Marcio Rutilo, (cos. 310) II 330. 332.
Q. Marcio Tremulo, (cosi 306) II 336
seg.
Mari, clienti degli Erenni 233 n. 1.
Marica, dea II 530.
Maris, V. Marte.
Marrucini, sedi e dialetto 105 ; al-
leanza con Roma II 305; insurre-
zione II 325. 333; federati II 341;
loro lega II 461 ; territorio II 343.
Marsi, sedi e dialetto 105 ; nella guerra
latina II 275 seg. ; alleanza con Roma
II 305; ribellione II 333. 341; fede-
rati II 341; loro lega II 461; terri-
torio II 343; forze II 462; culto di
Angizia II 530.
Marte, dio 268 seg. ; onorato dai Sali
298; padre di Romolo 212; attinenze
con Ercole e Minerva 279; con Anna
INDICE ALFABP^TICO
559
Perenna 281; ara 303; aste 264; in
Etruria (Maris) 147.
Marzabotto , città etrusca 438 seg. ;
culto della triade capitolina 273.
Marzio, V. Campo M.
Maschere, nelle Atellane II 605.
Massalia, colonia focese 333; lotta con
Cartagine 334; relazioni con Roma
II 148.
Mastarna, leggenda 865. 375. 447.
Materano, camerette sepolcrali 162.
Matralia, festa 277.
Matriarcato, 80 seg.
Matrimonio, presso gli Indoeuro^iei 81;
presso i Romani 292; secondo le do-
dici tavole II 66 seg.
Matronalia, festa 277.
Mecia, tribù II 288. 446.
L. Mecilio, tribuno della plebe II 26
n. 4.
Mecio, battaglia II 246.
Meddices, a Capua, Cuma e Velletri II
443.
Meddix tuticHS, nella lega campana II
268 n. 2. 288. 443 ; nel Sannio II 267.
Medio! anio, II 161.
Meditrinalia, festa 267.
Medma, colonia locrese 320.
MeduUia, città latina 370; patria dei
Furì(?) II 175.
Megacle, soldato di Pirro II 393 n. 3.
Megara Iblea, colonia megarese 321 ;
data 316 n. 1; fonda Selinunte 322;
necropoli arcaiche 318.
Sp. Melio, II 14 segg.
Melite, V. Malta.
Melpi, fiume II 295.
Melpo, città etrusca 436; presa dai
Galli II 160.
Melqart, dio 456 n. 3; assimilato ad
Eracle II 524.
Monaca, colonia di Massalia 333.
Mene, città sicula II 178.
Menedemo, tiranno di Crotone II 371.
Menenia, tribù II 19.
Agrippa Menenio, suo apologo II 4 seg.
T. Menenio, (cos. 477) II 127.
Menhir, v. Pietre fitte.
Menia, colonna II 278 seg.
C. Menio, (cos. 338) II 276; (censore
318) II 285; (dittatore 316) II 236
seg. 323.
Menone, di Segesta II 374.
Menrva, v. Minerva.
Mercedonio, mese intercalare II 520.
Mercurio, dio italico 278 ; assimilato
a Turms 146; ad Hermes II 528;
figlio di Maia 276.
Mesia, selva II 126.
Messana, tirannide II 177; presa dai
Cartaginesi II 187; colonia militare
di Dionisio II 188; in mano dei
Mamertini II 374; v. Zancle, Ma-
mertini.
Messapì, tribù iapigia 164; nome 165;
affinità coi Veneti 169; contro Ta-
ranto II 292 ; alleati di Pirro li 385;
sottomessi a Roma II 424 ; loro forze
Il 385 n. 1; alfabeto II 497; iscri-
zioni 168. V. Calabri, Sallentini.
Messapo, 165.
Metalli, nelle palafitte e nelle terre-
mare 123; presso gl'Indoeuropei 80.
95; presso i Siculi 138; presso i
Villanoviani 142 seg.; v. moneta.
Metapontio, colonia achea 320; data
della fondazione 316 n. 1; contro
Siri 338; nella lega italiota II 190;
alleata ad Alessandro d'Epiro II 294;
occupata da Cleonimo II 346; al-
leata a Pirro II 385; alleanza con
Roma II 421 n. 4.
Metili, gente albana (?) 385 n. 2.
Metone, suo ciclo II 520.
Mettio Curzio, leggenda 222.
Mettio Fuffezio, dittatore albano 367.
Mevania, città II 334.
Mezenzio, re di Cere 203. 446.
Micene (civiltà di), suoi influssi in Si-
cilia 312 ; in Italia, 137 seg. 325.
Mileto, relazioni con Sibari 322. 338.
Milionia, II 341 n. 6. 360.
Milizia romana, nell'età regia 356 segg.;
nel sec. V 192 seg. ; nell'ordinamento
560
INDICE ALFABETICO
centuriato II 203 seg.; nelle guerre
sannitiche II 207 segg. 314 seg.
Milone, ufficiale epirota II 389. 415.
418 seg.
Minerva, dea 272 seg.; figlia di Giove
279 ; attinenze con Ercole e Marte
279; in Etruria (Menrva) 147.
Minosse, in Sicilia 165.
Minturne, città aurunca II 265 ; vi si
rifugiano i Latini II 275 seg.; co-
lonia cittadina 296. 366. 447; culto
di Marica II 530.
Minucì, patrizi e plebei II 212 n. 2.
C. Minueio, centurione II 393 n. 3.
L. Minueio, sue largizioni II 14 segg.
L. Minueio, (cos. 458) II 116 sog.
Ti. Minueio, (cos. 305) II 338 seg.
Miseno, 197.
Misure, presso i Romani II 474 segg.
Mitologia romana, 279 segg.
Molfetta (Bari), stazionipreistoriche 73;
civiltà enea 162; strato miceneo 163.
Monarchia, v. Re.
Moneco, colonia di Massalia 333.
Moneta, II 478 segg.
Monte Sacro, secessione II 4.
Monti, in Roma 185 seg.
Morganzio, città sicula 108. II 352.
Morgete, eponimo dei Morgeti 108 n. 7.
Morgeti, tribù italica 108 seg. 327.
Morti, culto presso gl'Indoeuropei 92;
in Roma, 306 seg.
Mozia, colonia fenicia 332; distrutta
II 188.
P. Muoio, tribuno della plebe II 10.
C. Muoio Scevola, leggenda 449 segg.
P. Mucio Scevola, pontefice massimo 17.
Mugilla, città latina II 113 n. 2.
Ahmdus, 188, 309.
Miinia, nell'età regia, 357.
Municipi, II 434 segg.; diritti civili II
439 ; coscrizione II 441 ; censo II
442 ; culti li 439 ; finanze II 440 ;
m. con pienezza di diritti II 445 seg.
Munienses, nella lega albana 378 n. 5
nr. 17.
Musica, presso i Latini II 508.
N
Napoli, colonia cumana 316 ; data della
fondazione 336 n. 1 ; riceve coloni
ateniesi II 183 ; occupa Ischia II 188;
relazioni coi Sanniti II 189 ; guerra
con Roma II 297 segg.; alleanza con
Roma II 301. 402; fedele nella
guerra di Pirro II 397 ; piano della
città 324 ; territorio II 343 ; moneta
II 482. 484. 487 seg.; demarchi II 300.
Narnia, colonia latina II 348; territorio
II 343.
Nasso, colonia calcidese 315 ; data della
fondazione 316 n. 1 ; sotto Gelone
342 ; distrutta II 187.
Navigazione, presso i Romani II 473.
Atto Navio, augure 213. 249 n. 1. 273.
Nenie, Il 503.
Nepi, conquistata dai Romani II 149;
colonia latina II 254 ; dopo la guerra
latina II 280. 342; territorio II 153
n. 1.
Neptunalia, festa 278.
Nequino, presa dai Romani II 348; v.
Nai-nia.
Neriene, dea 271.
Nerulo, terra lucana II 319.
Nethuns, v. Nettuno.
Nettuno, dio italico 278; assimilato a
Posidone II 528 ; in Etruria (Nethuns)
147 ; padre di Aleso 107.
Nexìim, II 2 n. 2. 490 ; sua limitazione
II 492.
Nicandro, poeta, sugli Iapigi 164. 167.
Nicea (Nizza), colonia di Massalia 333.
Nicea, colonia etrusca in Corsica 456.
Nicone, II 418.
Ninfio, demarco napoletano II 300.
Nipsio, II 300 n. 1.
Nola, città, nome italico 109 ; dominio
etrusco 443; soccorre Napoli II 297
segg.; alleanza con Roma li 325 ;
costituzione democratica II 457 ; ter-
ritorio II 268; moneta II 487; v.
Hyria.
Nome, romano 231 segg.
INDICE ALFABETICO
561
Nomento, posizione 183 ; sabina (?) 221
n. 1 ; nella lega albana (?) 378 n. 5
nr. 41; presa da Tarquinio Prisco 372;
nella lista di Dionisio II 100 n. 2;
nella le^a latina II 124. 151 n. 2.
251 ; battaglia II 137 ; riceve la
cittadinanza II 280 seg.; territorio II
152 n. 1 ; dittatura 423. II 438. 445.
None Caprotine, II 242.
Nora, colonia fenicia 334.
Norba, colonia latina II 93. 106. 114;
nella lista di Dionisio II 101 ; dopo
la invasione gallica II 245; dopo la
guerra latina II 280. 342 ; territorio
II 152 n. 2.
Norzia, divinità etrusca, 146 seg.
Novaria, II 161.
Novilara, necropoli 71 n. 3. 159.
Novio Plauzio, II 511.
Nuceria Alfaterna, sua lega II 268.
461 ; alleanza con Roma II 335 ; ter-
ritorio II 269; monete II 487.
Nuraa Pompilio, v. Pompilio.
Numana, origini 173 n. 10.
Numico, fiume 261. 359.
Numiniensi, nella lega albana 378 n.
5 nr. 18.
L. Numisio, pretore latino II 273.
Numitore, re d'Alba 205.
L. Numitorio, tribuno della plebe II
26 n. 4. 35.
Nundine, II 473.
Nuraghi, 67. 113 segg.
Nursia, alleanza coi Sanniti II 349 ;
prefettura II 365 n. 1. 444.
Oblaco, II 393 n. 3.
Occupatio, di agro pubblico II 7 seg.
Ocricolo, alleata con Roma II 334 ;
territorio II 343.
Octoviri, magistrati municipali II 443.
Octulani, nella lega albana 378 n. 5
nr. 20.
Cn. Ogulnio, (trib. della plebe 300) II
229; (edile curule 296)11 208; statua
della lupa II 513.
Q. Ogulnio, (trib. della plebe 300) II
229 ; (edile curule 296) li 208 ; statua
della lupa II 513.
Olbia, colonia di Massalia 333.
Olbia, in Sardegna 334.
Oleno Galeno, 376.
Olliculani, nella lega albana 378 n. 5
nr. 19.
Olo, 194. 376.
Opalia, festa 296.
Opì, dea 296.
Opici, tribù italica 107 ; nel Sannio
(?) 103 ; nome 109.
Opiconsivia, festa 276.
L. Opimio, distrugge Fregelle II 458;
tempio della Concordia II 215.
Opis, re degli Iapigi 164.
Oppio, monte 185.
Sp. Oppio, decemviro II 45 seg.
Orazia, tribìi II 19. 446
Orazia, leggenda 368; Orazì gente al-
bana (?) 385 ; duello coi Curiali 368;
analogie greche della leggenda 27
segg.; v. Pila.
M. Orazio Barbato, (cos. 449) II 51.
Orazio Coclite, 448.
M. Orazio Pulvillo, (cos. 509) 410; (cos.
507) 8 n. 3.
Orco, 308.
Q. Ortensio, (dittatore 287) II 221.
231 seg.
Ortigia, isola 321.
Ortona, posizione II 119 n. 3; nella
lega albana 378 n. 5 nr. 12 ; do-
minio romano II 152.
Orvieto, 151 n. 3; v. Volsinì.
Oschi, loro sedi 103 segg.; alfabeto
II 498.
Ostia, origine 383 seg.; fondata da
Anco Marcio 370 seg.; quando or-
dinata a Comune II 431. 434; pre-
tori 384 n. 1. 405 n. 2; culto di
Volcano 275.
Ostili, plebei 359.
Ostilia, V. Curia.
G. De Sanctis, Storia dei Romani.^ II.
86
562
INDICE ALFABETICO
Tulio Ostilio, nome 359; indizi di
storicità 364; prende Medullia 370;
Fidene II 129; istituisce la questura
417.
A. Ostilio Mancino, (cos. 137) II 312.
Ottavio Mamilio, II 94 seg.
Ottobre, cavallo 268. 284.
Orvinio (Sabina), culto di Minerva, 272.
Ovinio, tribuno della plebe II 233.
M. Pacuvio, poeta II 456.
Padova, v. Patavio.
Padri, detto dei senatori 233.
Pagi, in Roma 186 seg.
Palafitte, dell'Europa centrale 117 seg.;
orientali e occidentali nell'Italia su-
periore 119.
Palatino, Roma Quadrata 187; sue mura,
ibid.; sue cime 185 ; capanna di Ro-
molo 208 seg.; nelle leggende regie
362 n. 4 ; V. Fico ruminale.
Palatua, v. Pale.
Palazio, monte 185. 187.
Pale, dea 277. II 465; tempio II 515. 528.
Palemone, assimilato a Portuno 191.
Palepoli, II 301 segg.
Palestrina, v. Preneste.
Palice, fondata da Ducezio II 178.
Palici, dèi II 178.
Palilie, V. Parilie.
Fallante, 191.
Pallantio, città arcade 191.
Pallore, dio 283.
Palma, premio nei ludi circensi II 533.
Palumbinum, II 361 n. 2.
Pandana, porta 22. II 173 n. 3.
Pandateria, isola 315 n. 2.
Pandosia, colonia di Crotone 321 ; data
della fondazione 316 n. 1 ; battaglia
II 294.
Pandosia, presso Eraclea II 393.
Pane, assimilato a Fauno 276.
Panezio, tiranno di Leontini 341.
Panorrao, colonia fenicia 332 ; occu-
pata da Pirro II 409.
Pantalica, palazzo preistorico 136.
Pantelleria, v. Cossira.
Papiri, gente minore 234.
Papiria, tribù II 19. 21. 244 n. 3. 446.
C. Papirio, pontefice 300.
L. Papirio Crasso, (censore 318) II 285.
L. Papirio Cursore, (pretore 332) II
286; (cos. 326) II 492 n. 2; (dittatore
324) II 305 ; (cos. 320) 12. II 315 ;
(cos. 315) II 320 ; (dittatore 309)
II 332.
L. Papirio Cursore, (cos. 295) II 360
n. 5. 361 ; suo trionfo II 510.
C. Papirio Masone, (cos. 231) II 99 n. 4.
L. Papirio Mugillano, (censore 443)
II 58.
Pappo, maschera II 505.
Parilie, festa 211. II 465.
Parmenide, di Elea 323. II 180.
Parricidio, II 79.
Pastorizia, presso gì' Indoeuropei 79
seg.; presso i Romani II 468.
Patavio, città veneta 157 ; sua impor-
tanza II 495 ; vittoria su Cleonimo
II 347.
Patrizi, origine 234 segg.; nome 233 ;
serrata del patriziato 234 segg. Cfr.
Plebei.
Patrono, suoi diritti e doveri 226 segg.
Favore, dio 283.
Pedarii, nel senato II 62 n. 1. 234 n. 2.
Pediculi, 167 ; v. Peucezì.
Pedo, posizione 183 ; nella lega albana
378 n. 5 nr. 21 ; nella lista di Dio-
nisio II 100 n. 2 ; px'esa da Coriolano
II 113 ; nella lega latina II 151 n. 3 ;
nella nuova lega latina II 251; bat-
taglia di P. II 258; nella guerra la-
tina II 276. 278; municipio II 280
seg.; territorio II 152 n. 1.
Pelasgi, nel Lazio 176; in Etriiria 130
seg.; nel resto d'Italia 132 seg.
Peligni, loro sedi e dialetto 105 ; ori-
gini 170; nella guerra latina II 225
seg.; alleanza con Roma II 305; ri-
bellione II 333 ; nuova alleanza II
341 ; loro lega II 461 ; territorio II
343 ; a Fregelle II 453.
INDICE ALFABETICO
563
Peltuino, alleanza coi Sanniti II 349 ;
prefettura II 360 n. 5. 444.
Penati, dèi 278.
Pentatlo, di Cnido 834.
Pentri, tribù sannitica 103; nella con-
federazione sannitica II 266 seg. ;
sconfitti II 363 n. 1 ; alleanza con
Roma II 420; loro lega II 461.
Persefone, assimilata a Libera II 278;
V. Proserpina.
Pertosa (Salerno), grotta 135.
Perugia, posizione 152 ; leggenda sulle
origini 436 ; nella lega etrusca 435
n. 3 ; battaglia II 331 ; pace con
Roma II 331 seg.; alleanza II 359.
Pesto, colonia latina II 420; v. Posi-
donia.
Petelino, bosco II 195.
C. Petelio, (cos. 360) II 258.
C. Petelio, (cos. 326) II 492 n. 2.
M. Petelio, (cos. 314) II 322 n. 3.
Peucezì , tribù iapigia 164 ; origine
illirica 167 n. 8; in lega con Ales-
sandro d'Epii'o II 293 seg.; con Aga-
tocle II 371 seg.; federazione con
Roma II 424.
Peucezio, 164. 167.
Philotis, V. Tutela.
Pianosa, grotte sepolcrali 68. 96.
Piceno, sopravvivenze neolitiche 71.
159.
Picenti, tribìi italica 72 ; in lega con
Roma II 349 ; guerra contro Roma
II 422 seg.; incorporati nello Stato
Romano II 423. 461; tribù Velina
II 466 ; territorio II 366 ; nell'agro
Picentino 423 n. 5.
Picentino, agro II 420 seg. 423.
Pico, dio 262 ; relazione con Numa 281.
Piede, romano II 475 seg.; italico II 476.
Pietre fitte, in Corsica e nella Terra
d'Otranto 74; in Daunia (?) 167.
Pila Horatia, 368 n. 2.
Pile mene, re degli Eneti 156.
Pinarì, gente, culto d'Ercole II 524.
Panaria, curia 240 n. 7.
L. Pinario, (cos. 472) II 519.
Pirgi, porto di Cere 336.
Pirro, re d'Epiro II 384 seg.; relazioni
con Agatocle II 370 ; suoi alleati in
Italia II 385 seg.; guerra contro i
Romani II 390 segg.; cronologia II
340 n. 2; in Sicilia II 407 segg.;
torna in Italia II 412 segg.; abban-
dona l'Italia II 415; muore II 416;
giudizio su di lui II 416 segg.
Pisa, pretesa colonia elea 336 ; origini
e importanza 444 seg.
Pisati, sul Campidoglio 194.
Pisauro, origine del nome II 173.
Pitagora di Samo, filosofo, in Occidente
323 ; pretesa relazione con Numa
377 ; statua nel Comizio II 184.
Pitagora di Samo, scultore, in Occi-
dente 324.
Pitagorici, perseguitati II 178; evolu-
zione delle loro dottrine II 181 seg.
Pitecusse, isole occupate dai Calcidesi
315 ; V. Ischia.
Pittura, presso gli Etruschi 431 ; presso
i Latini II 509 segg.
Pixunte, colonia di Siri 321; distrutta
328 ; ricostituita da Anassilao 821
n. 2. 385 n. 3; presa dai Lucani II
189.
C. Plauzio, (cos. 358) II 254.
C. Plauzio, (cos. 329) II 273.
M, Plauzio, pittore II 510.
C. Plauzio Ipseo, (cos. 841) II 278 n. 2.
P. Plauzio Ipseo, (edile curule 58) II
273 n. 2.
L. Plauzio Venoce, (censore 312) II 226.
Plebei, origine 224 seg.; nelle curie
245 seg.; loro secessioni II 4 seg.;
si ordinano a Stato nello Stato II 21
segg.; ottengono il connubio coi pa-
trizi II 56 seg.; ammessi al consolato
II 212 segg.; alhi pretura, dittatura
e censura II 218; al senato II 61 seg.;
ai sacerdozi II 222 seg.
Plebisciti, loro natura II 2." : bno va-
lidità II 220 segg.
Piestinia, II 341 n. 6.
Plistica, presa dai Sanniti II 320.
564
INDICE ALFABETICO
Plutarco, 47.
Plutone, V. Dite.
Poletaurini, nella lega albana, 3.78
n. 5 nr. 22.
Poliandria, presso gl'Indoeuropei 82
n. 1.
Poligamia, presso gl'Indoeuropei 81.
Politorio, nella lega albana (?) 378
n. 5 nr. 22 ; conquistata da Anco
Marcio 870.
Pollia, tribù II 19; avversione ai Tu-
scolani II 244 n. 3.
Pollition, II 325 n. 3.
Polluce, II 527; v. Castori.
Polusca, nella lega albana (?) 378 n. 5
nr. 22; presa dai Romani II 110; oc-
cupata da Coriolano II 113.
Pomerio, sua natura 179 seg. ; della
Pi,oma Quadrata 181 segg.; amplia-
menti 389 segg.
Pomezia, città latina 172 n. 2; nella
lega albana (?) 378 n. 5; conquistata
da Tarquinio il Superbo 371; sua
caduta II 104 seg.
Pomona, dea 277.
Pompei, fondata da Ercole 193; do-
minio etrusco 443. 445; nella lega
nucerina II 268 ; antica colonna 444.
Numa Pompilio, nome 359; nelle leg-
gende di Pico e Fauno 281 ; atti-
nenze con Egeria 361 ; relazioni con
Pitagora 377; leggi II 467. 470 seg.;
indigitamenti 257 ; istituzioni sacre
367; riforma del calendario 367 n.
6. II 517. 518; corporazioni II 471.
Pomptina, tribù II 248.
Pontefice massimo, giurisdizione II 86.
Pontefici, 298 segg. ; portati a nove II
223; loro documenti 17 segg. II 499;
ingerenza nel calendario II 518. 521
seg.; P. minori II 518.
Ponzia, isola, colonia latina II 327;
estensione II 343.
C. Ponzio, vincitore di Gaudio II 312.
316; fatto prigioniero II 363.
Ponzio Cominio, II 172.
M. Popillio Lenate, (cos. 350) II 260.
Poplifugia, loro significato 400 n. 3.
II 242.
Poplilia, tribù II 248.
Populonia, posizione 150; nella lega
etrusca 435 n. 3.
Porsenna, leggenda 448 segg. II 126.
Portunalia, festa 271.
Portuno, dio 271 seg.; assimilato a
Palemone 191.
Posidone, assimilato a Nettuno II 528;
P. Ippio, assimilato a Conso 276.
Posidonia, colonia di Sibari 321 ; piano
della città 324; presa dai Lucani II
189; battaglia II 293 seg.; tempi
323. II 182; v. Pesto.
Possessio, II 7 seg.
A. Postumio Albo, (ditt. 499 o 496)
428; vince al Regillo II 94 n. 2. 95;
vota il tempio di Cerere II 37. 527.
Sp. Postumio Albo, decemviro II 43.
A. Postumio Albino, annalista 32.
Sp. Postumio Albino, (cos. 334) II 286;
(censore 332) II 286; (cos. 321) II 307
segg.
Postumio Livio, dittatore fideuate II
242.
L. Postumio Megello, (cos. 305) II 338
seg.; (cos. 294) II 359 n. 2; (cos. 291)
II 363.
A. Postumio Tuberto, (ditt. 432 o 31)
II 121.
Potina, dea 259.
Potizì, II 524.
Prefetti, II 443 segg. ; per Capua e per
Cuma II 239. 288. 444; pr. dei soci
II 454.
Prefiche, II 503.
Preneste, posizione 183; fondata da
Ceculo 274; nella lega albana (?)
378 n. 5 nr. 43; nella lista di Dio-
nisio II 100 n. 2; relazioni con gli
Equi II 120 seg.; fuori della lega la-
tina li 92. 151 ; dopo la invasione
gallica II 247. 249 ; entra nella lega
latina II 250 ; nella guerra latina II
276; federata II 280. 342. 458;
tomba Bernardini 330; altre tombe
INDICE ALFABETICO
565
433. II 514; suo territorio 387; culto
della Fortuna Primigenia 279; sorti
preuestine II 535.
Pretori, antica denominazione dei con-
soli 404; pretori urbani 404 seg. II
217; patrizi e plebei II 218; giurisdi-
zione II 82; ad Ostia 384 n. 1. 405
n. 2; a Cuma ed Anagnia II 443.
Pretuttii, in lega coi Sanniti II 349;
sottomessi dai Romani II 364 seg.
461.
Primavera sacra, 287 seg.
Prisci Latini, 171.
Priverno, origine II 107; prima men-
zione II 245; guerra con Roma II
244 n. 3; accede alla lega latina II
254; sottomissione II 272 seg. 282;
diritto di suffragio II 366; tribù
Ufentina II 446.
Proca, re d'Alba 205.
Proconsolato, origine II 297 segg.
Proletari, II 197.
Proprietà fondiaria, presso gl'Indoeu-
ropei 83; secondo le dodici tavole
II 69 seg.
Proserpina, dea II 529.
Provocazione, al popolo 349. 411. II 52.
331.
Volerone Publilio, tribuno della plebe
II 20.
Q. Publilio Filone, (cos. e ditt. 839) II
20. 59. 221. 275 seg.; (pretore 337)
II 218; (censore 332) II 286; (cos.
327) II 297; (procos. 326) II 297.
301; (cos. 320) 12. II 315; (cos. 815)
II 317. 320.
Pudicizia, dea, statua 358.
Punico, porto di Cere 330.
Pupinia, tribù II 19.
Purificazioni, 291 scgg.
Puteoli, occupata dai Sanniti II 188;
nella lega campana II 268; nella pre-
fettura campana II 444 ; v. Dicearchia.
Q
Quadrcmtul, misura II 478.
Querquetulana, porta 378 n. 5 nr. 23.
Querquetulani, nella lega albana 378
n. 5 nr. 23; nella lista di Dionisio
II 100 n. 2.
Questori, origine e poteri 417 segg.;
patrizi e plebei II 61 ; classici II 453.
Quinqìiatrus, festa 272.
Quinqueviri mensarii, II 491.
Quintili, gente albana 385.
Quinzì, prati II 118 n. 3.
Cesone Quinzio, sua condanna II 23.
32. 51.
T. Quinzio Capitolino, (prò cos. 464) II
118.
L. Quinzio Cincinnato, (cos. 460) II 118;
(ditt. 458) 426. II 116 segg.; (ditt.
439) II 15; suo campicello II 118
n. 3. 200.
L. Quinzio Cincinnato, (tnb. militare
377) II 244 n. 1.
T. Quinzio Cincinnato, (ditt. 380) II
249; sua iscrizione 31. II 249 n. 6.
T. Quinzio Penno, (dittatore 361) II
288.
Quirina, tribù II 446.
Quirinale, 187; detto Colle 894; occu-
pato da Tazio 221 n. 8; nelle leg-
gende regie 362 n. 4; Capitolio an-
tico 272; sepolcri 183.
Quirinalia, festa 271.
Quirino, dio 271; assimilato a Romolo
212 seg.; tempio II 515; epiteto di
Giano 213.
Quiriti, 212.
K
Raranensi, tribù 223. 247.
Rapta, curia 240 n. 3.
Rasenna, 124. 131.
Rasoio, nelle torremare 119 n. 1.
Ravenna, città umbra 102. II 162. 495.
Re, presso gl'Indoeuropei 83; in Alba
367 n. 7 ; in Etruria 152 seg. II 144 ;
566
INDICE ALFABETICO
presso i Siculi 344 n. 2; presso gli
Iapigi 164; nelle colonie greche
339; in Roma, loro poteri 344 seg.;
giurisdizione II 81 ; re tradizionali
358 segg.; caduta della monarchia
396; re dei sacrifizi 297. 345 seg. II
518; sua dimora 299 n. 1.
Rea, assimilata a Opi 276.
Rea Silvia, 215. 217. 308. 317.
Reate, Aborigeni 175; Pelasgi 176;
alleanza coi Sanniti II 349 ; sotto-
messa II 365 ; prefettura II 444.
Rediculo, dio II 531.
Regia, 344; residenza del pontefice
massimo 299; aste di Marte 264.
Regifugio, suo significato 400.
Regillo, battaglia II 94 seg. ; elementi
greci nella leggenda 28.
Regio, colonia calcidese 315 ; tirannide
342. II 177; lotte con gli Iapigi II
178; distrutta da Dionisio I, II 190;
ricostituita da Dionisio II, II 262; pre-
sidiata dai Romani II 379; occupata
dal presidio campano II 395 seg.; i
Campani di R. assalgono Pirro II
412; occupano Caulonia e Crotone
Il 421 ; presa dai Romani e restituita
ai Greci II 422. 536; scuola di scul-
tori 324; moneta II 482.
Religione, degli Indoeuropei 84 segg. ;
degli Etruschi 146 segg.; dei Romani
256 segg.; II 523 segg.
Reti, tribù etrusca 125; alfabeto II
498.
Remo, leggenda 206 segg.
Remuria, sull'Aventino 208.
Remurino, agro 208.
Ricuperatori, tribunale II 83.
Rimini, V. Arimino.
Rituali (libri), degli Etruschi 179 n. 3.
Rivoli (Verona), avanzi preistorici 64.
Robigalia, festa 283.
Robigo, dio 284. 803.
Rodi, in Occidente 322. 334 ; trattato
con Roma II 247.
Roma, eponima della città 199; genea-
logia 209.
Roma, posizione 185; significato del
nome 190; date della fondazione 209
segg.; pomerio primitivo 187 seg.;
incrementi successivi 389 seg.; mura
serviane 392 seg.; estensione 152.
II 494; ponti 394 seg.; incendio 5. II
176 segg.; edifizi sacri e profani II
514; sepolcreti primitivi 183 seg.
Roma Quadrata, 187 seg.
Romana, porta 190.
Romilia, tribìi II 19. 125.
T. Romilio, (cos. 455)11 46; (decemviro)
II 43.
Romo, 209; v. Romolo.
Romolo, re d'Alba 205.
Romolo, leggenda 206 segg. ; prende
Medullia 370; Fidene II 129; istitu-
zioni civili 366 seg.; questura 417;
curie 239 seg.; tribii dei Ramnensi
247; calendario II 517; intercalazione
II 518 ; iscrizione nel Vulcanale 29 ;
carmi su di lui 22; culto 358.
Romulea, II 352.
Rorarii, li 204 n. 1.
Rostri, Il 278 seg.
Rubi, moneta II 487.
Rufre, occupata dai Romani II 299.
Rumina, dea 213. 259.
Ruselle , posizione 150 ; nella lega
etrusca 435 n. 3; presa dai Romani
II 359; alleanza con Roma ibid.
Rutuli, tribìi203; dominio etrusco 445;
v. Ardea.
Sabini, tribù italica, dialetto 105 n. 2;
sedi 104; confini coi Latini 170, v.
Ereto; non costituenti federazione
II 348; nella leggenda delle origini
romane 220 segg.; relazioni con Roma
nel sec. V li 45 123 seg., v. Ap. Er-
donio; in lega coi Sanniti II 348; a
Sentine (?) II 354; sottomessi da
M'. Curio II 364 seg.; ricevono il di-
ritto di suflragio II 464; tribù Qui-
rina II 446.
INDICE ALFABETICO
567
Sacerdoti, presso gl'Indoeuropei 90; in
Etruria 148; in Roma 296 segg.
Sacertà, II 85 seg.
Sacra, via 394.
Sacrani, 175 n. 4.
Sacrate, v. Leggi.
Sacrifizi, 286 segg.
Sagra, fiume, battaglia 338. II 95.
Sagro, fiume II 295.
Sakalasa, 139.
Salacia, dea 278.
Salaria, via 182.
Salassi, sedi II 161.
Salii, 298 ; loro carmi 240. II 501 ; loro
danze II 509.
Sallentini, tribù iapigia 165; origine
illirica 167 n. 9; alleanza con Roma
II 454; dissoluzione della loro lega
II 461; loro forze li 462.
Salluvì, II 163.
Saipinati, guerra con Roma II 151.
Salute, tempio II 515. 532.
Samì, a Dicearchia 336.
Sanco, tempio 29. 361. 365. 373.
Sanniti, loro sedi 103; scendono nella
Campania II 188 seg.; loro lega II
266; primo trattato con Roma II
269; prima sannitica II 269 segg.;
nella Daunia II 293 ; contro Ales-
sandro d'Epiro II 293 segg.; lega con
Napoli II 297 ; seconda sannitica II
297 segg. ; pace con Roma II 340 ;
territorio conservato II 343; nuove
alleanze II 348 seg.; terza sannitica
II 351 segg.; pace II 364; nuova
guerra II 376; si uniscono a Pirro
II 396; durante la guerra di Pirro
II 412; dissoluzione della lega II
420; parziale insurrezione II 421;
forze II 385 n. 1. 462.
Sardegna, nell'età litica 75 n. 1; nu-
raghi 67; grotte sepolcrali 68. 96;
stazioni e tombe eneolitiche 112
segg.; conquista cartaginese 334.
Sardi, origine 114 segg.
Sardina, 139.
Sarsina, guerra con Roma II 422 seg.;
alleata II 423.
Sassula, nel Lazio 387 n. 3.
Saticula, battaglia II 269. 272; asse-
diata dai Romani II 320; colonia
latina II 327.
Satrico, II 108 n. 4; nella lista di Dio-
nisio II 100 n. 2; unione con Anzio
II 108; occupata da Coriolano II 113;
sottomessa dai Romani II 123 n. 4;
dopo la invasione gallica II 246; di-
strutta II 247; culto di Madre Ma-
tuta 277.
Satrico (presso Arpino), occupata dai
Sanniti II 295 n. 6; Comune romano
II 296 n. 2; defezione e punizione
II 317.
Satura, II 504 seg.
Saturnali, festa 275.
Saturnia, colonia romana II 398.
Saturnio, verso II 500 seg.
Saturno, dio 275; sul Capitolino 194;
relazione coi defunti 308; con Lua
283.
Savone, fiume II 285.
Scale di Caco, 194.
Scamandro, fiume 198.
Scapzia, nella lista di Dionisio II 100
n. 2.
Scapzia, tribìa II 288.
Scellerato, vico 22.
Scheggia, passo 152.
Schiaviti!, presso gl'Indoeuropei 82; in
Etruria 153; in Roma II 68. 537.
Scidro, colonia di Sibari 321 ; presa
dai Lucani II 189.
Scilletio, colonia di Crotone 321.
Scoltura, nelle colonie greche 324; in
Etruria 430 seg.; a Roma II 511
segg.
Secessioni della plebe, II 4 segg.; se-
conda secessione II 46. 48; (del 342)
II 224 segg. 269; (del 287) II 231. 492.
Segesta, città clima 66; pretese ori-
gini troiane 198. 202; in lotta con
Selinunte II 183; occupata da Pirro
II 409; tempio II 182.
568
INDICE ALFABETICO
Seleuco Nicatore, II 383; v. Corupedio.
Selinunte , colonia di Megara Iblea
321 ; data della fondazione 316 n. 1 ;
alleanza coi Cartaginesi 342; in lotta
con gli Elimi II 183; distrutta dai
Cartaginesi II 186; occupata da Pirro
II 409; suo piano 324; tempi 323.
II 182.
Sempronì, patrizi e plebei II 212 n. 2.
Sempronio Asellione, storico 33.
L. Sempronio Atratino, (censore 443)
II 58.
C. Sempronio Gracco, II 10.
Ti. Sempronio Gracco, a Numanzia II
312 seg.
Sena Gallica, colonia romana II 358.
366. 447.
Senagora, storico, sulle origini di Roma
207.
Senato, nell'età regia 350 segg. ; nei
primordi della repubblica 427; dal
IV sec. II 233 segg.; lectio II 61. 227
seg. 233.
Senatusconsulti, 352.
Senofane, in Occidente 323.
Senoni, sede II 162; pace con Roma
II 358; ribellione II 375 seg.; distru-
zione n 377. 536.
Sentino, battaglia II 357 seg.; incor-
porata allo Stato romano II 358.
Sepino, città del Sanni o II 361 n. 3.
Sergia, tribù II 19.
L. Sergio, (cos. 437) II 136.
M'. Sergio, (trib. militare 402) II 14.
Servili, gente albana 385.
P. Servilio, (cos. 495) II 4.
Q. Servilio, (dittatore 435) II 137.
C. Servilio Ahala, (cos. 478) II 16.
C. Servilio Ahala, {mag. eq. 439) II 15.
Sesi, di Pantelleria 67.
Sesterzio, moneta II 489.
P. Sestio, decemviro II 43.
L. Sestio, (trib. della plebe 377-367 e
cos. 366) II 214.
Sette Pagi, II 125.
Sethlans, divinità etrusca 146. II 530.
Settimonzio, festa 175 n. 4. 185.
Sezia, colonia latina II 152; nella lista
di Dionisio II 101; fedele II 245;
dopo la guerra latina II 280. 342;
territorio II 153 n. 1.
Sibari, colonia achea 320 ; data della
fondazione 316 n. 1 ; sue colonie
321 ; relazioni con Mileto 322 ; po-
tenza 321; contro Siri 338; distrutta
338; monete II 482.
Sibari, sul Traente 335 n. 3. II 482.
Sibillini, libri 373 seg. 201. II 525
segg. 535.
Sicani, loro stirpe 98 segg.
Sicani, nella lega albana 378 n. 5 nr.
24.
L. Siccio Dentato, II 45 seg.
Sicelico, a Tivoli 174.
Sicilia, sopravvivenze paleolitiche 65
seg.; grotte sepolcrali 68. 96; civiltà
eneolitica 97 segg.; presso Omero
314 n. 2.
C. Sicinio, (trib. della plebe 294) II 31
n. 1.
0. Sicinio, (trib. della plebe 271) II
26 n. 4.
L. Sicinio, (trib. della plebe 294) II
31 n. 1.
Siculi, stirpe 98; nome 100; nel Lazio
173; ad Ortigia 328; primo periodo
siculo 97 segg.; secondo periodo
135 seg. 312 seg.; sotto l'influenza
greca 325; riscossa II 178; lotte con
Dionisio I, II 188; alfabeto II 497.
Siculo, v. Sicelico.
Sidicini, territorio II 268 ; in lotta coi
Sanniti II 269; dopo la prima san-
nitica II 273; dopo la guerra latina
II 284 seg. ; v. Teano.
Signia, colonia latina II 93. 106. 114;
nella lista di Dionisio II 101 ; dopo
la invasione gallica II 245 ; dopo
la guerra latina II 280. 342; terri-
torio II 152 n. 1. 153 n. 1; Capitolio
303 n. 2; moneta II 487.
Sigoveso, duce gallico II 164.
Sila, selva II 421.
Silaro, fiume, battaglia II 293.
INDICE ALFABETICO
569
Silvano, dio 276-
Silvi, re d'Alba 204 seg.
Silvio, II 337.
Simbruini, monti 115.
Simeto, fiume 315.
Simoenta, fiume 198.
Sinuessa, colonia romana II 866. 447.
Siponto, nel mito di Diomede 166;
presa da Alessandro d'Epiro II 298.
Siracusa, colonia corinzia 321 ; data
della fondazione 316 n. 1; sue co-
lonie 322; leggi 340; guerra con
Ippocrate 341; tirannide 341 segg.;
diviene una grande città 342; vit-
toria di Cuma 457; caduta della ti-
rannide II 177; lotta contro Ducezio
II 178 seg.; contro gli Etruschi II
179; contro Atene II 183; tirannide
di Dionisio II 186 ; assediata dai
Cartaginesi II 187; caduta della ti-
rannide Il 263 ; salvata da Timo-
leonte II 264; nuovo intervento in
Italia II 317; sotto Agatocle II 368
segg.; sotto Iceta II 374. 405 seg.;
intervento di Pirro II 407 segg. ;
estensione II 494; tempi 320. II 182;
necropoli 318; alfabeto II 497.
Siri, colonia acbea 320; distruzione
338; monete II 482.
Siri, fiume II 393.
Sisolensi, popolo latino 174; nella lega
albana 378 n. 5 nr. 25.
Soci navali, Il 454.
Sofrone, scrittore di mimi II 180.
Sole, dio, presso gli Arii 88; presso i
Romani 261.; assimilato ad Usil 146.
Solone, attinenze tra le sue leggi e le
dodici tavole II 87 seg.
Solunto, colonia fenicia 332.
Sora, occupata dai Sanniti II 295 n. 3;
presa dai Romani II 322, cfr. 266 ;
ripresa dai Sanniti II 335; ricupe-
rata dai Romani II 338; colonia la-
tina, territorio II 343; numero dei
coloni II 460.
Sorrento, nella lega nucerina II 268.
Sorti prenestine, 183. II 535.
Sosistrato, signore di Agrigento II 406
segg. 411.
Specchie, 67.
Spina, città, suo nome 102; Pelasgi
132; dominio etrusco 436; tesoro in
Delfi 326.
Spoleto, in lega coi Sanniti II 348;
incorporata nello Stato Romano II
358 seg.
Sponsio, II 536.
Stabie, nella lega nucerina II 268.
Stata Madre, dea 274.
Statano, dio 259.
Statino, dio 259.
Statilino, dio 259.
Stato, presso gl'Indoeuropei 83 ; in
Etruria 152 seg. ; nel Lazio 178 seg.;
relazioni col Comune II 430 segg.
Statonia 152 ; incorporata nello Stato
romano II 398 ; prefettura II 444
n. 3.
Stellate, agro, in Campania II 268. 285.
Stellate, agro, presso Capena II 432.
Stellatina, tribìi II 437.
Steni, 65.
Stennio Stallio, lucano II 375 n. 1.
Stentinello (Siracusa), stazione prei-
storica 72 segg.
Stesicoro, poeta 322; intorno a Ercole
193; intorno ad Enea 197 seg.
Stipendio, militare II 210.
Stirps, 239.
Sublicio, ponte 301. 395. 448.
Subura, 185. 394.
Succusano. pago 186.
Suciniani, sacerdoti 378 n. 5 nr. 24,
Suessa Aurunca, nome italico 109; bat-
taglia II 276; colonia latina II 327;
territorio II 343; moneta II 487 seg.
Suessa Pomezia, v. Pomezia.
Suessula, città campana II 268 ; bat-
taglia 11 269. 272; nella prefettura
campana II 444.
Sulci, colonia fenicia 334.
Ser. Sulpicio, decemviro II 43.
Ser. Sulpicio, (trib. militare 277) lì 213.
244 n. 1.
570
INDICE ALFABETICO
Ser. Sulpicio Camerino, (cos. 345) II
322 n. 3.
C. Sulpicio Longo, (cos. 314) II 321 seg.
P. Sulpicio Saverrione, (cos. 279) II 399
segg.
Summano, tempio II 515. 528.
Supplicazioni, 290 II 532.
Sutrio, conquistata dai Romani II 149;
colonia latina II 254; dopo la guerra
latina II 280. 342; assediata dagli
Etruschi II 329 segg.; territorio II
153 n. 1.
Tahlinum, II 514.
Tabuto, monte, miniere preistoriche 97.
Tadine, città umbra 249 n. 3.
Tagete, divinità etrusca 128. 148. 151.
Taglione, II 80. 83.
Tanaquilla, 361 seg.
Gaia Taracia, 396 n. 2.
Taranto, terramara (?) 134; strato mi-
ceneo 163; colonia laconica 320; re
339 n. 2; democrazia II 178; lotta
contro gli Iapigi ibid. ; nella lega
italiota II 190; chiama in Italia Ar-
chidamo II 292; chiama Alessandro
d'Epiro ibid.; Io abbandona II 294;
difende Eraclea contro i Lucani II
295; in lega con Napoli (?) II 298
seg.; preteso intervento nella se-
conda sannitica II 315 seg.; guerra
coi Lucani e con Roma II 344 seg.;
chiama Cleonimo II 345 ; lo abban-
dona II 346; trattato con Roma II
347; chiama Agatocle II 369; guerra
contro Roma II 380 segg.; chiama
Pirro II 384; dopo la partenza di
Pirro II 478; accordo con Roma II
478 seg.; estensione e popolazione
II 494; moneta II 482 seg. 484.
Tarconte, 128. 151. 436.
Tarento, nel campo Marzio II 529.
Tarpeia, leggenda 222; culto 307 seg.
Tarpeio, monte 222.
Sp. Tarpeio, (cos. 454) 11. II 54.
Tarquinì, posizione 151 ; nella lega
etrusca 435 n. 3; nelle leggende
etrusche 128; prima guerra con Roma
407 seg.; dopo la caduta di Veì II
150; nuova guerra II 255 segg.; ri-
prende la guerra durante la seconda
sannitica II 328; pace di quaranta
anni con Roma II 333; estensione
II 494; popolazione II 495; necropoli
143; tomba del Guerriero 330.
Tarquinì, in Roma, nome 360; leg-»
gende 371 seg.
Tarquinia, vestale 396.
Arante Tarquinio, 408.
Cn. Tarquinio, 365.
Sesto Tarquinio, prende Gabì 28; sua
libidine 398.
L. Tarquinio Collatino, (cos. 509) 396.
409.
L. Tarquinio Prisco, sposo di Tana-
quilla 361; conquiste 370. 372. II
129; genti minori 234; centurie
equestri 249 n. 1; libri sibillini II
525; Ferie Latine 378; ludi Romani
290; calendario 367 n. 6.
L. Tarquinio Superbo, prende Pomezia
371; trattato con Gabì 363; colonia
a Circei II 252 ; caduta 396 segg. ;
alla battaglia del Regillo II 94.
Tarracina, nella lista di Dionisio II
101 ; nella lega latina II 153. 251 ;
nel trattato romano-cartaginese II
252; colonia romana II 282 seg. 447;
assediata dai Sanniti II 321 ; vit-
toria romana II 322. 324; territorio
II 153 n. 1. V. Anxur.
Tarro, colonia fenicia 334.
Tarsis, nell'Iberia 331.
Tartesso, relazioni coi Greci 332, v,
Tarsis.
L. Taruzio, astrologo, sulla fondazione
di Roma 311.
Taurasia, nel Sannio II 352.
Taurini, sedi II 161.
Tauroento, colonia di Massalia 333.
Tauromenio, fondata dai Siculi II 187;
colonia militare di Dionisio II 188;
INDICE ALFABETICO
òr
sotto Tiudarione II 406; accoglienza
a Pirro II 408.
T. Tazio, leggemla 208. 220 segg. ;
culti da lui introdotti 274 ; relazione
coi Tiziensi 247; la Roma di T. 389.
Teano Apulo, città osca II 293; al-
leata con Roma II 319; moneta II
487.
Teano Sidicino, II 268; ostilità coi
Sanniti II 269. 273; alleanza con
Roma II 284 seg.; moneta II 487;
popolazione II 495.
Telegono, fonda Tuscolo 201. 209.
Telesia, città dei Caudini II 420.
Teline, avo dei Dinomenidi II 6.
Tellene, origini sicule 173; conqui-
stata da Anco Marcio 370.
Tellumone, dio 261.
Tellure, dea 261; sacrifizio 258; rela-
zione coi defunti 808; tempio II 11
n. 4. 515. 528.
Temesa, fondata dagli Ausoni 107 n. 6.
Tempio, 304 segg.
Tene (civiltà della), II 157 seg.
Tenone, signore di Siracusa II 406
segg.; ucciso da Pirro II 411.
Teocle, ecista di Nasso 315. II 183.
Teognide, poeta 322.
Teossena, moglie d'Agatocle II 373.
C. Terentilio Arsa, trib. della plebe
II 42.
Teretina, tribù II 338. 366.
Terias, fiume, battaglia II 406.
Terillo, tiranno d'Imera 342.
Terina, colonia di Crotone 320; presa
dai Bruzì II 263 ; presa da Ales-
sandro d'Epiro II 293.
Terme, fondazione II 186; nella pro-
vincia cartaginese II 262.
Terminalia, 264.
Termino, dio 264.
Terone, tiranno d'Agrigento 343. II 177.
Tprra, culto 88.
Terra d'Otranto, specchie 67 ; pietre
fitte 74. V. Messapi, Calabri e Sal-
lentini.
Terramare, forma 120 segg.; civiltà
123 segg.; distribuzione 133 seg.;
necropoli 118 seg.; rasoio 119 n. 1.
Testamento, sue forme 244; secondo
le dodici tavole II 74 segg.
Tetraeteride, romana II 520 seg.; sua
correzione 522.
Tevere, culto 261.
Thezla, monete 444 n. 2.
Thuirsa, 139.
Tiberina, isola 190. 393; leggenda
sulla origine 396; culto d'Esculapio
II 528 seg.
Tiberino, re d'Alba 205.
Tibicini, II 509.
Ticino (Pavia), II 161.
Tifata, curia 240 n. 7.
Tiferno, battaglia 353.
Tigillo sororio, 264. 391.
Timasiteo, stratego di Lipari II 147.
Timeo, storico, su Roma 26 ; sulle pe-
regrinazioni d'Ercole 193; su Evan-
dro (?) 192; sulle origini latine 173.
202 ; sulla fondazione di Roma 209
seg.; sui Lucani 99 ; sulla fondazione
delle colonie greche 316 n. 1.
Timmari (Matera), necropoli 135.
Timoleonte, II 264. 318.
Tindaride, colonia di Dionisio II 188.
Tindarione, tiranno di Tauromenio II
406; accoglie Pirro II 408.
Tinia, divinità etrusca 146.
Tiora Matiene (Sabina), 262 n. 6.
Tirreni, di Lemno e d'Italia 180 seg.
Tirreno, figlio di Ati 124.
Tisia, di Siracusa II 182.
Tiv, divinità etrusca 146.
Tivoli, posizione 183; sabina (?) 221
n. 1; fondata da Catillo 201; ori-
gini sicule (?) 173; nella lega albana
(?) 378 n. 5 nr. 42; nella lista di
Dionisio II 100 n. 2; nella lega po-
litica latina II 92; incrementi ter-
ritoriali II 124; si separa da Roma II
243; in lega coi Galli II 258; nella
nuova lega latina II 251 ; nella
guerra latina II 276. 278; federata
572
INDICE ALFABETICO
II 280. 458 ; territorio 387 ; culto di
Ercole 193.
Tizi, sodali 255.
Tizia, curia 240 n. 7. 250.
Tiziensi, tribù 223. 247.
Toante, in Italia 167.
Todi, moneta II 486.
Tolemeo, figlio di Pirro II 390.
Tolemeo Filadelf'o, relazioni con Roma
II 428.
Tolerio, nella lega albana 378 n. 5
nr. 26 ; nella lista di Dionisio II 100
n. 2; presa da Coriolano II 113.
Tolumnio, re dei Veienti II. 136 ; sua
morte II 137; spoglie opime 29. II
139.
Torrebi, 129.
Toscana, grotte sepolcrali 96; abitata
dagli Umbri 102; età del bronzo (?)
134; prima età del ferro 144; in-
vasione etrusca 144 seg.
Totemismo, 213 n. 5. 262.
Trausio, campo II 173 n. 2.
Trebio, presa da Coriolano II 113 n. 2.
Trebula Balliniense, presa dai Romani
II 838.
Tribù, origine 352 segg.; significato
del nome 249; romulee 247 seg.; nel
senato 351; rustiche II 16 segg.;
creazione di nuove tribù (nel 387)
II 20; (nel 358) II 248; (nel 332) II
288; (nel 318) ibid.; (nel 299) II 366;
(nel 241) II 446 ; tribù urbane II
230; i municipi e le tribù II 446.
Cfr. Comizi e Concili.
Tribuni dei celeri, 248.
Tribuni della plebe, origine e poteri
lì 26 segg. ; collegialità lì 34 seg.;
sospensione del tribunato II 49; re-
staurazione Il 51; i trib. nel senato
Il 220; loi'o trasformazione II 240.
Tribuni militari, sul principio della
repubblica 427 ; con potestà conso-
lare II 57 seg. ; aumento del loro
numero li 198; portati a sei per
legione 11 194; in parte di nomina
popolare li 239; divieto di degra-
darli a centurioni li 224.
Tributo, nome 255 n. 2 ; nell'età regia
357 ; dopo istituite le tribù rustiche
II 18; nell'ordinamento centuriato
II 210; nei municipi II 441.
Tritano, battaglia II 277; data II 294 n.
Trigemina, porta 191 n. 3. II 16 n. 5.
Trionfo, 453.
Triumviri, coloniae dedncendae 254 seg.
II 447 seg.
Triumviri capitali, 419. II 239.
Troiani, in Italia e Sicilia 194 segg.:
nel Lazio 191 ; nel Veneto 157.
Troilum, II 362 n. 2.
Trossulum, II 362 n. 2.
Truento, città e fiume 169.
Trumplini, tribù euganea 65.
Tiibicines, centuria II 197.
Tubilustrio, festa 269 n. 2.
Tuchuicha, dèmone etrusco 147.
Tucidide, sui Sicani 99 ; sugli Palimi
198; sui Messapì 164; sulla fonda-
zione delle colonie greche 316 n. 1.
Tulliano, 365 n. 4.
Attio Tullio, principe volsco II 109 seg.
M'. Tullio, (cos. 500) p. 361.
Servio Tullio, nome 361 ; nascita 281.
362 ; tipo leggendario 374 ; diverso
da Mastarna 375; trattato coi Latini
365 ; autore del consolato 374 ; del
tribunato II 31 ; delle tribù rustiche
li 19 ; mura 392; sistema di misure
II 475 ; intercalazione II 518 ; sua
statua 358. II 512.
Sesto Tullio, 361.
Turan, divinità etrusca, 146.
Turi, colonia ateniese 836. II 183 ;
nella lega italiota II 190; alleata ad
Alessandro d'Epiro II 294 ; lotta con
Crotone II 318; assalita dai Lucani
e presidiata dai Romani II 375 ; oc-
cupata dai Tarcntini II 382 ; alleanza
con Roma II 421.
Turms, divinità etrusca 146.
Turno, re dei Rutuli 203.
Tusco, vico 393. 454. II 472. 529 n. 8.
INDICE ALFABETICO
573
Tuscolo, posizione 181 ; fondata da
Telegono 209 ; nella lega albana 378
n. 5 nr. 40 ; nella lega politica latina
92 ; nella lista di Dionisio II 100
n. 2; relazioni con gli Equi II 120
n. 1 ; circondata da territorio romano
II 153 ; incorporata nello Stato ro-
mano II 243 seg. ; ribelle II 274;
risottomessa II 280 seg.; franchigie
comunali lì 433 ; tribù Papiria II
446 ; dittatura 423 ; sacerdoti II 439;
cavalleria 423 seg.; culto dei Castori
II 356 n. 2.
Tutela, II 242.
Tuzia, fiume 378 n. 5 nr. 27.
Tuzienti, nella lega albana 378 n. 5
nr. 27.
u
Ufentina, tribù II 288. 446.
Ugro-finnici, attinenze con gl'Indoeu-
ropei 79.
Ulisse, padre di Latino 209.
Umbri, sedi più antiche 102 ; pretesa
sottomissione a Roma II 334; lega coi
Sanniti II 348 ; sottomissione II 358 ;
non riuniti in lega II 348. 461 ;
territorio II 366 ; forze II 462 ; alfa-
beto II 498.
Uni, divinità eti'usca 146.
Usil, divinità etrusca 146.
Vacatio rei militaris, II 443.
Vadimone, lago, battaglie II 331 n. 3.
377.
Valeria, nella leggenda di Coriolano
II 113.
M'. Valerio, (dittatore 501) 426. II 113.
Valerio Anziate, annalista 37.
M. Valerio Corvo, combatte col guer-
riero gallo II 60; (cos. 346) II 241
seg.; (cos. 343) II 269.
M. Valerio Corvo, (ditt. 301) II 341 n. 6;
(cos. 299) II 350 n. 6.
P. Valerio Levino, (cos. 280) II 390
n. 2. 392.
M. Valerio Massimo, (dittatore 494) 426.
M. Valerio Massimo, (cos. 31 2) II 322 n. 3.
M'. Valerio Messalla, (cos. 263) II 510.
M. Valerio Omottone, 232 n. 2.
L. Valerio Potito, (cos. 449) II 51.
P. Valerio Publicola, (cos. 509) 398.
410 segg. ; istituisce la questura 413.
P. Valerio Publicola, (cos. 475) II 127;
nella leggenda di Coriolano II 113.
Valesio, di Ereto II 529.
Vediove, dio 308 seg. 219 n. 4.
Veì, posizione 151; nella lega etrusca
435 n. 3 ; guerre con Roma nell'età
regia II 125 seg.; nel primo anno
della repubblica 407 seg.; nella
prima metà del sec. V, II 125 segg.;
battaglia del Cremerà II 126 segg.;
pace di quarant'anni II 136; nuova
guerra con Roma II 130 segg.; ul-
tima gueri-a II 140 segg.; estensione
II 494 ; culto di Giunone Regina
II 529.
Veientana, ripa 395.
Velecha, città, moneta 444 n. 2.
Velia, monte 185 ; sacrario dei Pe-
nati 278.
Velia, colonia foce.se, 335. V. Elea.
Velia, nel Sannio (?) II 361 n. 2.
Veliensi, nella lega albana 378 n. 5
nr. 29.
Velina, tribù II 446.
Velizia, curia 240 n. 3.
Vellense, curia 240 n. 3. 241.
Velletri, nella lista di Dionisio II 101;
fondazione volsca II 96 ; conquistata
dai Romani II 105 ; ricuperata dai
Volsci II 114; riacquistata dai Ro-
mani II 123 n. 1 ; dopo la invasione
gallica II 244. 245. 247 ; municipio
II 282 ; riceve il diritto di suffragio
II 366; meddices II 443.
Venafro, nello Stato romano II 364.
420.
Vendetta, presso gl'Indoeuropei 82; so-
pravvivenze nelle dodici tavole II 79.
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INDICE alfabp:tico
Venere, dea italica 277 ; assimilata a
Turan 146 ; ad Afrodite li 528 ; sa-
crario presso Ardea 199 seg. II 93 ;
tempio in Roma II 515; V. eque-
stre 449.
Veneti, leggende sulle origini 156 ;
nazionalità illirica 157 seg. ; atti-
nenze coi Messapì 169 ; civiltà 155.
442 ; resistono ai Galli II 161 ; con-
tribuiscono alla liberazione di Roma
II 173. 176.
Venetulani^ popolo latino 170; nella
lega albana 378 n. 5 nr. 30.
Venilia, dea 278.
Venusia, nel mito di Diomede 166 ;
colonia latina II 363 ; assediata da
Pirro (?) II 399; numero dei coloni
II 461 ; territorio II 366 ; importanza
II 367 ; popolazione II 495 ; moneta
II 486.
Verginia, leggenda II 45 segg.
A. Verginio, trib. della plebe II 51.
L. Verginio, padre di Verginia II 45.
L. Verginio^ (trib. militare 402) II 141.
Proculo Verginio, (cos. 486) II 9.
T. Verginio, (cos. 479) II 126.
Veroli, città ernica II 102 ; alleata
con Roma II 337. 342. 458.
Verona, Reti ed Euganei 65 n. 3 ; Celti
II 161.
Verrugine, al confine equo II 108 n. 3.
123.
Versus, misura II 477.
Vertamacori, provenienza II 163 ; sedi
II 161.
Vescia, città aurunca II 268 ; vi si
rifugiano i Latini II 275 seg.
Vescino, monte II 277.
Veseri, battaglia II 275.
Vesta, origine greca II 524 segg.; an-
tichità del suo culto 367 ; attinenze
con Romolo (?) 217; tempio 390-
II 515.
Vestali, sacerdotesse 298; sotto la
giurisdizione del pontefice massimo
II 86; privilegi II 87.
Veetini, loro sedi e dialetto 105; guerra
con Roma II 305 ; alleanza con Roma
II 341 ; loro lega II 461 ; territorio
II 343.
Vesuna, dea II 530.
Vettio Messio, duce equo II 121.
Vetulonia, posizione 150 ; nella lega
etrusca 435 n. 3 ; estensione II 494;
tomba del Duce 330.
Sp. Veturio, decemviro II 43.
T. Veturio Calvino, (cos. 334) II 286;
(cos. 321) II 307 segg.
Aulo Vibenna, 446.
Celio Vibenna, 446. 455.
Vicellensi, nella lega albana 378 n.
5 nr. 31.
Vicesima lihertatis, II 210.
Villanova (civiltà di), 141 segg.
Viminale, colle 187 ; nelle leggende
regie 362 n. 4.
Vimitellari, nella lega albana 378
n. 5 nr. 28.
Vinalia, festa 267.
Virbio, dio assimilato ad Ippolito 121.
308.
Vite, sua coltivazione presso gli Arii
101 ; in Italia II 467.
Vitellia, nella lega albana (?) 378 n.
5 nr. 31 ; presa da Coriolano II 113;
occupata dai Romani II 152.
Vittoria, tempio II 515. 532.
Voi canal e, 275 ; statua di Orazio Co-
clite 448 ; iscrizione di Romolo 29.
Volcano, dio 274 seg.; assimilato a
Sethlans 146; ad Efesto II 530; culto
ad Ostia 384 ; attinenze con Orazio
Coclite 448 ; padre di re Servio 362.
Volci, posizione 151 ; nella lega etru-
sca 435 n. 3 ; pace con Roma 151 ;
nuova pace II 398 ; territorio II 494;
popolazione II 495.
Volsci, origini sicule 173 n. 10; stirpe
e dialetto II 104; scendono nella
pianura pontina ibid.; ijrime osti-
lità coi Latini 373; guerre del V
sec. II 104 segg.; nella leggenda di
Coriolano II 109 seg.; leghe con gli
Equi II 114; nella prima metà del
INDICE ALFABETICO
575
VI sec. II 245 seg. ; dopo la guerra
latina II 280 seg.; a Ponzia 315 n.
1; V. Ecetra ed Anzio.
Yclsinì , posizione 151 ; nella lega
etrusca 435 n. 3 ; prima guerra con
Roma II 151 ; alleanza con Roma II
359 ; si ribella II 376 ; rinnova la
sua alleanza II 398; nuova guerra
II 424 seg. ; distruzione dell' antica
Volsinì e fondazione della nuova II
425. 536 ; ricchezza di statue 430 ;
popolazione II 495 ; culto di Vor-
tumno II 529.
Volterra, posizione 150 ; nella lega
etrusca 435 n. 3 ; estensione II 494;
popolazione II 495 ; moneta II 486 ;
necropoli 143.
Voltinia, tribù II 19.
Voltumna, divinità etrusca 146 seg.;
santuario federale 435. II 333.
Volturnalia, festa 261.
Volturno, colonia romana II 444.
Volumnì, origine etrusca (?) 454 ; pa-
trizi e plebei II 212 n. 2.
L. Volumnio, (cos. 307) II 335 ; (cos.
296) II 354.
P. Volumnio, (cos. 461) II 212 n. 2.
Vortumno, divinità etrusca 146 ; in
Roma 529 ; tempio II 510. 515.
Voto, 290 seg.
Voturia, tribù II 19.
Vulca, di Veì II 512.
Xanto, logografo, 129.
Z
Zaleuco, 340.
Zancle, colonia calcidese 318; v. Mes-
sana.
Zenone, di Elea II 180 seg.
DG
209
S33
V.2
Sanctis, Gaetano de
Storia dei Romani
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